In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Venezia in campo per il suo Arsenale

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Una bella domenica di festa e di partecipazione, a Venezia. La città si è ritrovata davanti al suo arsenale per manifestare tutto il suo sdegno di fonte allo “scippo” a firma del ministro delle Sviluppo Economico Corrado Passera. Poche righe inserite di frodo in un testo che tratta di tutta un’altra questione - l’agenda italiana sul digitale - me che nei fatti annulla il passaggio dell’arsenale alla città di Venezia sancito dal governo Monti con un apposito emendamento al cosiddetto decreto legge sulla “spending review”. Un’operazione tutta giocata sulle famose “righe piccole” e sulla speranza che gli interessati se ne accorgano solo quando è troppo tardi per rimediare. Stavolta l’operazione gli è andata buca. La città lo ha saputo ed ha reagito con prontezza. Ma quello che più ha fatto urlare allo scandalo è che lo “scippo” sarebbe manovrato dal Magistrato alle Acque, dal Consorzio Venezia Nuova e dalle imprese a lei legate che vogliono impedire il trasferimento al Comune dell’area dei Bacini e delle Tese dell’Arsenale, già destinate ai costosissimi lavori di manutenzione di quella disgrazia per Venezia e per la sua laguna che è il Mose.

In altre parole, il Consorzio e il Magistrato, braccio operativo del ministero a Venezia, avrebbero fatto pressione sul ministro Passere - più propenso a far andare avanti i lavori del Mose che a favorire Venezia - per inserire questo contestato codicillo che consente al demanio di mantenere il possesso di circa il 70% dell’area dell’Arsenale, lasciando alla città solo un’elemosina.
Il che ha improvvisamente fatto tabula rasa di circa trent’anni di discorsi, sogni e progetti che tra calli e campielli si sono sempre fatti a tutti i livelli - dalle stanze di Ca’ farsetti ai tavoli di osteria tra uno spritz e l’altro - su “cosa faremo quando finalmente torneremo in possesso del nostro Arsenale?”



Si capisce che la faccenda sia andata di traverso ai veneziani che, per l’appunto, hanno accolto in gran numero l’invito lanciato da una ventina di associazioni a partecipare a questa prima giornata di mobilitazione per chiedere che l’arsenale dei veneziani venga dato ai veneziani. La partecipazione all’iniziativa infatti, è stata numerosa e pittoresca con le remiere e le associazioni di vela ad occupare pacificamente il canale con caorline e bragozzi dalle vele coloratissime, sandoli e gondolini da regata e persino una “bissona” da parata sulla quale lo stesso sindaco Giorgio Orsoni ha preso la parola per denunciare questa sorta di furto con destrezza. “La nostra mobilitazione è la prova concreta di quanto la città abbia a cuore una parte importante della sua storia come l’arsenale” ha dichiarato il primo cittadino che ha poi lanciato un appello al presidente della Repubblica perché non firmi il decreto “truccato”.
Una partecipazione, dicevamo, a 360 gradi che ha coinvolto oltre al sindaco anche altri esponenti del consiglio comunale come il capogruppo della lista in Comune, Beppe Caccia, uno dei primi a denunciare la vergogna del “codicillo fraudolento”. Caccia ha chiesto al sindaco Orsoni la convocazione di un consiglio comunale straordinario dedicato all’Arsenale ed inoltre ha depositato una interrogazione urgente in cui chiede che siano avviate le procedure per rimuovere dal suo incarico il presidente del Magistrato alle Acque di Venezia, Ciriaco D'Alessio. Personaggio già noto alle cronache di Tangentopoli e ora protagonista di questo tentativo di strappare alla città di Venezia un pezzo della sua tradizione per consegnarlo alla lobby del Consorzio Venezia Nuova. "Considerato che i gravi precedenti penali, la discutibile gestione dell’intera vicenda legislativa relativa al passaggio del compendio dell’Arsenale e l’inaccettabile atteggiamento tenuto nei confronti delle Istituzioni locali dimostrano una complessiva inadeguatezza di Ciriaco D’Alessio a ricoprire l’importante e delicato incarico di Magistrato alle Acque per Venezia, - spiega l’ambientalista -e inoltre configurano una condizione di vera e propria ’incompatibilità ambientale’ di tale indegno funzionario dello Stato con la nostra città, chiediamo al sindaco di intervenire presso il presidente del Consiglio dei ministri per rimuoverlo dal suo incarico”.
“Questo colpo di mano fatto dal ministro Passera su ordine del Consorzio e con l’arma meno democratiche che esiste, che è quella del decreto, è assolutamente inqualificabile ed inaccettabile - ha concluso Tommaso Cacciari del laboratorio Morion -. Il ministro ci ha letteralmente scippato l’Arsenale per girarlo al Consorzio Venezia Nuova che, ricordiamolo, è un cumulo di imprese private di emeriti cementificatori che dagli anni ’80 hanno il monopolio delle grandi opere di salvaguardia della città, spesso inutile e dannose come il Mose, e per questo hanno dragato tutto i fondi della legge speciale. Adesso vorrebbero mettere le mani anche sull’Arsenale, anche in vista del business della manutenzione del Mose stimata sulla ventina di milioni all’anno. E per far questo hanno bisogno degli spazi dell’Arsenale che stanno cercando di sottrarre alla città”. Il tutto, al di là di qualsiasi percorso partecipativo dei cittadini su scelte che coinvolgono la loro città.
Ancora, come per l’acqua e per le grandi opere, si scrive Arsenale ma si legge democrazia.

Di seguito, intervista con Beppe Caccia




Intervista con Tommaso Cacciari



No Grandi Navi, No Grandi Opere per un futuro di pace e di sostenibilità

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Una volta, questa domenica di settembre, era il giorno della Lega e di Roma ladrona. Arrivavano con le bandiere del sole padano e la “sacra ampolla” d’acqua del Po. Se andava bene, raggiungevano Riva degli Schiavoni senza incidenti per ascoltare il Bossi urlare contro meridionali e migranti. Se andava male, si fermavano per strada a menare qualche disgraziato cameriere con la pelle di un colore, a sentir loro, poco “padano”.
Ma oggi invece, è stata una bellissima domenica di festa. Festa vera. Una Venezia più incantevole del consueto, un cielo terso, un tiepido sole settembrino... anche l’acqua del canale della Giudecca sembrava incredibilmente più azzurra del solito! E poi tanta, tanta gente, tante bandiere e tante barche. Donne, uomini e bambini venuti da tutto il Veneto non per vomitare insulti e minacce secessionistiche, ma per chiedere un futuro senza Tav, senza basi militari, senza quelle grandi navi che ad ogni passaggio inquinano come 14 mila auto. Un futuro di pace e di sostenibilità. Una manifestazione pacifica cui hanno aderito pressoché tutti i comitati contro le grandi opere che minacciano di cementificare quel poco che ancora rimane della nostra Regione. Molti sono arrivati a Venezia in bicicletta sciroppandosi un bel po’ di chilometri, senza contare i tanti ponti e le tanti calli da percorrere con la bici a mano, della città lagunare.

Purtroppo la manifestazione ha suscitato una reazione assolutamente spropositata da parte dell’autorità portuale che, dopo aver ritardato la partenza di tre grandi navi (accampando la scusa di una esercitazione antincendio per non ‘turbare’ l’animo dei crocieristi), ha chiesto l’intervento in forze della polizia che ha fatto cordone per impedire alle barche - almeno un centinaio - di chiudere il canale della Giudecca ai mostri del mare. Addirittura, un elicottero della polizia si è calato più volte quasi a pelo d’acqua nel tentativo di spaventare la gente sui natanti. Tentativo del tutto inutile, che non ha fatto cedere il passo a nessuno.



E’ stata dunque una grande domenica di festa e di lotta che ha lanciato un segnale non ignorabile a chi, come il ministro dell’ambiente Corrado Clini, ha dichiarato che è “impossibile” togliere le grandi navi dalla laguna di Venezia. Impossibile difendere la città più fragile del mondo dagli appetiti delle compagnie di crociera. Impossibile difendere quello che rimane dell’antica laguna dei dogi da una economia tumorale che oramai, dopo aver fagocitato e cacato tutto quello che riusciva a trasformare in merce, sta mercificando come ultima frontiera diritti e ambiente.
Le centinaia di persone che si sono trovate alla Punta della salute hanno dimostrato che non solo non è impossibile difendere l’ambiente ma è anche l’unica strada da percorrere per uscire da una crisi che non è mai stata nostra.

Quegli ignobili respingimenti ai porti di cui nessuno parla

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C’è chi, come Alì, è arrivato già morto. Asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Chi, come il piccolo Zaher, è stato travolto dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale. Tutti gli altri vengono rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.
Li sbattono a forza nelle stesse stive in cui si erano nascosti per raggiungere l’Italia senza dar loro la possibilità di contattare prima un legale o un operatore sociale. Li riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevano cercato di fuggire, senza concedere loro il diritto - riconosciuto dalla legge Italiana oltre che dalla normativa europea - di formalizzare la pratica per la richiesta di asilo. Vengono rimandati, senza se e senza ma, verso quella Grecia dalla quale hanno tentato di scappare e dove li attendono violenze, botte, prigionia, umiliazioni, sofferenze e torture. E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Perché in Grecia, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea - guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto - non hanno nessuna speranza di venire accolti.


Ecco quanto accade, tra l’indifferenza generale, in tutti i porti adriatici dove fanno scalo i traghetti greci. Venezia soprattutto, ma anche Brindisi, Ancona, Bari. E nelle cronache dei giornali hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.
Il caso di Alì, arrivato morto asfissiato, assieme a due compagni anch’essi afghani sopravvissuti per puro miracolo, è solo una delle ultime tragedie al porto di Venezia. Una frontiera dove il diritto non esiste ed è tutto demandato agli umori e alla discrezionalità della polizia di dogana. Quasi mai, quando questi profughi vengono scoperti nelle stive, viene data loro l’opportunità di contattare gli operatori competenti per formalizzare la richiesta di asilo. Anche l’assistenza sanitaria, dopo quella tremenda traversata in fondo alle stive, è ridotta al minimo e limitatamente al tempo necessario per reimbarcarli. E stiamo parlando di uomini ma anche di donne e di bambini (sia Zaher che Alì erano entrambi minorenni) in fuga da guerre e fame, arrivati in Italia dopo un’odissea di privazioni che ben raramente dura meno di due anni.
Queste sono le persone cui neghiamo il fondamentale diritto all’asilo. Ed è difficile anche conoscere con esattezza quanti sono i profughi che rimandiamo ogni anno in Grecia perché tutto viene svolto in una clima di sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Chi non ha documenti, non ha neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.
Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 più di 600 richiedenti asilo sono stati respinti e consegnati al personale di bordo delle navi
greche senza aver prima incontrato né mediatori né interpreti. Vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement.Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo.
Un simile ricorso portato avanti da 35 migranti respinti al porto di Venezia, circa metà dei quali minorenni, grazie all’assistenza legale di alcune associazioni locali costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, è tutt’ora pendente presso la stessa Corte e si attende la sentenza a breve.
Da sottolineare come la stessa amministrazione comunale di Venezia sia di fatto estromessa dalla possibilità di intervenire in un porto militarizzato ed inteso come “zona franca”, dove i diritti sono assolutamente secondari rispetto ai criteri, del tutto ipotetici, imposti dalla “politica della sicurezza”. Neppure agli operatori sociali messi a disposizione dal Comune viene consentito di avvicinare sempre i profughi sbarcati e, in pratica, gli viene impedito di svolgere il loro compito di assistenza e di tutela dei diritti umani. E non scrivo “diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti.
A tale proposito, l’assessore veneziano alla pace, l’ambientalista Gianfranco Bettin, ha commentato in occasione di un incontro con la stampa organizzato dall’Osservatorio Unar: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso di quanto accade nel nostro porto, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Ma i nostri porti e in particolare il porto di una città storicamente aperta a tutte le culture come Venezia, non possono rassegnarsi ad un degradante ruolo di frontiere senza legge. Non è questa la loro storia. Non è questa la loro tradizione. Devono tornare ad essere quello che sono sempre stati: porte aperte verso altri mondi e altre culture. Non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità della politica del momento.

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