In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Fiaccolata per l’ambiente e la salute a Monselice

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Una grande fiaccolata ha illuminato ieri sera, venerdì 28 settembre, le strade di Monselice. Una grande fiaccolata per dire no al cemento, no ad una economia tumorale che macina ambiente e salute per garantire il profitto di pochi sui diritti di tutti. Perlomeno settecento persone hanno accolto l'appello "Per non morire di cemento" lanciato dai comitati della Bassa Padovana "Lasciateci respirare" ed "E noi?", e si sono date appuntamento in piazza Mazzini per dare vita ad un pacifico corteo notturno. All'iniziativa ha aderito pressoché l'intero arcipelago associazionista del Veneto. Una bella serata di festa per Monselice, con tanto di banchetto informativo che, oltre a raccogliere firme, distribuiva torte, pizze e bicchieri di vino. "Il mercato del cemento è in crisi - ha spiegato Francesco Miazzi, portavoce del comitato Lasciateci Respirare - Il business per gli industriali si è spostato sullo smaltimento dei rifiuti da usare come impastante della materia prima. A pagare le spese di questa economia malata sono ancora i cittadini. Il tutto nell'indifferenza, se non addirittura nella complicità, delle istituzioni che dovrebbero invece tutelare la salute della gente. Particolarmente grave mi sembra l'atteggiamento dell'ente Parco dei Colli che ha abdicato alle sue funzioni di salvaguardia, considerando che sin dalla sua istituzione i cementifici sono sempre stati considerati incompatibili con la tutela dell'ambiente dei colli Eugane e si è sempre rifiutato di portare avanti l'accordo di programma che prevedeva la delocalizzazione degli impianti se non la loro dismissione. Ed invece, tra Monselice ed Este, continuano ad operare ben tre di queste industrie dichiarate insalubri di prima classe. Un record europeo di cui non andiamo fieri".


Questi tre impianti, spiegano gli organizzatori della manifestazione sono autorizzati a produrre cemento utilizzando rifiuti. Una lavorazione riconosciuta come altamente pericolosa per la salute. In totale, ogni anno sono smaltite nel territorio del parco dalle cementerie Zillo di Este e Italcementi di Monselice ben 343.500 tonnellate di rifiuti. Ora, la nuova proprietà della Cementeria di Monselice ha chiesto l'autorizzazione di smaltire altre 225.000 tonnellate di rifiuti speciali. "Chi concede le autorizzazioni non considera che questi impianti ormai si trovano all'interno dei centri abitati - spiega Silvia Mazzetto del comitato "E noi?" - e che i limiti di legge delle emissioni inquinanti vanno calcolati globalmente e non separatamente per ciascun impianto. Il risultato è che, da anni, noi e i nostri figli, unici in Europa, respiriamo incredibili quantità di sostanze pericolose per la nostra salute".
"Dobbiamo disinnescare questa bomba ecologica - conclude Francesco Miazzi - . Dobbiamo difendere la salute e le giuste aspettative di quanti qui vivono e lavorano. E' urgente cercare soluzioni che consentano finalmente l'equilibrato sviluppo di questo territorio, tutelando il lavoro ma anche il futuro nostro e dei nostri figli. La Bassa Padovana non può diventare la discarica del Veneto".

Rapimento di Abu Omar. La Cassazione conferma le condanne agli agenti della Cia e riapre il processo agli ex vertici del Sismi

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La Cassazione ha confermato le condanne ai 23 agenti della Cia che hanno rapito Abu Omar e ha imposto la riapertura del processo per i due vertici del Sismi Nicolò Pollari e Marco Mancini, sollevando forti dubbi sul segreto di Stato in virtù del quale la Corte d‘Appello di Milano aveva dichiarato i due non processabili.
Sempre la quinta sezione penale della Corte di Cassazione presieduta da Gaetanino Zecca, ha disposto un nuovo processo d'appello anche per i tre agenti segreti italiani - Giuseppe Ciorra, Luciano Di Gregori e Raffaele Di Troia - considerati corresponsabili del rapimento.

Ricordiamo che Abu Omar, all’epoca imam di Milano, sospettato (solo sospettato!) di contatti con cellule terroristiche era stato rapito il 17 febbraio 2003 in territorio italiano da un gruppo di agenti della Cia con l’evidente complicità dei servizi segreti nostrani e portato in una base Usa in Egitto, su un aereo decollato dall’aeroporto militare di Aviano, dove, secondo le denuncia dello stesso rapito, avrebbe subito prigionia, violenze e torture.


Il tutto sulla base di semplici sospetti e senza nessun procedimento giudiziario. Una azione assolutamente illegale che ha costretto la magistratura ad istruire un processo per rapimento. Il 15 dicembre 2010, la Corte d’Appello di Milano aveva così condannato i 22 agenti della Cia ritenuti responsabili del fatto a sette anni di carcere e a nove anni il capo-area, Robert Lady. Condanne ovviamente in contumacia. Sempre la Corte d’Appello milanese aveva inferto la pena di 2 anni e 8 mesi all'ex responsabile dell'archivio del Sismi, Pio Pompa, e il suo funzionario Luciano Seno. Non processabili infine, in virtù del discutibilissimo vincolo del “segreto di Stato”, imposto tanto dal Governo Prodi di centrosinistra che successivamente da quello Berlusconi di centrodestra, i due allora capi del Sismi Nicolò Pollari e Marco Mancini, e i tre agenti sopracitati.
Il ricorso alla corte di Cassazione portato avanti da Abu Omar, attualmente residente in Egitto dove non sono emerse prove sul suo coinvolgimento con gruppi integralisti, ha ottenuto una nuova sentenza che sposa, in pratica, la sua tesi. Non soltanto il tribunale supremo ha confermato con l’ultimo grado di giudizio le condanne ai 007 americani ed italiani, ma ha anche ha chiesto alla Corte d’Appello di riprocessare i vertici Sismi Pollari e Mancini, oltre ai funzionari Ciorra, Di Gregori e Di Troia, sostenendo che, anche al di là del Segreto di Stato, ci sono sufficienti elementi per ipotizzare un loro coinvolgimento nel rapimento.

Tutela l’ambiente, sfrutta i lavoratori. Il caso del centro riciclo di Vedelago di Treviso

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Quindici lavoratori buttati sulla strada è una notizia che, di questi tempi, otterrebbe a malapena una colonnina bassa in cronaca locale. Ma in questo caso la storia è diversa perché è diversa l’azienda che ha spedito le lettere di licenziamento. Si tratta infatti del centro di riciclo di Vedelago (Treviso), una delle strutture atte al recupero e allo smaltimento dei rifiuti più avanzate e più attente all’ambiente di tutto il nostro Paese. Un’azienda più volte citata come esempio di buone pratiche per la sua attenta gestione del ciclo dei rifiuti e che, non a caso, è tra gli sponsor di alcune iniziative che si stanno svolgendo alla conferenza mondiale sulla decrescita, attualmente in svolgimento a Venezia. Peccato che tanta attenzione all’ecologia non venga supportata da una altrettanto attento rispetto per i diritto dei lavoratori! Questo pomeriggio, venerdì 21 settembre, i quindici lavoratori licenziati dall’azienda sono intervenuti all’incontro sulla decrescita e hanno preso la parola sul palco, e tra gli applausi della platea, hanno raccontato le ragioni della loro vertenza.


“Dal suo lato pubblico l’azienda presenta un aspetto positivo e ambientalista - ha spiegato Sergio Zulian dell’Adl Cobas - dal lato privato abbiamo riscontrato situazioni di totale mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori. Così, abbiamo iniziato una vertenza sindacale chiedendo puntualità nel versamento degli stipendi, servizi igienici puliti, una mensa decente e il riconoscimento dei delegati sindacali dei lavoratori. Ci siamo subito scontrati con la chiusura e l’indisponibilità al dialogo della titolare che non ha riconosciuto nessuna delle nostre richieste e che ci ha risposto solo con le lettere di licenziamento inviate a 15 dei 31 lavoratori del reparto smistamento. Licenziamenti che non esitiamo a definire di rappresaglia perché sostenuti da motivazioni generiche come la solita crisi economica e senza nessun tentativo di ricorrere agli ammortizzatori sociali”.
I lavoratori hanno proclamato lo stato di agitazione e chiedono la sospensione dei licenziamenti e l’immediata apertura di un tavolo di trattativa. Particolarmente significativo il loro volantinaggio ai partecipanti al convegno sulla decrescita. “Un pubblico attento e sensibile - hanno detto - che merita di essere informato su cosa si nasconde dietro uno degli sponsor della conferenza”.
Decrescita e tutela dell’ambiente non possono essere costruiti a scapito dei fondamentali diritti del lavoro e della cittadinanza. “Altrimenti - ha concluso Sergio Zulian - finiremo per applaudire quel coltivatore biologico perché non usa concimi chimici e rispetta la natura. E pazienza se usa gli schiavi per ammortizzare i costi!”



Il Rivolta guarda al futuro: fotovoltaico, palestra e ostello sociale

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Un centro sociale ad energia solare. Il cso Rivolta di via Fratelli Bandiera si è dotato di un grande impianto fotovoltaico capace di garantire una costante produzione di energia pulita per sé e per la città. Un impianto che è, tra quelli realizzati sui tetti, il più ampio e il più potente di tutta la provincia. La centralina e i circa mille metri quadri di pannelli, sistemati sul tetto del capannone dove si tengono i concerti, sono stati presentati oggi ai giornalisti alla presenza di una nutrita rappresentanza istituzionale tra cui il vice sindaco Sandro Simionato, gli assessori, Gianfranco Bettin all’ambiente e Bruno Filippini al Patrimonio, il presidente della municipalità Flavio Del Corso. L’incontro ha fornito l’occasione per presentare gli altri progetti appena realizzato o in corso di realizzazione al Rivolta di Marghera. Progetti realizzati grazie all’impegno gratuito ed entusiasta di centinaia di giovani e meno giovani, e coperti economicamente da iniziative di autofinanziamento.


La palestra popolare, innanzitutto. Uno spazio, per dirla con le parole di Michele “Ace” Valentini, libero e aperto a tutta la cittadinanza dove vengono organizzati corsi che spaziano dal kick boxing al tango. “Uno spazio dove praticare lo sport così come lo intendiamo noi: come attività salutare e di benessere fisico ma anche psicologico, solidale, popolare e antirazzista”.
Un’altra attività che sarà ampliata, ha spiegato Vittoria Scarpa, è quella svolta dalla cooperativa Caracol che d’inverno si impegna per offrire un riparo e una sistemazione temporanea ai senza fissa dimora, salvandoli dal gelo mortale. “Purtroppo abbiamo dovuto constatare che il numero dei senza casa è in costante aumento - ha spiegato la portavoce del Rivolta -. Questo inverno, gli attuali 24 posti letto che abbiamo a disposizione potrebbero non essere sufficienti e stiamo lavorando per raddoppiare la nostra offerta realizzando altre unità abitative ispirandoci a criteri di bioedilizia ed ecocompatibilità”. Una novità riguarda anche l’uso di questi moduli abitativi che, se d’inverno saranno destinati a situazioni d’emergenza e al riparo dei senza fissa dimora, d’estate saranno usati come “ostello sociale” per offrire accoglienza a basso costo a studenti, viaggiatori o partecipanti a seminari ed incontri. Già oggi, ha sottolineato Ace, i moduli ospitano una ventina di giovani venuti ad assistere alle conferenze della settimana della Decrescita.
Ma la novità principale del nuovo Rivolta riguarda il passaggio all’energia pulita. Grazie ad un mutuo decennale acceso con Banca Etica (“L’unica banca che non è responsabile dell’attuale disastro finanziario” ha sottolineato Ace) di 200 mila euro, i tetti del centro sociale sono stati ricoperti di pannelli e trasformati in un impianto fotovoltaico capace di raggiungere una produzione di 115 mila kwh all’anno dei quali 70 mila ad uso interno e gli altri messi a disposizione della città come energia pulita ricavata dalla fonte rinnovabile per eccellenza come è la nostra stella. L’impianto è stato realizzato dalla ditta EA Energia Alternativa di Vicenza, grazie anche alla consulenza di Agire, l’agenzia veneziana per l’energia. In termini di riduzione delle emissioni inquinanti, l’impianto garantisce un mancato rilascio nell’atmosfera di 62 mila e 400 chili di anidride carbonica all’anno e un risparmio di 810 tonnellate equivalenti di petrolio.
“Grandi progetti pensati dentro la città e realizzati per la città - ha commentato soddisfatto Simionato -, proprio come il Rivolta ci ha abituato in questi anni di proficua collaborazione con l’amministrazione”.
Parole di apprezzamento per il lavoro svolto sono state spese anche dall’assessore Filippini che ha sottolineato la gestione trasparente dell’operazione e citato il cso come un esempio importante di buon utilizzo degli spazi comunali. Dal canto, suo Gianfranco Bettin ha invitato a paragonare l’area del Rivolta con quella degradata dell’ex cral Gavioli, situata immediatamente a ridosso del cso, ed ha concluso, riferendosi al ventilato progetto del palazzone di Pietro Cardin, “Per ora, il Rivolta rimane l’unico Palais Lumière di Marghera”.

No Grandi Navi, No Grandi Opere per un futuro di pace e di sostenibilità

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Una volta, questa domenica di settembre, era il giorno della Lega e di Roma ladrona. Arrivavano con le bandiere del sole padano e la “sacra ampolla” d’acqua del Po. Se andava bene, raggiungevano Riva degli Schiavoni senza incidenti per ascoltare il Bossi urlare contro meridionali e migranti. Se andava male, si fermavano per strada a menare qualche disgraziato cameriere con la pelle di un colore, a sentir loro, poco “padano”.
Ma oggi invece, è stata una bellissima domenica di festa. Festa vera. Una Venezia più incantevole del consueto, un cielo terso, un tiepido sole settembrino... anche l’acqua del canale della Giudecca sembrava incredibilmente più azzurra del solito! E poi tanta, tanta gente, tante bandiere e tante barche. Donne, uomini e bambini venuti da tutto il Veneto non per vomitare insulti e minacce secessionistiche, ma per chiedere un futuro senza Tav, senza basi militari, senza quelle grandi navi che ad ogni passaggio inquinano come 14 mila auto. Un futuro di pace e di sostenibilità. Una manifestazione pacifica cui hanno aderito pressoché tutti i comitati contro le grandi opere che minacciano di cementificare quel poco che ancora rimane della nostra Regione. Molti sono arrivati a Venezia in bicicletta sciroppandosi un bel po’ di chilometri, senza contare i tanti ponti e le tanti calli da percorrere con la bici a mano, della città lagunare.

Purtroppo la manifestazione ha suscitato una reazione assolutamente spropositata da parte dell’autorità portuale che, dopo aver ritardato la partenza di tre grandi navi (accampando la scusa di una esercitazione antincendio per non ‘turbare’ l’animo dei crocieristi), ha chiesto l’intervento in forze della polizia che ha fatto cordone per impedire alle barche - almeno un centinaio - di chiudere il canale della Giudecca ai mostri del mare. Addirittura, un elicottero della polizia si è calato più volte quasi a pelo d’acqua nel tentativo di spaventare la gente sui natanti. Tentativo del tutto inutile, che non ha fatto cedere il passo a nessuno.



E’ stata dunque una grande domenica di festa e di lotta che ha lanciato un segnale non ignorabile a chi, come il ministro dell’ambiente Corrado Clini, ha dichiarato che è “impossibile” togliere le grandi navi dalla laguna di Venezia. Impossibile difendere la città più fragile del mondo dagli appetiti delle compagnie di crociera. Impossibile difendere quello che rimane dell’antica laguna dei dogi da una economia tumorale che oramai, dopo aver fagocitato e cacato tutto quello che riusciva a trasformare in merce, sta mercificando come ultima frontiera diritti e ambiente.
Le centinaia di persone che si sono trovate alla Punta della salute hanno dimostrato che non solo non è impossibile difendere l’ambiente ma è anche l’unica strada da percorrere per uscire da una crisi che non è mai stata nostra.

Non è solo un treno!

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Grandi navi e non solo. Progetti di revamping di rifiuti speciali, di tracciati in gronda lagunare contro puntuali promesse di riconversioni industriali che vengono puntualmente disattese. Anche Venezia ha le sue Tav, ha ricordato Beppe Caccia in apertura dell’incontro organizzato dall’associazione In Comune per presentare il libro “Non solo un treno .. la democrazia alla prova della Val di Susa” curato da Marco Revelli e Livio Pepino edito da Edizioni Gruppo Abele. L’iniziativa si è svolta giovedì 13 settembre, nel municipio di Mestre. Presenti in sala i due autori circondati da una ricca cornice di pubblico.
Livio Pepino, già presidente di Magistratura Democratica, ha spiegato così il titolo del libro: “Certa politica liquida la questione della Val di Susa raccontando che alla fin fine si tratta solo di un treno. Mica di un bombardiere! La verità è un’altra. La vicenda della Tav non può essere ridotta alla linea ferroviaria ma investe tutta una serie di temi non ultimi quelli della legalità e della democrazia”. Pepino fa un sunto di come il progetto dell’alta velocità sia nato da un convegno in casa Fiat più di trent’anni or sono e di come sia mutato nel tempo da linea veloce per il trasporto di passeggeri a trasporto merci, mantenendo però la costante della devastazione ambientale. L’ex magistrato affronta la questione Tav dal punto di vista della legalità discorrendo, in particolare sul diritto alla salute. “Un diritto che la Costituzione sancisce come assoluto - spiega -. Al contrario, per fare un esempio, del diritto alla proprietà privata che può essere subordinato al principio dell’interesse generale”. Nel caso del diritto alla salute invece non ci sono ‘se’ o ‘ma’. Va salvaguardato a tutti i costi. La presenza di amianto nelle montagne destinate allo scavo risulta quindi un elemento del quale non si può - anche da un punto di vista legale - non tenere conto. “Bisogna accertare oggi con metodi scientifici la pericolosità dei lavori per non dover affrontare domani un processo di risarcimento delle vittime. Non bastano le assicurazioni dei sostenitori del progetto”.



Un altro principio di legalità messo in discussione dall’opera è quello del governo della maggioranza. “Chi vuole la Tav afferma: ‘in fondo l’opera è stata voluta dai maggiori partiti che sono stati eletti democraticamente. Non ha senso e non è corretto contestare quello che ha deciso la maggioranza del Paese’. Ma chi dice così ha un concetto di democrazia alquanto rustico. La democrazia infatti non si esaurisce in una sorta di tirannia della maggioranza, per citare Toqueville. La maggioranza decide chi governa ma non con che criteri o con che limiti”. Senza scomodare Toqueville, ricordiamo Platone che scriveva di come i probi cittadini ateniesi avessero votato “a grande maggioranza” di conquistare l’isola di Samo e massacrarne tutti gli abitanti. Se questa è la democrazia che vi piace...
“Al contrario - ha concluso Livio Pepino - sulla questione della Tav, proprio la nostra democrazia ha abdicato. Un problema che era davvero di democrazia è stato trasformato in un problema di ordine pubblico e dato il gestione alle forza di polizia che hanno militarizzato il territorio sino a far diventare reato dei comportamenti e delle manifestazioni di protesta che, al di fuori della val di Susa, non sono reato”.
Dal canto suo, Marco Revelli, esamina la questione Tav sotto la lente del politologo. “La vicenda della val di Susa è stata in questi anni il mio buco della serratura attraverso il quale leggere i cambiamenti in atto, dalla crisi dei partiti al baratro in cui è precipitata l’economia”.
L’Alta Velocità, spiega, è un progetto concepito in un’altra epoca e in un altro mondo, quando si faceva un gran parlare di crescita infinita e le merci e la loro circolazione erano dei dogmi che nessuno poteva contestare. “Un modello nichilista e retorico che ha mostrato presto i propri limiti”. Revelli snocciola qualche dato sulle previsioni fatte dai sostenitori della Tav sul traffico di merci che avrebbe dovuto viaggiare sulla linea ferroviaria. Numeri spropositati legati ad una idea infinita di crescita. “Non solo le previsioni non si sono avverate neppure lontanamente, ma il traffico è regredito, sia per la rotaia che per la gomma”.
Una storia che oramai abbiamo imparato a conoscere. Solo due categorie di persone, è stato scritto, sono convinte che un mondo finito possa supportare uno “sviluppo” infinito: i pazzi e gli economisti.
Revelli, con la vivacità di spirito che lo contraddistingue, incanta la platea tracciando audaci parallelismi tra il Marinetti futurista e politici come Fassino “che ripete le stesse retoriche ma senza avere né il genio né l’intelligenza del poeta”. Soprattutto, lo fa quasi cento anni dopo.
Nella sua analisi, Revelli individua alcuni elementi portanti nella questione della Val di Susa. Il primo è la commistione tra le grandi costellazioni di interessi economici e la politica. le stesse costellazioni che in questi anni hanno depredato l’Italia. “Lo stesso Pd, o come si chiamava allora, sino al 2004 era molto cauto sulla Tav. Si trasforma improvvisamente un pasdaran dell’Alta Velocità quando entra in gioco la cooperativa rossa Cmc (la stessa che sta ristrutturando la stazione di Venezia.nrd). Solo a questo punto arriva a chiedere che i cantieri diventino un sito strategico militare”. Nessuno vuole nascondere che i soldi servono alla politica - sospira Revelli - ma sono sempre stati un mezzo per un fine. La Tav ha rovesciato il concetto: la politica è il mezzo e i soldi il fine.
Un altro punto focale della questione, commenta ancora Revelli, è l’informazione. Gli stessi gruppi economici impegnati nell’opera sono proprietari dei maggiori quotidiani italiani. Il che spiega come mai l’informazione segua sempre una sola direzione, quella della Torino Lione. Mai come nella Tav i giornali hanno raccontato tante balle e per tanto tempo. Quali sono i limiti alla manipolazione della realtà? si chiede Revelli, sostenendo che la Val di Susa ha comunque dimostrato di essere impermeabile e di essere sempre riuscita a non farsi condizionare dai media.
“Ma la Tav ha segnato soprattutto la crisi del rapporto tra i cittadini e le istituzioni. E’ una crisi di democrazia e di rappresentanza. La questione che c’è sotto è grossa. I valsusini difendono non solo il loro diritto alla salute ma un sistema relazionale. Difendono il loro territorio e un modo di vivere in questo loro territorio. Se vogliamo vederla così, difendono un bene comune”. Revelli parla del referendum su acqua e nucleare e di come questo abbia stabilito un principio fondamentale: c’è uno spazio pubblico che non può essere invaso da uno spazio politico. Il parlamento può legiferare quello che gli pare, ma i beni comuni non li può toccare.
Revelli conclude parlando del movimento No Tav. Movimento che forse sarebbe più esatto definire una resistenza di popolo trasversale alle generazioni e alle precedenti convinzioni politiche. Ma comunque la si chiami, la resistenza della gente della val di Susa ad una economia e ad una politica in profonda e irreversibile smarrimento, sta tracciando il futuro dell’Italia che vogliamo. “In Val di Susa - conclude Revelli - è in gioco sì la nostra democrazia in crisi, ma anche una sua auspicabile metamorfosi salvifica”.

Quel fantaoggetto chiamato Palais Lumière

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Mettiamo subito in chiaro una cosa. Non è Pierre Cardin a fare un regalo a Venezia ma Venezia a fare un regalo a Pierre Cardin. E’ la città di Venezia che regala a questa torre di 224 metri d’altezza la sua unicità e non viceversa. E’ Venezia che mette a disposizione di questo stilista trevigiano la sua tradizione e la sua cultura, tanto antica quanto moderna ed innovativa, di città nata dall’equilibrio tra la terra e il mare. Una tradizione che poco ha a che spartire con il gigantismo (“sarà l’edificio più alto d’Italia!”) obsoleto e superato da primo novecento che sostiene tutto il progetto. Il punto infatti è che questa sorta di “innovativi” grattacieli nel mondo sono oramai una moda passata. Roba da “paese petrolifero in via di sviluppo”. A Dubai o negli Emirati se ne trovano ad ogni angolo di strada. Ma anche in Europa, di edifici così se ne contano a decine come La Defense a Parigi, tanto per fare un esempio, oppure il Canary Wharf a Londra o il Centro di Francoforte. Tutti palazzoni assai più alti della torre di Cardin, ed oltre a tutto realizzati con una ragione urbanistica che non è solo quella di fare un primato. Perché la torre delle luci non batterà neppure quel record di altezza di cui tanto si scrive. Ammesso che la cosa abbia un senso, stiamo parlando di urbanistica e non di olimpiadi.


Quando sarà realizzato sarà solo il 21° edificio più alto d’Europa. Nessun primato dunque. In poche parola, la torre ha un suo perché solo se sarà costruita davanti a Venezia dove potrà sfruttare lo splendido panorama lagunare e la singolarità della nostra città. Quindi, per cortesia, nessuno insista sulla “generosità” dell’imprenditore trevigiano (“Questo progetto corrisponde ad una resurrezione della città” ha dichiarato) e tanto meno sulla “fortuna” che avremmo avuto a battere la concorrenza di città come Mosca o Parigi. Di sicuro, da quelle parti, nessuno si sta mordendo le mani per l’occasione persa.
Il Veneto invece ha subito detto “sì grazie”. Il governatore Luca Zaia ha immediatamente sottolineato la “grande ricaduta turistica” che il palazzo avrà. Una cosa che a Venezia mancava proprio. E poi ha aggiunto, da quell’esperto di architettura che evidentemente è, “potrà piacere o meno, ma questa resta un'opera di alta architettura e ingegneria''.
Anche il voto con il quale il consiglio comunale di Venezia ha autorizzato il sindaco Giorgio Orsoni a partecipare alla conferenza dei servizi sul progetto, contribuisce a spalancare la porta ad una rapida approvazione del progetto. Voto che ha avuto come unica voce dissonante il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia che ha scelto l’astensione. Del resto, in questi tempi di crisi, è dura dire di no ad un tipo che ti assicura “i soldi ce li metto tutti io”. Che poi questi soldi ci siano è tutto da vedere. Per adesso in mano abbiamo solo le rassicurazioni di uno stilista ultranovantenne e un progetto realizzato da un suo nipote.
“Se non fosse per il percorso istituzionale, che da solo consegna alla proposta di Pierre Cardin la patente di autenticità, verrebbe da dubitare della coerenza e della credibilità del progetto di Palais Lumière” si legge in un documento messo a punto dall’associazione In Comune. “Un progetto di questo tipo - continua il documento che potete scaricare integralmente dal
sito dell’associazione - in qualsiasi parte del mondo, subisce verifiche e analisi di fattibilità serie e accompagnate da business plan approfonditi e dettagliati nei conti economici e finanziari. In questo caso, nulla di tutto questo. C’è la parola di un imprenditore che afferma: i soldi li abbiamo. In realtà, lo studio di fattibilità è solo una descrizione di ‘faremo, sarà, ci saranno’ con qualche dato di massima per un totale di 1,357 milioni di euro in totale, molto lontani dai 2-3 miliardi sbandierati, ma pur sempre tanti”. Se si va a vedere a quanto ammonta complessivamente l’Accordo di programma per la bonifica ambientale di Porto Marghera, su un totale di 2,67 miliardi di investimenti privati il Palais Lumière rappresenta solo la metà di quella cifra. Ciò significa che già oggi Marghera conta investimenti privati per 1,3 miliardi di euro, impegnati da tanti diversi soggetti. La domanda a questo punto è: perché improvvisamente tutti giurano che senza il Palais Lumière, Marghera non avrebbe un futuro?
“Dal punto di vista urbanistico si tratta di un peso che, se realizzato, sposterebbe tutti gli assetti della città e soprattutto farebbe deperire l’articolazione delle funzioni oggi presenti in particolare nelle parti centrali della terraferma. Se qualche operatore avesse proposto un decimo delle funzioni previste all’interno del fantaoggetto da qualche altra parte della città avrebbe avuto tutti contro. Dal punto di vista delle ricadute economiche la sua realizzazione assorbirebbe tutte le potenzialità di una città come Mestre per i prossimi quindici anni e deprimerebbe qualsiasi altra iniziativa degli operatori locali”.
Un altro elemento critico è che di fronte alla presentazione di questo progetto, la sua collocazione ha avviato interessi speculativi sulle aree nelle quali dovrebbe sorgere, con preliminari di acquisizione già in atto e a quanto si sa in scadenza il 31 luglio, processo che sarà accentuato dalle procedure semplificate e accelerate della prevista conferenza di servizio.
Un punto focale della questione infatti è proprio quello del metodo. Sia che stiamo parlando di una darsena da mille posti al Lido, della demolizione del monoblocco ospedaliero, dello stupro architettonico di un fondaco cinquecentesco come quello dei Tedeschi oppure della realizzazione di questa torre di luci, non è accettabile che un qualsiasi imprenditore pretenda di intervenire in deroga alle norme di piano vigenti e ai programmi dell’amministrazione ponendola di fronte al diktat “io pago e io comando”.
"Siamo di fronte ad un metodo inaccettabile - commenta Beppe Caccia- : un investitore si presenta mettendo sul tavolo qualche fantatrilione, e che siano risorse reali o virtuali è ancora tutto da verificare, e dice 'o così o me ne vado'. C'è un evidente problema di dignità democratica: è la città che deve decidere autonomamente quali scelte compiere sul suo territorio."
"E nel merito - prosegue il consigliere della lista In Comune - siamo di
fronte ad un progetto che resta pieno d'incognite e denso di criticità
sull'insieme degli impatti urbanistici ed architettonici e delle ricadute
economiche e sociali sulla vita cittadina. Sul complesso dell'operazione il nostro giudizio è e resta dunque sospeso. Ci auguriamo che in sede di Conferenza dei servizi, il sindaco saprà farsi forte garante dell'interesse pubblico, della volontà della città di procedere, compiendo i passi giusti, nella direzione di un vero recupero, della riqualificazione produttiva e della rigenerazione urbana nell'area di  Porto Marghera".
Di sicuro, non saranno le luci della torre di uno stilista trevigiano a salvare Venezia dai mali che la affliggono come il turismo incontrollato, le grandi navi, lo stravolgimento dell’equilibrio idrodinamico, le smisurate manipolazioni del suo bacino lagunare e del territorio circostante. Mali che alla fin fine sono proprio legati alla mancanza di quella “dignità democratica” cui accennava Caccia con la quale viene gestita la cosa pubblica.

Piccoli omicidi di frontiera

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E’ successo ancora. E anche questa volta era un profugo fuggito dall’Afghanistan. Lo ha trovato un camionista bulgaro. Il cadavere era rannicchiato dentro il portellone posteriore del suo autoarticolato, in fondo alla stiva del traghetto greco Kriti II salpato da Igoumenitsa. Aveva 23 anni. E anche lui, secondo il referto del medico del porto di Venezia, è morto per soffocamento. Proprio come Alì, poco più di un mese fa. Anche lui morto asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica. Assassinato dalla frontiera. Proprio come il piccolo Zaher, travolto con il suo quaderno di poesie in tasca dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale italiana. Omicidi che avremmo potuto evitare semplicemente rispettando i trattati internazionali sui diritti dei rifugiati o, come nel caso di Zaher, la normativa italiana sui richiedenti asilo. Ed invece i porti mediterranei continuano ad essere frontiere senza legge. Trincee in cui i diritti umani sono sospesi e affidati alla discrezionalità del momento. I profughi che hanno la fortuna di sbarcare ancora vivi vengono per lo più rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.


Quaranta ore dura la traversata da Patrasso a Venezia. Quaranta ore senza acqua, senza cibo, senza la possibilità non dico di andare al gabinetto ma anche di sgranchirsi le gambe. Quaranta ore rannicchiati dentro un container senza ricambio d’aria, a parlare sottovoce quando invece vorresti urlare. Poi, quando dai rumori dei motori in manovra capisci che la nave sta attraccando, ti tocca anche infilare la testa in un sacchetto di plastica perché arriva l’ispezione della polizia di frontiera italiana che si è dotata di quei nuovi rilevatori sonori capaci di individuarti anche dal solo respiro. Un vero prodigio della tecnologia che davvero poteva essere dirottato a migliore causa. Perché sai bene che se ti prendono, ti riconsegnano al servizio di sicurezza della stessa nave in cui ti eri nascosto, senza darti prima l’opportunità di contattare un legale o un operatore sociale per formalizzare la pratica per la richiesta di asilo, come prevederebbero tutte le normative a tutela dei rifugiati, da quelle internazionali a quelle europee sino alla stessa legge italiana. Ma i porti, lo abbiamo detto, da quello di Venezia a quello di Ancona o di Brindisi, sono bunker dove il diritto non vale niente. Ti riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevi cercato di fuggire. E allora sai che ti attendono altre 40 ore nello stesso inferno che hai appena patito, chiuso a chiave in un qualche gavone della nave. E poi le botte, le violenze e la prigionia in Grecia. Un Paese dove, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea - guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto - non hanno nessuna speranza di venire accolti.
E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Dalla Grecia, se ti va male, sarai rispedito in Turchia o direttamente dal Paese da cui avevi tentato di fuggire. Per molti, per tanti, è una condanna a morte. Se ti va bene, il destino ti potrebbe riservare un’altra opportunità. Un altro tentativo di raggiungere l’Italia, magari dentro la stessa nave della prima volta. Un altro giro di giostra. Un altro tiro alla roulotte russa, sperando di sopravvivere ancora.
Tutto questo accade tra l’indifferenza generale. E nelle due righe che i giornali locali, quando ci scappa il morto, non possono fare a meno di dedicare alla questione, hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno pure il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.
Il caso del ragazzo afghano di 23 anni, arrivato morto asfissiato da Igoumenitsa, è solo una delle ultime tragedie accadute sulla traversata adriatica. Il nostro Paese, in questo caso, non ha responsabilità dirette, come invece nel caso di Zaher, come invece nei tanti casi dei richiedenti asilo, non di rado minorenni, illegalmente respinti senza concedere loro l’opportunità di formalizzare le richieste di asilo.
Tanti casi, abbiamo detto. E uno solo sarebbe già troppo. Ed è anche difficile conoscere con esattezza il numero di questi respingimenti. Non soltanto per le solite e pretestuose “ragioni di sicurezza” con le quali la polizia portuale nega anche ai giornalisti l’accesso ai dati, ma anche perché tutto viene svolto in una clima di totale sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Per l’autorità portale, questi richiedenti asilo non fanno neppure statistica! Se non hai documenti, non hai neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.
Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 sarebbero comunque più di 600 i richiedenti asilo respinti e consegnati al personale di bordo delle navi in cui si nascondevano senza aver prima incontrato un mediatore o un interprete. E vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un Paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di
non refoulement.
Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo. Una dura sentenza di condanna che rischia di essere replicata quando la stessa Corte darà, come tutto lascia supporre, ragione anche al simile ricorso, tutt’ora pendente, presentato grazie all’assistenza legale di alcune associazioni veneziane costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, da 35 migranti respinti al porto di Venezia. Metà di loro erano poco più che bambini. Piccoli omicidi di frontiera.

Cambiare davvero. Camminando sulla strada che ci ha portato ai referendum

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All’incontro organizzato allo Sherwood Festival sul tema “Verso le elezioni politiche del 2013, tra crisi europea e necessità dell’alternativa”, lunedì sera nell’area del parcheggio dello stadio Euganeo di Padova, c’era più gente che davanti al maxi schermo per quella disgraziata finale Spagna Italia. Il che è senza dubbio un bel segnale per la politica, favorito se vogliamo, dalle personalità presenti sul palco. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, un pezzo grosso della segreteria nazionale di Syriza, il partito di sinistra che nelle ultime elezioni ha sfiorato il botto totalizzando un ottimo 26,9%, Panos Lamprou, accompagnato dal giornalista di Manifesto nonché corrispondente dal Paese ellenico, Arigiris Panagopulos. E ancora Niki Vendola nella sua doppia veste di segretario di Sel e presidente della Regione Puglia (lotta e governo). A fare gli onori di casa, Vilma Mazza di Ya Basta! e Gianfranco Bettin, assessore alla pace del Comune di Venezia col compito di stimolare il dibattito.


L’obiettivo dell’incontro, come era evidente dallo stesso titolo, era quello di provare, per dirla con le parole di Vilma Mazza, “a costruire una alternativa di sistema che non sia solo una sommatoria elettorale di partiti e partitini ma che sia capace di parlare anche ai movimenti. Consapevoli come siamo che la strada del voto non potrà mai da sola portare ad un reale cambiamento e risolvere la profonda crisi della rappresentanza che stiamo attraversando”. A questo proposito, in allegato a questo
link, potete scaricare il testo integrale dell’appello presentato durante l’incontro e che ha avuto come primi firmatari – ne citiamo solo alcuni – Valter Bonan, Cinzia Bottene, Federico Camporese, Francesco Miazzi e Gianfranco Bettin.Il dibattito si è dipanato lungo un filo che partiva da Genova. Vendola ha rimpianto come, in quell’occasione, il suo partito di Rifondazione abbia perso l’opportunità di sciogliersi dentro il movimento e ha quindi ricordato le tante, troppe, contraddizioni che ha vissuto il movimento operaio nella sua storia otto e novecentesca. Le cose più importanti le ha rimarcate alla fine del suo intervento: “se il Pd rimarrà incastrato sull’asse D’Alema – Casini, noi non ci stiamo neanche alle primarie. Non possiamo essere complici di questa macelleria sociale”. Avremo una sinistra che corre da sola quindi? E’ quanto augura all’Italia anche il greco Panos Lamprou: “Non è che in Grecia la gente sia diventata improvvisamente comunista. E’ che sono diventati improvvisamente poveri. Così tutte le realtà alternative, dai comunisti ai verdi, dai leninisti ai movimenti si sono messi insieme in quella strana cosa che è Syriza”. La conclusione di Lamprou potrebbe essere sintetizzata, ci perdoni l’amico greco, così: “Fatelo anche voi in Italia, altrimenti questo devastante sistema neo liberista vi farà un didietro tale”.
Ma la sinistra italiana, lo sappiamo bene, da questo orecchio ci sente poco. Eppure è per questa strada che si arriva al famoso
otro mundo che, mi dicono gli ottimisti, es siempre posible. Un ottimista è per l’appunto il sindaco di Napoli. Un ottimismo tutto partenopeo. “A Napoli governo senza soldi. E va bene così. Le più grandi disgrazie che affliggono la mia città risalgono appunto ai periodi in cui arrivavano finanziamenti a pioggia”. De Magistris invita (Vendola?) a non aspettare il Pd e a smettere di correre dietro ad un partito che sta portando avanti le politiche berlusconiane senza Berlusconi oggi in maniera più spudorata di quando era alla, chiamiamola così, opposizione. L’ex magistrato invita a difendere i beni comuni e a dimostrare che il pubblico, se ben gestito, può essere efficace e conveniente. Attenzione quindi al tentativo in corso del Governo che, alla faccia dei referendum, mira a privatizzare e a svendere tutto quello che resta del pubblico continuando quella terrificante operazione di mercificazione avviata da Berlusconi. Non parliamo solo dell’acqua o del ciclo dei rifiuti ma anche di cose non esattamente di poco conto come la Giustizia, i diritti e la politica in generale. Proprio i referendum sono stati il focus dell’intervento di Gianfranco Bettin. L’unico, va rimarcato, che sul palco abbia pronunciato la parola “ambiente” ricordando come pochi giorni prima sia fallito il vertice di Rio nell’indifferenza dei media. “Eppure, la cosa più importante che sta accadendo alla Terra negli ultimi diecimila anni sono proprio i cambiamenti climatici”.
L’ambientalista ha sottolineato come la stagione dei referendum sia stata la più bella vissuta dall’Italia negli ultimi anni “ciò nonostante non siamo riusciti a capitalizzare questa vittoria e oggi stiamo combattendo una battaglia di retroguardia per difendere un risultato referendario che dovrebbe essere acquisito, dagli attacchi continui del governo Monti. Siamo arrivati in finale ma non riusciamo a vincere l’ultima partita. Come assessore mi trovo a sprecare energie e lavoro per superare ostacoli messi appositamente per impedire una soluzione alternativa, semplice ed efficace dei problemi. Eppure proprio dai referendum in difesa dei beni comuni nasce una alternativa, semplice ed efficace gestione di questa crisi. La famosa strada che porta all’
otro mundo che tutti auspichiamo, l’abbiamo già imboccata con la vittoria referendaria. Tocca a noi percorrerla”.
Il video integrale degli interventi è visibile nella pagina del sito Global Project al seguente
link.

Vita da busker (scritto per far riaprire Venezia agli artisti di strada)

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A Ferrara, qualcuno deve aver pensato che a dirlo all’inglese suonava tutta un’altra musica. Ironia a parte, e col santo senno del poi, il Busker Festival che ogni anno si svolge nella città emiliana si è rivelato davvero una idea vincente che ha fatto da apripista a tante manifestazioni simili. La formula, d’altra parte, era già stata ampiamente collaudata in altri Paesi europei, dall’Inghilterra alla Spagna, passando per Francia ed Alemagna. Basta battere la parola “busker” sull’oracolo dei nostri - Google - che appaiono decine di siti che raccontano di feste organizzate a Milano, Bologna, Modena... per citare solo qualche capoluogo di provincia. Ma i Busker Festival sono oramai un appuntamento fisso anche nelle più celebrate mete turistiche sia di mare che di montagna.
Certo, magari dire “artista di strada” non pare la stessa cosa che scrivere “busker”, anche se il concetto alla fin fine è quello. Il problema, come spiegano i portavoce della Fnas (come? che cosa è la Fnas? Ma la Federazione Nazionale Artisti di Strada, che altro?) è che troppo spesso nel Belpaese l’artista di strada, o il busker se preferite, viene confuso con il mendicante. Cosa che assolutamente non è. L’arte di strada ha alle spalle una tradizione che viene nientepopodimeno che dai cantori erranti dell’antica Grecia come quel tizio che i posteri hanno chiamato Omero, passando per i bardi celtici e i trovatori medioevali, come quel bel tipo che se “fosse foco” farebbe cose alquanto discutibili.



Adesso però non fatevi l’idea che bisogna declamare epiche odissee o “mozzare capi a tondo” per fare i basker al giorno d’oggi. Gli attuali artisti di strada si sono specializzati in cose molto più terra terra anche se non per questo prive di fantasia. L’unico limite alla loro arte. C’è chi disegna sul pavimento, chi fa musica con strumenti tradizionali o con qualsiasi altra cosa che tu non penseresti mai che si possa suonare, chi compie acrobazie sopra un filo e chi tira fuori scintillanti alberi di natale da un cappello a cilindro. Conigli sarebbe troppo banale.
“Nel nostro mondo c’è di tutto e di più - mi racconta R.P., uno che, tanto per non restare terra terra, lievita vestito da bonzo attorno ad un bastone -. Pochi lo fanno per lavoro o per soldi. La motivazione più frequente è sempre quella del divertimento. Ci piace stupire la gente”. Nei festival importanti, come quello di Ferrara o nella Notte Verde recentemente svoltasi a Venezia, si arriva per invito. Il Comune non spende niente, se non nell’organizzazione e nella promozione dell’evento. Le esibizioni nei Comuni più piccoli che intendono promuoversi a livello turistico invece, il busker riceve una diaria concordata in anticipo. “Noi comunque preferiamo sempre i grandi festival o le piazze più importanti per esibirci - continua R.P. - Venezia ad esempio si è rivelata una città entusiasmante. Teniamo anche presente che le calli e i campi di questa città sono palcoscenici naturali. Oltre al calore degli spettatori è stato significativo l’interesse dimostratoci dai gestori dei bar e dei ristoranti. Abbiamo ricevuto molte proposte per tornare ad andare in scena davanti ai loro locali. Molti si sono offerti di pagarci le spese e di darci pure un contributo. Peccato che, a Venezia, non si possa fare”.
Già. Perché a Venezia gli artisti di strada non possono esibirsi? Qui bisogna tornare indietro nel tempo di una quindicina di anni, sino al ’98 quando il Comune varava un primo regolamento degli artisti di strada. Ma era un regolamento che non regolamentava niente, scritto ben prima dell’organizzazione dei grandi Busker Festival come quelli di Ferrara e Bologna. Un regolamento anticipatore per certi versi ma che nei fatti apriva indiscriminatamente le porte della città a tutti coloro che ben poco avevano a che fare con l’arte di strada. Le esibizioni condotte senza criteri, senza regole e senza limiti di orario e di luogo, causarono molte proteste da parte dei residenti che condussero all’abolizione del sopraccitato regolamento e, nei fatti, alla chiusura della città anche ai veri basker.
Adesso anche per Venezia è arrivato il momento di voltare pagina. Questa estate partirà una sperimentazione che, ci auguriamo, porterà alla stesura di un nuovo e più efficace regolamento. Quali saranno le novità? Innanzitutto la partecipazione attiva della Fnas, la già citata Federazione Nazionale Artisti di Strada, che si occuperà di selezionare i busker che faranno domanda per esibirsi nelle nostre calli e nei nostri campielli, provvedendo che lo spettacolo sia adatto alla zona e non disturbi i residenti. Ci sarà una turnazione settimanale degli artisti per far variare lo spettacolo offerto. Le aree e gli orari inoltre, stabiliti su specifiche tabelle indicate dal Comune, saranno fissi per evitare abusivismi. Non un permesso per esibirti dove vuoi quindi, ma un permesso per quel giorno, da quell’ora a quell’ora, in un determinato posto e per un genere di spettacolo già stabilito e conforme al luogo.
Il ritorno dei basker nella laguna dei dogi contribuirà a riportare un po’ verve nella fin troppo statica vita sociale delle calli veneziane? Questo lo vedremo meglio dopo la sperimentazione, quando sarà il momento dei bilanci. Adesso prepariamoci a sognare con gli artisti di strada. Un mondo dove può succedere di tutto. Anche di trovarci Sting che suona col volto nascosto da un cappello a larghe falde. Quando lo fece al Busker Festival di Edimburgo guadagnò 40 sterline. Chissà che a Venezia tiri qualche soldino di più! Oppure potremmo scoprire che quel musicista che suona con l’acustica Glory Days è proprio il Boss. Bruce Springsteen non è nuovo a questi mascheramenti anche se, al contrario del suo collega inglese, lui non mette mai il cappello per terra. Dice che guadagna già abbastanza con i dischi. Restando al panorama musicale italiano, non dimentichiamoci di Claudio Baglioni e di Edoardo Bennato che non sono nuovi a simili performance di strada. Nel caso di Bennato, va detto che il cantautore del Burattino senza fili non si era neppure camuffato. Lui non era vestito da basker, rispose ad un giornalista curioso. Lui era un basker. Non soldi ma spintonate, insulti e denunce fu quanto ottenne invece lo sventurato Biagio Antoniacci quando provò a suonare camuffato da ambulante nella metropolitana di Milano. Invece del pubblico plaudente arrivarono dei carabinieri assai poco inclini alle grazie di Euterpe, che senza farvi andare a cercare su Wikipedia vi dico subito che è la musa della musica. Speriamo che a Venezia questo non succeda. Anche per il povero Antoniacci. E anche grazie al nuovo regolamento.
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