In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Quella che va in scena in Qatar non è la festa del calcio ma del capitalismo fossile

La giornalista argentina Dominique Metzger è rimasta esterrefatta quando negli uffici della polizia dello sceiccato – nell’ala riservata alle donne, ovviamente, perché da queste parti tutto è rigorosamente diviso per genere! – gli agenti le hanno chiesto come voleva che fosse punito il borseggiatore che le aveva rubato il portafogli. “Io sono rimasta a bocca aperta: mi hanno chiesto se volevo che il tribunale lo condannasse alla prigione, se dovevano espellerlo dal Paese (il ladruncolo era un immigrato.ndr) o che altro. Ho risposto che mi bastava riavere il mio portafogli”. L’incredibile di questa vicenda, come ha sottolineato la collega in un suo post sui social, è che la polizia credeva di farle un favore, di mettersi in bella mostra con una giornalista straniera. Una giornalista che magari nei suoi articoli avrebbe sottolineato come nel Qatar la giustizia funzionasse egregiamente! La paradossale vicenda, al contrario, testimonia solo come nello sceiccato la parola “diritti” non abbia semplicemente nessun significato. Le terrificanti condizioni in cui i lavoratori migranti sono tenuti da schiavi nelle aziende e nelle case dei padroni qatariani sono solo una diretta conseguenza di questa totale assenza di diritti mescolata ad un bel po’ di razzismo nei confronti dello straniero. 

Le associazioni per i diritti umani hanno denunciato la morte di 6500 lavoratori, per lo più indiani, nepalesi e bangla, per la realizzazione di questo Mondiale di sangue. Le autorità del Qatar hanno risposto che i decessi sarebbero “solo” 35, mentre gli altri decessi sarebbero dovute a non meglio specificate cause naturali. Cause naturali come quel disgraziato che è schiattato in camerata dopo turni di lavoro di 20 ore sotto il sole del deserto E la Fifa ci ha pure creduto. O ha preferito far finta di crederci. Ma siano più di seimila o “solo” una trentina, è innegabile che il rispetto dei diritti umani – per non parlare di quelli delle donne! – abbiano ancora un lungo percorso da fare prima di essere presi in considerazione in questo Paese.

La domanda allora è questa: perché assegnare i Mondiali di calcio proprio al Qatar? La risposta è semplice: per i soldi. Tanti, tanti soldi. Questo che sta andando in scena nel Paese degli sceicchipasserà alla storia come il mondiale delle bustarelle e degli investimenti miliardari. Che il calcio non fosse più solo passione e pallone, ma un giro d’affari da… sceicchi lo avevamo capito da tempo. Il Qatar si è solo inserito nell’andazzo generale investendoci denaro a badilate. Non ha dovuto faticare più di tanto a far “dimenticare” ad una Fifa che gli manco solo di quotarsi in borsa, i lavoratorimorti ammazzati nella costruzione degli stadi e pure a far spostare spostare i calendari dei campionati di tutto il mondo perché, sotto il sole del deserto, si può giocare solo a Natale. E anche a proibire, pena espulsione immediata, una semplice fascia arcobaleno attorno alla braccia del capitano. 

E’ cominciato così il Mondiale più ricco di tutti i tempi. Secondo il sito Money – che di soldi se ne intende! – la Fifa incasserà per l’intera kermesse la bellezza di 6,5 miliardi di dollari. Tanto per fare un esempio, l’ultimo Mondiale ha portato nelle casse della federazione “solo” 4 miliardi di dollari. E poi, ci sono gli indotti per le nazionali partecipanti, anche questi in forte crescita, gli sponsor, i diritti televisivi, il marketing come la vendita dei biglietti e dei gadget. 

“In totale – leggiamo su Money – l’evento muoverà qualcosa come 17 miliardi di dollari, più o meno il costo di una manovra finanziaria!” E continua: “Di fronte a queste cifre, ecco che organizzatori e Federazioni hanno chiuso più di un occhio sulle accuse piovute negli ultimi anni sul Qatar”. 

Insomma, anche se sul campo prenderà – come mi auguro – una vagonata di gol, la nazionale del Qatar il suo Mondiale lo ha già vinto: quello dei soldi. Quello del greenwashing invece, Il Qatar se lo sta giocando con la Cop egiziana, tanto per ricordare un altro Paese dove i diritti umani sono carta straccia. 

L’ambiente infatti è la seconda vittima sacrificale di questo Mondiale.

I colleghi giornalisti che stanno seguendo le partite non hanno potuto esimersi dal partecipare ai tour organizzati dalle autorità del Qatar che gli ha fatto ammirare pannelli fotovoltaici ultimo modello, eleganti auto elettriche ed altre meraviglie tecnologiche per dimostrare quanto il loro Paese sia “verde”. Nei comunicati ufficiali, il Qatar fa un gran vantarsi di aver compensato tutte le sue poche emissioni con i famosi crediti di C02. A parte tutte le critiche che potremmo fare sul sistema delle compensazione, viene facile immaginare come uno Stato che è una cassaforte di dollari e un pozzo di petrolio, come il Qatar, non faccia nessuna fatica ad acquistare crediti dai Paesi messi alla fame da quegli stessi dollari e petrolio. Ma anche a voler accettare il discutibile sistema delle compensazioni, la pretesa dei qatariani che si vantano di aver organizzato il primo mondiale neutrale dal punto di vista delle emissioni è una balla stratosferica. Basta pensare ai sette  super stadi costruiti ex novo con tanto di infrastrutture a sostegno, il mantenimento del manto erboso sotto il sole del deserto che richiedono oltre 10mila litri d’acqua al giorno, i semi fatti arrivare dagli Stati Uniti in contenitori a climatizzazione speciale. 

Wired, in un capitolo dal chiaro titolo “Specchietto per le allodole” ha spiegato che il Mondiale del Qatar “in totale produrrà circa 3,6 milioni di tonnellate di anidride carbonica, secondo il rapporto ufficiale della Fifa sulle emissioni di gas serra. Si tratta di 1,5 milioni di tonnellate in più rispetto alla precedente edizione in Russia del 2018”.

Il fatto è che i “conti” sulle emissioni li hanno tirati giù gli sceicchi, utilizzando evidentemente lo stesso pallottoliere con il quale quantificano i diritti umani e i morti sul lavoro, senza che nessun organismo terzo ci abbia potuto metter mano. “Gli organizzatori – sottolinea sempre Wired – hanno creato un proprio sistema, chiamato Global carbon council, sollevando preoccupazioni in merito alla trasparenza e alla legittimità.”

Anche associazioni come Carbon Market Watch hanno evidenziato tutte le manchevolezze delle ottimistiche dichiarazioni degli sceicchi sulle reali emissioni del Paese: ”L’indagine che abbiamo condotto sulle prove a disposizione getta seri dubbi su queste affermazioni, che probabilmente sottostimano i veri livelli di emissioni e l’impatto climatico del torneo”. Soltanto le emissioni imputabili alla costruzione degli stadi, secondo Carbon Market Watch, sarebbero sottostimate di almeno di otto volte.  

In altre parole, il Qatar se ne frega dell’ambiente pressapoco come se ne frega dei diritti umani. Il che non impedisce che anche il nostro Paese, ci faccia dei gran affari. Anche grazie ai Mondiali, lo scambio commerciale dell’Italia verso il Qatar ha registrato nei primi otto mesi dell’anno in corso, un aumento del 140% rispetto agli stessi mesi del 2021, raggiungendo i 4 miliardi di dollari. Esportiamo abbigliamento di alta moda, pregiati prodotti alimentari, macchine e soprattutto… armi! Voce questa che nei bilanci viene sempre etichettata col termine di “ tecnologia di difesa”! Tanto per non farci mancare la giusta dose di ipocrisia.  Ma se l’Europa questo inverno potrà rimanere al caldo dei termosifoni, ha spiegato l’Aie, Agenzia internazionale dell’energia, lo farà soprattutto grazie alle esportazioni di gas e di petrolio dal Qatar. Questo è anche il motivo per il quale, al di là di qualche ammirevole presa di posizione individuale – come la nazionale tedesca i cui giocatori si sono fatti fotografare con le mani davanti alla bocca -, i Governi europei si sono ben guardati dall’esprimere severi giudizi o dal prendere drastiche prese di posizione su questo Mondiale della vergogna. Italia compresa che, tramite l’ambasciata di Doha, ha inviato i migliori auguri alle autorità qatariane per la riuscita di questo Mondiale modello rammaricandosi solo di non poter essere presente con la nostra nazionale. 

Mondiale che, come avrete intuito, col calcio, perlomeno con quel calcio che ci aveva fatto innamorare da ragazzini, non ha più niente a che fare. Ce lo spiega, efficace come una sua indimenticabile pedata, una leggenda del calcio, quello vero: Éric Cantona. “Siamo onesti: questa Coppa del Mondo non ha senso! Peggio ancora, è un abominio! Il Qatar non è un Paese di calcio! Non c’è fervore, non c’è sapore. Un’aberrazione ecologica, con tutti gli stadi climatizzati. Che follia, che stupidità! Ma soprattutto un orrore umano, con migliaia di morti per costruire questi stadi che serviranno solo per divertire il pubblico presente per due mesi. L’unico senso di questo evento – e lo sanno tutti – è il denaro!” 

Dopo il lavoro, i diritti, la socialità e l’ambiente, il capitalismo si è mangiato anche il pallone.

Una Cop al gusto di Coca Cola

Domenica 6 novembre, nella soleggiata e vacanziera Sharm El Sheikh, andrà in scena la Cop più inutile di sempre. Ribaltando la questione, potremmo anche affermare che sarà la Cop più utile di sempre perché rivelerà agli occhi del mondo il fallimento di queste grande conferenze salvifiche che, se avevano un senso all’inizio – quando il capitalismo giocava in difesa e si limitava a negare i cambiamenti climatici – oggi che il capitalismo gioca all’attacco rischiano di rivelarsi addirittura controproducenti perché tentano di  mascherano il focus del problema, che è sempre e solo quello di uscire dai fossili e quindi cambiare il nostro modo di vivere e il nostro sistema economico. Quello che bisognerebbe fare per rimanere dentro i famosi limiti suggerirti dall’accordo di Parigi è chiaro a tutti. Il problema è che i Governi non lo vogliono, o non lo possono, fare. 

Ricordiamo che l’accordo di Parigi, nella cop 21, poneva l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature sotto i 2° C rispetto all’era preindustriale, impegnandosi per rimanere prudentemente dentro il grado e mezzo. Oggi, all’apertura della Cop 27 in Egitto, l’obiettivo prudenziale del grado e mezzo è già andato a farsi benedire da un pezzo. E anche l’aumento di soli due gradi è lontano. Il Rapporto sul Divario, (Gap) che l’Agenzia per l’Ambiente dell’Onu compila ogni anno per monitorare l’efficacia degli impegni delle nazioni del mondo sulla questione del cambiamento climatico, indicano un probabilissimo aumento della temperatura di almeno 2,8° C entro la fine del secolo. “Il fatto è che la crisi climatica richiederebbe una rapida trasformazione delle società – scrive il meteorologo Luca Lombroso -. Sono necessari infatti enormi tagli delle emissioni di gas serra entro il 2030: il 45% rispetto per arrivare a 1,5°C e il 30% per stare entro 2°C. Esistono soluzioni per trasformare le società, ma è giunto il momento di un’azione collettiva e multilaterale”. Vien da chiedersi se questa azione collettiva e unilaterale invocata dall’ambientalista possa venire da una Cop targata… Coca Cola! Proprio così. Il colosso multinazionale della celebre bibita frizzate sarà lo sponsor degli incontri di Sharm El Sheikh! 

“Sono stata una delegata alla Cop 26 di Glasgow – ha raccontato la scienziata ed ambientalista londinese Georgia Elliott-Smith  — Quasi tutti i giorni mi sentivo disperata, alcuni giorni piangevo. L’infiltrazione delle multinazionali nella conferenza era nauseante: i CEO delle aziende più grandi inquinanti del mondo riuniti, a fare pressioni sfacciate sui politici per proteggere i loro interessi e gonfiare i loro profitti. Quest’anno è anche peggio: la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha annunciato che Coca-Cola sarà lo sponsor aziendale della conferenza globale sul clima, Cop 27”. L’ambientalista inglese ha lanciato una petizione contro questa operazione di sfacciato greenwashing che ha ottenuto quasi 300 mila firma ma senza per questo riuscire ad annullare la suddetta sponsorizzazione. 

Non c’è niente da fare: inquinatori e petrolieri continueranno a farla da padroni anche a Cop 27 e i Governi dovranno mediare le loro richieste con quelle degli scienziati e degli ambientalisti.

D’altra parte, anche le aspettative degli ecologisti sono assai basse su una Cop come questa che non fa neppure notizia. In discussione ci sono solo alcune procedure burocratiche e non si parlerà di ulteriori limiti alle emissioni o, men che meno, di impegni vincolanti per i Governi. Il nostro Governo poi, andrà a  Sharm El Sheikh solo per “fare il tifo per il clima che cambia”, come titola l’Huffington Post. Dopo dieci anni di assenza, un premier italiano – la nuova presidente (declinato al femminile, toh!) del Consiglio, Giorgia Meloni – parteciperà ad una Cop ma soltanto per sostenere la necessità di rallentare l’uscita dalle energie fossili. Come dire che era meglio se restava a casa. 

Il fatto è che, come abbiamo scritto in apertura, il capitalismo ha imparato a giocare d’attacco. Nessuno oggi nega la necessità di contrastare i cambianti climatici ma la risposta che viene data è che bisogna tener conto della guerra, della crisi economica, delle bollette, della pandemia, dei rave party (questo solo in Italia) e della sacra difesa dei confini nazionali… Tutte questioni che, in analisi, dovrebbero spingerci ad agire ancora più drasticamente verso un rapido cambio di rotta perché sono tutti problemi legati al clima e all’energia, ma il gioco del capitalismo è ancora quello, dividi et impera, di negare ogni correlazione tra di loro e usarle come scusante per rimandare ogni azione. 

Eppure, dovremmo chiederci tutte e tutti, è possibile intraprendere un serio percorso che ci porti ad uscire dal capitalismo fossile senza rispettare i diritti, la democrazia e la libertà? Correttamente, gli ambientalisti parlano di “giustizia climatica” perché, senza giustizia sociale, l’ambientalismo è solo giardinaggio. 

Non è quindi nemmeno un caso se questa disgraziatissima Cop 27 si svolgerà in una Paese che i diritti umani non li ha mai presi seriamente in considerazione. L’Egitto è uno Stato di polizia. Anche senza voler ricordare la tragica vicenda di Giulio Regeni, nelle sue carceri sono rinchiusi e seviziati almeno 60 mila prigionieri politici. L’associazione Human Right Watch ha denunciato alla Bbc che nelle prigioni egiziane le torture vengono praticate in maniera sistematica e organizzata seguendo una vera propria “catena di montaggio”. 

Eppure i potenti della terra che andranno a Sharm El Sheikh, stavolta non per una vacanza o per fare immersioni, ma per un vertice internazionale, fingeranno di ignorare tutto questo e applaudiranno qualche pannello fotovoltaico che gli organizzatori del summit mostrerà loro. Agli ambientalisti, anche a quelli internazionali, è vietato fare domande scomodo ed anche organizzare manifestazioni perché il regime ha paura che si trasformi in una protesta contro il premier Abdel Fattah al-Sisi. “L’Egitto di Al-Sisi ha messo su un grande spettacolo di panelli fotovoltaici e cannucce biodegradabili, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Gli ambientalisti non dovrebbero stare al gioco” scrive sul Guardian Naomi KleinGreta Thunbergl’ha presa in parola e, per la prima volta, ha scelto di rimanere a casa. 

Addirittura, per proteggere le attiviste e gli attivisti che scenderanno a Sharm nei giorni del vertice, la rete Climate Legal Defense ha approntato una speciale assicurazione, dei numeri di emergenza ed una guida per difenderli da eventuali imputazioni legali. Assicurazione che sarà utile soprattutto a chi viene dai Paesi africani come la Nigeria. Paesi che sono i primi a pagare gli effetti dei Cambiamenti Climatici ma ai quali l’Egitto non darà nessuna voce. “L’Africa contribuisce solo al 4% alle emissioni globali di gas serra contro il il 19% degli Usa e il 13% dell’Unione Europea – spiega al Fatto Quoitidiano l’attivista Goodness Dickson dei Fridays for Future della Nigeria, uno dei tanti che non potrà esserci al vertice perché l’Egitto non gli ha fornito il pass di partecipazione – eppure siamo noi a pagarne gli effetti. Un milione di persone sono rimaste senza casa a causa delle inondazioni che continuano a ripetersi. Non distruggono solo gli edifici, ma anche i campi e i raccolti, ci portano alla fame, alla carestia ed a migrare in altri Paesi. Mi chiedo, perché non possiamo far sentire la nostra voce alla Cop?” 

Con Dickson sono rimasti fuori della porta come sgraditi ospiti tantissimi ambientalisti africani. Vuoi per motivi economici (gli hotel a Sharm costano un occhio fuori della testa), vuoi per motivi politici. Il risultato è che non ci sarà nessuna rappresentanza di attiviste e attivisti provenienti da Congo, Sudafrica, Tanzania, Mali, Marocco Somalia e altri Paesi africani. Non è solo colpa dell’Egitto. Molti, pur avendo ottenuto i documenti e racimolato il denaro grazie a Ong europee, sono stati costretti  a rinunciare al viaggio per paura di ritorsioni nei confronti delle loro famiglie o di essere imprigionati una volta tornati a casa. 

“Vale più l’ambiente o la libertà? – Si chiede il giornalista Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter ‘Il Colore Verde’ -. La battaglia per sistemare il clima del pianeta, per salvare vite umane, animali e vegetali… può fare a meno dei diritti e della democrazia? Secondo me no. Tra l’ambiente e la libertà, io risponderò sempre ‘la libertà’, ben consapevole di indispettire molti e far arrabbiare chi cerca realismo e concretezza dei risultati. Il cambiamento climatico non è un fatto tecnico-scientifico: è anche politica, economia, società, idee, paure e sogni. Non esiste giustizia climatica senza democrazia”. 

La siccità tra cambiamenti climatici e quotidiane emergenze

Mai così a secco. Il centro e il sud d’Italia sono in allarme rosso. Le Regioni del nord sono già al collasso e si concretizza sempre di più l’ipotesi di un razionamento idrico senza precedenti in queste proporzioni e in aree così vaste. Ma per il Governo la colpa è tutta delle avverse condizioni atmosferiche e di cambiamenti climatici, il ministro della (non) transizione ecologica, Roberto Cingolani, non vuole proprio sentir parlare, impegnato com’è a cercare petrolio e gas, ed a rallentare il passaggio alle rinnovabili. Più comodo invocare l’”emergenza”, concetto utilissimo per giustificare tutti i mancati interventi che ci hanno portati al disastro. E pazienza se il trend era giù intuibile dalle sempre più frequenti siccità che hanno attanagliato il Paese negli ultimi anni, come quella del 2003 o del 2017. I media danno ampio spazio alle preoccupazioni – reali – degli agricoltori, alle dichiarazioni – discutibili – di politici più avvezzi ad agitare paure immaginarie che ad affrontare problemi veri, e ad arcivescovi, come quello di Milano, che fanno il loro mestiere e si affidano alla misericordia divina. 

Sono pochi i media che hanno ricordato come, secondo gli esperti, questo sarà l’anno più fresco dei prossimi 30 anni, che con siccità come questa, o peggio, dovremmo imparare a convivere perché saranno sempre più frequenti, e che l’unica “emergenza” di cui abbia senso parlare sia quella climatica. Emergenza che deve essere affrontata proprio all’opposto di come la sta affrontando il Governo: uscendo, il prima possibile ed a tutti i costi, da una economia basata sui combustibili fossili. 

Eppure si continua a parlare di “emergenza siccità”, nonostante già dalla fine del 2021 un rapporto dell’Unione Europea avesse messo in guardia il ministro Cingolani sull’arrivo di questa ecatombe estiva. Il fatto che ancora oggi le preoccupazioni del ministro, sottolineate nelle sue ultime dichiarazioni alle agenzie, siano tutte per il funzionamento delle centrali – “Speriamo che almeno questo problema migliori presto” – dimostra ancora una volta la sua lontananza dall’aver capito, o dal voler affrontare, il nocciolo del problema. 

Questa siccità altro non è che la dimostrazione che abbiamo perso la battaglia per il clima e che è il momento di pensare realisticamente a varare politiche di mitigazione. Il che ovviamente, non significa che non bisogna continuare a lottare contro le lobby del fossile. Il futuro – se ci sarà, un futuro – dell’umanità sul pianeta terra non è ancora scritto. Ma anche nelle migliori delle ipotesi, indietro non si torna più. Troppi sono gli obiettivi che abbiamo mancato. 

Proprio per questo, oggi, più di ieri, non sono più accettabili proposte di privatizzazione di un bene prezioso come l’acqua. Giusta la proposta di Europa Verde e di Sinistra Italiana di abolire l’articolo 6 dal decreto Concorrenza che permette di fatto ai Comuni di privatizzare le reti idriche, bypassando il risultato del referendum. L’Italia, ricordiamocelo, è il Paese con la maggiori risorse idriche dell’Europa. Nel nostro territorio scorrono 7 mila 594 corsi d’acqua e sboccano oltre un migliaio di falde sotterranee che sarebbe bene tutelare e non inquinare, come è stato con i Pfas. Ma le infrastrutture sono obsolete, molte risalgono al dopoguerra. Dal 1996, al tempo della legge Galli, il settore è stato privato di tutti i finanziamenti, appositamente per portare avanti una politica di privatizzazione che il referendum ha allontanato ma non ancora sconfitto. 

Il risultato dei mancati finanziamenti su un settore vitale come quello idrico, lo stiamo vedendo in questo giorni. La nostra rete idrica lunga circa 600 mila chilometri, accusa una perdita di circa il 42 per cento, conto una media europea dell’8 per cento. Uno spreco inaccettabile. Questo è un capitolo su cui bisogna intervenire con urgenza e non basta la miseria di 900 milioni stanziati dal Pnrr. Non solo. Dobbiamo capire che la siccità si combatte anche lottando contro l’inquinamento dei fiumi, fermando le urbanizzazioni e la cementificazione del territorio, responsabili dell’impermeabilizzazione del terreno, causa prima dell’impoverimento e dell’abbassamento delle falde, favorendo una agricoltura sostenibile e non intensiva.

Non è una emergenza, questa siccità, ma una conseguenza di tutto quello che non abbiamo fatto per fermare i cambiamenti climatici o per difendere l’ambiente dalle speculazioni. Se cadiamo nell’errore di addossarne la colpa alle “avverse condizioni meteorologiche”, tanto vale fare come l’arcivescovo di Milano ed affidarci all’aiuto di dio. Così stiamo freschi anche senza bisogno del condizionatore. 

Foto di copertina: il fiume Isonzo a Gorizia durante un periodo di secca T137

Guerra e pace (e clima)

La Sardegna è presa d’assedio da una esercitazione Nato condotta in clima di guerra mentre le compagnie petrolifere fanno affari d’oro e dei cambiamenti climatici non se ne parla più

Il primo a dare la notizia è stato l’Unione Sarda. Giornale non propriamente di sinistra ma che aveva il vantaggio di giocare in casa e l’onestà di indignarsi proprio come un quotidiano che parla alla gente deve fare. Ben diciassette aree marine sarde, per lo più nel cagliaritano, sono state improvvisamente prese d’assalto da un esercito di 4mila soldati, 65 navi militari tra cui una portaerei Usa, con contorno di elicotteri, carri armati e mezzi anfibi. L’operazione targata Nato e battezzata Mare Aperto è scattata all’improvviso, senza nessun avvertimento alla popolazione dell’isola. Proprio in giorni come questi in cui la Sardegna sta rilanciando la sua offerta turistica, dopo i duri tempi della pandemia. Semplicemente, l’Alto Comando della Nato ha improvvisamente deciso di giocare alla guerra e ha ordinato, senza nessun preavviso, alla Capitaneria di Porto di interdire ai “civili” l’ingresso alle coste e alle aree di mare segnalate.

La Capitaneria non ha potuto far altro che obbedire. Se è vero che la Sardegna è sempre stata utilizzata come un grande poligono di tiro dall’esercito – complice anche la sua bassissima densità – è anche vero che esercitazioni di questa portata, con eserciti di ben sette Paesi, non ne erano mai state fatte negli anni precedenti e, in ogni caso, tutte le operazioni venivano comunicate con largo anticipo. Ma siamo in guerra. E in guerra tutto è permesso. 

Nel  giornale di venerdì 13 maggio, l’Unione Sarda ha denunciato in un articolo intitolato: “Blitz militare: Sardegna circondata”: ”Non bastavano i 7.200 ettari del Poligono di Teulada i 12.700 di Perdasdefogu e i 1.200 di Capo Frasca, la più imponente esercitazione militare mai messa in campo nel mare di Sardegna e nei poligoni sardi si estenderà anche in aree che non hanno mai avuto niente a che fare con le servitù militari. E non sarà una passeggiata”.”. Sempre l’Unione cita espressamente Venezia chiedendosi se una simile operazione militare che scavalca ogni logica di tutela ambientale e di conservazione, sarebbe stata possibile nella laguna dei Dogi. Da veneziano, posso rispondere ai colleghi sardi: “Sì, purtroppo. Nella laguna hanno fatto anche di peggio”. Ma non questo il punto. Il punto è la catastrofe climatica. 

A dirlo stavolta è l’Onu. Lo scorso anno, ha avvertito l’Omm, l’organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, ben 4 indicatori chiave dei cambianti climatici hanno toccato dei record che definire “preoccupanti” è prenderli sottogamba. Si tratta delle concentrazioni di gas serra, dell’innalzamento del livello del mare, dell’acidificazione e del riscaldamento degli oceani. Tutti avvertimenti che “Il sistema energetico globale è rotto e ci avvicina sempre più alla catastrofe climatica”, come si legge nell’ultimo rapporto. L’unica speranza è: “porre fine all’inquinamento da combustibili fossili e accelerare la transizione verso le rinnovabili, prima d’incenerire la nostra unica casa”.
Ma la guerra sta spingendo l’umanità verso una direzione completamente opposta. 

Guerra e pace, si sa, sono agli antipodi. Esattamente come guerra e clima. E questo per almeno due motivi. Il primo è che per affrontare un problema complesso come la crisi climatica, servono diplomazia, tavoli di trattativa, un forte spirito di collaborazione internazionale. Tutte cose che i conflitti armati mandano a catafascio. La seconda è che tutte le soluzioni di “emergenza” per affrancarsi dal gas russo prevedono l’utilizzo, anzi, l’implemento proprio dei combustibili fossili. In altre parole stiamo finanziando esattamente quel modello economico che dovremmo superare. Non è certo un caso se i profitto delle multinazionali petrolifere siano schizzati in alto da quando è cominciata la guerra tra Russia e Ucraina. Nei primi tre mesi dell’anno la Shell, tanto per fare un esempio, ha realizzato profitti record: 9,1 miliardi di dollari, quasi tre volte rispetto al primo trimestre del 2021. 

Felicissimo Ben van Beurden, amministratore delegato della compagnia, che ha spiegato al New York Times come i recenti avvenimenti abbiano dimostrato come il petrolio rimanga “l’unica energia sicura, affidabile e conveniente”, sottolineando come nessuno oggi possa mettere in discussione che “l’economia globale sia costruita soprattutto sui combustibili fossili”. Tesi dimostrata anche dal prezzo del gas, che nel corso del 2021 ha intrapreso un  trend crescente di cui non si vede la fine, passando in Italia dai 18 euro per MWh di marzo ai 116 euro per MWh di dicembre 2021. Trend che fa la felicità dei suoi (pochi) azionisti e la disgrazia del resto dell’umanità perché al prezzo del gas è legato il costo del cibo. Fame e carestie stanno già ammazzando più della guerra in Ucraina nelle aree più povere del pianeta. Qui, dalla parte ricca della frontiera, ci si limita, per ora, a veder crescere le percentuali di chi vive sotto la cosiddetta “soglia di povertà”. 

E poi c’è anche un’altra questione per cui guerra e giustizia climatica non vanno proprio d’accordo. Ed è l’aspetto comunicativo. In guerre la prima vittima è la verità e l’unica regola la distrazionedai problemi veri. Questione come il gas e il petrolio vengono utilizzate come arma per farti odiare il nemico. Se la bolletta sale, il colpevole è Putin. Il problema delle emissioni climalteranti dei combustibili fossili che continuiamo ad utilizzare come e più di prima, non sono nemmeno dentro l’agenda politica dei mesi a venire. Così come un deciso passaggio alle alternative rinnovabili. In guerra si pensa solo alla guerra. Ridicolo persino pensare alle cosiddette “buone pratiche individuali”, tipo la differenziata spinta o la dieta vegana, che pure – se certo non bastavano a salvare il pianeta – in qualche modo erano utili a diffondere la consapevolezza che viviamo tutte e tutti sullo stesso pianeta Terra e che la tutela globale dei beni comuni è fondamentale per costruire un futuro sostenibile per l’umanità. Ma oggi? Perché qualcuno dovrebbe sbattersi a girare in bicicletta quando un paio d’ore di volo di uno solo di quegli aerei che stanno giocando alla guerra sopra la testa dei sardi, brucia più carburante di tutto quello che potrebbe bruciare lui nel resto della sua vita? Anche questo è guerra.

 

Foto di copertina. Copyright: Crown Copyright 2011, NZ Defence Force

Il 15 maggio l’Italia va a credito di sostenibilità ambientale

Immaginate di essere tra i fortunati ad avere uno stipendio fisso. Immaginate che il 10 del mese avete già speso tutto e vi tocca andare a credito. Ecco. Questo è esattamente quello che accadrà all’Italia domenica prossima, 15 maggio. Con l’aggravante che il debito del nostro Paese va ad aggiungersi ai già sostanziosi arretrati maturati negli anni precedenti. 

Per noi italiani domenica prossima scatta infatti quello che il Global Footprint Network ha chiamato l’Overshoot Day, traducibile come “il giorno del superamento”. Il giorno cioè in cui un Paese ha esaurito tutte le sue risorse  – da quelle idriche a quelle produttive, sino alle emissioni di gas serra —e deve andare a credito. “Se tutti si comportassero come noi italiani – ci avvisa Nicolas Lozito nella sua preziosa newsletter Il Colore Verde -, la Terra inizierebbe già da metà maggio a essere sfruttata oltre le sue capacità di auto rigenerarsi. Per essere considerati sostenibili ci servirebbero quasi tre pianeti”. 

Il Global Footprint Network è una organizzazione no profit indipendente con sedi negli Usa, in Svizzera e nel Belgio fondata nel 2003 con lo scopo dichiarato di promuovere la sostenibilità. Ogni anno pubblica un calendario degli Overshoot Days di tutti i Paesi del mondo che, seppure i criteri considerati non sia condiviso da tutti gli esperti, restituisce una visione abbastanza realistica di come stia andando (male) il pianeta. Anche la media mondiale – ovvero l’Overshot Day globale della terra -, al di là di tutti i proclami di “transizioni verdi”,  sta arretrando sempre più negli anni. Nel 2014, cadeva il 19 agosto, nel 2015, il 13 dello stesso mese. Nel 2016, l’8 agosto. Il 2 agosto, l’anno successivo. Solo nel 2020, complice la pandemia mondiale, la scadenza si è spostata più avanti, in controtendenza, il 22 agosto, ma stiamo recuperando in fretta! 

Quest’anno la data non è ancora stata annunciata ma dovrebbe attestarsi tra qualche giorno prima del 29 luglio. Come dire, che stiamo correndo verso il baratro. E stiamo accelerando!

Interessante anche l’hit parade dei Paesi più sostenibili. La classifica è guidata dalla Giamaica che quasi quasi ce la fa a completare l’anno (il suo Overshoot Day scade il 20 dicembre). Seguono l’Ecuador, l’Indonesia e Cuba. In maglia nera il Quatar che non va più in là del 10 febbraio. Poco più indietro troviamo il Lussemburgo, il Canada, gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi. 

Anche se possiamo discutere sui parametri utilizzati dal Global Footprint, non ci sono dubbi che questo utilizzo di risorse di non rinnovabili, sia una questione di fondamentale importanza per il futuro dell’umanità sul pianeta e che abbia ricadute non solo nell’ambiente ma anche nella società, nell’economi e nella politica mondiale.

Concludiamo con una osservazione del noto filosofo della scienza Telmo Pievani pubblicata su La Lettura del Corriere“La conseguenza più pericolosa è che il consumo crescente di risorse non rinnovabili come carbone, petrolio e gas aumenta la dipendenza da Paesi inaffidabili, fa lievitare i prezzi, destabilizza intere regioni, genera conflitti sempre più allarmanti. Si parla orma di insicurezza strutturale delle risorse e di insicurezza climatica. Rischiamo di pagare caro il trentennale ritardo nella transizione energetica”.

Donne e clima. Perché la battaglia per l’uguaglianza di genere è anche quella contro i cambiamenti climatici

 

Sono le donne a pagare il prezzo più alto dei cambiamenti climatici. Sono le donne a dover subire per prime le conseguenze delle inondazioni, della siccità e anche delle violenze e della guerre che la crisi climatica trascina inevitabilmente con sé. E sono sempre le donne, e in particolare quelle che vivono nei Paesi del sud del mondo, a dover fronteggiare in prima persona la scarsità di risorse alimentari di ecosistemi sempre più malati ed impoveriti per l’aumento della temperatura globale. 

“Sono molti i modi in cui il cambiamento climatico incide sulla vita di donne e ragazze – si legge in una ricerca dell’onlus Cesvi – . A cominciare dalla violenza di genere1 che aumenta nelle emergenze come cicloni, siccità, inondazioni o sfollamenti, e in contesti di risorse scarse: il compito di procurare alla famiglia acqua e legna infatti è affidato tipicamente alle donne e questo accresce esponenzialmente il rischio2. Anche le spose bambine sono un effetto collaterale del cambiamento climatico. Le famiglie ricorrono al matrimonio delle figlie ancora piccole come meccanismo di sopravvivenza3“.

Circa il 40% della popolazione mondiale, per un totale di oltre 3,3 miliardi di persone – si legge nell’ultimo rapporto dell’Ipcc – vive in Paesi altamente vulnerabili al cambiamento climatico.  Entro il 2030, l’aumento della temperatura globale potrebbe spingere sotto la soglia della povertà estrema altri 122 milioni4.

L’impatto dei cambiamenti climatici però non è lo stesso per gli uomini e per le donne – continua la ricerca del Cesvi – Queste ultime rappresentano il 70% dei poveri del mondo, 1,3 miliardi di persone, e dipendono in misura maggiore per il proprio sostentamento dalle risorse naturali5Nei Paesi a basso reddito il 50% delle donne è impiegato nel settore agricolo ma meno del 15% possiede la terra che lavora6“.

Non a caso, la stessa Un Women, il comparto dell’Onu dedicato alla parità di genere, ha voluto inserire questo 8 marzo nel più ampio ampio contesto della crisi climatica globale, sottolineando come la battaglia per fermare l’aumento delle temperatura non possa essere dissociata da quella per la parità di genere. 

La crisi climatica infatti, ha avuto come primo effetto quello di marginalizzare ancora di più le donne nei processi sociali. “Le donne nutrono il mondo eppure restano in gran parte escluse dai processi decisionali, dall’accesso a credito, servizi e tecnologie”, conclude la ricerca che ha raccolto una ricca serie di testimonianze di donne ai quattro angoli del mondo. 

Testimonianze come quella di Veronica Nerupe, allevatrice del villaggio di Nasuroi, in Kenya: ”Le bambine di 10, al massimo 12 anni, vengono promesse come spose a uomini adulti in cambio di bestiame. Le collane che portano al collo rappresentano la promessa della famiglia al futuro marito. Spesso una bocca in meno da sfamare è l’unica soluzione per salvare la figlia e il resto della famiglia dalla fame”

Foto Credits Roger Lo Guarro

1 – Climate Change and Gender based violence

2 –Why climate change fuels violence against women

3 – Addressing child marriage in humanitarian settings

4 – Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability,

5 – Women…In The Shadow of Climate Change

6 –Garantire sistemi alimentari sostenibili dipende dalla parità di genere

A Milano un Climate Camp per la giustizia climatica

Torna a fine settembre il Climate Camp, il campeggio delle attiviste e degli attivisti per la giustizia climatica. Dalla laguna, il Camp si sposta quest’anno a Milano per svolgersi in contemporanea con la Pre-COP sul clima, evento preparatorio della vera e propria Conferenza sul Clima che si terrà a Glasgow dal primo al 12 novembre 2021. “In 27 anni di esistenza, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non è mai riuscita a imporre un netto cambio di rotta in termini di emissioni climalteranti e contrasto alla crisi climatica - si legge nell’appello lanciato dalla Climate Justice Plateform -. Di fronte ai limiti della Conferenza delle Parti, abbiamo deciso di costruire uno spazio alternativo alla Youth COP e alla Pre-COP milanesi, un Climate Camp che si terrà a Milano dal 30 settembre al 3 ottobre”.
Il programma definitivo degli incontri, sarà diffuso in un’assemblea in programma domenica 12 settembre. A chiusura del Camp, sabato 2 ottobre, si svolgerà sempre a Milano una mobilitazione chiamata Climate March, alla quale parteciperanno “tutte le realtà impegnate nella lotta politica, ecologica, transfemminista e per la giustizia sociale”.

L’obiettivo della mobilitazione è quello di contribuire a costruire dal basso quelle azioni che i Governi intendono applicare solo a parole, evitando di affrontare l’unico cambiamento reale e necessario richiesto dalla situazione che stiamo vivendo: rinunciare cioè a quell’assurdità fisica che è il paradigma della “crescita infinita” e costruire una nuova economia sostenibile capace di portarci oltre il modello capitalista.

Un esempio tutto nostrano di questo agire ipocrita e gattopardesco, è il nostro cosiddetto Ministero della Transizione Ecologica. Ministero che di “ecologico” ha solo il nome. Proprio oggi, Roberto Cingolani in un suo intervento alla scuola di formazione di Italia Viva, ha definito gli ambientalisti dei “radical chic” che “sono parte del problema, peggio della catastrofe climatica”. Un insulto inaccettabile rivolto a tutto il pur variegato arcipelago ambientalista che ci ricorda tanto una divertente battuta della serie americana dei Simpson - “Maledetti ambientalisti! Sono loro che hanno rovinato l’ambiente!” - soltanto che quella del ministro non era una battuta.


A questo link, potete leggere l’appello del Climate Camp. Per prenotare il vostro posto in campeggio, cliccate qui.


A questo link si può prenotare il posto in campeggio. 

La Riforma della Giustizia è un colpo di spugna per i reati ambientali

L'appello delle associazioni per inserire l'ambiente nella lista dei reati che non possono essere oggetto di prescrizione come quelli di mafia

Cominciamo subito con qualche esempio. Se la cosiddetta “riforma della giustizia” fosse già stata tramutata in legge, un procedimento penale tutt’oggi aperto come quello sui Pfas che hanno avvelenato le acque di mezzo Veneto non sarebbe neppure cominciato. Ugualmente potremmo affermare per processi come quelli delle tante discariche tossiche trovate in Campania, come la Resit di Giugliano. Oppure quello denominato dalla stampa “Ambiente Svenduto” che ha portato alla condanna di eminenti esponenti della politica e dell’imprenditoria pugliese per i fatti dell’ex Ilva di Taranto. La lista sarebbe ancora lunga, ma ci fermiamo qua. Velocizzare i tempi della Giustizia ponendo tempistiche stringenti in materia di prescrizione in casi come i processi ambientali che, per loro stessa natura, implicano attente ed approfondite analisi tecniche e scientifiche, non di rado molto complesse, su dati e rilevazioni che non sempre si possono ottenere in tempi limitati significa, in poche parole, concedere l’improcedibilità a tutti - o quasi - i reati connessi all’inquinamento. Un bel regalo per le mafie ambientali, questo promosso dal Governo Draghi!
Il problema di base di questa pretestuosa riforma della Giustizia è che pretende di velocizzare i tempi dei processi senza affrontare il vero motivo che è causa di questa lentezza. Ovvero la scarsità di personale e di magistrati. Per non parlare del bassissimo livello di informatizzazione di questi uffici dove si procede ancora a timbri. Nel caso dei reati ambientali, questa deficienza è ancora più grave perché il nostro Paese non si mai dotato di un apparato logistico e scientifico davvero in grado di valutare i danni e le conseguenze dei tanti episodi di inquinamento, e di portare a giudizio gli inquinatori. Non ci fossero state le Mamme No Pfas a rivelare quanto accadeva nel vicentino ed organizzare presidi, manifestazioni ed a raccogliere puntuali dossier di denuncia, la Miteni, o chi per lei, sarebbe ancora là a riversare i suoi veleni nelle nostre falde acquifere.

Un appello al Governo perché inserisca nella Riforma anche i reati ambientali tra quelli che non possono essere oggetto di prescrizione, come i reati di mafia, di terrorismo, di traffico di stupefacenti e di violenza sessuale, è stato lanciato da Legambiente, Libera Contro le Mafie, Wwf Italia e Greenpeace. “La storia del nostro Paese è segnata da disastri ambientali che soltanto dopo l'introduzione nel Codice penale del delitto 452 quater (quello concernente il reato di disastro ambientale. ndr) sono oggi al centro di importanti processi - si legge nell’appello -. Per queste ragioni e per la complessità delle inchieste necessarie ad accertare la verità, chiediamo al governo Draghi e alle forze politiche che lo sostengono di inserire il disastro ambientale tra i reati per cui non sono previsti termini che ne determinino l'improcedibilità. Sarebbe una scelta di civiltà, fatta con la consapevolezza che ad essere in gioco sono l'ambiente in cui viviamo, la salute delle persone e la credibilità stessa della giustizia”.

Tra le forze politiche, a denunciare questo che hanno definito “un colpo di spugna per i crimini ambientali”, sono rimasti solo i Verdì che hanno sottoscritto l’appello delle quattro associazioni sopra citate. “I processi che riguardano i disastri ambientali e sanitari sono odiosi come quelli di mafia e non possono portare a una prescrizione senza che prima ne siano state accertate le responsabilità - ha dichiarato Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi-. Rischiamo un clamoroso passo indietro nella difesa dell’ambiente e di cancellare, nei fatti, il reato di disastro ambientale”.

Nessuna risposta è ancora arrivata dal Governo.

No, il piano Colao di “verde” non ha proprio niente. E’ il solito regalo alle mafie e alle lobby del cemento

Non è che se li sia dimenticati. E’ che proprio non gliene frega niente. I cambiamenti climaticinon fanno semplicemente parte del bagaglio di conoscenze di un economista rampante come Vittorio Colao, che si è formato lavorando nelle più importanti aziende private del Paese. Non ultima la Vodafone, di cui è stato per tanti anni amministratore delegato. 
Nelle tredici parole chiave del piano che ha presentato al Governo, l’emergenza climatica non e neppure menzionata.  Eppure dovrebbe essere questa la base su cui impostare una vera ripartenza, approfittando di un momento come questo in cui la pandemia ci ha dato l’opportunità di ridisegnare l’economia del Paese e di avviarla verso una vera sostenibilità, ambientale e sociale. Ed invece, i cambiamenti climatici non sono neppure stati presi in considerazione. “Ripartire”, per il comitato di esperti guidati da Colao, vuol dire semplicemente ricominciare tutto come prima. Anzi, più di prima, come a voler recuperare da un punto di vista finanziario, il tempo perduto. Altro non si trova in quelle pagine che una “Colaoata di cemento”, come qualcuno l’ha definita. Il solito pastone di grandi opere utili solo a chi le fa, inquinamenti e cementificazioni a man bassa, con le inevitabili mercificazioni di ambiente e di diritti a contorno. Il tutto, da condurre sotto la solita logica del commissariamento, delle leggi speciali e della deroga a tutte le norme di tutela ambientale e di garanzia di trasparenza degli appalti e delle concessioni. Eccola qua, la “ripartenza” del Governo Conte. Niente da dire: un bel regalo alle mafie! 
L’incredibile, è che si stia cercando di farlo passare come un piano di rilancio improntato su una forte valenza ecologista! Ma basta scorrere le pagine del rapporto per capire che le cosiddette “grandi opere strategiche” – quelle che hanno inquinato e devastato l’Italia non soltanto dal punto di vista ambientale ma anche della democrazia – godranno di una autostrada privilegiata che neppure la famigerata legge Lunardi – Berlusconi si sarebbe sognata di concedere, bypassando tutte le (poche) norme di tutela ambientale che ancora resistono. 
Anche il capitolo dedicato alla gestione del patrimonio artistico, storico e culturale, è un incubo ad occhi aperti perché il piano prevede l’azzeramento di tutte le procedure speciali di tutela. E non si tratta di un semplice errore. La commissione sapeva benissimo cosa faceva. Il problema, come abbiamo scritto, sta alla base. L’idea di “bene comune” non è mai entrata nei piani di studi, e nelle teste, dei manager da aziende private che hanno steso il piano. Arte, paesaggio, ambiente sono visti solo come strumenti, o merci se vogliamo, da valorizzare solo nella misura in cui si rivelano utili a far ripartire l’economia da rapina che “ladrava” prima e che vorrebbe “ladrare” ancora. La stessa economia che è stata non soltanto la causa del problema ma il problema stesso.
Il piano Colao propone addirittura di bypassare tutti i collegamenti al Green Deal che l’Europa ha chiesto per l’accesso al Recovery Fund e concede ampia facoltà di andare in deroga alle norme di tutela comunitarie per le concessioni idriche, autostradali. Non sono state poste neppure limitazioni ai contributi dedicati alle multinazionali del fossile che oggi ammontano a 19 miliardi di euro. Anche sul capitolo sulla gestione dei rifiuti, viene legittimata la loro “trasformazione in energia”. Leggi: incenerimento.
Un piano, insomma, più nero che verde, e che va esattamente nella direzione opposta a quella delineata dagli accordi sul clima, verso la quale bisognerebbe puntare con decisione ed investire le nostre risorse.
Da notare che, in tutto il piano Colao, la parola “ambiente” viene usata solo collegata al termine “infrastrutture”. Il titolo della seconda scheda è proprio: “infrastrutture e ambiente, volano nel rilancio”. Ma le infrastrutture alle quali pensa l’ex amministratore delegato della Vodafone, l’ambiente se lo divorano! A questo punto, la scritta “rivoluzione verde” che compare nel logo iniziale e che, ci scommettiamo, gli è stata suggerita dall’Ufficio Marketing, sembra, più che una barzelletta, una presa per il sedere!
Ma c’è un’ultima, importante considerazione che sono in pochi ad averlo sottolineato. Nella scheda “Semplificazione procedure di aumento di capitale” troviamo addirittura una proposta chiamata “Voluntary Disclosure”, che sta per “rivelazione volontaria”. L’hanno scritta in inglese perché fa più figo e si capisce meno. Allo scopo di far emergere la cosiddetta “economia sommersa” e che è stata valutata da Colau sui 170 miliardi di euro all’anno, il piano prevede la possibilità per questi capitali di beneficiare di uno speciale condono per farli entrare nei circuiti finanziari e spingere la “ripresa”. Ma “economia sommersa” altro non significa che “soldi in nero”: denaro cioè che proviene da attività più o meno lecite, come evasione fiscale, tangenti, sottrazioni di bilancio, mancati pagamenti o addirittura narcotraffico! Denaro sporco che il piano Colao trasformerebbe immediatamente in denaro pulito perché la mafia – chi altri, se no? – potrebbe accedere al condono senza dover dare nessuna spiegazione sula provenienza illecita di questi capitali.
Una volta, si chiamava “riciclaggio”.

“Non brucerete il nostro futuro!” Marghera si mobilita contro l’inceneritore di Zaia & C.

Non hanno imparato niente. Non è bastata la devastazione industriale – e, per di più, fallimentare – di un’intera provincia a ridosso della laguna più bella del mondo. Non sono bastate le bonifiche mai arrivate. Non sono bastati neppure i continui allarmi chimici, l’ultimo dei quali poco più di 15 giorni fa: l’incendio alla 3V Sigma con tanto di invito a restare a casa con le finestra chiuse “in via precauzionale”. Non è bastato neppure un terrificante consumo di suolo che non ha uguali in nessun’altra Regione d’Italia, e, crediamo, neppure d’Europa. Consumo che periodicamente ci regala inondazioni, acque alte, falde infette, mafie ambientali ed inquinamento. Non è bastata neppure la pandemia che ha accoppato quasi 34 mila persone nel solo territorio regionale. Eppure, è stato scientificamente dimostrato  che le polveri sottili e, in generale l’inquinamento atmosferico non solo è un potente veicolo di trasmissione del virus ma è anche un fattore debilitante che abbatte la capacità del metabolismo umano di reagire. Tutto questo non gli ha insegnato nulla. Per i fautori dello “sviluppo a tutti i costi”, ripartire vuol dire ricominciare come prima e, possibilmente, più di prima. Come a voler recuperare ill tempo perduto. E’ questa la “normalità” invocata da Zaia & C. E pazienza se, come dicono i Fridays For Future, “era proprio questa ‘normalità’ la causa del problema”. 
Il progetto di un nuovo inceneritore a Fusina, portato avanti dalla Regione Veneto con la complicità dell’amministrazione comunale di Venezia, proprio in piena pandemia, è un perfetto emblema di questo critero di “sviluppo economico” che è la causa dei problemi che abbiamo sopra elencato. Problemi che, proprio in quanto tali, rappresentando una perfetta ed appetibile “merce” per nutrire questo capitalismo da fine mandato che riesce a trasformare in profitto per pochissimi l’ambiente, la salute, i diritti, la stessa vita ed i beni che appartengono a tutti. In Sudamerica, lo chiamano Terricidio. E l’inceneritore di Fusina è una sua bandiera. 
“Deve essere chiaro che noi non siamo contrari all’inceneritore perché lo vogliono fare a casa nostra, a Fusina, ma perché va in una direzione opposta a quella che porta alle tanto auspicate bonifiche di Porto Marghera e ad un ciclo virtuoso ed integrato della gestione dei rifiuti” ha spiegato Roberto Trevisan, storico portavoce dell’Assemblea contro il pericolo chimico. Lo ha spiegato ad una grande platea di oltre 600 persone che si sono radunate ieri pomeriggio in piazza Mercato, dietro al Municipio di Marghera. La mobilitazione è stata organizzata, oltre che dall’Assemblea, da Fridays For Future Venezia Mestre, Opzione Zero e Medicina Democratica. 600 persone che si sono radunate per costruire una mobilitazione popolare contro il progetto della Regione e del Comune rispettando rigorosamente le distanze ed i criteri della sicurezza per il contenimento della pandemia. Niente “salvinate” su questa piazza! 
L’incontro è stato benedetto da una bella giornata di sole che, diciamocelo senza vergogna, è riuscito a rinfrancarci dopo tutti questi lunghi giorni di chiusura. Una atmosfera di festa allietata dall’immancabile colonna sonora dei Pitura Freska. Come? Sì, c’era anche lui, il mitico Skardy, tra la folla!
Sullo sfondo del grande striscione “Non brucerete in nostro futuro” appeso sulla parte del municipio, l’incontro è stato aperto dai Fridays For Future che, proprio la mattinata avevano occupato in segno di protesta la sede di Veritas. Dopo Trevisan ha preso la parola Mattia Donadel di Opzione Zero che ha illustrato le iniziative di mobilitazione contro l’inceneritore: il ricorso al Tar, una giornata di informazione capillare rivolta a tutta la cittadinanza, il boicottaggio a Veritas a favore di gestori energetici più rispettosi dell’ambiente, la petizione on line che ha già raccolto più di 5 mila firme. “Ma anche se non riuscissimo a fermare l’iter burocratico, ci faremo trovare là, davanti ai cancelli di Veritas per bloccare i camion che trasportano i materiali per la costruzione dell’ecomostro. Non gli permetteremo di incenerire il nostro futuro”. 
Prima degli appelli dei medici pediatri che hanno chiesto di non mettere a repentaglio la salute dei bambini e degli interventi dei tanti comitati ambientali di Venezia e della Terraferma (il video integrale ripreso dai FfF è visibile sul nostro canale You Tube), ha preso la parola Gianfranco Bettin, presidente della municipalità e portavoce regionale dei Verdi che ha sottolineato la responsabilità dell’amministrazione fucsia che governa Venezia: “Non è solo il progetto dell’inceneritore che mettiamo in discussione ma la visione del rapporto tra industria e città che vuole imporci chi ci governa e che rappresenta un pericoloso ritorno al passato. Ricordiamoci che Marghera è il luogo in cui è stato messo nero su bianco, nel piano regolatore del ’62, che era legale bruciare qualsiasi sostanza anche nociva alla salute umana. Qui la Regione ha realizzato uno degli inceneritori più infami che abbiamo chiuso nel 2014 ma che per vent’anni ci ha avvelenato facendoci respirare diossina. Per questo, è doppiamente colpevole la decisone dell’amministrazione comunale e del sindaco Brugnaro di supportare dall’Interno il vecchio progetto del presidente Zaia di fare di Marghera la pattumiera del Veneto”. 

Coronavirus e Climate Change. Oppure, in parole più semplici, Capitalismo

La capillare diffusione del Coronavirus, partito da una città della Cina ed estesosi rapidamente in tutto il pianeta, ha avuto quantomeno il merito di far capire a tutti quello che i cambiamenti climatici avevano fatto capire a pochi. E cioè che viviamo tutti sullo stresso pianeta. I problemi non possono in nessun modo essere circoscritti da frontiere che esistono solo per la politica. Neppure militarizzandole. Neppure costruendo muri. Il mondo è uno solo e anche l’umanità, al di là di qualsiasi retorica nazionalista, è una sola. Tutti i popoli del mondo sono interconnessi. E così lo è l’economia, la cultura, il pensiero, le migrazioni, i problemi e le emergenze come questa pandemia che dalla Cina si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Ma non solo tutta l’umanità è interconnessa. Siamo interconnessi anche con l’ambiente che ci circonda. Come diceva Ferdinand de Saussure, “Tout se tient”, ogni cosa è collegata. E’ questo il primo comandamento dell’ecologia moderna. 
Il Coronavirus e le paure mondiali che ha scatenato ci ha posto di fronte ad una realtà che, quando e speriamo presto l’emergenza verrà superata, non può più essere ignorata. Questo, ai cambiamenti climatici – l’altra grande questione che investe tutto il pianeta – non era riuscito di farlo capire, nonostante l’innegabile impegno degli ambientalisti, degli scienziati e di personaggi carismatici come la nostra Greta. Le questioni, certamente, si sono poste in maniera diversa. La percezione del rischio individuale, nel caso del virus, è molto più immediata e naturale, oltre che considerata più vicina sia nello spazio che nel tempo. Anche i comportamenti che ci vengono chiesti per superare l’emergenza –  evitare i contatti, restare a casa, lavarsi spesso le mani, eccetera – sono molto più semplici da eseguire rispetto alle azioni che ci vengono chieste per fermate il Climate Change, e cioè cambiare stile di vita, rinunciare ai fossili, costruire una nuova economia. Oppure, se preferite parole più semplici e dirette: abbattere il capitalismo. Capirete che “lavarsi spesso le mani”, è una azione più facile da mettere in campo!

“Dobbiamo rivedere in modo radicale l’attuale modello di produzione e di sviluppo, che è insostenibile a livello ambientale, perché stiamo distruggendo la biodiversità del pianeta e sfruttando in modo selvaggio le risorse naturali ha sottolineato l’ambientalista Grazia Francescatoin una bella intervista pubblicata su Vita –  Ma che è inaccettabile anche a livello sociale, perché questo tipo di globalizzazione ha causato una disuguaglianza economica mai vista prima (8 persone al mondo hanno più risorse economiche della metà dell’umanità). Insomma, si tratta di promuovere quella che noi ambientalisti chiamiamo ‘conversione ecologica dell’economia e della società’, che vuol dire anche fare un salto culturale, creare una nuova coscienza collettiva”.
Siamo davvero sicuri che, proprio partendo dal presupposto che “Tout se tient”, l’esplosione di questa pandemia non abbia nulla a che vedere con i cambiamenti climatici, e, di conseguenza, col capitalismo? Molti studi scientifici mettono in evidenza che le variazioni repentine della temperatura e dei parametri ad essa collegati, come l’umidità, tendono a favorire il “salto di specie”, quel meccanismo per il quale il virus si trasforma e si trasferisce da una specie animale (il pipistrello, nel caso del Covid 19) all’uomo. Non è ancora certo in quale percentuale, i cambiamenti climatici e l’aumento della temperatura influiscono su questo meccanismo, ma una correlazione è sicura. Una ricerca di Giuseppe Miserotti per l’associazione Medici per l’Ambiente ha collegato l’esplosione delle ultime epidemie, dalla Sars all’Aviaria, sino all’influenza suina e all’attuale Covid 19, con i picchi di temperature, superiori perlomeno di 0,6 gradi sulla media, registrati nelle aree in questione. Anche a voler considerare le previsioni più ottimistiche sul surriscaldamento globale, c’è poco da stare allegri! In circolazione, sostiene Miserotti, ci sono miliardi di agenti patogeni pericolosi, sia negli animali che congelati nel permafrost in via di scioglimento degli oramai ex “ghiacciai eterni” dei poli. Agenti patogeni che potrebbero essere innescati proprio dall’aumento delle temperatura. 
Ma anche senza scomodare il Climate Change, non è un mistero che l’inquinamento imputabile alle energie fossili uccida anche senza bisogno di causare eventi meteorologici estremi. Citiamo, a tale proposito, solo la più recete ricerca del Medical Society Consortium che sottolinea come le patologie direttame note imputabili al consume di combustibili fossili accoppino almeno quattro milioni e mezzo di persone ogni anno! Vien da chiedersi come mai ci stiamo preoccupando tanto del Coronavirus! Ma anche in questo caso, “lavarsi spesso le mani” è una risposta più facile, più facilmente comunicabile e più tranquillizzante che “abbattere il capitalismo”. 
Ma, sostiene qualcuno, la diffusione di questa pandemia ha avuto perlomeno il merito di abbattere, se non il capitalismo, perlomeno le emissioni di gas serra. I cieli della Cina – che io personalmente non sono mai riuscito a vedere azzurri – non sono mai stati così puliti. Vero. Ma non è una buona notizia. Lo stesso Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha sottolineato che si tratta solo di un fenomeno temporaneo perché le attività che causavano l’inquinamento non sono state chiuse e, già adesso che in Cina si è usciti dalla fase emergenziale, stanno riprendendo con maggior vigore, come a voler recuperare il tempo, e il denaro!, perduti. Non illudiamoci, ha spiegato Guterres, che il virus ci aiuti nella lotta ai cambiamenti climatici. Anzi, il rischio è che la pandemia invisibilizzi la questione del Climate Change e distragga l’opinione pubblica dalla vera grande battaglia che l’umanità deve combattere per salvare questo pianeta dove “Tout se tient”, dal clima, alle epidemie, alla giustizia sociale. E stavolta nessuno ci potrà dire che basta “lavarsi spesso le mani”. 

DeCOALonize the planet

"Siamo l'antidoto al capitalismo”. Così si leggeva nel grande striscione che gli attivisti hanno appeso ai lunghi nastri che trasportano il carbone sin dentro la centrale. Nastri che, perlomeno per un paio d’ore, sono stati bloccati, causando lo spegnimento della caldaia ed una diminuzione della produzione.

Siamo a Fusina, a ridosso della laguna di Venezia. Qui, in una delle aree più inquinate d’Italia dove, quando durante ogni tornata elettorale si promettono bonifiche che puntualmente non vengono mai portate a termine, è situata una delle dodici centrali a carbone del Paese. La quinta più grande d’Europa.

Ed è proprio qui che, nella tarda mattinata di ieri, circa duecento attiviste e attivisti dei centri sociali del Nord Est hanno fatto irruzione, bloccando il cancello di ingresso, occupando i nastri trasportatori e salendo nelle strutture più alte per calare striscioni di protesta con scritte come “One solution: revolution” o “DeCOALonize the planet”.

"La concentrazione di CO2 in atmosfera nell’ultimo anno ha superato la soglia delle 415 parti per milione e continua a crescere. Il Pianeta sta letteralmente andando a fuoco. Gli effetti del surriscaldamento globale sono ormai evidenti a tutti e sembrano avanzare ad una velocità esponenziale. - ha spiegato Stella, una giovane attivista del cso Rivolta - La centrale di Fusina, dentro questo quadro, rappresenta per molti aspetti uno dei simboli della non volontà politica ed economica di affrontare la crisi climatica, anzi di voler continuare a speculare sulla devastazione del territorio”

“C’è un progetto di convertire questa centrale a metano - continua Stella -. L’Enel, proprietaria della centrale, pubblicizza questa operazione come un passaggio all’energia sostenibile dimenticando che anche il metano rimane sempre un combustibile fossile e un potentissimo gas serra. Non è questo il cambiamento to che vogliamo. Non è così che si ferma il climate change“.

L’iniziativa si è svolta pacificamente. Dopo tre ore di occupazione, le ragazze ed i ragazzi, hanno abbandonato i nastri e e si sono diretti in corteo verso i grandi siti di stoccaggio del carbone, a ridosso della laguna.

Ma non è solo la centrale a carbone, il problema dell’entroterra veneziano. Da tempo, la Regione Veneto col benestare del Comune di Venezia sta portando avanti il contestassimo progetto di riaprire un inceneritore, sempre nell’area di Fusina. Questo impianto di termodistruzione a cui mirano Ecoprogetto e i soci privati di Bioman e Agrilux, dovrebbe essere, nelle intenzioni dei suoi progettisti, il più grande del Veneto. “Ancora una volta per Marghera e per l’area metropolitana di Venezia - si legge in un comunicato dei centri sociali - si prospetta un futuro da pattumiera. Il nostro territorio è sommerso dallo smog e dai veleni ma ambiente e salute dei cittadini non contano mai niente quando di mezzo ci sono grandi affari”.

L’iniziativa si colloca in un percorso di avvicinamento al Venice Climate Meeting che si svolgerà nella città lagunare sabato 4 e domenica 5 aprile e che si propone in continuità col Climate Camp svoltosi a settembre al Lido. In quell’occasione, le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future e gli attivisti dei No Grandi navi avevano vissuto un “giorno da leoni” occupando per la prima volta nella storia della mostra del cinema ill tappeto rosso delle star.

A Madrid è stato assassinato l’accordo di Parigi. Cop25 sarà l’ultimo crimine contro l’umanità

Cop25 ha chiarito una volta per tutte che i governi del mondo non sono in grado di mettere in campo una strategia adatta a contrastare i cambiamenti climatici. Al contrario della precedente conferenza svoltasi a Katowice, dove gli osservatori più ottimisti avevano giudicato in maniera positiva l’apertura di alcuni, generici, spazi di intervento verso un definitivo abbandono dei fossili, la conferenza di Madrid ha messo tutti d’accordo: Cop 25 è stata un completo fallimento. A nulla sono valsi i “tempi supplementari” di ben 42 ore giocati dopo la prevista chiusura dei lavori nel tentativo di salvare perlomeno la faccia. I rappresentanti dei 196 Paesi che hanno partecipato agli incontri, non hanno saputo, o voluto, trovare nessun accordo sui tre punti principali in discussione: la regolazione del mercato del carbonio, le compensazioni ai Paesi poveri e la quantità di Co2 che ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a tagliare nei prossimi anni. Quei tre punti che a Katowice erano stati lasciati in sospeso e “rimandati a settembre”. Cioè alla prossima conferenza sul clima, questa di Madrid.
Come si temeva, non sono bastati i drammatici appelli degli scienziati (oramai non è rimasto più nessuno a sostenere tesi negazioniste) che hanno lanciato numerosi appelli al buonsenso, invitando i governi a dare retta alla scienza e non all’economia. Non sono bastate nemmeno le drammatiche notizie degli scioglimenti dei non più eterni ghiacciai artici o i fenomeni atmosferici sempre più estremi che si stanno verificando sempre più frequentemente in tutto il pianeta. A Venezia ne sappiamo qualcosa! Non sono bastate nemmeno i milioni di giovani che sono ripetutamente scesi nelle piazze di tutto il mondo a chiedere, in nome della “democrazia climatica”, una radicale svolta ecologista nella politica capace di ridare una speranza alla terra. Tutto questo non è servito a niente se non a dimostrare che i governi e la finanza procedono imperterriti in una direzione contraria a quella verso cui vanno la scienza, i cittadini consapevoli e pure il buon senso.
Il guaio è che sono i primi a tirarsi dietro il pianeta!

Quanto è accaduto a Madrid altro non è che un crimine contro l’umanità. Il peggiore. Non solo perché è il più cinico, il più cattivo e pure il più stupido. Questo rischia di essere il crimine “definitivo” contro l’umanità. Perché se l’aumento della temperatura non verrà in qualche modo contenuto, non ci sarà più posto per l’umanità sul pianeta Terra.

Sotto questo punto di vista, il genericissimo documento di intenti in cui si esprime la volontà di combattere in qualche modo i cambiamenti climatici, chiamato ipocritamente “Time for action”, appare solo come una crudele presa per il sedere. Senza considerare che, come ha sottolineato il noto ed apprezzato meteorologo Luca Lombroso, anche per questo documento assolutamente inefficace ai fini pratici, Brasile e Usa hanno avuto il coraggio di fare ostruzione! I primi perché hanno tutta l’intenzione di “monetizzare” la foresta amazzonica sino all’ultimo albero - e tanti saluti all’ultimo polmone verde rimasto su questa terra -, i secondi perché il loro presidente Donald Trump continua a sostenere tesi negazioniste in onore alle lobby delle energie fossili che lo hanno fatto eleggere.

Dopo questa Cop, di fatto, l’accordo di Parigi non esiste più. Solo l’Europa, grazie al nuovo Governo, qualcosa ha fatto approvando un percorso che dovrebbe condurci nel 2050 alla “neutralità climatica”, ovvero a zero emissioni. Ma l’Europa da sola non basta. Gli Stati Uniti, come hanno dichiarato da tempo, si stanno sfilando ed è possibile che nei prossimi incontri non parteciperanno neppure con un delegato. Cina, India, Russia, Paesi Arabi e il Brasile del presidente Jair Bolsonaro - guarda caso i Paesi che inquinano maggiormente e che sono stati tra i principali attori di questo fallimento - hanno ampiamente dimostrato che non sono disposti neppure e concedere una generica promessa a contenere le emissioni ed a limitare il consumo delle energie fossili.

Arrivati a questo punto, possiamo anche cominciare a discutere su cosa ed a chi servono queste conferenze sul clima se non a “dare un’opportunità ai Paesi di negoziare scappatoie”, come ha suggerito Greta.

Parte Cop25. E parte male. Arriverà peggio?

Parte male, Cop 25. Parte senza uno degli attori principali, responsabile del 14,3% delle emissioni totali di climalteranti: gli Stati Uniti d’America. Non è un mistero che presidente Donald Trump sia un negazionista convinto. Più volte, nella sua campagna elettorale, finanziata dalle multinazionali più inquinanti del paese, ha sottolineato che il “modello di vita americano” non può essere oggetto di trattativa. La sua decisione di uscire dagli accordi di Parigi, e quindi anche dalle Cop, altro non è che una logica conseguenza della sua politica. A Madrid gli Usa faranno solo una comparsata affidata alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, che non farà che ribadire le posizioni del suo presidente. Proprio come se gli Stati Uniti d’America si trovassero su un altro pianeta, lontano qualche anno luce, e non su questa nostra Terra colpita da uno stravolgimento climatico globale come il Climate Change.
Parte male anche dal punto di vista organizzativo, questa Cop. Santiago del Cile, che doveva ospitare i lavori, ha dato forfait per i noti problemi interni (il Governo cileno è impegnato a massacrare i manifestanti che chiedono democrazia) e ha passato all’ultimo momento il testimone a Madrid. L’organizzazione rimane comunque competenza del Cile, ed è tutto da vedere come sono riusciti a spostare in poche settimane tutto il “circo” non soltanto in in altro Paese ma anche in un altro Continente.

Parte male, questa Cop, proprio quando avrebbe dovuto partire bene. Ci siamo già giocati i famosi “dieci anni di tempo per invertire rotta” assegnati dalle Cop precedenti. L’accelerata che il clima ha preso in questi ultimi anni sono tali da aver convinto anche i negazionisti più irriducibili. Tranne, ovviamente, Trump e la sua ciurma di capitalisti petroliferi e giornalisti venduti che lo sostiene. A nulla sono serviti gli appelli degli scienziati e gli ultimi rilevamenti che hanno sottolineato come il punto di non ritorno sia sempre più vicino. E stiamo parlando del punto di non ritorno per evitare la scomparsa della vita umana sulla terra, perché quello relativo ad una epoca di sconvolgimenti ambientali, e quindi anche sociali, lo abbiamo già oltrepassato da un pezzo. I dati che arrivano dai ricercatori artici fanno paura e si teme l’innescarsi di un effetto domino dalle conseguenze inimmaginabili con lo scioglimento anticipato dei ghiacciai dei poli.

L’umanità è ad un bivio. E ce lo spiega anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: “Entro la fine del prossimo decennio saremo su uno dei due percorsi: uno è quello della resa, in cui abbiamo il punto di non ritorno, altra opzione è il percorso della speranza, un percorso di risoluzione, sulla strada della neutralità del carbonio entro il 2050”.

Punto fondamentale della Cop sarà quello di mettere in atto tutti meccanismi necessari a mantenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro i 2 gradi centigradi e di arrivare al 2050 con un mondo ad emissioni zero. Ma se continua così non ce la faremo mai. Lo afferma senza possibilità di equivoci lo stesso Guterres: “Molti Paesi non stanno rispettando tali impegni. E i nostri sforzi per raggiungere questi obiettivi sono assolutamente inadeguati”.

Come aiutare, o costringere!, i Paesi partecipanti a rimanere all’interno dei parametri fissati a Parigi, sarà il punto focale di questa Cop. I Governi del mondo dovranno darsi delle regole per rendere operativo il famoso articolo 6, quello dei crediti di carbonio, degli accordi parigini. Non sarà una questione semplice. Sopratutto in un momento come questo in cui il capitalismo – vero responsabile dei cambiamenti climatici – ha occupato i punti chiave del pianeta con marionette del calibro del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, o del suo equivalente statunitense. Per tacere dei Paesi produttori di petrolio la cui ricchezza e potenza è tutta centrata sul fossile, e che non hanno nessuna intenzione di cambiare rotta.

Parte male quindi, Cop 25, e rischia di arrivare peggio, pure se solo alla fine dei lavori potremmo dire se ne sarà uscito qualcosa di concreto. Ma quanto meno, gli incontri saranno una occasione per riflettere sul clima e dare spazio mediatico a scienziati ed ambientalisti. D’altra parte, da un pezzo abbiamo chiaro che quello che non fa e non farà mai la politica, lo potranno fare solo i Fridays for Future. Gli unici d aver capito che nei cambiamenti climatici ci siamo già dentro e che il momento per abbattere una economia di rapina ancora artigliata ai fossili à qui ed ora.

La vergogna delle Grandi Navi in laguna entra anche in un fumetto della Bonelli

“Oh! Mamma! Che cosa è quella roba là?” E’ la domanda che Julia, la criminologa protagonista dell’omonimo fumetto edito dalla Bonelli (quella di Tex e Zagor, per intenderci) pone al suo accompagnatore mentre assiste al passaggio di una Grande Nave. L’ultimo albo della serie intitolato “Il mistero di Venezia” l’eroina ideata da Giancarlo Berardi, il papà di Ken Parker, vede l’investigatrice sosia di Audrey Hepburn visitare la città lagunare per risolvere un caso. Passeggiando per Piazza San Marco, Julia assiste al passaggio di uno di quei condomini galleggianti del tutto spropositati per l’ambiente lagunare e non manca di stupirsi. “Ma come è possibile che tutto ciò sia tollerato? I veneziani non dicono nulla?” chiede Julia. La sua guida le spiega che i veneziani protestano parecchio e che organizzano anche partecipate manifestazioni, ma che a comandare rimangono gli interessi delle multinazionali del turismo di massa. I danni alla città, alla salute dei suoi cittadini, non contano per la politica di palazzo. “Ed intanto che si discute, le Grandi Navi distruggono tutto”, conclude amaramente l’eroina della Bonelli.

Ecco alcune delle efficaci tavole tratte dal numero 254 di Julia e disegnate da Federico Antinori.






Il giorno dopo la grande mobilitazione: la rassegna stampa dell'horror

Lo confessiamo. Ieri sera, mentre scrivevamo della più grande manifestazione ambientalista della storia dell’umanità, non vedevamo l’ora che sorgesse il sole di domani per andarci a leggere i titoli di quotidiani come Libero o il Giornale. “Chissà che titolacci riusciranno ad inventarsi” pensavamo. Bisogna dargli atto di una innegabile, pure se un tantino perversa, immaginazione sulle sparate in prima pagina. Tanto di chapeau, come dicono i francesi. Certe cose nemmeno in mille anni noialtri che facciamo giornalismo e non fantascienza riusciremmo ad inventarcele. E così, prima ancora del caffè, siamo andati a spulciare sui siti che riportano le prime pagine dei quotidiani in edicola e abbiamo deciso di fare una bella rassegna stampa degli orrori su carta stampata. Di solito ce n’è da fare invidia a Stephen King e paura a Cthulhu ma stavolta, ammettiamolo, siamo rimasti un pochino delusi. 


Già, delusi. Delusi soprattutto da Libero che ci aveva regalato l’intramontabile “La rompiballe va dal papa”. La manifestazione che ha portato in piazza più di un milione di giovani in Italia e un numero incalcolabile in tutto il mondo, Libero non se l’è neppure cacata. Ci informa invece che, per il Governo, il nemico è il contante. Se intendessero la finanza o il capitale o le multinazionali, ci avrebbero pure ragione. Ma no. Ce l’anno su con gli sconti a chi usa le carte di credito. “Una rapina” secondo loro. La mobilitazione mondiale è relegata ad un box dedicato ai “disagi ovunque” portati dai ragazzi scesi in piazza e ad un botta e risposta tra studenti e automobilisti. “Ci avete rotto i polmoni” vs “ci avete rotto i maroni”. Per fortuna c’è anche un corsivo su bambini “senza sogni” uccisi in India e Nigeria che, secondo i “colleghi” di Libero, dovrebbero essere presi ad esempio. E va beh. Potevano fare di meglio. Applicatevi di più la prossima volta e rimanete sul tema del giorno. Voto: 5. Deludenti e prevedibili. 


Il titolone del Giornale ci gratifica un po’ di più. Perlomeno mette in prima la notizia della manifestazione informandoci che “Anche manifestare rovina l’ambiente”. In primo piano della foto di apertura c’è un cestino straripante di rifiuti. Sullo sfondo tre ragazzi seduti che chiacchierano. Nessun cartello, nessuna bandiera, nessun striscione. Non ci sono indicazioni su quando sia stata scattata la foto (certo non durante la manifestazione). L’ultima volta, il fake lo avevano costruito meglio. Ma allora erano stati aiutati dalla “Bestia” di Salvini che aveva fatto girare immagini taroccate come dio comanda su strade e piazze invase dalla sporcizia colpevolmente abbandonata dagli ipocriti inquinatori “gretini”. Da soli, si sono ridotti a cercare qualche immagine battendo “cestino sporcizia giovani” su Google. No, no. Così non va. Voto: 4. Esame da ripetere. Inventatevi una bufala tutta vostra la prossima volta, se volete alzare il voto. E che cazzo!


Per trovare una bella prima pagina, tocca andare su La Verità. Il quotidiano di Maurizio Belpietro è l’unico che non ci delude e ci rivela gli autentici retroscena della mobilitazione, sia pure solo di quella italiana. E’ stata tutta una manovra del Governo. A che scopo? Ma per le tasse, ovviamente! “Hanno usato migliaia di ragazzi per giustificare le tasse verdi”. Il sottotitolo poi non è neppure del tutto falso: “Il Governo e molti professori hanno spinto gli studenti a scendere in piazza”. Che stia maturando una coscienza verde? Macché! “Obiettivo: spegnere il cervello e accettare qualsiasi fesseria green”. Dai, a questi per incoraggiarli gli diamo 7 meno. Il “meno” perché non possono continuare a infilare la parola “tasse” su ogni apertura di prima. Ci sono che i migranti, i comunisti e gli ebrei, no?


Un’onda verde ha sommerso la Terra

La marea verde cresce e non si arresta. Il terzo sciopero globale, dopo quelli del 15 marzo e del 24 maggio, è riuscito a mobilitare ancora più giovani – e non solo giovani – di quanto fatto nelle due, già eccezionalmente partecipate, manifestazioni precedenti. Le squallide operazioni di sputtanamento lanciate contro Greta e i “gretini” – ragazzini viziati che se ne fregano dei quelli meno fortunati di loro costretti a lavorare -, gli sproloqui pseudo scientifici di chi continua  negare i cambiamenti climatici, i tentativi di distogliere l’attenzione puntando le canne di un fucile sempre carico contro migranti, neri o gli “ebrei” di turno, hanno clamorosamente fallito il loro scopo. Nemmeno le spocchiose  dichiarazioni di forza hanno ottenuto l’effetto sperato. Bolsonaro che ti va a dichiarare, proprio mentre all’Onu si parlava di clima, che “l’Amazzonia è mia e me la gestisce io” è riuscito solo a far incazzare ancora di più le ragazze ed i ragazzi brasiliani che, proprio nel momento in cui scriviamo, sono scesi in piazza a milioni per le strade di Rio e di San Paolo. La protesta ha investito tutta la terra da est a ovest, seguendo il corso del sole e del fuso orario. L’Australia dove ogni giorno sbarcano migranti costretta ad abbandonare isole già finite in fondo al mare, l’Indonesia dai cieli oscurati dai fumi provenienti dalle foreste in fiamme, e ancora l’India, la Turchia dove sono state organizzate “feste tematiche” sul clima perché nel Paese dei Erdogan non si può scioperare. In tutti le città, in tutti i paesi del mondo, i giovani di Fridays For Future si sono mobilitati come e quanto hanno potuto. 
Checché se ne dica, siamo di fronte, per la prima volta nella storia dell’umanità, ad un movimento di dimensione globale, non ideologico, basato su affermazioni scientifiche, che non mira a conquistare Palazzi d’Inverno, e che ha un obiettivo nel suo contesto tanto semplice quanto fondamentale: consegnare agli uomini e alle donne che verranno dopo di noi, un pianeta vivibile. Un obiettivo definitivo, che va conquistato a qualunque costo. Un bene comune imprescindibile che appartiene a tutti coloro che abitano questo pianeta, al di là di diverse religioni, geografie, politiche, specie, generi e culture. E vorrei aggiungere anche “etnie” se non fosse che è una cosa che non esiste perché è un modo edulcorato per dire “razza”.
Siamo di fronte insomma ad un’onda verde che, per prima cosa, è riuscita a superare gli argini di un ambientalismo che, in tanti casi, andava poco al di là di una mistica dichiarazione di amore per la natura. L’onda verde su cui naviga Fridays For Future non è giardinaggio ma rivoluzione. Ne sono consapevoli le milioni di giovani e meno giovani che oggi, venerdì 27 settembre 2019, hanno occupato le piazze del mondo. Lo hanno scritto nei loro cartelli, lo hanno sventolato nelle loro bandiere, lo hanno gridato nei loro slogan. Salvare la terra dalla dittatura dei fossili significa giustizia sociale. Significa diritti civili, significa reddito, casa, scuole, ospedali, città vivibili. Significa democrazia diffusa e partecipata. Significa aprire i porti ai migranti perché solo insieme l’umanità si potrà salvare. I muri, non sono la soluzione agli sconvolgimenti causati dai cambiamenti climatici ma parte del problema. Non fosse altro che per il tremendo costo in emissioni di Co2 che portano con se tutte le politiche di guerra. 
La generazione FfF scesa in piazza oggi è la prima ad essere cresciuta dopo la caduta del muro di Berlino e libera dal peso delle ideologie novecentesche. Con leggerezza e spontaneità, hanno saputo vedere ciò che è davanti agli occhi di tutti: capitalismo e umanità non hanno nessun futuro comune. Ed hanno scelto l’umanità. 

Milioni di partecipanti allo sciopero. Nel mondo, il clima è già cambiato

“A Milano in 100 mila. Cinquantamila a Napoli, trentamila a Roma, ventimila a Torino” titola Repubblica. Un milione di partecipanti in tutta Italia, secondo il Fatto Quotidiano. Altissima partecipazione anche nel Veneto. A Venezia la ragazze ed i ragazzi di Fridays fo Future hanno dato vita ad un coloratissimo corteo, fermatosi per suonare l’allarme della crisi climatica davanti alla sede della Rai, scandendo i nomi delle cento multinazionali colpevoli del 70% delle emissioni di Co2, tra cui spicca l’italianissima Eni. Trento, Padova e Schio ganno fatto da teatro ad altrettanto partecipate manifestazioni, portando in piazza migliaia di studenti. 
Le manifestazioni, al momento in cui scriviamo, non sono ancora finite ma già le notizie che rimbalzano sul web riportano numeri da spavento. A New York, le strade sono state occupate da oltre 250 mila manifestanti. Una risposta chiara al vertice del clima che, proprio nella Grande Mela, si è appena concluso con risultati assolutamente deludenti. Se qualche Paese ha messo in cantiere qualche buona pratica, è chiaro come il sole che proprio i grandi inquinatori – Usa, Cina, Russia, Paesi arabi, in testa – non hanno nessuna intenzione di cambiare rotta. In compenso, si stanno attrezzando per avvantaggiarsi il più possibile dagli sconvolgimenti che si stanno preparando, come lo scioglimento dei ghiacciai artici che renderanno disponibili nuovi giacimenti fossili. Tipo il Trumpche chiede alla Danimarca se gli vende la Groenlandia. Questo per dare la misura di come la battaglia per la terra sia, come scrive Vandana Shiva, più che altro una battaglia contro gli idioti e la loro idiozia. Ma il clima sta già cambiando. Adesso deve cambiare anche la politica.

Clima, è cominciata la settimana di mobilitazione per il pianeta. Ed è cominciata alla grande!

Ci siamo. E’ cominciata la settimana di mobilitazione mondiale contro i cambiamenti climatici con l’obiettivo di far pressione sul summit dell’Onu, che si svolgerà a New York a partire da lunedì 23 settembre. Saranno sette giorni di manifestazioni, occupazioni, marce, iniziative che coinvolgeranno 156 Paesi e che culmineranno nello sciopero globale previsto per venerdì 27. 
Le prime manifestazioni che si sono svolte nella maggiori città del globo terrestre sono andate ben oltre le più ottimistiche previsioni. Ben oltre anche la precedente manifestazione del 15 marzo che hanno messo in movimento milioni di studenti. 
La piazza di Sidney riempita di manifestatnti per il clima
“Non ci sono foto che rendano giustizia a questo. I primi numeri dicono 400.000 in tutta l’Australia, 100.000 a Berlino, 100.000 a Londra, 50.000 ad Amburgo – ha scritto Greta Thunberg sulla sua pagina Facebook – . E le prime cifre in Germania sono di 1,4 milioni di persone!!! Ma è una cosa più che gigantesca ovunque!!!! In ogni città. Insieme stiamo cambiando il mondo”.
In Australia, il primo continente che, per una questione di fuso orario, si è mobilitato, la partecipazione è stata da record: 100mila persone a Melbourne, 80mila a Sydney, 30mila Brisbane, 20mila ad Adelaide e Hobart, 15mila a Canberra e 10mila a Perth. Più del doppio di quanto registrato il 15 marzo. E la protesta ha coinvolto anche Paesi come la Thailandia dove qualche centinaio di attivisti ha occupato il ministero per l’Ambiente.

Mobilitazioni anche in Indonesia e in Malesia, dove le mille isole sono devastate da incendi dolosi che hanno come mandanti le multinazionali che speculano sulla polpa di legno e sull’olio di palma. Il fumo ha coperto i cieli di tante città del Borneo e l’aria è diventata così irrespirabile che manifestare all’aperto è impossibile. A Giacarta e a Kuala Lampur, i ragazzi sono stati costretti ad organizzare solo iniziative al coperto.
Il cielo sopra Kuala Kampur
Ad Istanbul, capitale di un Paese in cui scioperare non è affatto facile!, le ragazze ed i ragazzi di Fridays for Future hanno preparato una grande festa ne cuore del quartiere di Kadikoy con incontri, musica e workshop. Degli artisti hanno anche realizzato un gigantesco murales su un edificio del quartiere che ritrae Greta e il suo inseparabile impermeabile giallo. Anche a Islamabad, Pakistan, e addirittura a Kabul, Afghanistan, – altri Paesi in cui protestare non è affatto facile – i giovani sono riusciti ad organizzare cortei che si sono mossi per le strade delle città scortati da intere formazioni militari in assetto da guerra. Manifestazioni come queste aiutano a c
omprendere perché la causa climatica non può essere slegata alle battaglie per la giustizia sociale, la pace, la parità di genere.
Ma la protesta ha toccato anche l’Africa, sposandosi alle cause locali. A Nairobi, in Kenia, i giovani hanno protestato per il clima chiedendo al Governo di bloccare le concessioni di estrazione alle multinazionali dei fossili. Ad Hong Kong, dove da alcune settimane la gente sta già occupando le piazze per chiedere più democrazia al Governo di Pechino, i manifestanti si sono presi una… “pausa” e hanno cambiato i loro slogan con quelli della “giustizia climatica”. A Berlino, nel momento in cui scriviamo, migliaia di manifestanti stanno girando in bicicletta per le strade, bloccando il traffico automobilistico proprio nel momento in cui la causa climatica ottiene una importante vittoria: il Governo tedesco infatti ha appena approvato un pacchetto da 54 miliardi di euro per contrastate il climate change e superare l’economia fossile. E senza aver, per questo, aumentato il debito pubblico, dimostrando difendere l’ambiente per il bene di tutti costa alle casse dello Stato molto meno che devastarlo per i profitti di pochi. 
Il grande murales ritraente Greta dipinto ad Istanbul
In Italia, dove già Fridays for Future si era mobilitata in collaborazione con il comitato No Grandi Navi per occupare il red carpet della Mostra del Cinema di Venezia, le iniziative sono davvero troppe per poterle elencare. In questa pagina di Fridays for Future potete trovare un elenco in aggiornamento continuo e partecipare a quella più vicina a voi, seguendo il consiglio del regista Michael Moore, una delle tantissime celebrità che si sono spesa a favore dello sciopero mondiale per il clima: “Salta la scuola, lascia perdere il lavoro, smetti di fare quello che stai facendo per un paio d’ore e prendi parte agli eventi in programma nella tua città! Quale altra scelta abbiamo?”
Il punto sta tutto qua. Non abbiamo nessun’altra scelta. Ed è questo il grande salto che i cambiamenti climatici hanno fatto fare all’ambientalismo: non si tratta più di difendere un bene comune come l’ambiente. Stavolta ci giochiamo tutto. L’ambientalismo è diventato un campo di battaglia globale in un pianeta diventato troppo piccolo per permettere al capitalismo e all’umanità di continuare a prosperare assieme. Tu da che parte stai? 

Le manifestazioni che si stanno svolgendo in tutto il pianeta
IL 27 SETTEMBRE A VENEZIA L’APPUNTAMENTO SARA’ ALLE 8.30 NEL PIAZZALE DELLA STAZIONE DEI TRENI SANTA LUCIA. VIENI ANCHE TU E PORTA QUALCOSA PER FAR RUMORE PERCHE’ VOGLIAMO FARNE DAVVERO TANTO!

Cronache di ghiaccio e di fuoco. La Siberia brucia, il nostro pianeta brucia e a qualcuno va bene così

La nostra casa è in fiamme. Letteralmente. In questi ultimi due mesi, che passeranno alla storia come il giugno e il luglio più caldi della storia del pianeta Terra, se ne andata in fumo una area più vasta del Portogallo: più di 100 mila chilometri quadrati. Anche di più, a dare retta alla sezione russa Greenpeace che afferma senza peli sulla lingua che il presidente Vladimir Putin non racconti tutta la verità quando parla della portata degli incendi.
Improvvisamente, di fronte alle terrificanti immagini di enormi ghiacciai trasformati in laghi, abbiamo scoperto tutti che la nostra Terra è molto, molto più fragile di quello che pensavamo o, meglio, speravamo. 
I ghiacci che pensavamo eterni della Groenlandia, del Canada, dell’Alaska e della Siberia si sono trasformati in fuoco, complice un aumento della temperatura su queste regioni che va dagli 8 ai 10 gradi rispetto alle medie registrate tra il 1981 e il 2010. Non ha mai fatto tanto caldo nelle terre artiche. Basta la semplice caduta di un fulmine per scatenare un incendio di proporzioni bibliche.
I disastri peggiori sono avvenuti in Siberia, terra che i russi hanno sempre considerato un territorio di conquista e di sfruttamento. Al momento in cui scrivo, ci sono oltre 180 focolai ancora attivi e, da quasi un mese, un incendio grande come la città di Londra continua ad avvampare senza che nessuno pensi a come intervenire.
I cieli di Krasnoyarsk, Kemerovo e di altre città siberiane sono neri di fuliggine. Il fumo sta arrivando anche a Mosca ed è soltanto una notizia di pochi giorni fa che Putin abbia dato ordine alla protezione civile di intervenire in qualche modo. 
Ma perché tanta indifferenza di fronte ad un disastro di queste proporzioni? «Gli incendi? Sono fenomeni naturali qui da noi. Combatterli è inutile! Sarebbe come affondare un iceberg per rendere più tiepida la temperatura del mare in inverno» ha dichiarato il governatore della regione di Krasnoyarsk, Aleksandr Uss, cercando di gettare acqua sul fuoco (in senso metaforico, ovviamente) davanti alle denuncia degli ambientalisti. A parte il paragone con l’Iceberg che è palesemente idiota, anche se l’avesse voluto, il governatore Uss non aveva nemmeno i mezzi per intervenire. Una legge nazionale russa vieta infatti la mobilitazione della protezione civile se i costi non valgono la candela. Come dire che prima di spegnere un incendio bisogna buttare giù due conti per vedere se l’intervento costa più del valore della “merce” che sta bruciando. E pazienza se gli incendi siberiani hanno sparato nell’atmosfera - sino ad ora - oltre 100 milioni di gas climalteranti! L’equivalente delle emissioni di un anno di Svezia e Norvegia insieme. Gas che, manco a dirlo, contribuiranno al riscaldamento del pianeta così che il prossimo anno ci saranno ancora più incendi. 
«Soltanto adesso, con un ritardo di almeno un mese e mezzo, il presidente Putin ha deciso di intervenire dichiarando addirittura di aver mobilitato anche l’esercito - mi ha raccontato al telefono una amica giornalista ed attivista ambientalista di San Pietroburgo che mi ha pregato di mantenerle l’anonimato - Una decisione arrivata sulla spinta dell’opinione pubblica mondiale, considerando che anche Trump lo ha chiamato, offrendogli il suo aiuto, perché i fumi sono arrivati anche in Alaska. Ma è tutto da verificare l’impegno del nostro presidente su questioni come queste che riguardano la tutela ambientale». 
Ma perché tutta questa indifferenza davanti ad un disastro di queste proporzioni? «Non è affatto indifferenza ma complicità. Non possiamo portare prove certe ma, secondo molti attivisti siberiani, non tutti gli incendi sarebbero naturali. La Siberia è da tempo una terra di conquista per il capitale cinese che ha investito in grandi progetti di estrattivismo. Gli incendi giocano tutti al loro interesse. Senza contare l’industria del legno che è quasi completamente appaltata ad aziende di Pechino. Ci sono più segherie cinesi che orsi, oramai. Il disboscamento illegale, gestito in collaborazione con la mafia russa, è una piaga consolidata nelle regioni di Krasnoyarsk e Irkutsk. Questi incendi permettono di avviare immediatamente riforestazioni di intere aree con piante non autoctone ma a più alto valore commerciale. Insomma, mafia e capitalismo si sono alleati per causare disastri ambientali cui aggiungere altri disastri ambientali e trasformare tutto in merce da vendere al mercato globale. Il tutto con l’appoggio più o meno coperto del governo di Mosca». 

Putin non combatte la mafia russa? “Come no? Più o meno come il vostro Salvini combatte la mafia italiana”.

Un Climate Camp per discutere su come difendere la terra. Fridays fo Future e No Navi lanciano al Lido di Venezia il primo campeggio per il clima

Verranno in tanti. Verranno da tutta Europa. Verranno per rispondere all’appello lanciato dalle ragazze e dai ragazzi di Fridays For Future di Venezia e delle attiviste degli attivisti No Grandi Navi, di dare vita ad un grande Climate Camp, un grande incontro dedicato al clima, dove discutere del futuro del nostro pianeta e, soprattutto, delle iniziative e delle lotte per dare un futuro al nostro pianeta. 
L’appuntamento è a settembre, da mercoledì 4 a domenica 8, al Lido di Venezia, in una spiaggia libera che, assicurano, sarà gestita con il minimo impatto ambientale, proprio come lo Sherwood Festival che si sta svolgendo in  questi giorni a Padova. “L’approvvigionamento energetico proviene da fonti rinnovabili con pannelli ad energia solare – spiegano gli organizzatori-. Il cibo degli agricoltori locali e non trattato con agenti inquinanti e tossici”.
Il primo Climate Camp, si svolgerà in contemporanea della Mostra del Cinema che, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbe fare da cassa di risonanza all’evento, anche in virtù della sensibilità sulle questioni climatiche che tanti celebri artisti internazionali hanno sempre dimostrato. Il momento culminante si svolgerà proprio il giorno della premiazione del festival cinematografico, sabato 7 settembre, con la marcia “We want red carpet” verso il tappeto rosso. “I riflettori mediatici non dovrebbero stare su un evento mondano ma sull’emergenza climatica” hanno dichiarato gli organizzatori.
Non è neppure un caso che il primo Climate Camp organizzato da Fridays for Future si svolga a Venezia, città di incomparabile bellezza ma, proprio per questo, vittima di un delirante degrado ambientale causato da mercificazione del territorio, turistificazione senza controllo, grandi opere inutili e devastanti realizzate in odor di mafia come il Mose. Una città in cui la stessa democrazia è stata tacitata per coprire gli interessi dei grandi speculatori di cui le compagnie crocieristiche sono solo l’esempio più eclatante. Ma Venezia, non dimentichiamocelo, è anche la città che lo scorso sabato 8 giugno ha saputo portare in campo 10 mila persone al grido “Fuori le Grandi navi dalla laguna”.
Ospiti del Camp, incontri, iniziative, dibattiti sono ancora in fase di definizione. Potete seguire la costruzione degli incontri sul sito del Climate Camp, che tra qualche giorno sarà on line, o sulla sua pagina Facebook dove vi invitiamo a mettere un “mi piace”.
E, naturalmente, questo settembre siate tutti invitati in laguna! 

E’ record: in sole 24 ore si sono sciolte due miliardi di tonnellate di ghiaccio. E il caldo deve ancora arrivare!

Una giornata storica, quella di  giovedì 13 giugno 2019. In solo 24 ore, si sono staccati dalla Groenlandia più di due miliardi di tonnellate di ghiaccio. Un record, in questa stagione! Un record che purtroppo rischia di essere superato nei prossimi giorni. Secondo gli scienziati del clima, ci sono ottime possibilità che questa estate assisteremo ad uno scioglimento dei ghiacciai artici senza precedenti.
“Nel giugno del 2012 abbiamo assistito ad un fenomeno analogo – ha riferito alla Cnn Thomas Mote, ricercatore dell’Università della Georgia – E’ normale che in estate i ghiacciai si sciolgano, ma negli ultimi anni stiamo assistendo ad una escalation preoccupante”.
Il periodo di scioglimento dei ghiacciai groenlandesi va da giugno ad agosto con un picco a luglio. Quest’anno la stagione è cominciata prima, ad aprile, con almeno tre settimane di anticipo, ed ha fatto subito registrare picchi precedentemente toccati solo in piena stagione. Il che, con il caldo che deve ancora arrivare, non fa presagire nulla di buono. Ricordiamo che lo scioglimento dei ghiacci artici è la causa principale dell’innalzamento del livello di acqua del mare. Quell’innalzamento che, secondo le previsioni dell’ilcc potrebbe portare alla scomparsa, tanto per dirne una, di città come Ferrara e Venezia. Il trend di scioglimento registrato in questi giorni va proprio in questa direzione.

Non torneranno i prati

Storie e cronache esplosive di Pfas e Spannoveneti

di Alberto Peruffo – Editore Cierre 
Dice Alberto Peruffo, l’autore di “Non  torneranno i prati”, che “uno come me, nato nella terra dei Pfas, della Pedemontana e della base militare Dal Molin, non poteva che diventare un attivista”. Così dice e… sbaglia! Sbaglia per troppa generosità, ma sbaglia. Tutta l’Italia, caro Alberto, è una gigantesca “terra dei fuochi”. Tutta l’Italia è piena di emergenze ambientali, di grandi opere, di attacchi ai beni comuni e al territorio che, alla fin fine, sono attacchi alla stessa democrazia. Già, alla democrazia. Perché nessuno accetterebbe di vedere la sua terra devastata, la sua salute compromessa da una economia di rapina che fagocita ambiente e diritti per trasformarli in enormi profitti riservati a pochi. Nessuno, se non gli fosse fatto credere che la “colpa” è tutta dei migranti, dei rom, dei centri sociali o dei “pidioti”. E che bisogna odiare chi ha tendenza sessuali diverse dalla media o chi scappa dalla guerra per non odiare chi si arricchisce con il cemento, l’evasione delle tasse, i profitti mafiosi, le grandi navi, lo sfruttamento del lavoro, il business malavitoso dei rifiuti e la nostra salute. Alberto è diventato un attivista perché queste cose le ha capite sin dall’inizio. E credetemi se vi assicuro che sarebbe lo stesso Alberto che conosciamo ora se fosse nato in un ipotetico territorio incontaminato (che in Italia non c’è più) dove la gente non ha bisogno di scendere in piazza per difendere la sua terra. 

Il destino casomai, lo ha portato ad occuparsi dei Pfas, gli scarti della lavorazione di sostanze idrorepellenti che per vent’anni, nel silenzio complice della politica e di chi doveva tutelare l’ambiante, la Miteni ha versato nella falde del vicentino, sino a causare il più grande inquinamento delle acque nella storia d’Europa. 
“Non torneranno i prati”, (Cierre edizioni) racconta in bello stile – cosa più unica che rara per un libro che è anche una inchiesta giornalistica, corredata da dati e analisi scientifiche – questa brutta storia di inquinamento che è anche una bella storia di rivolta, di persone, soprattutto di donne, che hanno avuto il coraggio di mobilitarsi e denunciare. Ed è grazie alla loro denuncia, non certo dalla politica, che ora sappiamo cosa è successo e sappiamo cosa bisogna fare. Già. Perché il libro di Alberto ha una chiosa non scritta ma che riecheggia in tutto il libro: “Non torneranno i prati se…” E’ in quel “se” sussurrato delle sue “Storie e cronache esplosive di Pfas e Spannoveneti” – come si legge nel sottotitolo – che sta tutta la forza rivoluzionaria del libro di Alberto Peruffo. I prati possono anche tornare a fiorire se… e quel “se” dipende tutto da noi. L’autore ce lo ricorda in ogni pagina, in ogni riga del suo libro. E per questo, non possiamo che dirgli: grazie, Alberto!

Pfas, tutti sapevano. Nessuno è intervenuto

Un corposo rapporto dei Noe accusa la giunta provinciale di Vicenza della leghista Manuale De Lago di non essere intervenuta per fermare l’avvelenamento delle acque

Lo sapevano. Lo sapevano tutti e non hanno fatto niente. Non hanno fatto niente anche se, per scongiurare il più devastante caso di inquinamento della falda acquifera dell’intera Europa, sarebbe bastato applicare la legge! 350 mila persone - ed è una stima per difetto - avvelenate dai Pfas, gli acidi perfluoro alchilici utilizzati dalla Miteni per produrre rivestimenti impermeabili. 350 mila uomini, donne e bambini avvelenati grazie al silenzio complice delle autorità che avevano il compito di difendere la loro salute. 

Per almeno 13 anni, l’Arpav e la giunta provinciale di Vicenza hanno deliberatamente ignorato tutte le prove della contaminazione. Hanno fatto finta di non vedere per non dover intervenire nonostante fossero evidentissimi i segnali dell’ “incremento nella contaminazione da benzotrifluoruri, sintesi o sottoprodotti derivati dall’attività della Miteni”, come si legge nel documento di monitoraggio ambientale chiamato Giada avviato sin dal 2003 dall’Ufficio ambiente della provincia di Treviso. 

Un  rapporto del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri di Treviso testimonia come sin dal 2006 i preoccupanti risultati emersi dal progetto Giada fossero stati portati all’attenzione della giunta provinciale di Vicenza, capitanata dalla leghista doc Manuela Del Lago. Lo studio evidenzia senza possibilità di errore come la falda acquifera di Trissino, dove sorgeva la Miteni, avesse subito un drastico inquinamento imputabile “a fattori idrologici o a fatti nuovi verificatesi all’interno dell’area dello stabilimento”. 

Se la Provincia fosse intervenuta immediatamente, ora non saremmo all’emergenza. Ed invece sono stati zitti e hanno scelto di lasciare tutto come stava, permettendo alla Miteni di continuare a produrre Pfas ed al conseguente inquinamento di allargarsi sino a contaminare le falde delle vicine province di Treviso e Padova. 

I No Navi vincono sul campo la battaglia per San Marco. Ora li attende la battaglia politica contro le false “soluzioni”

Ci si aspettava tanta gente. Ne è venuta di più. Novemila, forse diecimila persone hanno accolto l’appello del comitato Noi Grandi Navi per dare vita ad una grande manifestazione alle Zattere, sabato pomeriggio. Una partecipazione senza precedenti, per di più in una “piazza” difficile come quelle di Venezia. Una volta tanto, tutti i giornali, tanto quelli cartacei, quando quelli on line sono d’accordo nel sottolineare  il pieno successo dei manifestanti, rimarcando come la cittadinanza attiva – quella che non si rassegna a vedere la loro città trasformata in una Disneyland per il business turistico – sia tutta contraria alle Grandi Navi. 
La grande partecipazione ha sorpreso tutti. Compresa la Prefettura che di fronte a tutta quella gente ha precipitosamente concesso al corteo di arrivare sino alla Bocca delle Piazza, dopo aver inizialmente vietato il passaggio adducendo pretestuose motivazioni. La piazza dei veneziani è tornata ai veneziani e non solo alle orde di turisti, alle aziende come l’Aperol che la affitta per pubblicità o a quei 4 gatti miao dei “venetisti” che ogni 25 aprile arrivano dalla terraferma per sventolare un Gonfalone che non è loro.  La piazza insomma, è tornata ad essere per i veneziani quel punto di aggregazione, anche politica, che è sempre stata sin dall’epoca dei dogi. 
L’incidente dell’Msc Costa ha certo aiutato a mobilitare le coscienze, ma nessuno può negare che sin da quando questi villaggi turistici galleggianti sono arrivati in laguna – col loro carico di fumo inquinante e di smottamento ondoso – ai veneziani, così come a tutti coloro che hanno a cuore la città, non è mai andato giù vedere l’ambiente lagunare devastato e mercificato per far fare profitti a quelle multinazionali delle crociere che con Venezia non hanno niente a che fare. Venezia è No Grandi Navi. Chi aveva ancora dei dubbi, a proposito, se li è levati dopo la grande manifestazione di ieri. 
In una democrazia compiuta, non ci sarebbero tentennamenti di sorta. Grandi Navi fuori dalla laguna. Punto e basta. Verso Trieste – ammesso che i triestini le vogliano – o verso qualche altro porto. Ma in laguna mai più. Ma l’Italia una democrazia compiuta non lo è. Tutte le Grandi Opere sono state un vero e proprio esproprio di democrazia ai territori per imporre con decreti emergenziali gli interessi speculativi di mafie economiche e politiche. In questi senso, le Grandi Navi sono l’emblema perfetto delle Grandi Opere. Anche le “soluzioni” che certa politica vorrebbe dare al problema, sono – e pure questa è una peculiarità delle Grandi Opere – rimedi peggiori del male. Spostare le navi a Marghera, per esempio, scavando il canale Vittorio Emanuele e allargando il canale dei petroli, col risultato di alterare per sempre l’ecosistema lagunare, portare alla luce tonnellate di fanghi tossici e far arrivare in laguna ancora più navi. Una soluzione su cui si sono gettati in tanti. Comprese le compagnie di crociera, a parole, “disponibilissime” al dialogo. Con la realizzazione di un approdo a porto a Marghera infatti, le loro navi potrebbero scorrazzare più di prima in laguna. E intanto che la politica discute su come bypassare ostacoli come la direttiva Seveso che non consentirebbe la navigazione di navi di quella stazza accanto a petroliere ed a siti industriali a forte rischio, le Grandi Navi continuano a rimanere dove stanno, a San Basilio, a fare l’inchino alla piazza e, loro, ad incamerare profitti miliardari. 
Ed è proprio per questo, per lasciare le cose come stanno, che tanta politica si è scoperta improvvisamente No Navi e favorevole alla non soluzione di Porto Marghera. Parliamo della Regione e soprattutto del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Uno che farebbe meglio a stare zitto sulla questione, se non altro per una mera questione di conflitto di interesse. La sua società “Porta di Venezia spa” è proprietaria di vaste aree da bonificare in zona Pili di Marghera. Me lo ricordo in campagna elettorale sfilare in canale della Giudecca con un rimorchiatore con la scritta nera su sfondo giallo (come quello della canzone Boccadirosa!) “Sì alle Grandi Navi”. Oggi pure lui, il Gigio da Spinea, vuole le Grandi Navi lontane da San Marco e da quel canale sventolava promesse elettorali! 
Ed è proprio per questo che i manifestanti alternavano al coro “Fuori le navi dalla laguna”, “Fuori Brugnaro dalla laguna”. E per dirla come va detta, non sono del tutto sicuro su chi abbia fatto i peggiori danni a Venezia. 

Nella giornata mondiale dell’Ambiente il Governo non vuole sentire parlare di ambiente. Lega e 5 Stelle bocciano la mozione sull’emergenza sostenuta da Fridays for Future

Al Governo del Cambiamento dell’ambiente non gliene frega niente. Lo sapevamo sin dall’inizio della legislatura. Ce lo ha confermato quel Patto di Governo che i cambiamenti climatici non si sogna neppure di menzionarli. Ma lo sapevamo anche prima. Tanto i 5 Stelle che la Lega - i due partiti populisti per eccellenza, fabbricatori di fake new in perenne e urlata campagna elettorale - non  hanno nulla a che spartire con concetti complicati come quelli relativi alla difesa dell’ambiente. Non hanno né la capacità né tantomeno l’obiettivo di farsi carico di scelte che li porterebbero ad intaccare un sistema economico che, soprattutto in Italia, non ha niente di verde. Scelte peraltro, che risulterebbero anche impopolari ai tanti italiani che non hanno nessuna intenzione di cambiare stile di vita. Anzi, è proprio sulla paura del cambiamento che questi partiti hanno costruito le loro fortune elettorali. La “colpa” è sempre e comunque dei migranti e non del clima. Giusto? Oppure delle zecche dei centri sociali che quando vanno in piazza “obbligano” la polizia a pestare a sangue un giornalista. Perché mai 5 Stelle e Lega dovrebbero mettere tutto in discussione? Solo per evitare quei cambiamenti climatici i cui effetti più drastici li vedremo tra una ventina d’anni, quando si sa che l’orizzonte di politici di mezza tacca come sono quelli che ci governano non va oltre le prossime consultazioni elettorali? 

La bocciatura in Senato della mozione per la dichiarazione dell’emergenza climatica in Italia, come è stato fatto in altri Paesi Europei, è solo una logica ed inevitabile conseguenza di tutto ciò. La Lega e il suo elettorato, ai cambiamenti climatici neppure ci crede. E’ gente che ha paura. E l’ignoranza è un rassicurante rifugio che ha il vantaggio di regalarti granitiche certezze. Fermiamo i barconi e l’invasione… Prima l’Italia… Ruspe… Cosa pretendete? Che comincino a ragionare sul fatto che sarebbe meglio cambiare l’economia e non il clima? 


I 5 Stelle sono ancora peggio. Sono stati allevati in un partito di proprietà di una azienda privata che si tramanda di padre in figlio e che chiamano “movimento”. E’ vero che hanno raccolto voti di alcuni disperatissimi attivisti di movimenti ambientali, ma solo perché quando si è in campagna elettorale promettere non costa niente. Soprattutto se sei uno di quelli o di quelle che hanno la faccia come il culo. Stop ai vaccini che contengono metalli pesanti. Via l’Italia dalla Nato. Sì all’euro, no all’euro. Basta con le scie chimiche e il signoraggio bancario… Ma davvero qualcuno sperava che avrebbero tradotto in pratica politica le loro sparate da maghi di Luna Park?

Il risultato è il Governo che abbiamo. E facciamo attenzione che la bocciatura alla mozione, arrivata per giunta nella Giornata Mondiale dell’Ambiente, avrebbe potuto tranquillamente essere un “sì” senza che questo causasse stravolgimenti all’azione del Governo. Il testo presentato dalla senatrice Loredana De Petris (LeU) e dal suo collega Andrea Ferrazzi (Pd), era poco più di un impegno generico ad intraprendere qualche azione a difesa del clima. Niente di che… al massimo una dichiarazioni di buone intenzioni per “accontentare” i giovani e le giovani di Fridays for Future che si sono mobilitati con tanto impegno nei venerdì per il clima. Non c’era nessuna possibilità - per dirla come va detta - che la mozione potesse costringere il Governo a tagliare un solo euro di quei 19 miliardi di sussidi alle fonti fossili che continuiamo a sborsare alla faccia degli accordi di Parigi. Tanto per citare una voce di bilancio che, se davvero abbiamo cuore l’ambiente, bisognerebbe buttare fuori dalla finanziaria come le grandi navi dalla laguna. 

Perché allora il Senato non l’ha approvata? Perché la Lega non ha voluto perdere l’occasione di usare la bocciatura come una mazzuola per dare ancora in testa ai 5 Stelle. L’ambiente è un hashtag ancora adoperato dai grillini, anche se - tu vai a capire il perché - alle manifestazioni per l’ambiente non si fanno più vedere. I leghisti, dal canto loro, ne preferiscono altri: #sicurezza, #pistolepertutti, #stopinvasione… Allora cosa è successo allora? E’ successo semplicemente che il ministro Matteo Salvini ha voluto ricordare per l’ennesima volta al collega Luigi Di Maio chi comanda e chi detta l’agenda. E nell’agenda del Governo la parola ambiente devono ancora scriverla e mai la scriveranno. Dopo la scoppola elettorale, l’unico obiettivo dei 5 Stelle oramai è salvare la poltrona sino alla fine della legislatura. Tutto qua. Da “uno vale uno” a “mutismo e rassegnazione”, come si diceva una volta alle “burbe” in caserma. 

“Si vede che nessuno di quelli che ha votato contro ha dei figli. Si vede che nessuno del Governo vive in Italia, dove la temperatura media è aumentata non di 1,1 gradi come la media globale ma di 1,58 gradi. Si vede che nessuno di loro pensa di essere ancora vivo nel 2030”. Così hanno amaramente commentato sul loro profilo Instagram le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future che non hanno preso bene la bocciatura della “loro” mozione. 


Così come non hanno preso bene l’approvazione del testo alternativa avanzato dei 5 Stelle che l’emergenza climatica non la menziona neppure e parla genericamente di, pensate un po’!, “promuovere campagne di sensibilizzazione e informazione rivolte ai cittadini in sinergia con gli enti locali”. Non hanno preso bene neppure il fatto che Di Maio, tutto contento, abbia fatto passare tutto questo come una sua grande vittoria diplomatica nei confronti di quegli insensibili della Lega. Ma già, cosa dicevamo delle facce dei nostri eletti al Parlamento? 

“Via le Grandi Navi dalla laguna!” La Venezia viva in assemblea al Sale lancia la manifestazione di sabato 8 giugno

L’incidente in banchina dell’Msc Opera ha avuto quanto meno l’effetto di risvegliare le coscienze. Intendiamo, risvegliare le coscienze di chi ce l’ha, una coscienza. Al mutismo delle compagnie ed al “bla bla” della politica che semplicemente non conosce il problema a fondo e farà di tutto per non trovare una soluzione che scontenti le potentissime compagnie di crociera - che si sono vantate di un fatturato in crescita che ha toccato lo scorso anno 14 miliardi di euro - va contrapposto l’indignata reazione della Venezia viva. Quale che non si rassegna a posporre diritti, salute, ambiente e democrazia nel suo territorio alle logiche di fatturato in banca delle multinazionali crocieristiche.

L’assemblea dei No Navi, svoltasi ieri pomeriggio ai Magazzini del Sale è stata premiata da una partecipazione straordinaria - almeno 150 persone - e lascia ben sperare per la riuscita ella manifestazione che è stata lanciata per sabato prossimo, 16 giugno, con ritrovo alle Zattere alle ore 16.

Tanta gente, dicevamo, e un ospite d’eccezione. I lavori sono stati aperti da Laura Zuniga Caceres, una delle figlie dell’attivista honduregna Berta, fondatrice dell’organizzazione Copinh attraverso la quale le popolazioni indigene del paese Centroamerica hanno lottato contro la realizzazione di una diga sul Río Gualcarque progettata dalla multinazionale Desa. Berta è stata assassinata il 2 marzo del 2016. Tra i mandanti, un manager e un responsabile della sicurezza della Desa e due alti militari dell’esercito dell’Honduras.


“Noi combattiamo ogni giorno contro l’estrattivismo, voi a Venezia contro la turistificazione di massa - ha spiegato ‘Laurita’ all’assemblea - ma la lotta è una sola: quella contro la stessa logica predatoria di chi trasforma diritti e ambiente in merce per ricavarne profitto”.

Il dibattito è stato aperto dagli interventi dei portavoce dei Noi Grandi Navi, di Quartieri in Movimento e di Fridays for Future.

Applicare sin da subito il decreto Clini Passera che vieta l’entrata in laguna delle navi con stazza superiore alle 40 mila tonnellate, è la soluzione del problema secondo l’assemblea. Una soluzione già pronta che non ha costi e non prevede scavi o altre Grandi Opere in laguna.

Chi parla di scavare il Vittorio Emanuele non sa quello che dice. Oppure butta acqua sul fuoco per lasciare tutto come sta. Oltre allo scavo del Vittorio Emanuele infatti, sarebbe necessario ampliare il canale dei petroli per consentire alle Grandi Navi di transitare con le petroliere. Una “soluzione” vietata dalla legge speciale per Venezia e dalla normativa Seveso per prevenire gli incidenti industriali. Il tutto, per portare questi condomini galleggianti sempre nella banchina già “incidentata” di San Basilio oppure su un nuovo scalo a Porto Marghera che aggiungerebbe ulteriore inquinamento in un’area già sufficientemente inquinata e ulteriore rischio in una zona già sufficientemente a rischio. “Riuscite ad immaginare una grande nave in avaria in un’area riempita di impianti pericolosi come Porto Marghera?”, si chiede preoccupato il presidente della municipalità, Gianfranco Bettin.

Non sono queste le ”soluzioni” che vogliono i veneziani e tutti coloro che hanno a cuore la laguna. “Le Grandi Navi devono starsene fuori - ha sottolineato Marta di Fridays for Future -. Sono pericolose per la città, per la laguna, per l’Adriatico e pure da tutti gli oceani del mondo. Sono un emblema perfetto di quel profitto predatorio che inquina sia l’ambiente che la stessa democrazia. Le Grandi navi sono incompatibili con la lotta ai cambiamenti climatici”.

L’incidente in banchina dell’Msc Opera, abbiamo scritto in apertura, ha avuto quanto meno l’effetto di risvegliare le coscienze. E non solo degli italiani. Parliamo delle coscienze del mondo (perché Venezia appartiene al mondo). Quel grattacielo galleggiante che ciondolava senza controllo nel canale della Giudecca sfracellando le fragili imbarcazioni che incontrava, è un emblema perfetto della deriva pericolosa di un capitalismo diventato troppo grande e insostenibile per la nostra terra. Questa immagina ha toccato profondamente la nostra anima perché tutti noi, anche chi dice che ai cambiamenti climatici non crede, sappiamo bene che un pianeta B non ce l’abbiamo.

Oggi Venezia e le scelte che faremo per difenderla, sono sotto gli occhi del mondo intero. Una ottima occasione per dare, una vota tanto, il buon esempio e buttare questi mostri devastanti e i loro profitti miliardari fuori della laguna. Fuori dal pianeta.

#FacciamoCausa. I movimenti ambientalisti denunciano lo Stato Italiano per immobilità nell’affrontare i cambiamenti climatici

La prima “causa climatica” arriva nei tribunali italiani. L’iniziativa è stata lanciata oggi, alle ore 12,30, in occasione della giornata mondiale dedicata all’ambiente.
“Chiediamo ai giudici di condannare lo Stato Italiano per la violazione del diritto umano al clima – si legge nel comunicato di presentazione dell’iniziativa -. Il livello della minaccia rappresentata dagli stravolgimenti climatici e la debolezza delle misure messe in atto dagli Stati destano una crescente preoccupazione nell’opinione pubblica, che si organizza attraverso mobilitazioni sempre più intense a livello internazionale. Il movimento per la giustizia climatica rappresenta oggi uno dei fenomeni più rilevanti sulla scena internazionale, denunciando senza sosta l’immobilismo dei poteri pubblici nella protezione dei diritti umani connessi al clima”. A questo link potete trovare il testo integrale del comunicato. “Da questo punto di vista -continua il testo-, l’Italia non fa eccezione. Il nostro Paese ha obiettivi di riduzione delle emissioni scarsamente ambiziosi e non in linea con le raccomandazioni espresse dalla comunità scientifica per centrare l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro la soglia prudenziale dei +1,5 centigradi”.
Non sarà la prima “causa ambientale” al mondo. In ben 25 Paesi, la società civile è riuscita a portare alla sbarra lo Stato. E con lo Stato, le imprese e i progetti con un forte impatto sul clima. Alcuni contenziosi sono ancora in atto. Ma in Olanda, gli ambientalisti hanno visto la causa nei primi due gradi di giudizio e hanno imposto al Governo di rivedere i suoi piani.
L’iniziativa legale, che partirà in autunno col deposito dell’atto di citazione, e la campagna a suo sostegno, chiamata “Giudizio universale” sono state lanciate da una lunga lista di associazioni, movimenti, comitati ambientalisti e siti che si occupano di ecologia di tutta la Penisola, tra i quali EcoMagazine.
Per aderire, contribuire, o per essere inseriti nella mailing list informativa, collegatevi al sito Giudizio Universale. L’hastag ufficiale sarà #FacciamoCausa.
“La campagna è patrimonio di tutte le organizzazioni e i movimenti sociali impegnate in questi mesi contro i cambiamenti climatici – spiegano i portavoce di A Sud-, e vuole essere un ulteriore strumento di pressione per il nostro governo in vista della prossima Conferenza Mondiale sul Clima, in Cile”. 
Contatti.    Mail: stampa@giudiziouniversale.eu    Tel: 348 686 1204

Apre Sherwood, il festival a zero emissioni

Sarà un festival “plastic free” quello che si aprirà venerdì 7 giugno nell’oramai storica cornice del parcheggio nord dello stadio Euganeo di Padova. Convinti che “climate justice” non sia solo uno slogan da scandire nelle manifestazioni ma anche un qualcosa che deve entrare nelle vite e nelle scelte di tutti i giorni, le ragazze e i ragazzi dello Sherwood hanno deciso di intraprendere una decisa svolta verde, riducendo il più possibile l’impatto del festival per renderlo ambientalmente sostenibile. L’appuntamento più importante per i movimenti sociali e ambientali del nord Italia, che da vent’anni sposa musica, eventi, informazione e politica, quest’anno cambia decisamente “vestito” e rinuncia alla plastica ed agli inquinanti in nome della sostenibilità ambientale. Una scelta necessaria e indispensabile, perché, come gridano nelle piazze le ragazze e i ragazzi di Fridays For Future, “non abbiamo un pianeta B” ed anche la foresta di Robin Hood fa parte di questo pianeta Terra. “Noi dello Sherwood Festival crediamo che sia possibile produrre un festival Climate Positive – se legge nel sito sherwoodfestival -. Per l’edizione 2019 del Sherwood Festival abbiamo lavorato molto riducendo del 50% i nostri impatti climatici rispetto alle edizioni precedenti. Abbiamo eliminato la plastica dal festival, abbiamo scelto energia rinnovabile per i vostri decibel preferiti e vogliamo creare a Padova una nuova foresta di Sherwood!”


Tante le novità che ci aspettano. Ad eccezione dei tappi delle bottiglie che andranno conferiti negli appositi contenitori di raccolta, bicchieri, posate, piatti, cannucce e le bottiglie saranno tutti compostabili e andranno gettati nei bidoni dell’umido. “La plastica è il rifiuto che pesa di più sulla salute del mondo – si legge nel sito -: un enorme problema che provoca danni irreversibili. Per le sue conseguenze e per le sue dimensioni si può comparare al riscaldamento globale. Questo materiale impiega 450 anni per degradarsi e le microplastiche in cui si trasforma sono la minaccia più grave per la sopravvivenza dell’ecosistema marino.Questi frammenti vengono ingeriti dai pesci e poi da noi quando li mangiamo. Nel Mediterraneo le concentrazioni di microplastiche sono il 7% a livello globale. Negli oceani ogni anno vengono riversate 800 milioni di tonnellate di plastica, l’85% dei rifiuti marini. I dati ci dicono che se continueremo così entro il 2050 nei mari ci sarà più plastica che pesci. Per questi motivi allo Sherwood Festival non troverete plastica monouso”. Anche le cannucce che troverete negli stand, sono prodotte in PLA e compostabili.

Gruppi di volontari, aiuteranno gli ospiti ad effettuare una corretta raccolta differenziata: umido, secco e carta. “Ma ridurre i nostri impatti ambientali non ci basta. Vogliamo restituire alla natura quello che ogni giorno lei ci dona. Vogliamo che ogni anno il Festival possa lasciare la città di Padova meglio di come l’ha trovata. Per questo vogliamo creare a Padova la Foresta di Sherwood. A ottobre 2019 pianteremo i nostri primi 100 alberi accuratamente selezionati per catturare CO2 e inquinanti come PM10. La Foresta di Sherwood crescerà vigorosa a poche centinaia di metri dall’area del Festival”.

Anche la luce che illuminerà le serate del festival sarà pulita, sostenibile, etica e rinnovabile. Sherwood ha scelto un fornitore di energia – ènostra – che garantisce tutto questo. I visitatori potranno diventare soci della cooperativa con uno sconto speciale del 5% sui servizi del primo anno. Qui trovi tutte le informazioni necessarie.

Per quanto riguarda la mobilità, il festival ha attivato unservizio di bus navetta gratuito che dal centro di Padova e dalla stazione dei treni raggiunge il Park Nord. Inoltre, continua la partnership con Busforfun, la start- up veneta che offre servizi di collegamento con i più importanti appuntamenti culturali in Italia e all’estero. Tutte le info su questa pagina.

Anche i cibi e le bevande che stanno servito negli stand – con poche eccezioni tra le quali la Coca Cola, su cui si conta di riuscire a fare a meno il prossimo anno – sono prodotti a chilometri zero, o quasi, e provengono da produttori biologici e certificati, come El Tamiso. Non troverete invece alimentari proveniente da Paesi che violano i diritti umani o da aziende che devastano l’ambiente e sfruttano i lavoratori.

Chi lo sa? Magari, quelli che ancora non ci credono, grazie allo Sherwood festival, scopriranno che si può bere e mangiare – e bene! – ugualmente, rispettando le risorse di quel pianeta che è l’unico che abbiamo.

Fridays for Future occupa il parlamento europeo

Un centinaio di ragazze e ragazzi di Fridays for Future si è sistemata con una ventina di tende, sacchi a pelo, bandiere verdi e striscioni all’interno della sede del parlamento europeo di Bruxelles. E’ la prima volta che questo accade in tutta la storia dell’Unione Europea. Ancora non si riesce a capèire come abbiamo fatto gli attivisti ambientalisti ad entrare un una sede protetta come quella dell’Assemblea. Una iniziativa che cade proprio dopo lo sciopero globale di venerdì 24 maggio che ha visto Fridays for Futur mobilitare milioni di giovani in tutto il mondo.
La delegazione di Fridays for Future che ha messo in atto la sconcertante iniziativa di Bruxelles è composta da ragazze e ragazzi di tutta Europa. Tra di loro, il 14enne italiano David Wicker, valsusino e, ovviamente, fervente attivista No Tav. “La scelta di occuopare la sede della massima istituzione dell’Unione Europea – ha spiegato David – è stata presa allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che quello di prossima elezione sarà l’ultimo Parlamento che avrà la possibilità di imboccare una strada che può permetterci di tenere il riscaldamento globale al di sotto di un grado e mezzo”.

Una iniziativa simbolica, abbiamo scritto, ma non  soltanto simbolica. In questi giorni, i cittadini europei sono chiamati ad eleggere il nuovo parlamento. La partita che stiamo andando a giocare è essenzialmente quella tra sovranisti e ambientalisti. Tra chi vuole alzare muri e chi vuole abbatterli, tra chi continua a difendere una economia di devastazione e di rapina, e chi ha capito che questo modello di sviluppo non è più sostenibile ed è necessario invertire la rotta perché, come ripetono sempre le ragazze ed i ragazzi di FfF, siamo tutti abitanti di questa terra e “non abbiamo un pianeta B”. Il parlamento europeo che Fridays For Future chiede è un parlamento capace di indirizzare l’Europa verso questa nuova strada. La sola che permetterà all’umanità di sopravvivere in questo nostro pianeta violentato dal capitalismo.

I ciclisti del clima si preparano a saltare ancora in sella. Pronta la carovana Venezia Bruxelles

Neanche il tempo di scendere dalla sella che già comincia una nuova avventura. E la data è già stata segnata sul calendario: partenza sabato 26 ottobre, sempre da Venezia, arrivo a Bruxellesgiovedì 7 novembre. Tredici giorni, mille e trecento chilometri, sei nazioni: Italia, Austria, Svizzera, Germania, Francia e Belgio. Tutto ovviamente a “zero emissioni”. Come dire: in bicicletta. “Un mezzo che abbiamo imparato può essere usato per fare cose che potrebbero sembrare impossibili” ha sottolineato Daniele Pernigotti, portavoce di RideWithUs, in occasione della presentazione del tour ciclistico svoltasi ieri sera al cso Rivolta di Marghera. Cose che potrebbero sembrare impossibili ma cha alla fine, grazie all’impegno e alla buona volontà di tutti, diventano realizzabili. Esattamente come la lotta ai cambiamenti climatici. Una battaglia che può essere vinta solo se tutti… saliamo in bicicletta e prendendo la strada di un consumo più responsabile e sostenibile.


La serata organizzata da RideWithUs è stato anche il momento per festeggiare la carovana di ciclisti che da Venezia è arrivata a Roma per partecipare alla grande manifestazione per la Giustizia Climatica del 23 marzo. Molti di loro sono già pronti a saltare ancora in sella alle loro bici per questa nuova avventura su due ruote. Avventura che, come nelle note di RideWithUs, si svolgerà in contemporanea con la Cop del clima, in programma a Santiago del Cile. Lo scopo dell’iniziativa è appunto quello di portare al nuovo parlamento europeo i patrocini e le lettere dei Comuni che hanno dato il loro patrocinio alla carovana e chiedere un maggior impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Una “bicicletta” questa in cui dobbiamo salire tutti perché, come è stato più volte ripetuto, non abbiamo un pianeta di riserva.

Per iscrivervi o per informazioni più dettagliate sulla carovana collegatevi al sito RideWithUs



Davide Pernigotti presenta RideWithUs Venezia – Bruxelles

Fridays For Future: la squallida operazione di chi gli ha rubato i social

48 mila follower, gli hanno fregato a Fridays For Future. L’intero bacino Facebook. Per non parlare del sito che faceva da punto di riferimento a tutti i ragazzi scesi in piazza in quell’indimenticabile venerdì 15 marzo. E non è tutto. Quello che è peggio è che hanno cercato di far passare una idea di movimento spaccato in due. Cosa che non è affatto, perché tutti i gruppi di tutte le piazze italiane hanno immediatamente risposto alla provocazione ribadendo l’unità del movimento per la giustizia climatica
Certo che per le ragazze ed i ragazzi di Fridays For Future è stato un brutto risveglio, quello della mattina dell’8 marzo, quando tutti gli admin e gli editor delle pagine Facebook si sono accorti di essere stati privati dei loro privilegi di acceso. Stesso discorso per il sito, www.fridaysforfuture.it, i cui amministratori si sono trovati improvvisamente senza la possibilità di postare e di controllare i post. Cosa è successo? “E’ successo che le nostre pagine erano gestite in maniera amichevole, senza troppi controlli – spiega Gianfranco, uno dei responsabili per i contatti con la stampa di FFF -. Bastava chiedere e ti veniva concesso l’editor. Qualche tempo fa una persona di nome Luca Polidori ha chiesto l’accesso e, qualche giorno dopo, l’editor. Ingenuamente qualcuno di noi glielo ha concesso. Lo stesso è avvenuto per il sito. Forse noi siamo troppo in buona fede ma certo ci siamo rimasti male quando questa persona ha cancellato tutte le altre utenze e si autonominato unico gestore dei nostro mezzi di comunicazione”. 
Il colpo di mano non è stato accettato passivamente dal movimento dei venerdì per il clima. Tutte le piazze, nessuna esclusa, ha denunciato la squallida operazione che, alla fin fine, altro non è che un furto bello e buono, sia di utenti che di credibilità. Immediatamente sono stati aperti nuovi sociale un nuovo sito, ed è partita una denuncia alla polizia postale. Ma qualche giornale, come abbiamo detto, ha cercato di far leggere nell’operazione una spaccatura interna di Fridays For The Future che è un modo – così come i vergognosi attacchi a Greta e le fake new sulla sporcizia lasciata dai ragazzi dopo le manifestazioni – per cercare di depotenziare le mobilitazioni. Segno indiscutibile che cominciano a fare paura!
Ma chi è questo Luca Polidori? “Stiamo cercando di capirlo anche noi. Sappiamo che vive a Bruxelles e che avrebbe fondato un sedicente movimento ambientalista. Nessuno di noi lo conosce o lo ha mai visto prima. Ma tra i ‘Mi piace’ che ha rilasciato dalla sua pagina Facebook c’è quella a Matteo Salvini”. 
Attenzione quindi. Il sito www.fridaysforfuture.it e la pagina fb “Fridays For Future Italy”, perlomeno per ora, non sono più i canali ufficiali di Fridays For Future. Le attiviste e gli attivisti invitano a dare il “Like” e a seguire questi nuovi canali social: 
Facebook >>> fb.me/FridaysItalia

Venerì 15 marzo: sciopero mondiale per il clima

“Skolstrejk för klimatet”. E’ cominciato tutto con un cartello in lingua svedese dove c’era scritto “sciopero della scuola per il clima” . Lo teneva in mano una ragazzina dalle trecce bionde affetta da sindrome di Asperger: Greta Thunberg. Ogni venerdì mattina, Greta andava a sedersi col suo cartello davanti al Riksdag, il parlamento svedese. All’inizio, non se la filava nessuno ma Greta non ha mai mollato. I suoi interventi alla Cop 24 e al vertice di Davos, l’hanno fatta diventare un fenomeno mediatico mondiale, preso come esempio dagli studenti di tutta la terra. Fridays For Future è diventata una protesta globale che, grazia anche al suo carattere di urgenza – solo 10 anni di tempo per riportarci nei limiti di riscaldamento previsti dagli accordi sul clima – e inevitabilità – l’umanità non ha alternative perché un pianeta di riserva proprio non ce l’abbiamo -, è riuscita a rilanciare una movimentazione come non ne avevamo mai viste al mondo. 

Una movimentazione che è riuscita – e pure questa è una novità – a portare su una sola piattaforma chiamata Giustizia Climatica, rivendicazioni sociali, ambientalismo, azioni contro i cambiamenti climatici, beni comuni, tutela dei diritti umani, pacifismo contro tutte le guerre, transfemminismo, lotta contro lo sfruttamento dei Paesi poveri. Quel cartello con scritto “Skolstrejk för klimatet” apriva le porte ad una strada che porta inevitabilmente alla liberazione dalla schiavitù di un modello di sviluppo economico e di gabbie sociali fondate sul capitalismo.
Una strada che va percorsa con decisione, senza paura di azioni anche drastiche, proprio perché, come ci spiega Greta, quando hai la casa in fiamme non hai altro da fare che prendere l’estintore e lottare per spegnere l’incendio. L’estintore, nel nostro caso, si chiama Fridays For Future, e a tenerlo in mano, puntandolo dalla parte giusta, sono le ragazze ed i ragazzi di tutta la Terra che domani scenderanno in piazza per il primo sciopero climatico globale
Non resta altro da fare che andargli dietro, partecipando e diffondendo la protesta. Qui, trovate la vostra piazza
Questi gli appuntamenti per il nordest, con la relativa pagina Facebook

Angry Animals all’attacco! Occupata e sanzionata la raffineria Eni di PortoMarghera

I fossili vanno lasciati sottoterra. Lo affermano i climatologi, lo hanno tradotto in pratica le attiviste e gli attivisti dei centri sociali del nord est che, questa mattina presto, hanno bloccato la raffineria dell’Eni di Marghera. Tute bianche e maschere da “angry animals” – già utilizzata in altre azioni ambientaliste, un centinaio di ragazze e ragazzi ha pacificamente chiuso i cancelli della raffineria, arrampicandosi sui tetti per “sanzionare” con la vernice i loghi del cane a sei zampe ed appendere striscioni di protesta. Il blocco è durato tutta la mattina, fermando un lungo convoglio di automezzi pesanti che cercava di entrare nel perimetro della raffineria e obbligando anche ad una petroliera di avvicinarsi al molo. 
“Contestare Eni – hanno spiegato gli Angry Animals, gli animali arrabbiati – significa denunciare un sistema di rapina e devastazione dei territori e delle popolazioni. Questo rappresenta una minaccia per la salute delle persone e un attacco diretto alla sopravvivenza di noi tutti. Essere per la giustizia climatica e per la libertà di movimento significa affermare l’incompatibilità di un sistema produttivo che rende i territori inabitabili e e costringe alle migrazioni”.

Il pericolo derivante dall’estrazione dei fossili e c he si traduce, oltre che in un aumento di gas climalteranti anche nella continua produzione di inquinanti sostanze plastiche, è oramai dimostrato dalla scienza. Le varie conferenze sul clima che sono state organizzate oramai in tutti i continenti, hanno più volta stabiliti dei limiti alle estrazioni e all’uso dei fossili. Limiti che, pur se sottoscritti da tutti i Governi mondiali, sono stati regolarmente disattesi. 
“Non tutti hanno ancora recepito il concetto che non ci sono alternative possibili. L’attuale sistema di produzione non è più sostenibile. Non ci sono riconversioni o fantomatici utilizzi ‘verdi’ per i fossili che tengano. La sola cosa che l’umanità può fare, se vuole continuare ad abitare questo pianeta, è lasciare i fossili dove stanno. Sottoterra”. 
L’obiettivo della raffineria Eni, non è stato scelto a caso. La “nostra” multinazionale è protagonista e complice dei più efferati sfruttamenti di giacimenti fossili di tutto il pianeta. Pensiamo solo a Delta del Niger dove lo popolazioni locali hanno più volte denunciato la multinazionale di aver effettuato oltre 10 mila sversamenti abusivi ed inquinanti nelle loro acque. Oppure alla Libia, un Paese portato al tracollo e alla guerra civile proprio dagli interessi delle compagnie petroliere. 
“L’Eni rappresenta un perfetto paradigma dello stato di sfruttamento intensivo cui è sottoposto l’intero pianeta. A farne le spese, per ora , sono soprattutto le aree più povere – o forse dovremmo dire impoverite – in cui la stessa riproduzione biologica della vita è stata compromessa dall’estrazionismo. Ma non dimentichiamoci che lo sfruttamento, per sua stessa natura, non può porre limiti a se stesso. Se tutta la terra è merce, se neppure la minaccia dei cambiamenti climatici ci farà capire che è ora di cambiare il sistema prima che questo cambi il clima, allora non ci sarà nessuna speranza per l’umanità”.

The climate ride. In bicicletta da Venezia a Roma per partecipare alla marcia per il clima del 23 marzo

Tutto è cominciato a Copenaghen nel 2014, in occasione della presentazione del quinto rapporto dell’Ipcc sullo stato della lotta mondiale ai cambiamenti climatici. 
Un variegato gruppo formato da ambientalisti, ciclisti del Pedale Veneziano o di altri sodalizi, cicloviaggiatori e attivisti della Fiab – la federazione italiana degli amici della bicicletta – si sono riuniti sotto la sigla RideWithUs ed hanno organizzato carovane di pedalatori che, da Venezia, hanno attraversato l’Europa per raggiungere le sedi delle annuali conferenze sul clima. Lo scopo era quello di coinvolgere e sensibilizzare più persone possibile sulla necessità di intraprendere una azione rapida e radicale a tutti i livelli per contrastare i cambiamenti climatici.
In sella alle loro biciclette, i ciclisti hanno percorso migliaia di chilometri ad impatto zero, raggiungendo, dopo Copenhagen, anche a Parigi per la Cop21 nel 2015 e Torino nel 2016 per partecipare ad un incontro con Luca Mercalli svolto in contemporanea con la Cop22 che si svolgeva a Marrakech. La successiva tappa di RideWithUs è stata Bonn nel 2017 per la Cop23, quindi, l’anno dopo, Katowice, in Polonia per la Cop24. Un pedalare infinito che ha visto il coinvolgimento, chi per una breve tappa, chi per tratti più lunghi o per tutto il viaggio, di centinaia di ciclisti ambientalisti. Perché chi ama la bicicletta, ama e rispetta anche l’ambiente.
I ciclisti di RideWithUs, assieme ad altri appassionati di bicicletta, torneranno in sella domenica 18 marzo a Venezia per accompagnare The Climate Ride, una carovana su due ruote che raggiungerà Roma per partecipare alla Marcia per il Clima che si svolgerà nella capitale sabato 23. Sei giorni di viaggio da nord a sud lungo la penisola, sulle strade del Veneto, dell’Emilia Romagna, delle Marche, dell’Umbria e del Lazio per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione del cambiamento del clima e per dimostrare che si può viaggiare – e bene! – anche senza bruciare combustibili fossili. Venezia, Ferrara, Cesena, Pieve Santo Stefano, Perugia, Terni e infine Roma. Sei giorni di viaggio che hanno anche l’obiettivo di far rete. Lungo la strada, i ciclisti di The Climate Ride incontreranno movimenti, spazi sociali, associazioni, comitati di cittadini e altre realtà che, pur pensando globalmente, si sono organizzate per difendere beni comuni e territorio da una economia predatoria che ha trasformato l’intero pianeta in merce.
In questa ennesima avventura, i ciclisti di The Climate Ride si sono ritagliati un ruolo da “postini” e hanno preparato una lettera che i primi cittadini, consapevoli del rischio connesso con i cambiamenti climatici, dei paesi e delle città che attraverseranno, potranno firmare. Queste lettere saranno portate, ovviamente sempre in bicicletta, dagli amici di RideWithUs a Bruxelles, e consegnate ai rappresentanti del nuovo parlamento europeo, facendo tappa a Strasburgo e Maastricht, il prossimo 7 novembre, dopo una pedalata che partirà sempre da Venezia il 26 ottobre, per invitare  l’Europa ad assumere un ruolo di leadership internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici.
Appuntamento quindi a Marghera, domenica mattina, per salutare la carovana di The Climate Ride che salirà in sella per raggiungere la sua prima tappa: Ferrara. Una ventina di ciclisti ha già dato disponibilità a partecipare a tuto il viaggio e almeno altrettanti saranno coloro che si uniranno per ogni singola tappa. Su EcoMagazine seguiremo tutta l’avventura e racconteremo, paese dopo paese, gli attacchi all’ambiente e le lotte di coloro che lo difendono. 
Se vuoi salire anche tu in sella con The Climate Ride per tutto il viaggio, per una o più tappe, o anche per accompagnarci per un breve tratto di strada, manda una mail a 23mromainbicicletta@gmail.com oppure chiamami al 347 5476813. Puoi anche seguirci o contattarci nella pagina Facebook dell’iniziativa. 

#TheClimateRide        #23mRomaInBicicletta       #SiamoAncoraInTempo

La biodiversità sta scomparendo. Il rapporto della Fao: “A rischio il futuro dei nostri alimenti, della salute e dell’ambiente”

Il rapporto globale sullo stato della biodiversità presentato ieri a Roma dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e il cibo, è categorico: siamo vicini al collasso dell’intero sistema di produzione alimentare. Il modello attuale di agricoltura, industriale ed estensivo, che sta alla base dei nostri sistemi alimentari, la gestione insostenibile delle risorse naturali, la distruzione di habitat e terre destinate alle coltivazione, ha causato danne enormi alla biodiversità del nostro pianeta. Serve una azione immediata che deve diventare la priorità di ogni agenda politica. Abbiamo 10 anni di tempo per invertire rotta verso una economia più sostenibile altrimenti l’intero pianeta andrà verso un collasso totale e irreversibile dell’intero sistema di produzione alimentare  con gravi ripercussioni anche per la nostra salute.
Una volta perduta, avverte il rapporto, la biodiversità alimentare e agricola – vale a dire tutte le specie che supportano i nostri sistemi alimentari – non può essere recuperata.

Il rapporto FAO si basa sulle informazioni fornite specificamente da 91 paesi e sull’analisi degli ultimi dati globali. “La biodiversità è fondamentale per la salvaguardia della sicurezza alimentare globale, é alla base di diete sane e nutrienti e raforza i mezzi di sussistenza rurali e la capacitá di resilienza delle persone e delle comunità,“ ha dichiarato il Direttore Generale della FAO, José Graziano da Silva. “Dobbiamo usare la biodiversità in modo sostenibile, in modo da poter rispondere meglio alle crescenti sfide del cambiamento climatico e produrre cibo senza danneggiare il nostro ambiente.”
Delle circa 6.000 specie di piante coltivate per il cibo, – si legge nella nota Fao di presentazione del rapporto – meno di 200 contribuiscono in modo sostanziale alla produzione alimentare globale e solo nove rappresentano il 66% della produzione totale.
La produzione mondiale di bestiame si basa su circa 40 specie animali, con solo un piccolo gruppo che fornisce la stragrande maggioranza di carne, latte e uova. Delle 7.745 razze di bestiame locali (a livello di paese) segnalate, il 26% è a rischio d‘estinzione.
Quasi un terzo degli stock ittici è sovra-sfruttato, più della metà ha raggiunto il limite sostenibile.
Le informazioni provenienti dai 91 paesi rivelano che le specie di cibo selvatico e molte specie che contribuiscono ai servizi eco-sistemici vitali per l’alimentazione e l’agricoltura, compresi gli impollinatori, gli organismi del suolo e i nemici naturali dei parassiti, stanno rapidamente scomparendo.
Ad esempio, i paesi riportano che il 24% di quasi 4.000 specie di cibo selvatico – principalmente piante, pesci e mammiferi – sta diminuendo. Ma la proporzione di alimenti selvatici in declino è probabilmente ancora più grande perché lo stato di oltre la metà delle specie alimentari selvagge è ancora sconosciuto.
Il maggior numero di specie di cibo selvatico in declino compare in paesi dell’America Latina e dei Caraibi, seguiti da quelli dell’Asia-Pacifico e dell’Africa. Questo potrebbe essere, tuttavia, il risultato del fatto che le specie alimentari selvatiche sono più studiate e riportate in questi paesi che in altri.
Sono anche gravemente minacciate molte specie associate alla biodiversità. Tra queste vi sono uccelli, pipistrelli e insetti che aiutano a controllare i parassiti e le malattie, la biodiversità del suolo e gli impollinatori selvatici – come api, farfalle, oltre ai pipistrelli e agli uccelli.
Foreste, pascoli, mangrovie, praterie di alghe, barriere coralline e zone umide in generale – gli eco-sistemi chiave che forniscono numerosi servizi essenziali per l’alimentazione e l’agricoltura e ospitano innumerevoli specie – sono anch’essi in rapido declino.
I fattori chiavi della perdita di biodiversità citati dalla maggior parte dei paesi sono: cambiamenti nell’uso e nella gestione della terra e dell’acqua, seguiti da inquinamento, sovra-sfruttamento, cambiamenti climatici, crescita della popolazione e urbanizzazione.
“Meno biodiversità significa che piante e animali sono più vulnerabili ai parassiti e alle malattie – ha concluso Graziano da Silva. – Elemento, che insieme alla nostra dipendenza da un numero sempre minore di specie per nutrirci, sta mettendo la nostra già fragile sicurezza alimentare sull’orlo del collasso”.
questo link potete scaricare il rapporto completo in inglese

La piattaforma veneta dei comitati e movimenti per la giustizia climatica è pronta ed è una battaglia da vincere a tutti i costi

Una piattaforma che viene da lontano, che è scritta per il presente e che guarda verso il futuro
Dopo il meeting svoltasi a Vicenza il 27 gennaio, comitati cittadini, associazioni ambientaliste e spazi sociali del Veneto hanno continuato il percorso intrapreso con riunioni dei singoli tavoli tematici, confrontandosi per mail e per videoconferenze, sino a varare la piattaforma regionale veneta per la giustizia climatica. 
Una piattaforma che viene da lontano, abbiamo scritto in apertura perché da lontano vengono le storie delle tante lotte per l’ambiente e le tante rivendicazioni per la tutela dei beni comuni che i vari comitati hanno portato avanti nei loro territori. Dal Mose alla Tav, dalle cementerie alle superstrade, sino all’inquinamento da Pfas. E su tutte queste storie che si sono concluse, possiamo dire: avevamo ragione noi!
Una piattaforma scritta per il presente perché il momento per la giustizia climatica è adesso. Gli allarmi lanciati dall’Ipcc non lasciano altri spazi di manovra. Pensare globalmente va bene, ma l’azione deve essere locale e la piattaforma proposta dai comitati è essenzialmente rivendicativa ed ha come controparte le amministrazioni regionali e comunali del Veneto che, diciamocelo pure, hanno sino ad oggi interpretato l’ambiente come uno sportello di bancomat
Una piattaforma che guarda il futuro. Non un futuro possibile ma l’unico futuro possibile per questo pianeta che l’umanità ha chiamato Terra. Questa è una battaglia da vincere a tutti i costi. 

Qui puoi scaricare, in pdf, la versione definitiva della Piattaforma Climatica Veneta che riportiamo qui sotto

SIAMO ANCORA IN TEMPO

PIATTAFORMA REGIONALE VENETA DEI COMITATI E MOVIMENTI PER LA GIUSTIZIA CLIMATICA
Il documento che proponiamo come comitati, associazioni, gruppi e singoli è indirizzato all’attenzione di tutti i cittadini e le cittadine, ma soprattutto alla Regione Veneto, e a tutti i Comuni.
La piattaforma è il risultato del lavoro di chi da anni si batte contro la devastazione territoriale, incarnata dal modello di sviluppo predatorio capitalista che la Regione Veneto a guida leghista ha pienamente sposato.
Il continuo dispendio inutile di risorse pubbliche, gli scandali, la corruzione, l’avvelenamento di falde acquifere, terreni, persone, i picchi di inquinamento da polveri sottili, l’eustatismo, sono solo alcuni dei punti che ci hanno spinto a vedere il filo unico che lega grandi opere al cambiamento climatico. Denunciamo come il sistema di sviluppo basato su sfruttamento di risorse e territori sia il nemico della salute – anche sociale ed economica – dei cittadini.
La necessaria presa di parola che ci spetta passa attraverso lo studio e la scrittura comune di alcuni punti che sono per noi di denuncia e di proposta.
Crediamo di essere Ancora In Tempo per cambiare il sistema e non il clima, per far pesare tutte le responsabilità della Regione Veneto nel collasso del nostro territorio con vent’anni di politiche che hanno messo al centro il profitto di alcuni a scapito della vita di molti.
Di seguito sono proposte delle rivendicazioni, frutto del lavoro comune di studio e approfondimento, che toccano vari punti per noi fondamentali e urgenti.
Si procederà su otto temi portanti:
1- CONSUMO DI SUOLO E GRANDI OPERE
Negli ultimi 40 anni, il consumo di suolo ha giocato un ruolo fondamentale nella devastazione del territorio veneto. La logica dello sviluppo, che ha trovato in questo campo una enorme fonte di profitto, ha prodotto innumerevoli scempi ambientali: le cave, nel numero di 1500 tra dimesse e attive al momento attuale; urbanizzazione selvaggia, con il 12,45% di suolo consumato da opere che sono, molto spesso, inutilizzate ( quali zone industriali dismesse, migliaia e migliaia di unità immobiliari sfitte, centinaia di centri commerciali); infrastrutture inutili come Valdastico Sud, la costruenda Pedemontana Veneta, basi militari Usa e depositi di stoccaggio militare nella provincia di Vicenza, Mose etc.
A fianco a queste devastazioni ambientali il potere politico e economico, all’interno di un piano schizofrenico della mobilità, da un lato, lavora alacremente alla costruzione di nuove infrastrutture futili e dannose come Tav Brescia/Padova, Valdastico Nord, terza corsia dell’A13 Padova Bologna; dall’altro ne ha in progettazione altrettante che sono oggi bloccate o dalla mobilitazione dei comitati o dalla mancanza di legittimità tecnica, giuridica e finanziaria.
La devastazione del territorio messa in luce è stata resa possibile anche grazie a un’informazione propagandistica che non ha permesso una reale conoscenza e consapevolezza dei rischi all’ambiente, dei costi ambientali e sociali, negando, di fatto, quello che è il ruolo del suolo in quanto bene comune. Questo gap informativo, chiaramente voluto, ha generato un vuoto democratico, nel momento in cui non ha fornito alle persone gli strumenti reali per intervenire sui processi decisionali. A peggiora la situazione, gli organi di controllo ambientali vengono aggirati o producono valutazioni di parte.
Uno dei maggiori fattori di impatto ambientale e climalterante delle grandi opere è la loro irreversibilità, in quanto consumando il suolo, distruggono un fattore fondamentale per tutti gli ecosistemi.
Il suolo, infatti, gioca un ruolo cruciale nell’equilibrio climatico perché rappresenta, assieme agli oceani, una delle più grandi riserve di stoccaggio e cattura di gas climalteranti come l’anidride carbonica. Di conseguenza – e qui giace il legame tra grandi opere e crisi climatica – il consumo di suolo influisce direttamente nella quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera e quindi al riscaldamento globale.
Gli effetti del consumo del suolo comunque non si limitano ad influire sulla quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, ma sconvolge l’equilibrio di un territorio già fragile: inasprendo il dissesto idrogeologico, isolando gli ecosistemi, aumentando la desertificazione e l’impermeabilizzazione del territorio.
Tutti questi effetti, come le calamità naturali a cui assistiamo, non sono eventi straordinari, ma causa diretta di una gestione del territorio che vede nei beni comuni, una merce da depredare e da cui trarre il massimo profitto.
Questo genera dei costi ambientali, sanitari e sociali non quantificabili, come abbiamo visto nel caso della cava Cosmo a Paese o nella distruzione di aree naturali protette, come le sorgenti del torrente Poscola a Montecchio Maggiore.
Di fronte a un sistema che usa lo sviluppo sostenibile come mascheramento di una predazione del territorio e fa leva sul ricatto occupazionale per legittimarsi ulteriormente, crediamo che sia possibile mettere in campo le seguenti soluzioni:
* Recupero e riuso degli edifici già costruiti;
* Potenziamento della rete di trasporto pubblico regionale e locale accessibile a tutti utilizzando la estesa rete esistente previo ammodernamento tecnologico;
* Blocco delle opere inutili e dannose in progettazione e/o in costruzione
* Bonifica del suolo inquinato dei cantieri e delle grandi opere;
* Riconversione ove possibile delle opere esistenti per messa in sicurezza del territorio (bacino a tevignano);
* Ripristino al di la di qualsiasi condizione economica delle condizioni ambientali precedenti agli interventi di copertura del suolo;
* Opzione Zero sul consumo di suolo e sull’edilizia;
* Piano occupazionale la riconversione ecologica del Veneto e la messa in sicurezza del territorio, il cui costo andrebbe addebitato a decisori politici e gruppi di interesse che hanno lucrato sui crimini ambientali.
2- INQUINAMENTO E GESTIONE DELL’ACQUA
L’acqua è un bene comune.
non va privatizzato né esaurito come invece sta accadendo ora a livello globale.
1) tutte le fonti approvvigionamento dell’acqua devono essere salvaguardate
2) dichiarazione dello stato di emergenza in veneto
3) chiusura immediata delle fonti inquinanti
4) bonifica delle aree inquinate, controllo dei depuratori, censimento dei pozzi.
5) stop all’abuso nell’utilizzo dell’acqua per scopi industriali. stop allo sversamento nell’ambiente dei reflui
6) costituzione parti civili. Chiedere i danni al responsabili civili (mitsubishi, ICIG)
La responsabilità è anche e soprattutto delle amministrazioni che hanno sempre deliberato a favore del profitto a scapito della salute.
7) utilizzo dei risarcimenti per un fondo nazionale per la salvaguardia della filiera alimentare: agricoltura e allevamenti:
8) tematica della catena alimentare (irrigazioni – ciclo alimentare)
– etichette 0 pfas – principio di precauzione
– diritto alla salute
9) carenze di screening: aggiornamento delle tecnologie (acque e sangue) – garanzia di screening e sanzioni al boicottaggio.
10) risanamento e riqualificazione della rete idrica nazionale e regionale con l’utilizzo dei finanziamenti ora destinati alle Grandi Opere.
Non solo le grandi opere generano danni ambientali ma tolgono anche capitale all’investimento per la salvaguardia dell’ambiente e di conseguenza della salute.
3- SOVRANITA’ ALIMENTARE, CICLO DELLA CARNE E RIFORESTAZIONE
E’ urgente intervenire sia sul sistema produttivo e commerciale che sulle abitudini dei consumatori, agendo su più fronti: dall’intervento legislativo che tuteli e promuova l’agricoltura biologica e penalizzi quella inquinante, alla diffusione di campagne di educazione all’alimentazione e al consumo. È necessario prendere coscienza della reale situazione ambientale attuale e delle nostre possibilità di cambiarla. A partire dall’individuazione dell’agroindustria e degli allevamenti come uno dei principali agenti di cambiamento climatico (secondo studi di ricerca le emissioni di gas serra derivanti possono oscillare tra il 18% – dato FAO 2006 – e il  51% – Goodland-Anhang 2009), di consumo di acqua, di suolo e di deforestazione, in nome della tutela della biodiversità e degli ecosistemi abbiamo sviluppato una critica al sistema alimentare dominante. Un sistema basato sul ciclo della carne e del pesce, un megasistema estremamente articolato e capillare, che coinvolge tutti i territori e vari settori economici e infrastrutturali, come i trasporti via terra, mare e cielo, i combustibili fossili, l’industria chimica, lo smaltimento dei rifiuti, i laboratori di sperimentazione biotecnologica. Il tutto in mano alle più potenti e influenti corporation oggi esistenti al mondo quali i colossi agro-farmaceutici.
L’agricoltura convenzionale è indirizzata verso il collasso ambientale, ma viene alimentata da agevolazioni e sussidi pubblici (11 mld/anno con il Piano di Sviluppo Rurale), genera inoltre un costo sociale enorme dato dalle infrastrutture pubbliche di cui ha bisogno e alimenta il business della cura delle malattie, originate dal crescente utilizzo di agro tossici nelle coltivazioni e di medicinali nell’allevamento, dalla cattiva alimentazione indotta e dall’inquinamento subito.
È emerso a pieno titolo, fra gli esempi esaminati di agricoltura convenzionale, diventata ’agricoltura tossica’, il caso delle ‘colline del prosecco’ nel trevigiano, un modello di monocoltura che distrugge l’ecosistema e la biodiversità e avvelena aria, suolo e falda acquifera, ma che è motivo di orgoglio per gli amministratori regionali che la finanziano generosamente.
Il mantenimento di questo tipo di sviluppo agricolo, inoltre, risulta incompatibile e ostacola su vari fronti l’attività di chi esercita un’agricoltura sostenibile e/o biologica, per la difficoltá di tutelarsi dall’inquinamento ambientale dovuto all’uso indiscriminato di pesticidi diffusi sul suolo e nell’aria e perché i prodotti biologici risultano non competitivi economicamente rispetto ai prodotti dell’agricoltura convenzionale il cui costo é drogato dai sussidi pubblici. Paradossalmente vengono finanziate maggiormente le attività che implicano un aumento dei costi sociali e sanitari piuttosto che quelle che a lungo termine li riducono.
Nell’individuare criticità e paradossi dal punto di vista ambientale, è emerso che lo spreco alimentare occupa uno dei primi posti, considerato che circa un terzo del cibo prodotto viene scartato, contribuendo alle emissioni nocive (circa il 7% del totale!) sia in fase di produzione che di smaltimento del rifiuto.
Buone pratiche, proposte e obiettivi
Da questo complesso dibattito, di cui abbiamo espresso qui solo una sintesi, è uscita l’indicazione di alcuni obiettivi da raggiungere, con proposte rivolte agli enti pubblici e buone pratiche da mettere in atto, anche a partire dai nostri stili di vita. Emerge improrogabile la necessità di una riduzione drastica (meglio sarebbe eliminazione) del consumo di carne, pesce e derivati animali. Per favorire questo cambiamento c’è necessità di percorsi di ‘ecoformazione’ tramite laboratori di alimentazione sostenibile priva di derivati animali, e iniziative formative rivolte alle scuole e alla società civile sui temi dell’agricoltura e del ciclo della carne in relazione al cambiamento climatico. Bisogna lottare contro lo spreco alimentare, con attività di recupero degli scarti e promozione di pratiche di autoproduzione, di autosufficienza e di ridotte produzioni collaborative quali ad esempio le CSA (Comunità che Supportano l’Agricoltura), dove si produce solo ciò di cui la comunità realmente necessità.
Abolire i sussidi all’agroindustria, al ciclo della carne, del pesce e aumentare invece le sovvenzioni per lo sviluppo dell’agricoltura sostenibile, biologica ed ecologica nelle sue varie forme, a partire dai piccoli produttori.
Promuovere referendum locali per cambiare i regolamenti di polizia rurale e inserire i processi di produzione del biologico.
Deburocratizzare la produzione biologica a favore dei piccoli produttori. Internalizzare i costi ambientali, sociali ed economici a carico dei soggetti responsabili di contaminazione a tutti i livelli. E’ necessario provvedere subito, con investimenti dedicati, alla riforestazione policolturale e alla rinaturalizzazione, al fine di ripristinare l’ecosistema naturale, minacciato dall’antropizzazione crescente. Occorre inoltre creare ecodotti e corridoi ecologici, con alcune finalità principali: preservare le coltivazioni biologiche dall’inquinamento dell’agricoltura convenzionale; contrastare la frammentazione e l’isolamento delle aree naturaliformi e di Rete Natura 2000; favorire la sicurezza per tutti e gli spostamenti vitali della fauna selvatica, impediti dall’occlusione dovuta soprattutto alle grandi infrastrutture lineari. Operando in questa direzione, verrà fortemente implementata  l’occupazione, coniugando lavoro, ecologia e benessere reale.
4– INQUINAMENTO DELL’ARIA E MOBILITA’
La pianura padana rientra tra le 3 aree più inquinate d’Europa a livello atmosferico. La prossima generazione sarà la prima ad avere un’aspettativa di vita minore di quella dei propri nonni. Le malattie e le morti legate all’inquinamento dell’aria stanno aumentando in maniera considerevole. Inoltre la attuale legislazione nazionale e regionale in merito al sanzionamento delle emissioni non è adeguata, in quanto troppo spesso sacrifica al profitto e alle retoriche dell’occupazione le questioni ambientali. Riteniamo necessario uscire dall’idea di “emergenzialità” e mettere in campo, quotidianamente, pratiche di sensibilizzazione e informazione. Decostruire la narrazione del “limite” come unità di misura è parte fondamentale di questo. Un occhio di riguardo ai percorsi dei movimenti studenteschi e all’educazione già a partire dalla scuola primaria.  E’ essenziale dotarci di strumenti di monitoraggio dal basso, di pratiche e iniziative comuni e replicabili – tenendo sempre conto delle specificità territoriali e del nostro essere “di parte” nella battaglia per la giustizia climatica e non “meri” tecnici.
Si rende necessaria la valorizzazione della mobilità tramite mezzi non inquinanti, la ri-pubblicizzazione e il rifinanziamento del trasporto locale che vogliamo pubblico e gratuito in modo da ottenere una consistente diminuzione di quello privato, la valorizzazione del trasporto locale su rotaia il cui finanziamento è irrisorio rispetto alle risorse destinate alle grandi opere, la riforestazione urbana.
Riteniamo inoltre necessaria un’attenzione particolare all’inquinamento prodotto dal trasporto navale e aeronautico, spesso non considerato nemmeno dai grandi meeting internazionali sul clima. Nello specifico della Regione Veneto, si riscontra un’ingiustificata concentrazione di aeroporti (Istrana TrevisoVenezia)  in un’area estremamente limitatatenendo contoche tale tipologia di trasporto rappresenta un fattore di rischio innegabile e un danno per la Salute e l’Ambiente. Si chiede pertanto la chiusura dell’aeroporto “Antonio Canova di Treviso” in quanto totalmente incompatibile con il contesto civile ed ambientale in cui è inserito.
5-VENEZIA, PORTO MARGHERA E LAGUNA
Venezia e la sua laguna sono un bene comune del mondo intero e come tali vanno sottratte alla privatizzazione e alla speculazione.
Venezia e la sua laguna dovrebbero diventare il simbolo della lotta dei movimenti per la giustizia climatica.
Venezia e la sua laguna potrebbero essere il luogo adatto per sperimentare nuovi equilibri tra uomo e natura.
Invece oggi Venezia e la sua laguna sono terra di conquista, di speculazone finanziaria, immobiliare, di costruzione di grandi opere inutili e dannose.
Per questo vogliamo che:
– siano bloccati i lavori del MOSE e che siano riconvertite le opere marittime realizzate, che oltre ad essere uno spreco di denaro pubblico risultano obsolete vista la previsione dell’innalzamento del medio mare prevista per i prossimi anni.
– siano estromesse le grandi navi dalla laguna e che non vengano realizzati scavi di nuovi canali o allargamenti degli esistenit.
– che siano effettuale bonifiche a Porto Marghera, che siano fatti investimenti per completare i marginamenti e il Vallone Moranzani
– ci sia una riconversione del sistema produttivo di Porto Marghera iniziando dalla produzione energetica.
– ci sia una gestione dei flussi che sia capace di ripensare il modello turistico proposto, parallelamente servono politiche volte alla tutela del diritto all’abitare, della mobilità, della salute e della città.
– sia tutelata la biodiversità lagunare e la pesca compatibile dagli interessi speculativi.
– non ci sia il deposito di GPL a Chioggia.

6- BENI COMUNI
La gestione comune del territorio e delle sue risorse materiali e immateriali, è sempre più impellente nel tempo della crisi climatica e ambientale, sopratutto in una Regione come la nostra investita da uno sviluppo predatorio ed estrattivo. In tal senso ogni elemento del territorio del territorio va considerato patrimonio collettivo da tutelare e preservare nell’interesse della comunità degli abitanti e delle generazioni future.
Per questa ragione è necessario bloccare i devastanti processi di privatizzazione e mercificazione, porre fine alla subalternità delle politiche pubbliche alle logiche di mercato.
Ciò deve avvenire con il riconoscimento anche giuridico del principio del bene comune su tutto ciò che afferisce alla qualità della vita e dei diritti fondamentali. Il concetto di comune supera l’ordinamento giuridico attuale che vede la proprietà, sia essa pubblica o privata, come dominio esclusivo verso una gestione radicalmente democratica delle risorse.
All’interlocutore Regione Veneto e alla Giunta tutta, ci sentiamo di avanzare delle proposte concrete e soprattutto attuabili a legislazione vigente al fine di progredire sulla strada del riconoscimento giuridico pieno ed efficace del concetto di bene giuridico:
  1. sul modello della Regione Toscana, introdurre all’interno dello Statuto Regionale la definizione di bene comune, così come emerge dalla Commissione Rodotà: “La Regione tutela e valorizza i beni comuni, intesi quali beni materiali e digitali che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, alla cooperazione sociale e alla vita delle generazioni future e la promozione di
    forme diffuse di pattecipazione nella gestione condivisa e nella fruizione dei medesimi beni e servizi” comuni”;
  2. che la Regione sviluppi e manifesti il suo sostegno alla proposta avanzata dall’ Anci circa il riuso dei beni comuni urbani in abbandono o sottoutilizzati, garantendo opportune concessioni d’uso con finalità culturali e sociali, ivi compresa quella del comodato gratuito o a canoni fortemente agevolati. Da subito la Regione deve rinunciare alla svendita del proprio patrimonio in presenza di usi sociali alternativi, ad incominciare dall’immobile della antica scuola di anatomia a Venezia;
  3. che venga riconosciuta ed attuata anticipando il recepimento nazionale, ad ora mancante, dela Convenzione di Faro sull’uso del patrimonio culturale, di cui l’Italia è firmataria dal 2005.
  4. che nella valutazione degli Impatti Ambientali di un Piano, di un Programma o di un Progetto , venga attuato il Principio di Precauzione, che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la SANITA’ PUBBLICA, per la SICUREZZAe per l’AMBIENTE, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici (sentenza Corte Europea).


7- ENERGIA
Il quadro è drammatico: il rapporto IPCC Global Warming of 1,5° (2018) ci ricorda che per limitare i futuri rischi legati al clima sulla biodiversità, sugli ecosistemi, compresa la perdita e l’estinzione delle specie, compresa quella umana, è indispensabile non superare il riscaldamento globale di 1,5 °C.  Significa che dobbiamo abbattere le emissioni antropogeniche nette globali di CO2 del 45% entro il 2030 e del 100% entro il 2050, rispetto ai livelli registrati nel 2010. Limitare il riscaldamento globale a 1,5 ° C, rispetto ai 2 ° C entro e non oltre il 2050 potrebbe ridurre il numero di persone esposte ai rischi di diverse centinaia di milioni.
In riferimento all’Italia i dati ISPRA (2018) confermano che siamo ben lontani da registrar una riduzione. Infatti i dati relativi al secondo trimestre del 2018 registrano che le emissioni di gas-serra sono salite dello 0,2% rispetto allo stesso periodo del 2017. L’aumento è dovuto prevalentemente al riscaldamento e ai trasporti.
I dati complessivi relativi ai settori che maggiormente contribuiscono alla produzione di emissioni (in termini di CO2 eq) indicano chiaramente dove dovremmo implementare radicali trasformazioni delle attività (ISPRA 2016):
Industria energetica 24.4%
Residenziali e servizi 17.45
Trasporti 24,42%
Agricoltura 9%
Rifiuti 4,28 %
In questa casistica non è contemplata la quota di gas serra emessa dal settore aeronautico; secondo l’European Aviation Environmental, report 2016 (EAE), entro il 2030 il relativo contributo di emissioni di anidride carbonica-CO2sarà di circa il 17%sulle emissioni totali di CO2nel mondo.
A fronte di questa situazione la strategia energetica nazionale approvata nel 2017 (SEN) è completamente inadeguata in quanto ha l’obiettivo di diminuire le emissioni del 39% al 2030 e del 63% al 2050, facendo tra l’altro riferimento alle emissioni del 1990 ( e non del 2010 che sono più alte!).
Si pone l’obiettivo di gestire il cambiamento del sistema energetico attraverso deboli e limitate strategie: un aumento dell’apporto delle rinnovabili dal 17.5% attuale al 28% al 2030; tra le rinnovabili si punta molto sulle biomasse e biocarburanti, compresi i rifiuti; inoltre è si previsto l’abbandono del carbone, ma sostituendolo con il gas, facendo passare il messaggio, come d’altronde sostenuto a livello europeo, che il gas è un combustibile “pulito” e un partner nelle risorse rinnovabili. Occorre invece ribadire che il gas – nella sua forma convenzionale o quella ora più usata derivante da giacimenti non convenzionali in argille (fracked gas) – sebbene sia una fonte energetica più pulita del petrolio appartiene alla lista dei combustibili fossili e responsabile dell’incremento del cosiddetto effetto serra.
Facendo riferimento ai nostri territori, dobbiamo renderci conto che la situazione in Veneto è molto compromessa. A livello regionale i dati ufficiali più recenti risalgono al 2013 e sono contenuti nell’Inventario delle emissioni in atmosfera – INEMAR Veneto 2013 realizzato da ARPAV che stima le emissioni riferite a 11 macroinquinanti e 5 microinquinani.
Le emissioni di CO2 eq derivano principalmente da:
– attività produttive (produzione di energia, combustione nell’industria e processi produttivi) 37%;
– trasporti su strada 24%
– combustione non industriale (terziario e residenziale) 21%
– agricoltura 9%
dalla produzione di energia (responsabile per circa il 23%), da combustioni non industriali (responsabile per circa il 27%), dai processi industriali (responsabile per circa il 18%), e con i trasporti su strada che contribuiscono per il 31%.
A fronte di ciò, le priorità di azione dei comitati, in termini sia di resistenza ambientale che di proposte e rivendicazioni devono necessariamente essere orientate ai settori del trasporto (delle persone e delle merci), e dei consumi energetici del terziario e del residenziale.
Come necessità per un cambiamento radicale verso una transizione ecologica diventa essenziale il controllo popolare e democratico delle informazioni e delle scelte politiche ed economiche. Da questo punto di vista diventa strategico, come comitati e presidi territoriali, promuovere la creazione di comunità energetiche locali, sulla base di zone omogenee (non possiamo applicare le stesse ricette dappertutto, ma rispettare le diverse conformazioni dei territori) e di cominciare fin da subito a incentivare l’acquisto di energia da fonti veramente rinnovabili sostenendo concretamente le pratiche innovative.
Il tema della pianificazione urbana e territoriale assume una valenza strategica proprio in funzione di una ri-organizzazione degli spazi, delle attività, della mobilità e delle relazioni volta a una conversione ecologica.
Le rivendicazioni che proponiamo come comitati del Veneto nei confronti della regione sono:
– che vengano messe a disposizione dati ufficiali, leggibili e aggiornati relativamente alle emissioni di gas clima alteranti e alla produzione e consumo di energia
– riconoscimento dei comitati come interlocutori protagonisti nei tavoli che andranno a discutere le scelte regionali così come d’altronde già previsto dal SEN 2017 e nell’ambito dei POR-FESR e PSR.
– l’istituzione di un fondo regionale da almeno 500 milioni di euro annui per finanziare la transizione ecologica ed energetica fuori dal fossile e in particolare per quanto riguarda gli aspetti di efficientamento energetico e diffusione delle rinnovabili nei settori del terziario, residenziale e per implementare e migliorare il trasporto pubblico. Questo fondo dovrà essere finanziato attingendo da tassazioni delle attività speculative ed inquinanti e clima alteranti (estrattive, metanodotti, smaltimento rifiuti, etc.) e anche riservando una percentuale dalla tassazione regolare (es.IRPEF sui redditi oltre i 33.000 euro, così come del resto fatto per finanziare la Pedemontana nel 2017);
– bloccare i lavori del MOSE e avviare uno studio di fattibilità per la sua riconversione ai fini della produzione di energia elettrica sfruttando le maree;
L’obiettivo generale è di utilizzare il risparmio così come l’autosufficienza energetica a livello di comunità anche come modo di redistribuzione della ricchezza.
Segnaliamo che il problema dell’inquinamento elettromagnetico, di cui al momento poco si discute, è invece un fronte molto importante e urgente.

8- LAVORO, ECONOMIA CIRCOLARE E RIFIUTI
Il tavolo ha espresso con chiarezza la necessità che la transizione ecologica sia pagata dai ricchi e dai grandi centri d’inquinamento. Questo riprendendo anche uno slogan dei gilet gialli, che intrecciano nella loro lotta i temi della giustizia sociale e della giustizia climatica. L’onere di tale transizione deve necessariamente includere tanto la bonifica e riqualificazione dei territori quanto l’erogazione di un reddito garantito universalmente.
Per punti, quanto emerso dalla discussione è così sintetizzabile:
  1. È necessario rendere sostenibili le condizioni di lavoro tutelando i diritti dei lavoratori e dotando le aziende/compagne di dispositivi a ridotto impatto ambientale. Da questo punto di cita la logistica offre un ottimo esempio di applicazione, sia per quanto riguarda le condizioni materiali di lavoro e del diritto alla salute, che per quanto concerne i mezzi di trasporto, che devono essere scelti per il loro basso impatto ambientale (si vedano i mezzi a metano). Per il raggiungimento di questi fini necessario un approccio da sindacalismo sociale, costituendo alleanze tra sindacati, comitati e movimenti.
  2. È altresì necessaria la revisione delle concessioni regionali agli stabilimenti che sfruttano beni comuni nei processi produttivi in modo impattante e a dronte di prezzi irrisori, come ad esempio fa la CocaCola nello stabilimento di Nogara (VR).
  3. Collegata a questa, c’è la necessità di trasparenza e tracciabilità delle filiere produttive per quanto riguarda i dati/costi ambientali e sociali di ogni azienda.
  4. Su un piano più etico, si è parlato della costruzione di campagne che coinvolgano scuole superiori e università al fine di boicottare l’offerta di stage a studenti da parte di aziende che abbiano un comprovato impatto ambientale negativo.
  5. Per quanto riguarda invece il tema dei rifiuti, occorre mutare prospettiva nella loro accezione di “scorie” da smaltire, eliminare, e aprire ad un approccio che ne favorisca la gestione come bene pubblico.
  6. Anche per quanto riguarda il riciclo è necessario uno slittamento in termini di riuso, che favorisca cioè la produzione di beni riutilizzabili e che incentivi pratiche collettive destinate a conferire un valore d’uso ai beni, piuttosto che un valore di scambio.
  7. Dal punto di vista pratico, occorre costruire strategie comuni legate all’uso di strumenti di democrazia diretta, come diffide o referendum comunali, o anche class action.
  8. Infine, pur tenendo presente che per quanto riguarda i temi ecologici la responsabilizzazione individuale è importante, è necessario indicare chiaramente che le responsabilità del climate change sono legate al modo di produzione capitalistico. Pertanto occorre individuare strategie dal basso, azioni collettive finalizzate al superamento dell’attuale modello di sviluppo.

Comitato Zero Pfas Padova – Collettivo MalaCaigo – Comitato Opzione Zero – Comitato No grandi Navi Venezia – Associazione Ambiente Venezia – Comitato No Pedemontana Treviso – ADL Cobas – Altreconomia – Cilsa Arzignano – Comitato Conegliano senza Pesticidi – Assemblea permanente contro il rischio chimico di Marghera – Coordinamento No Triv – Associazione Ecofilosofica Treviso – Collettivo Resistenze Ambientali Padova – Genuino Clandestino Treviso – No dal Molin Vicenza – Eco-Magazine.info – Associazione Eddyburg – Collettivo Ambiente Territorio-Vicenza – No Tav Verona – Comitato Acqua Bene Comune Verona – Verdi del Veneto – Potere al Popolo Veneto – Comitato contro ampliamento aeroporto di Treviso – Lab Para Todos Verona – CSA Veneto

Un venerdì per il clima. Scendono in piazza gli studenti del pianeta Terra

E’ cominciato tutto da lei, Greta Thunberg, la bionda ragazzina svedese di sedici anni che dal palco della Cop 24 ha cercato di smuovere le coscienze dei leader mondiali ad affrontare seriamente, e senza calcoli elettorali, quello che è il problema più grande che l’umanità abbia mai dovuto affrontare da quando il primo primate sceso dagli alberi per diventare un essere umano ad oggi: i cambiamenti climatici. 
Sul fatto che il suo appassionato intervento – che pure ha fatto il giro del mondo – sia davvero riuscito a muovere le coscienze dei capi di Stato, abbiamo qualche dubbio. Ma di sicuro Greta è riuscita a sensibilizzare migliaia, milioni di giovani e giovanissimi che hanno compreso come la questione climatica sia determinante per il futuro della terra. Soprattutto le ragazze ed i ragazzi hanno capito che, se non si mobiliteranno loro, nessuno lo farà al loro posto. E’ una questione, questa dei cambiamenti del clima, che investe tutto il nostro essere: dai nostri personalissimi comportamenti quotidiani all’organizzazione della società in cui viviamo. E se è vero che, soprattutto le generazioni più giovani, sono consapevoli della necessità di effettuare la raccolta differenziata, risparmiare l’acqua, consumare meno, riciclare di più, e, in poche parole, di adottare uno stile di vita più sostenibile, è anche vero che continuiamo a vivere sotto una economia ancora basata sul fossile e sul consumo sfrenato.
Per questo, uno degli slogan preferiti dai ragazzi di tutto il mondo che si stanno mobilitando per chiedere alla politica di porre un freno a questa economia che ha trasformato in merce anche le catastrofi climatiche, è Non abbiamo un pianeta di riserva. O si cambia strada, o tutta l’umanità precipiterà in un baratro climatico di cui nessuno può prevedere completamente le conseguenze. 
Va sottolineato, che la protesta degli studenti per il clima, proprio in virtù della sua spontaneità, ha in qualche modo spiazzato le grandi associazioni ambientaliste che si sono viste, per così dire, “superate a sinistra” e si sono trovate a rincorrere una mobilitazione che non hanno organizzato loro. Un segnale che riteniamo positivo, perché la questione climatica, proprio per la sua complessità e varietà, non si presta ad essere rinchiusa in contenitori stagni ed investe tutti i cittadini di questo pianeta che chiamiamo Terra. 
La protesta è una protesta del nostro tempo e, come è lecito aspettarsi, prima ancora che per le strade, corre sui social; Facebook, Twitter, WhatsUp, Linkedin, Instagram… La mobilitazione viene taggata con gli hashtag #FridaysForFuture, #ClimateStrike, #SchoolStrike4Climate, #SystemChangeNotClimateChange. In italia il tag più usato è #SiamoAncoraInTempo. A mobilitarsi e ad invadere la piazze delle principali città italiane, saranno gli studenti delle superiori. 
Il primo appuntamento sarà venerdì 15 marzo, perché è ogni venerdì che l’imperterrita Greta va a sedersi davanti al parlamento svedese con il suo cartello di protesta in mano. Il luogo: tutto il mondo perché nessun luogo del mondo può dirsi sicuro dai cambiamento del clima. 

Ecco, di seguito, le istruzioni diffuse nella rete per aderire al Venerdì per il Clima #climatestrike
Cosa devi fare per prepararti:
-cerca la pagina Fridays for future locale più vicina a dove abiti, metti il like e unisciti alle iniziative
– invita e condividi questo evento con i tuoi amici, nel gruppo della scuola e della tua città
– Diffondi la voce
Sii tu stesso il cambiamento che vuoi portare nel mondo 🌎 #fridaysforfuture
Queste le pagine Facebook più seguite:

Tra coloro che sostengono la mobilitazione, anche il meteorologo Luca Mercalli che ha diffuso questo appello

A Vicenza nasce la piattaforma Veneta per la democrazia climatica. La marcia mondiale per il clima non si arresta

Una tappa fondamentale per la nostra Regione. Almeno 250 persone, in rappresentanza di comitati, associazioni e spazi sociali di tutto il Veneto, si sono riuniti al Bocciodromo di Vicenza per mettere insieme proposte, idee, iniziative, problematiche e costruire un percorso condiviso che porti alla marcia per la giustizia climatica, contro le grandi opere, che si svolgerà a Roma sabato 23 marzo. 
Un percorso, questo lanciato in Italia sotto l’hashtag #siamoancoraintempo, che apre spazi di mobilitazione in tutto il pianeta, perché non c’è zona della terra che non sia messa in pericolo dai cambiamenti climatici. Se è vero che siamo ancora in tempo, è anche vero che il tempo è questo. E’ necessario, per rispolverare un vecchio slogan ambientalista, pensare globalmente ma agire localmente. Tanto più in una Regione come il Veneto, da decenni ostaggio di una cricca di potere che ha mercificato l’ambiente sotto il tallone di grandi opere, inutili e dannose, come la Pedemontana, la Tav, il Mose, inquinando l’acqua con Pfas, la terra con capannoni, per lo più inutilizzati, e cemento, l’aria con valori di Pm10 che sono tra i più alti in Italia. E senza contare che già in Italia sono tra i più alti d’Europa!
Al di là di ogni inutile compromesso, a Vicenza è stato ribadito quando detto in occasione della marcia dell’8 dicembre a Padova: per difendere il clima non c’è che una sola strada, quella che cambia il sistema. Giustizia climatica è giustizia sociale. La lotta per difendere il clima è la lotta per difendere i diritti dell’uomo e per un lavoro che non sia asservito al capitale ma ricondotto alla sua funzione originale di sostentamento. Si lavora per vivere e non si vive per lavorare. Anche questa è una lotta contro l’inquinamento
Nei nove tavoli tematici in cui l’assemblea vicentina si è divisa, sono stati affrontati tutti gli argomenti -dall’inquinamento delle falde alla cementificazione del suolo, dal traffico automobilistico agli allevamenti animali intesivi – volti a mettere insieme una piattaforma completa di rivendicazioni per la giustizia climatica. Una piattaforma che, prima ancora che a Roma, sarà presentata alla Regione Veneto. 
Il 23 febbraio l’arcipelago ambientalista organizzerà in un campo di Venezia ancora da stabilire, una festa per l’ambiente che mescoli informazione, protesta e divertimento (siamo proprio nel bel mezzo del carnevale). 
Altri appuntamenti, li segnaleremo su EcoMagazine, non appena saranno pronti. Sempre su EcoMagazine, troverete, una volta conclusa la stesura, il documento finale del meeting al Bocciodromo ed i testi delle rivendicazioni ambientali preparate da ogni tavolo. 
Su Ecomagazine.infouna panoramica in stile “foto di famiglia” del meeting vicentino, gentilmente realizzate per EcoMagazine dal fotografo Attilio Pavin, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

A Katowice è stato un funerale

Cop 24 è conclusa. Adesso sappiamo cosa bisogna fare per evitare ila catastrofe. E sappiamo anche che i Governi non lo faranno. La 24esima conferenza mondiale sul clima è finita come era cominciata. Ed  era cominciata proprio male, con il discorso di apertura del presidente polacco, il nazionalista Andrzei Duda, che augurava buon lavoro ai delegati di quasi 200 Stati presenti, aggiungendo subito dopo che “la Polonia non può rinunciar al carbone”. Non è neppure un caso che Katowice, scelta come sede della conferenza, si trovi proprio nel cuore della regione mineraria più importante della Polonia, la Slesia, che copre oltre l’80 per cento dei suoi bisogni energetici bruciando carbone. 
L’obiettivo di Cop 24 era quello di approvare il cosiddetto “rulebook“, cioè l’agenda per rendere operativo l’accordo di Parigi. Accordo che, ricordiamolo, impegnava i Paesi firmatari ad attuare tutte le misure necessarie a limitare l’aumento della temperatura globale a 2 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale ed a contenerlo possibilmente entro il grado e mezzo. Accordo immediatamente criticato dai movimenti ambientalisti di tutto il mondo, in quanto non vincolante e basato tutto sulla “buona volontà” dei vari Governi. Tutto vero. Ma dobbiamo tener presente che, se l’accordo fosse stato vincolante, almeno un quarto dei Paesi firmatari – e, guarda il caso, proprio quelli più inquinanti! – non lo avrebbero sottoscritto col risultato che di politiche volte a ridurre i gas serra non se ne sarebbe più parlato. A Parigi, si è scelta la via diplomatica. Una via che, se non altro, ha tenuto aperte le porte a future negoziazioni ed ha consentito ai movimenti ambientalisti di tutta la terra di attivarsi, agendo localmente su prospettive globali, per chiedere ai Governi dei loro Paesi il rispetto di quegli accordi che loro stessi hanno sottoscritto. 

E l’adozione del “rulebook” inteso come una tabella di marcia con tanto di regole vincolanti e trasparenti per valutazione degli obiettivi è forse l’unico risultato positivo di questa conferenza polacca. Certo, neppure il “rulebook” sarà vincolante, ma renderà più facile stabilire come, dove, quando e perché un Governo ha sforato i limiti di emissioni che si era prefisso con gli accordi parigini. Ma rimante comunque una incolmabile distanza tra le piccole concessioni strappate ai vari Governi, con mezze promesse e impegni tutti da verificare, e la spaventosa urgenza della crisi climatica in cui il pianeta intero è precipitato.  
Gli accordi di Parigi assegnavano alle future Cop il compito di fare il punto sulla situazione climatica del pianeta. Qualche giorno prima dell’apertura dei lavori, l’Ipcc, il “panel” di climatologi dell’Onu impegnato nello studio dei cambiamenti climatici, aveva diffuso un rapporto preoccupante. Dati alla mano, da Parigi in poi, le emissioni di gas climalteranti non soltanto non sono diminuite ma sono addirittura aumentate. La conclusione del rapporto è drastica: abbiamo dodici anni per ridurre le emissioni di almeno il 45 per cento a livello globale altrimenti si apriranno per la nostra Terra degli scenari catastrofici. Senza un’inversione di rotta, raggiungeremo e supereremo già entro il 2030 quel limite che gli accordi di Parigi imponevano di evitare entro la fine del secolo. 
Come dire che, davanti al baratro, l’umanità invece di rallentare o cambiare strada, ha accelerato. Una accelerazione climatica che va di pari passo con l’accelerazione a destra che ha portato partiti nazionalista, populisti e radicalmente ignoranti in posizioni di Governo in molti Paesi del Mondo. Ai tradizionali “fan” delle energie fossili, come Arabia, Russia e Kuwait, si sono aggiunti via via Paesi come l’Australia del liberale Scott Morrison e, new entry, il Brasile di quella sorta di macchietta di generale golpista da repubblica delle Banane che altro non è il neo presidente Jair Bolsonaro. Per non parlare degli Stati Uniti, che con Barack Obama furono i protagonisti in positivo della Cop di Parigi ed ora con Donald Trump alla Casa Bianca hanno già annunciato di volersi sfilare dagli accordi di Parigi non appena i tempi della burocrazia internazionale renderà praticabile questa opzione. Trump, d’altra parte, ha più volte twittato che gli scienziati possono dire quello che vogliono ma lui, ai cambiamenti climatici, non ci crede e, riferendosi agli aiuti economici ai Paesi più poveri perché abbassino le emissioni, che non capisce perché mai “i contribuenti e i lavoratori americani devono pagare per ripulire l’inquinamento degli altri paesi”. Il bello di Trump è che è sinceramente convinto che gli Usa non si trovino sul pianeta Terra!
Una marcia indietro, questa degli Stati Uniti, che ha avuto l’effetto di rallentare la conversione verso energie più pulite di Paesi come la Cina (responsabile del 27% delle emissioni globali), dell’India(7%) e pressoché di tutti gli Stati africani. Paesi disposti a cambiare politica energetica ma soltanto nel caso che questa si dimostrasse più conveniente dal punto di vista economico rispetto all’utilizzo del fossile. 
Il che ci porta al nocciolo della questione: quali e quanti incentivi assegnare ai cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” affinché optino per una scelta energetica sostenibile? Una questione fondamentale che i delegati dei Paesi del mondo riuniti a Katowice hanno semplicemente evitato di affrontare, rimandando tutto alla prossima Cop che si svolgerà in Inghilterra. Perché la proposta di farla in Italia lanciata dal nostro ministro per l’Ambiente, Sergio Costa, è stata valutata dalla comunità internazionale credibile esattamente come il nostro Governo. Cioè, zero. 
Con una posta in gioco che è il futuro di tutto il pianeta, i delegati dei vari Governi sono andati a Katowice per litigare sugli spiccioli. Eppure “affrontare il cambiamento climatico farebbe risparmiare almeno un milione di vite all’anno” si legge in una relazione dell’Oms , l’Organizzazione Mondiale della Sanità. I benefici economici di un miglioramento della salute, sottolinea, statistiche alla mano, un articolo di ValigiaBlu, sono più del doppio dei costi di riduzione delle emissioni. “Al momento facciamo finta che i combustibili fossili siano combustibili a buon mercato, solo perché non ne includiamo il costo per la nostra salute e per l’economia” ha dichiarato Diarmid Campbell Lendrum, dell’Oms. “Non si tratta solo di salvare il pianeta in un ipotetico futuro, si tratta di proteggere la salute delle persone in questo momento”.
Per trovare dei politici capaci di guardare oltre i 4 o 5 anni del loro prossimo mandato, bisogna andare alle isole Marshall o alle Maldive. In quei Paesi insomma, che non sono imprigionati in politiche estrattiviste ma che, come colmo dell’ingiustizia, saranno i primi a pagare le spese dell’innalzamento del livello del mari. “Noi saremo i primi a soffrire le conseguenze dei cambiamento climatici – ha spiegato ai delegati la presidente delle isole Marshall, Hilda Heine, – Il mio Paese rischia l’estinzione. Entro il 2050 dovremo abbandonare centinaia di isole. Dove andremo?”
Tra i Paesi convertitisi ad una destra ostinatamente negazionista ci possiamo mettere anche l’Italia. Il siparietto del nostro sopracitato ministro a 5 Stelle in quel di Katowice, che ha proposto di far fare la prossima Cop anche ai bambini – “Loro parlano e noi adulti ascoltiamo. Abbiamo tanti da imparare dai bambini” ha dichiarato – è stato semplicemente pietoso. Ma si sa che i cambiamenti climatici sono rimasti fuori dal contratto del Governo del Cambiamento, proprio come gli incentivi al green sono stati esclusi dalla Finanziaria degli Italiani. Ricordiamo solo per amor di cronaca anche lo sproloquio del capo di gabinetto del ministero per la Famiglia, Cristiano Ceresani, per cui la colpa dei cambianti climatici sarebbe tutta del diavolo e dei peccatori, e chiudiamo qua il “contributo” del nostro Governo lega stellato alla questione del Climate Change. 
Chi ha capito invece, che i cambiamenti climatici sono una cosa seria è la finanza. Un articolo del Sole 24 Ore ha spiegato nei dettagli come ci si possa fare i soldi grazie al clima, investendo in operazioni finanziarie volte a “impadronirsi anzitutto di diritti d’accesso a falde acquifere sotterranee, sempre più scarse e preziose”. In particolare “nelle zone tra le più inaridite dall’effetto serra“, magari approfittando di situazioni contingenti come lo scioglimento delle nevi dei ghiacciai che liberano risorse idriche, proprio come è avvento in Nevada, con grande gioia degli investitori che hanno triplicato i loro soldi in due anni appena. 
A dettar legge, insomma, continua ad essere l’economia. Non la scienza e nemmeno la politica. In questo modo, i cambiamenti climatici sono stati utilizzati come utile ed emblematico strumento da rapina da un capitalismo che continua a crescere ed alimentarsi sfruttando gli ultimi sussulti di vita di un pianeta condannato. 
In mani rapaci, il clima è diventato un’arma da guerra puntata contro i Paesi meno industrializzati, prima per depredarli delle loro ricchezze fossili – le stesse che hanno causato i cambiamenti climatici – utilizzando Governi fantocci e terrorismi religiosi, e poi trasformando la loro ultima risorsa, la migrazione, in una merce da appaltare dove genera più profitto: le organizzazioni criminali, governative o meno. 
Il clima è entrato in borsa come un titolo in perenne rialzo. Al di là delle dichiarazioni di intenti, anche i Paesi europei che più si professano a favore di una svolta green, l’ottica di fondo rimane sempre quella capitalista. E’ il caso della Francia di Emmanuel Macron che aumenta le tasse sul carburante senza però impostare una politica di alternativa al trasporto privato, col solo risultato di scaricare i costi del disinquinamento sulle categorie meno abbienti.  
Oppure la proposta del nuovo padrone dell’Ilva, il miliardario indiano Adiya Mittal, che ha chiesto all’Europa l’istituzione di dazi verdi sull’acciaio prodotto da Paesi come gli Stati Uniti, le cui industrie non sono soggette al vincolo comunitario che le obbliga a ridurre del 43 per cento le emissioni di gas serra. Va de sé che questi dazi, anche a volerli definire “verdi”,  non andrebbero ad intaccare la quantità di Co2 sparata complessivamente nel pianeta Terra dall’inquinantissima industria siderurgica, quanto piuttosto a determinare “dove” questo acciaio viene prodotto. 
Ridurre i consumi, utilizzare materiale meno impattanti, riciclare e riutilizzare quanto è possibile, cambiare l’economia e non il clima, insomma, sono concetti ancora lontani dalla sfera di comprensione e di azione dei Governi. Soprattutto di quei Governi che potremmo definire neo nazionalisti ai quali i cambiamenti climatici fanno tutto sommato comodo perché possono cavalcare le tante crisi sociali che questi portano con sé – migrazioni, impoverimento, criminalità, svendita dei beni comuni… – per imporre militarizzazioni e autoritarismi. 
Tutto questo è passato sopra Katowice senza che i delegati dell’Onu riuscissero o volessero affrontarlo. Il rapporto dell’Ipcc indicava la luna e non hanno saputo o potuto far altro che guardare il dito. Sappiamo cosa bisogna fare ma sappiamo anche che i Governi non lo faranno. Sappiamo anche che non ci sono alternative e che solo una rivoluzione ci salverà. Quello che è andato in scena a Katowice è stato un funerale. Che sia quello della Terra o quello del capitalismo lo dovremo decidere noi. 

Attenzione: il Governo del Cambiamento sta cambiando il divieto di uso di Ogm!

5 Stelle e Lega hanno aperto la porta agli organismi geneticamente modificati e lo hanno fatto proprio lavorando all’interno della legge che doveva disciplinare le coltivazioni biologiche. Una legge sulla quali le associazioni di coltivatori come Aiab avevano già espresso forti perplessità, soprattutto in merito ai pesanti tagli dei già scarsi finanziamenti deviati verso le grandi e inquinanti coltivazioni che fanno abbondante uso di prodotti chimici. Una legge discutibile, elaborata senza tener conto delle osservazioni in merito dei coltivatori biologici che comunque non immaginavano che in fase di dibattimento, fosse accolto, nel testo approvato dalla Camera, la proposta dell’onorevole Guglielmo Golinelli, giovane deputato della Lega e grande allevatore di suini nel modenese, che abolisce in toto l’articolo 18. 
Come fa notare nel suo sito l’Aiab, l’associazione italiana per l’agricoltura biologica, l’articolo 18 era il muro che difendeva le coltivazioni nostrane dall’assalto degli organismi geneticamente modificati. Non solo l’articolo rimarcava il divieto assoluto di utilizzo di Ogm, ma affermava anche che non poteva essere commercializzato come biologico un prodotto contaminato anche se accidentalmente. 
“E’ un fatto che riteniamo gravissimo –  ha dichiarato il presidente di Aiab, Vincenzo Vizioli – che rende impossibile il sostegno di chi lavora per il buon biologico italiano. Riteniamo inaccettabile che si liberalizzi la contaminazione accidentale che, per le produzioni in pieno campo, apre pericolosamente la porta a future liberalizzazioni della coltivazione di Ogm. Liberalizzazioni che il nostro Paese più volte ha respinto grazie alla mobilitazione di associazioni e cittadini”. 

L’onorevole Guglielmo Golinelli, allevatore di maiali leghista
Oltretutto, fa notare Aiab, questa legge approvata dalla Camera viola il divieto sancito dal regolamento europeo di uso di Ogm in tutte le fasi di produzione, trasformazione e preparazione dei prodotti. 
“Insomma, invece di lavorare per evitare ogni tipo di contaminazione e qualificare il prodotto italiano, si sceglie la strada più semplice, quella dell’omertà – conclude Aiab -. I consumatori scelgono il biologico perché hanno paura dei pesticidi e vogliono evitare contaminazioni di qualsiasi tipo”. Si invoca da tutte le parti la massima trasparenza dell’etichettatura e di rintracciabilità di tutta la filiera “e poi si tiene nascosto al consumatore che nel prodotto c’è anche quello che lui, comprando biologico, sta cercando di evitare”.
Vincenzo Vizioli conclude invitanfo i parlamentari che riesamineranno la norma a reinserire l’articolo 18, sanando un passaggio che “vorrei poter leggere solo come errore e non come deprecabile strategia”.
Una deprecabile strategia, purtroppo, alla quale il cosiddetto Governo del Cambiamento targato leghisti e 5 Stelle ci ha già abituato da un pezzo! 

La mappa mondiale delle lotte ambientali

Si chiama Environmental Justice Atlas traducibile come “atlante della giustizia ambientale” e la potete consultare a questo link. Vi sono raccolte tutte le grandi battaglia in difesa dell’ambiente e dei beni comuni che gli attivisti di tutto il mondo stanno portando avanti: dai popoli originari del sud America in lotta per la conservazione della biodiversità, alle denunce degli ambientalisti canadesi e statunitensi sui disastri dell’estrazione petrolifera negli oceani e sugli versamenti dei grandi oleodotti. La mappa è consultabile nel suo insieme ma anche scorporando le singole tematiche: dal nucleare alla difesa dell’acqua pubblica, dalla cementificazione alle miniere, senza dimenticare un’altro tipo di devastazione come la “turistificazione”, ovvero l’impatto del turismo di massa. Anche questa è una lotta per la difesa dell’ambiente. Il bollino viola che contraddistingue questa battaglia per la democrazia ambientale lo troviamo, come c’era da aspettarsi, sopra la nostra Venezia, accanto a quello grigio che indica la presenza di una Grande Opera devastanti: il Mose, per l’appunto. 
E non sono certo i “bollini” che mancano nella nostra penisola. Nell’Environmental Justice Atlas, un sito aperto ai contributi di tutti i movimenti dal basso, sono segnalate tutte le lotte ambientaliste del nostro Paese: dalla Tav al Tap, dalle trivelle ai veleni dell’Ilva. Cliccando su ogni bollino si apre una scheda con utili informazioni sul conflitto in corso. La mappa permette inoltre di avere una panoramica delle questioni ambientali di cui i media dedicano poco o nessuno spazio, come quelli in atto nel continente africano. 
Un capitolo a parte meritano i luoghi segnalati dal bollino nero che indicano i conflitti per la giustizia climatica. E’ la mappa di Blockadia. Termine coniato da Naomi Klein per indicare la resistenza contro il potere fossile. “Non si tratta di un luogo preciso sulla mappa – scrive l’autrice di “No Logo”-, ma piuttosto di una rovente zona di conflitto transnazionale che sta spuntando con crescente frequenza e intensità ovunque ci siano progetti estrattivi che tentano di scavare e trivellare, che si tratti di miniere a cielo aperto, di fratturazione idraulica o di oleodotti per il petrolio delle sabbie bituminose”. 
Uno spazio in continua espansione, questo di Blockadia, come si evince proprio dal nostro atlante per la giustizia ambientale. Negli ultimi 10 anni, si è registrato un continuo aumento, sia come frequenta che come intensità, dei movimenti di resistenza a questi crimini contro la terra che, ricordiamolo, sono i primi responsabili dei cambiamenti climatici. Dagli ogoni del Delta del Niger in azione contro la Shell, sino agli yasuni in Ecuador contro l’estrattrivismo o alle iniziative di disobbedienza civile di massa di Ende Gelände in Renania. Tutto questo è Blockadia. Fermare l’estrattivismo per far vivere la terra. 

Il Veneto marcia per il clima. Siamo ancora in tempo e il tempo è ora

Tute bianche e maschere da angry animals, animali arrabbiati, dietro ad un grande striscione con le scritta “Stop Biocidio, cambiamo il sistema e non il clima” in testa al corteo. Dietro, un'originale carrozzella a pedali con tanto di impianto di amplificazione azionato da un pannello fotovoltaico per dare voce ai rappresentanti dei comitati e delle associazioni ambientaliste che si sono avvicendati al microfono. A seguire, un fiume colorato di oltre 5 mila persone che questo pomeriggio ha sfilato pacificamente per le strade di Padova, dalla stazione a piazza Garibaldi. Un corteo dalle mille bandiere ciascuna delle quali ricorda una delle tante lotte per l’ambiente che si stanno combattendo nella regione, dal Mose ai Pfas, dalla Pedemontana ai cementifici. Mille bandiere per mille battaglie ma per una sola guerra: quella contro i cambiamenti climatici. Una guerra che si sta combattendo in tutto il mondo, con milioni di persone scese nelle strade di tutti i Paesi per partecipare a questa marcia per il clima e ribadire che siamo ancora in tempo e che il tempo di cambiare è ora.
Quelli che un tempo venivano etichettati come i tanti comitati delle sindrome Nimby – Not In My Back Yard, traducibile con “non nel mio cortile” – hanno dimostrato con questa manifestazione di avere chiaro che il loro Back Yard oggi è il mondo. Perché i cambiamenti climatici riguardano tutta la terra e nessuno se ne può tirare fuori. Ridurre le emissioni di Co2 entri i prossimi 12 anni significa sovvertire un sistema economico che continua a basarsi sullo sfruttamento del lavoro e delle risorse, mercificando diritti e democrazia. Per questo, la battaglia per il clima è anche la battaglia per una società più giusta e includente.

«Non è l’umanità che sta cambiando il clima – ha spiegato Marta Busetto dell’associazione Mala Caigo, in apertura del dibattito che si è svolto nella sala polivalente di via Valeri, poco prima del corteo – ma un modello capitalista figlio di una logica estrattivista che vede il mondo come una cassaforte dove si può rubare sempre di più, come se le risorse fossero infinite». Non è neppure un caso se il Veneto, che è una delle Regioni più ricche d’Italia, sia anche una delle più colpite da fenomeni meteorologi estremi.

«Siamo la Regione dei 4 inceneritori e delle 17 discariche, senza contare i cementifici e le discariche abusive, non di rado nascoste sotto le nuove strade – commenta Mattia Donadel di Opzione Zero – Abbiamo uno dei siti più inquinati d’Italia, Porto Marghera, dove da decenni si fa un gran parlare di bonifiche che non arrivano mai. Siamo la Regione che utilizza più pesticidi di tutto il Paese, per non parlare dell’inquinamento dell’aria e delle falde acquifere con i Pfas o di città come Venezia, Padova e Vicenza che con 100 sformanti di polveri sottili all’anno sono tra le città più inquinate d’Italia. Quest’anno abbiamo superato la Lombardia come percentuale di terreno ulteriormente cementificato. Poi arrivano le inondazioni e con le inondazioni il ministro Salvini che ci spiega che è tutta colpa nostra, colpa degli ambientalisti da salotto, e non della Lega che sta governando il Veneto da più di vent’anni».

Veneto che è il laboratorio di un sistema di Grandi Opere, nato col Mose e proseguito con il Tav e la Pedemontana, volto ad impostare un sistema di corruzione che ha letteralmente espropriato la democrazia grazie ad un iter collaudato di commissariamenti e leggi in deroga.

Un sistema che, come hanno ribadito altri portavoce di organizzazioni ambientali e sindacali, ha colpito anche il lavoro, creando precarizzazione e sfruttamento. La lotta per il clima è quindi anche la lotta per il lavoro e per i diritti sociali. Se l’umanità sopravviverà ai cambiamenti climatici, lo farà solo imboccando la strada giusta per una società più giusta, libera dalla schiavitù del capitalismo.

In conclusione del dibattito, l’assemblea ha deciso di accogliere la proposta che viene dalla Val di Susa di partecipare alla manifestazione del 23 marzo a Roma, senza per questo trascurare le battaglie regionali. Battaglie da affrontare assieme e sotto una comune ottica di lotta ai cambiamenti climatici invocando il rispetto del protocollo di Parigi e, si spera, del documento rafforzativo che uscirà dalla Cop 24 che si sta svolgendo in Polonia. Per questo motivo, i comitati veneti hanno scelto di dare vita ad un tavolo di lavoro che non si limiti a mettere in fila tanti no ma ad impostare battaglia concrete volte a realizzare un mondo ad emissioni zero. «Dobbiamo fare capire che tutelate l’ambiente non significa rinunciare al benessere o al lavoro – ha concluso Francesco Pavin del No Dal Molin – ma, al contrario, creare un mondo più sano e più giusto, senza quello sfruttamento e quelle ingiustizie sociali che sono figlie di questo capitalismo che somiglia sempre di più ad una rapina a mano armata».

Arrivederci alla prossima emergenza!


E così abbiamo assistito all’ultima “emergenza maltempo” che, con un bollettino di morti ammazzati degno della prima guerra mondiale (per citare un periodo che pare essere tornato di moda), ha messo ancora una volta in ginocchio il Paese dell’abusivismo edilizio, delle Grandi Opere e dei grandi condoni, dell’ambiente usato come un bancomat per mercificare i beni comuni, dirottare denaro pubblico nelle casse di aziende in odor di mafia e fabbricare consenso per politici inqualificabili.
Ma stavolta il Governo del Cambiamento ci ha spiegato con chiarezza di chi è la colpa: dei Governi precedenti, della Comunità Europea che non ci dà i soldi da spendere in altre Grandi Opere con le quali potremmo peggiorar ulteriormente la già pessima situazione, e, new entry, degli “ambientalisti da salotto”.
Virgolettato sparato dal ministro Ruspa, Matteo Salvini. Quello che nella sua veste di deputato europeo ha votato contro la ratifica degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici.

Eppure, che i cambiamenti climatici siano in atto e che l’umanità ha appena cominciato a pagarne le pesanti conseguenze, oramai lo sappiamo tutti, non solo i climatologi o gli scienziati. Lo sanno pure quelle persone che hanno votato per politici negazionisti come Bolsonaro, Trump o lo stesso Salvini. Politici cha hanno avuto la capacità di rassicurare le loro paure raccontando che la colpa è tutta dei migranti, dei poveri o delle donne che adorano farsi stuprare. Eppure sappiamo tutti che questi sono gli ultimi anni che l’umanità avrebbe a disposizione per cambiare rotta verso il disastro e cercare di limitare quei danni che, in ogni caso, bisogna mettere inevitabilmente in preventivo perché abbiamo perso troppo tempo.

Ma qualcuno direbbe che anche questo ritardo è tutta colpa degli ambientalisti da salotto. Qualcuno come la Lega che ha Governato il Veneto negli ultimi decenni ed ha portato la Regione in testa all’hit parade mondiale di consumo di suolo con un volume record di capannoni dismessi di oltre 21 milioni di metri quadri e, come sottolinea l’ultimo rapporto Ispra, ben 580 siti contaminati. Di investire in bonifiche non se ne parla nemmeno. Meglio dare i soldi ai cacciatori, che non sono “ambientalisti da salotto”. E nemmeno guardie forestale. Tanto per citare una categoria di lavoratori che ha subito tutti i tagli possibili, che all’ambiente potrebbe essere soltanto che utile ma che il presidente della Regione, Luca Zaia, si rifiuta anche di incontrare.

Ci stiamo preparando ad affrontare la subentrante epoca del nuovo clima con i pantaloni abbassati e senza un soldo per le bretelle.
Viene anche da domandarsi come si faccia ad essere così cialtroni. E la risposta è semplice: perché conviene. Naomi Klein l’ha battezzata “shock economy”. Per un certo modello di economia – lo stesso che ci ha regalato i cambiamenti climatici – è più remunerativo ricostruire che riparare. Mettere a norma di sicurezza una scuola costa meno che realizzarne una tutta nuova. E, vista così, non è nemmeno un caso che la Regione Veneto abbia stanziato più soldi per i presepi che per gli standard antisismici. Ma dall’Aquila terremotata alla Siria in guerra, dai disastri ambientali a quelli causati direttamente dall’uomo, l’economia che marcia e che fa guadagnare di più è quella della ricostruzione dopo la devastazione. La messa in sicurezza idrogeologica dei nostri fiumi ha il difetto di costare troppo poco. La finanza è un animale predatorio e si nutre di più a realizzare una nuova villa abusiva, magari esattamente nello stesso posto in cui la piena aveva spazzato via la precedente. Tanto poi si può sempre contare in uno di quei condoni in stile “e allora il piddi?” per i quali i 5 Stelle sono una garanzia. Perché a cambiare una guarnizione si guadagna di meno che sistemare una cantina allagata.

Lo sanno gli idraulici e lo sanno anche i nostri politici. Il giro di soldi che sta dietro una catastrofe va tutto a loro vantaggio. E non parliamo solo di eventuali tangenti. I disastri e le ricostruzioni portano clientele e visibilità che si traducono in consenso elettorale. Programmare interventi di risistemazione ambientale che, per forza di cose, devono essere studiati a lungo termine, no. Se poi questi interventi prevedono l’abbattimento di strutture abusive, la limitazione del traffico su strada, la lotta agli sprechi domestici, la riconversioni di fabbriche inquinanti, l’applicazione di politiche atte a limitare i cambiamenti climatici e altre cosa da “ambientalisti da salotto”, stiamo anche certi che di voti se ne perdono!

Ma a proposito di cambiamenti climatici, sapete dirmi quanti euro sono stati destinati su questo fronte nella “finanziaria del popolo”?
Bravi! Proprio così. Zero su zero!
Ci vediamo alla prossima emergenza maltempo!

Se il problema è la pioggia...

Ci risiamo. "Italia sferzata dal maltempo" leggiamo nei giornali. Titoli che sono gli stessi di un anno fa. Poi c'è la conta delle vittime. Sette persone hanno perso la vita lunedì. Altre quattro corpi sono stati recuperati oggi. Ci si augura che non arrivino altri aggiornamenti, ma anche così il numero delle vittime è superiore a quello dell'ultima "emergenza maltempo".

E dopo la conta delle vittime, ecco che i telegiornali sparano l'elenco dei danni. A Rapallo cede una diga, acqua alta da record a Venezia, la provinciale 227 per Portofino è cascata giù e il paese noto per la vita mondana è isolato, in Trentino 170 persone sono bloccata al passo dello Stelvio, tromba d'aria in Valsugana, decine di famiglie evacuate dalle loro case a Moena e nei paesi vicini, il mare spazza il porto di Posillipo devastando in maniera democratica tanto le barche dei pescatori che gli yacht dei vip, Adige e Piave in piena nel Veneto, scuole chiuse e incidenti un po' dappertutto.

A concludere il servizio tv o l'articolo, tocca alle dichiarazione del politico di turno. Il microfono viene dato al ministro, al deputato, o al presidente di Regione di turno. E qua, rispetto al servizio di un anno fa, qualche anima candida potrebbe anche aspettarsi delle novità. Non ci ripetono in tutte le salse che è arrivato il Governo del Cambiamento? Ma non c'è niente da fare. Anche se sono cambiati i suonatori, non cambia la musica. Anche se le scuse, e questo va detto, sono sempre più originali ("Ah, c'è una penale? Non lo sapevo quando facevo opposizione…") Ma la colpa delle strade che crollano è sempre e comunque dell'amministrazione precedente. Di assumere un serio impegno a lungo termine per mettere in sicurezza il Paese e prepararlo a quei cambiamenti climatici che, anche nella migliore delle ipotesi, saranno comunque drammatici ed inevitabili, non se ne parla.

Anzi! Se mai fosse entrata, potremmo scrivere che la questione "cambiamenti climatici" è stata completamente defenestrata dalla lista degli impegni delle nostre forze politiche. Opposizione compresa. Evidentemente non porta voti. Oppure la sua portata epocale va troppo al di là dagli orizzonti ristretti di questi politici che ci meritiamo.

Non è cambiata la musica - abbiamo scritto - perché, anche se sono cambiati i suonatori, non è cambiato quell'economica da rapina che continua a scrivere da solista lo spartito dove a noi tocca improvvisare. Se la colpa dei disastri è sempre del Governo precedente, la soluzione resta dappertutto quella delle Grandi Opere.

Da Trento, il neo presidente Maurizio Fugatti esce dalla sala di crisi della Protezione Civile soltanto per ribattere ai giornalisti l'importanza strategica della Valdastico e del tunnel sul Brennero. "Strade e autostrade vanno portate avanti - dichiara -, anche perché ormai c’è la piena consapevolezza delle persone sul fatto che neppure le remore ecologiste valgano più a giustificare lungaggini e rimandi. La migliore strategia di prevenzione di incidenti sta proprio nella costruzione intelligente di nuove opere”.

Da una Venezia allagata quasi come in un lontano '66, al sindaco Gigio Brugnaro non passa neppure per la testa che sarebbe stata una azione più intelligente potenziare la protezione civile piuttosto che assumere un battaglione di vigili palestrati ed armarli con le pistole per "correre dietro ai nigeriani”, per dirla come lui. «Giornate di acqua alta eccezionale come queste ci dimostrano che il Mose è necessario» ha spiegato, mentre con stivaloni da pescatore faceva la sceneggiata - davanti alle telecamere - di andare a salvare i turisti in piazza San Marco. Non ha spiegato invece che il Mose non entrerà mai in funzione, che non serve per fermare l’acqua qua alta e che è utile solo a dirottare soldi pubblici dalla salvaguardia vera a politici e privati in odor di mafia. Con paratie che si alzano solo sotto i 120 centimetri, piazza San Marco e tante calli di Venezia andrebbero ugualmente a mollo, e in caso di alte eccezionali come quelle di questi giorni, il pericolo di collassi delle paratie metterebbero in serio rischio la città.

Ma il problema vero del Mose, la "madre" di tutte le Grandi Opere italiane, non sta neppure qua e non si misura sui centimetri di marea che vanno al di là della portata delle paratie. Se invece di insistere su un'opera inutile e costosissima, pensata solo per foraggiare una nota gang di malaffare misto politico e mafioso, si fosse investito nel porre rimedio al dissesto della laguna causato dallo scavo inconsiderato di troppi canali, oggi Venezia non si troverebbe a mollo. Il Mose è la causa e non il rimedio dell'emergenza acqua alta di questi giorni.

Che sia proprio il cemento connesso alla politica delle Grandi Opere, e non la pioggia in se, a causare problemi all'Italia non viene in mente a nessuno di coloro che sono al Governo. Lo sottolineano ingegneri, ambientalisti, climatologi, ma non i nostri politici. Perlomeno non quelli seduti nelle stanze dei bottoni. Nessuno di loro ha neppure degnato di una risposta l'appello di Legambiente a chiudere le Grandi Opere più devastanti, salvaguardando il territorio e dirottando i fondi risparmiati alla messa in sicurezza idrogeologica dei nostri fiumi. Il Governo del Cambiamento continuerà come tutti i Governi precedenti, a finanziare opere come la Pedemontana che, più della pioggia che è sempre caduta al mondo, sono causa stessa del dissesto profondo in cui ci troviamo.

Sino alla prossima esondazione, sino alla prossima tromba d'aria, sino al prossimo allarme maltempo, per riscrivere da capo gli stessi articoli.

All’arrembaggio! Venezia sale in barca contro le Grandi Navi

E’ stata una grande giornata di festa e di mobilitazione per Venezia. Una giornata in cui chi abita la città e chi l’ha a cuore ha trovato l’orgoglio di salire in barca o di scendere in fondamenta per ribadire che Venezia appartiene a chi la vive e non a chi la sfrutta come un bancomat. In questo senso, le Grandi Navi non sono altro che un emblematico esempio di una economia al collasso che scarica inquinamento e devastazioni ambientali sul territorio per produrre profitto per pochi, mercificando ed umiliando la stessa democrazia di base. Perché i canali sono le strade di Venezia e i veneziani li vogliono attraversati da imbarcazioni tradizionali a remi e non da questi immensi centri commerciali galleggianti, pieni di turisti da vacanza in saldo, che guardano la città dall’alto senza comprenderne la natura, e salutano dall’alto con la mano i pochi residenti rimasti come fossero vuote comparse in una insulsa cartolina.
Ma oggi è stata anche la giornata in cui il cosiddetto “Governo del cambiamento” ha gettato la maschera rivelandosi per quello che è: un nemico dei movimenti ambientalisti. Un governo che persegue le stesse politiche del peggior Pd condendole con razzismo ed autoritarismo. Nonostante il canale della Giudecca fosse presidiato da una cinquantina di barche a remi ed a motore, le grandi navi non sono state fatte passare ugualmente – al contrario di quanto avvenne un anno fa – scortate da una flotta di imbarcazioni della polizia che hanno speronato e sparato con gli idranti contro le leggere barche a remi. Non hanno esitato a mettere in pericolo la vita dei manifestanti e neppure di rischiare un incidente navale in bacino, considerato che, in acque basse, la manovrabilità delle Grandi navi è limitata. Eccolo qua, il “cambiamento”!

“A sei anni dal decreto Clini Passera che poneva un limite al tonnellaggio delle navi entranti in laguna, non è cambiato niente – hanno detto i portavoce dei No Navi – Le navi continuano a transitare per l’area marciana. E il ministro Toninelli non sa che pesci prendere. Un giorno dice una cosa e il giorno dopo la smentisce. I loro alleati della Lega invece sanno bene da che parte stare: quella degli interessi delle multinazionali crocieristiche”.

In questo solo fine settimana, le navi che transiteranno nel canale della Giudecca sono 18. E se consideriamo che ciascuna di loro inquina come 14 mila automobili si capisce come mai, Venezia – la città per antonomasia senza auto – risulta una delle più inquinate d’Europa, proprio come se fosse costruita a ridosso di una autostrada a tre corsie!

“Per questo – hanno detto gli attivisti – rilanciamo la proposta di organizzare una grande manifestazione a Roma, come suggerito da tutti i movimenti ambientalisti con cui ci siamo riuniti ieri al Sale. Dobbiamo porre questo Governo davanti alle sue contraddizioni. Parlano di cambiamento ma è chiaro a tutti che la confusione con cui trattano il problema delle Grandi Navi a Venezia e, in generale, tutta la politica delle grandi opere, è solo un sistema per evitare di decidere e lasciare tutto come sta, consentendo a chi saccheggia i territori di continuare impunemente a farlo”.


Nel video girato da Global Project, la polizia difende il passaggio della terza Grande Nave, mettendo a repentaglio la vita dei manifestanti sul barchino, tentando uno speronamento.


Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica

Fuori, sui masegni della fondamenta, decine di palloncini colorati, bandiere al vento e le installazioni galleggianti pronte per la grande festa di domani. Dentro, la “meglio gioventù” d’Italia. Quella capace di mobilitarsi per la giustizia climatica, la tutela dei territori e la democrazia ambientale. E sono in tanti. Nella sala degli antichi magazzini dove un tempo la Repubblica Serenissima conservava il prezioso sale, si sono radunate più di 300 persone, in rappresentanza dei 56 comitati e movimenti provenienti da tutta la penisola che hanno raccolto l’appello lanciato dai No Grandi Navi.
Siamo in fondamenta delle Zattere. Proprio sulle rive del canale che unisce Venezia alla Giudecca. Proprio dove transitano le Grandi Navi. Abnormi condomini galleggianti, il cui continuo via vai inquina l’aria e devasta i fondali di una città che vive della sue laguna, anteponendo il profitto di pochi ad un bene di tutti. Una città, questa che era dei Dogi, che è emblematica per dare il giusto peso alle tematiche ambientaliste. Qui, dove l’acqua e la terra si mescolano senza barriere, complementandosi l’una con l’altra, e dove la bellezza è allo stesso tempo vita e morte, a causa di un assedio turistico oramai insostenibile. “Qui è più semplice rendersi conto che le tematiche ambientali non possono essere disgiunte da quelle del diritto di cittadinanza, e che non si può parlare di giustizia climatica senza parlare anche di democrazia” spiega aprendo l’assemblea, nel primo pomeriggio, Marco Baravalle del Sale. In questa Venezia dove, con l’imposizione del Mose, è stato sperimentato il devastante sistema delle Grandi Opere,”è davanti agli occhi di tutti che la battaglia che l’umanità sta combattendo è tra chi difende i beni comuni e chi li vuole mercificare per trarne profitto. E cosa altro è questa se non una battaglia per la democrazia?” conclude Marco.

Il microfono passa di mano in mano sino a sera. A prendere la parola sono i portavoce dell’intero arcipelago ambientalista del Paese, da Taranto alla val di Susa, dai No Tap ai No Pfas. Negli interventi di tutti, si legge la volontà di percepirsi com un unico movimento, superando lo steccato del singolo problema e della specifica lotta. Proprio come hanno fatto i No Tav valsusini. “Siamo usciti dalla nostra valle per spiegare a tutta l’Italia che questa battaglia non riguarda solo noi – spiega Francesco Richetto – E’ una battaglia di tutti perché questo sistema economico è contro l’umanità. E’ la battaglia di tutti coloro che credono in un mondo diverso, dove i soldi non servono a ricavare profitti ma a far felici le persone. Mobilitiamoci, quindi, perché se non lo facciamo noi, nessuno lo farà per noi”.

Nessuno, e tantomeno il Governo. Perché i movimenti non hanno Governi amici. Oggi come ieri. Anche il Governo penta stellato che qualche suo tifoso continua a chiamare “del cambiamento”, non ha fatto altro che continuare le precedenti politiche “sviluppiste” di una economia malata. Un tradimento? Sì, per qualcuno, come per i portavoce dei comitati tarantini o per di Stop Biocidio della Terra dei Fuochi. “Questi politici hanno attraversavano le mobilitazioni e raccolto fiducia e voti da tanti di noi, cavalcando le nostre rivendicazioni come oggi cavalcano il razzismo – commenta Raniero Madonna – ma non ci hanno messo molto a rivelarsi per questo che davvero sono. Dei nemici dei movimenti”.

Le insostenibili posizioni di chi, a parole, tuonava contro il Mose o le Grandi Navi e, una volta al potere, ha cambiato radicalmente idea e governa con quella stessa Lega che ha sconquassato l’intero Paese con le Grandi Opere, sono, per Tommaso Cacciari, del Laboratorio Morion, una contraddizione da cogliere senza indugio, organizzando una manifestazione a Roma. “Al di là delle cupe narrazioni di razzismo che ottengono tutta l’attenzione dei media, c’è un’Italia straordinaria. Ci sono decine di migliaia di persone come noi, capaci di organizzarsi nei territori e di lottare per la democrazia ambientale. Prepariamoci a dare vita ad una grande mobilitazione. Se non lo facciamo noi, chi lo farà?”

Appello subito rilanciato da Margherita da Lonigo, portavoce delle Mamme No Pfas. “Ci siamo svegliate una mattina ed abbiamo scoperto che nel sangue dei nostri figli c’è una percentuale di Pfas superiore di dieci volte la soglia di pericolo. Abbiamo denunciato una fabbrica che ha inquinato irrimediabilmente la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Oggi la fabbrica è ancora là e continua ad inquinare e ad avvelenare i miei figli. Quando ci pensiamo, ci sale in corpo una rabbia che non ci serve nessun ulteriore incentivo per mobilitarci. E state tranquilli che non ci fermeremo mai!”

Ogm nei nostri supermercati? Pochi ma presenti

Ogm negli scaffali dei nostri supermercati? Sì. Ce ne sono. Basta fare un po' di attenzione e leggere le etichette. Io stesso, nel market sotto casa, ho trovato una farina precotta a marchio Pan e proveniente dagli Usa con la scritta - in piccolo e tra parentesi, ma comunque visibile - "Prodotta con mais geneticamente modificato". 
Come è possibile? In Italia è vietata la coltivazione di piante geneticamente modificata, ma non è vietata la loro importazione, sia pure limitatamente a prodotti destinati all'alimentazione animale, e previa una autorizzazione del prodotto a livello europeo. Ma la normativa europea è molto meno rigida di quella italiana. E con i regolamenti 1829 e 1830 del 2003 consente la commercializzazione di certi prodotti Ogm, purché la loro presenza sia indicata nella confezione.
Si capisce quindi, come possa capitare che un prodotto geneticamente modificato in vendita oltre frontiera, finisca per "cascare" nello scaffale di un supermercato nostrano.


Dal 2006, l’Istituto superiore di sanità in collaborazione con il Centro di referenza nazionale per la ricerca di Ogm predispone un piano nazionale di controllo sulla presenza di questi organismi nei cibi che finiscono nelle nostre tavole. L'ultimo rilevamento ha confermato il trend decrescente di Ogm nei prodotti commercializzati al dettaglio, a testimonianza, recita la nota ministeriale, della "consapevolezza crescente degli operatori del settore alimentare, che pongono particolare attenzione lungo tutta la filiera alimentare". Solo il 4% dei campioni prelevati conteneva trance sensibili di Ogm. E questi campioni provenivano da prodotti di importazione. In primis, prodotti a base di riso dalla Cina. "In Italia - conclude lo relazione dell'istituto superiore di sanità - la presenza di Ogm, autorizzati e non, negli alimenti continua ad essere decisamente limitata ed a concentrazioni estremamente basse" e "si può concludere che per i prodotti alimentari, sul mercato italiano, permane il rispetto dei requisiti d’etichettatura previsti dalla normativa vigente, assicurando in tal modo l’informazione al consumatore".
Questo non risolve comunque il problema della presenza di alimenti transgenici nel nostro Paese che non può certo definirsi "Ogm free" anche solo considerando che la gran parte dei mangimi a base di soia utilizzati nei nostri allevamenti - fatti salvi quelli certificati biologici - provengono da Stati Uniti e Canada dove l'uso di Ogm è legale e ampiamente utilizzato. E considerato che l'Italia produce solo l'8 per cento della soia di cui fa uso e che all'estero quasi tutta la soia è oramai transgenica, un rigido divieto in questo senso getterebbe nel panico tutti gli allevamenti del Paese che non saprebbero più dove rifornirsi.

In questo senso, gli Ogm sono emblematico esempio di una globalizzazione che ha instaurato in tutto il pianeta una dittatura economica capace di superare qualsiasi frontiera geografica e bypassare qualsiasi politica nazionale. La risposta o sarà globale o non sarà.

Quel pasticciaccio brutto assai del glifosato Monsanto

Duecento e ottantanove milioni di dollari di risarcimento. È costata cara alla Monsanto la sentenza del tribunale di San Francisco che ha sposato la tesi del giardiniere 46enne Dewayne Johnson, secondo cui la multinazionale non lo avrebbe informato correttamente sui rischi inerenti all’uso del glifosato. La Monsanto, come era prevedibile, ha già annunciato ricorso, ma la sentenza emessa questa estate, precisamente l’11 di agosto, rischia di spalancare le porte di penali miliardarie a tutte le altre cause di risarcimento per i danni causati dal glifosato. Ne sono in corso, nei soli Stati Uniti, quasi 5 mila. E questo è probabilmente uno dei motivi per i quali la Monsanto, sempre questa estate, è stata acquisita della Bayer per la cifra di “soli” 63 miliardi di dollari. La casa farmaceutica tedesca ha già deciso di cambiare il nome dell’azienda, oramai “sporcato” dalla cattiva fama che la multinazionale leader nella produzioni di ogm, si è ritagliata nella sua storia. E non solo per colpa del glifosato. La decisione dei giudici di San Francisco rimane comunque storica. Per la prima volta una corte di giustizia ha affermato che “il glifosato provoca il cancro”. Ma vediamo di approfondire la questione che, come sempre quando si tira in ballo scienza, giurisprudenze e, non ultimi gli enormi interessi economici che ci sono sotto, non può essere ridotta a bianchi e neri.
Innanzitutto, cosa è il glifosato? Si tratta di un potente diserbante non selettivo che viene assorbito dalla pianta tramite le foglie portandola velocemente al dissecamento. Diffusosi rapidamente a partire dagli anni ’70 in tutti i Paesi del mondo, sostituì rapidamente gli altri erbicidi in uso all’epoca in quanto questa sostanza si rivelava meno tossica per l’uomo ed inoltre, essendo facilmente degradabile, difficilmente arrivava ad inquinare le falde acquifere. Oggi è di gran lunga il diserbante più usato in tutto il mondo, sia nell’agricoltura che nel giardinaggio. In media, e considerando solo il peso del principio attivo, ogni ettaro coltivato ne consuma mezzo chilo all’anno. Nei soli Stati Uniti, con lo sviluppo delle coltivazioni transgeniche, strettamente collegato a questo diserbante, come vedremo più avanti, l’uso del glifosato è passato da 400 tonnellate nel 1974 alle 113 mila nel 2014.

Ovviamente, il fatto che negli anni ’70 si usavano diserbanti ancora più pericolosi ed inquinanti, non significa che il glifosato non comporti dei rischi comunque inaccettabili per la nostra salute. Ed infatti, la questione se questa sostanza causasse il cancro o meno, è stata subito sollevata da alcuni esperti. Le principali agenzie di regolamentazione si sono date battaglia difendendo tesi del tutto opposte sulla tossicità del pesticida in questione. Ma per ottenere un autorevole parere sulla pericolosità di questa sostanza, bisognò attendere il 2015 quando l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) dimostrò che tutti i precedenti lavori che assolvevano il glifosato era basati su dati forniti dalla Monsanto! Altre agenzie come l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e la Fao (Food and Agriculture Organization) successivamente difesero il glifosato dichiarando come “improbabile” una sua correlazione col cancro. Altre ancora, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dichiarato salomonicamente che il glifosato “non presenta potenziale genotossico” ma che comunque la sua “tossicità a lungo termine, la cancerogenicità, la tossicità riproduttiva e il potenziale di interferenza endocrina delle formulazioni devono essere chiariti”. Ancora la Iarc ha classificato questo diserbante nel gruppo 2A dei potenziali cancerogeni. Per dire, in compagnia delle carni rosse e delle emissioni delle fritture, mentre nel gruppo 1, più pericoloso, ci stanno le sigarette, le emissioni di raggi Uv e l’amianto.

Va considerato però che tutto questo bailamme riguarda solo il principio attivo del glifosato e non il prodotto in commercio e comunemente adoperato da agricoltori e giardinieri. Il brevetto esclusivo è scaduto nel 2001 ed ora sono molte le aziende che vendono glifosato, oltre alla Monsanto. Tutti questi prodotti, che fanno a gara l’un con l’altro per garantire un effetto ancora più efficace, si sono rivelati molto più tossici per la salute ed anche più inquinanti per l’ambiente, riuscendo, ad esempio, a raggiungere le falde acquifere come il principio attivo da solo non riesce a fare. Esemplare il caso di Pistoia, dove l’uso massiccio di questi prodotti sui vivai ha causato una percentuale di pesticidi nell’acqua superiore quasi al 30 per cento del consentito.

La guerra - ed uso questo termine a proposito! - che si è scatenata sopra il glifosato ha assunto aspetti che vanno ben oltre la corretta disputa scientifica. Monsanto, in più occasioni, ha messo in atto manipolazioni vergognose per screditare e colpire gli scienziati che denunciavano la pericolosità del suo prodotto, tacendo su studi di criticità che lei stessa aveva commissionato. E il tenace avvocato del giardiniere Dewayne Johnson, ha potuto così dichiarare che “la Monsanto ha combattuto la scienza”. E quando non l’ha combattuta, come rivelano le intercettazioni pubblicate nell’inchiesta Monsanto Papers, l’ha inquinata, pagando con vagonate di dollari dei prestanome perché pubblicassero come propri, studi fasulli preparati in realtà dalla stessa azienda su dati inventati di sana pianta. Un clima talmente scorretto in cui rimane difficile attenersi ai fatti o agli studi scientifici ma che si è rivelato un fertile terreno solo le teorie complottistiche. A tirare colpi bassi, infatti, si sono fatte avanti anche aziende che commerciano in prodotti per l’agricoltura alternativi al glisolfato che hanno finanziato altri studi, se non fasulli quantomeno pilotati, in cui si dimostrava la tossicità del diserbante targato Monsanto!
Una vera guerra senza esclusione di colpi in cui la prima vera vittima è stata la scienza. 

Ma, anche nel caso del glifosato, rimane comunque la difficile questione di tradurre in una sentenza o in una legge quello che uno studio scientifico definisce “probabile” pericolosità. La domanda è: fino a che punto vogliamo rischiare con la nostra salute? Negli Usa, una sostanza può essere commerciata liberamente sino a che non se ne dimostra la pericolosità. In Italia, vale il - sacrosanto! - principio di precauzione: fino a che non si dimostra che un prodotto non fa male alla salute, non può essere commercializzato. Ed infatti, proprio in ottemperanza a questo principio, l’uso del glifosato è tutt’ora vietato nei parchi, nei giardini delle scuole e degli ospedali ed anche nel verde urbano grazie ad un decreto cautelativo del ministero della salute entrato in vigore il 22 agosto 2016. Questo è il motivo per il quale città che ne facevano un ampio uso, come Bolzano - per citare un caso che ho verificato personalmente - che vantavano viali fioriti ed una cura impeccabile dell’arredo urbano, si sono trovate di punto in bianco coperte di erbacce! I giardinieri si son attrezzati con roncole e falci e han fatto quello che potevano, ma l’organico non era sufficiente per fare a meno di un, comodo ma potenzialmente pericoloso, alleato come l’usatissimo glifosato.

Di diverso avviso l’Europa. Nel novembre 2017 i delegati dell’Unione hanno votato a favore del rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione all’uso del diserbante incriminato. E ora che la Monsanto è diventata di proprietà della tedeschissima azienda Bayer, la vediamo difficile che si faccia retromarcia!

Ma oltre alla solita questione sulla difficoltà di sposare scienza - che per sua natura ragiona solo in termini probabilistici - e giurisprudenza - che deve esprimere pareri certi -, la questione glifosato investe una serie di pesantissimi interessi di natura squisitamente economica e politica.
Il glifosato è una porta aperta per gli organismi geneticamente modificati. Nelle coltivazioni transgeniche infatti, è stata introdotta una definitiva resistenza al questo diserbante. Come dire che, sparando questo prodotto sopra un campo Ogm, bruci tutto tranne le piante ogm. Ammettiamolo: una bella comodità! Non è un caso che la coalizione Stop Glifosate abbia fatto della sua lotta a questo diserbante un simbolo della lotta agli ogm ed all’agricoltura industriale. Proprio la Monsanto prima, e la Bayer dopo, hanno fatto di questo abbinamento - ogm e glisolfato - il punto di forza della loro campagna per l’agricoltura transgenica.

Considerata la crisi in cui versa l’agricoltura convenzionale, sempre meno sostenuta finanziariamente dalla Comunità Europea, le strade sul futuro che si aprono sono solo due: il transgenico o la sua rivale per eccellenza, l’agricoltura biologica. Ed è per questo che bisogna dire stop al glifosato. Non solo in virtù del principio di precauzione. Il fallimento del modello di produzione agricola industriale, che oramai si sostiene solo grazie ai piani di Sviluppo Rurale, deve spingerci a cercare una nuova strada. Una strada che porta alla sostenibilità ambientale ed ai bassi consumi energetici, basata sulla tipicità del prodotto con filiera a chilometri zero. Una strada che ci allontana dal baratro in cui vorrebbero farci precipitare le multinazionali che spingono verso la facile soluzione del transgenico, della coltura intensiva, del consumo privatizzato dell’acqua e delle risorse, per una agricoltura nemica dell’uomo, nemica della terra.

Chi inquina l’acqua, uccide l’umanità. Nella giornata dei Crimini Ambientali, i cittadini avvelenati dai Pfas circondano la Miteni

Tante strade quelle che, nella giornata di ieri, hanno portato a Trissino movimenti, associazioni, spazi sociali, gruppi ambientalisti, cittadini stanchi di farsi avvelenare in silenzio. Tante strade che procedono verso una unica direzione e con un unico obiettivo: difendere la terra e l’ambiente in cui viviamo perché noi stessi siamo l’ambiente in cui viviamo. E se si ammala la terra, si ammala l’umanità.
Ieri, domenica 22 aprile, a Trissino, si è svolta la Giornata Contro i Crimini Ambientali. E quale piazza poteva essere migliore che lo spazio davanti la Miteni, la fabbrica della morte che per anni, nel silenzio complice di chi doveva controllare e non ha controllato, ha avvelenato le falde acquifere di mezzo Veneto?
All’appuntamento di lotta e di informazione, si sono presentati in tanti. Tra i duemila e i duemila cinquecento, secondo gli organizzatori. Non soltanto associazioni o i cittadini che per primi hanno denunciato la presenza di Pfas – i pericolosi composti perfluoroalchilici – nell’acqua che esce dal rubinetto di casa, ma anche movimenti ambientalisti dal respiro più ampio come GreenPeace, Legambiente, nominati Acqua Bene Comune, Medici per l’Ambiente, No Navi, reti Gas, associazioni contro la Tav e la Pedemontana, Salviamo la Val d’Astico, le guerriere ed i guerrieri delle Climate Defense Units con le loro maschere di Angry Animals, animali arrabbiati, e tante altre realtà ancora. Tutte accanto alle Mamme No Pfas che per prime hanno preso la parola nel palco antistante la Miteni, difesa, ancora una volta, da un cordone di polizia.
«Abbiamo cresciuto i nostri bambini mettendoci tutto il nostro impegno perché fossero sani, li abbiamo difesi dalle malattie ma non abbiamo pensato a difenderli dall’acqua che bevevano, Ma come potevamo noi pensare che proprio l’acqua che è vita, fosse pericolosa? Ora nel loro segue ci sono percentuali di Pfas da 10 a 40 volte superiori ai valori accettabili».
«Noi siamo gli animali arrabbiati – spiega un portavoce dei Climate Defense -,  simbolo della rivolta di una natura di cui facciamo parte indissolubilmente, la Mitemi è solo una delle tante opere che devastano i territori. Il Veneto, in particolare, è la nuova Terra dei Fuochi tra Pedemontana e Val d’Astico. Un biocidio cui diciamo: Basta! Oggi siamo di fronte ad un movimento di ribellione che, pur nella sua diversità, si è posto obiettivi comuni contro le lobby dell’affarismo che stanno trasformando terra, acqua, paesaggio, ambiente, salute e la nostra stessa vita in merce. Costruiamo tutti assieme un nuovo immaginario che metta al centro la nostra salute e la salute dell’ambiente contro chi vuole ricavare profitto dalle malattie».
Tante le realtà che prendono la parola sul palco, intervallate dalla musica della chitarra che intona la canzone “No Pfas”. Tante realtà di movimento e pochi rappresentanti delle amministrazioni. Gli unici Comuni rappresentati con la fascia tricolore erano quelli di Lonigo e di Legnago.
Su palco sale Marzia, vestita da ape che invita tutti i cittadini ad essere operosi e attivi come le api. E magari anche  pungere, quando necessario. Legambiente ricorda gli operai della Miteni, nel cui sangue sono presenti le percentuali più alte di Pfas. «Abbiamo chiesto il disastro ambientale e qualcosa si sta muovendo anche nelle istituzioni, ma fino a che la fabbrica e tutta l’area non sarà bonificata, non se ne esce».
Chiusura immediata della fonte di inquinamento sotto il principio di “chi inquina paga”, è quanto chiedono anche le Mamme No Pfas di Arzignano. «Accertiamo le responsabilità di chi ha inquinato ma anche di chi ha taciuto. Vogliamo inoltre l’adozione del principio di precauzione anche nelle nostre scuole. Ai bambini oggi non può essere data da bere l’acqua del rubinetto».
Luca di Acqua Bene Comune plaude al nuovo modo di far politica delle Mamme No Pfas e si augura che ne prendano esempio anche i politici di mestiere. Claudia porta la voce del recente convegno di Medicina Democratica: «Inquinare le acque è un crimine ambientale. Non facciamoci ingannare da false promesse. C’è una sola soluzione: chiudere le fabbriche inquinanti».
Una mostra di oltre 150 metri di fotografie e di pannelli scientifici fa da cornice agli stand con materiale informativo messi in campo dalle associazioni. L’aria che si respira è quella della grande festa ambientalista. Sul palco, l’ultimo intervento è di Claudio Lupo di Medici per l’Ambiente. «L’inquinamento delle falde non è solo una problematica idrogeologica. Noi esseri umani siamo acqua. Chi uccide l’acqua, uccide noi».
La giornata si chiude con musica e festa ma prima c’è l’azione contro la Miteni. La fabbrica viene circondata dalle attiviste e dagli attivisti che formano una grande catena umana seguendo gli Angry Animals che guidano il corteo illuminando la Miteni con grandi fumogeni colorati. É la chiusura simbolica di un impianto che produce morte da parte di una umanità che vuole continuare a vivere.

D’Alpaos: “Scandali e arresti non sono serviti a nulla. La salvaguardia è tutt’ora ostaggio della politica delgi affari”

Pubblico della grandi occasioni, questo o pomeriggio in sala San Leonardo, Venezia, per Luigi d'Alpaos. Il noto ingegnere e docente emerito di idraulica dell'ateneo patavino, era l'ospite d'onore dell'incontro organizzato dal comitato No Grandi Navi sul tema "Sos Laguna". Iniziativa che ha aperto ufficialmente la mostra multimediale, liberamente visitabile nella sala, dedicata alla salvaguardia della laguna di Venezia e al difficile problema di conciliare salvaguardia dell'ecosistema e la portualità.
D'Alpaos, come sua consuetudine, ha tenuta desta la platea con grafici e tabelle, sostenendo con dati e rilevazioni sperimentali le sue tesi.
La sua prima considerazione è stata che troppo spesso vengono confuse e mescolate senza criterio tra aspetti diversi inerenti la gestione della nostra laguna: difesa dalle acque alte, salvaguardie e portualità. 

Ognuno di questi aspetti, spiega D'Alpaos, meritano una analisi specifica, in particolare in condizioni critiche come una eventuale chiusura delle bocche di porto. Problemi squisitamente scientifici ma che sono stati sempre messi in secondo piano dalla politica. O meglio, da una politica asservita al partito degli affari.
"Sono oramai trascorsi quattro anni dallo scandalo che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici del Consorzio Venezia Nuova. Sono arrivati i commissari. Tre commissari. Sarebbe stato preferibile uno solo, in modo da avere un referente certo e una responsabilità certa, Ma ne hanno voluto tre. Ad ognuno di loro sono stati affiancati tre cosiddetti suggeritori. Cosa è cambiato? Possiamo dire oggi con assoluta certezza che i problemi della salvaguardia restano, oggi come nel passato, sempre nello sfondo. Qualche magari vengono anche ricordati in qualche intervista, ma sono comunque secondari".
In quanto alla decisione del Governo di eliminare la figura istituzionale del Magistrato alle Acque, commenta D'Alpaos, "è stata un grave errore. I governanti hanno confuso l'istituzione con il mal operato delle persone che tra l'altro, loro stessi avevano messo dentro. Invece di sopprimere l'istituzione, meglio sarebbe stato metterla in grado di difendersi da una occupazione militare da parte della politica. Oggi come ieri, continuano a dominare i portatori di interessi privati che sostengono obiettivi funzionali a questi loro interessi, senza mai chiedersi quali siano le ricadute sull'ecosistema lagunare".

In altre parole, come gli ambientalisti hanno più volte ribadito anche in tempi non sospetti, quello che è marcio in tutto l'affare della salvaguardia, dal Mose alle bonifiche, non erano solo le mele ma tutto l'albero. Scandali ed arresti non hanno cambiato nulla.
"Doveva arrivare un'epoca nuova, ci hanno detto, ma sono arrivati soli i commissari e gli aiutanti dei commissari. E' stata soltanto la solita operazione gattopardesca. Il ministro si è vantato di aver messo degli uomini di fiducia. Sarebbe stato meglio degli uomini competenti in materia considerato che, quello che dovevano fare questi commissari era gestire una questione tecnici e scientifica".
Commissari che, spiega D'Alpaos, mancano tra le altre cose anche di tempismo, considerato che parlano quando non dovrebbero parlare e tacciono quando dovrebbero farsi sentire. Il brillante ingegnere idraulico ricorda un paio di esempi: il ventilato scavo di nuovi canali e la proposta di una chiusura differenziata delle bocche di porto.

Sulla prima questione, basterebbe ricordare i disastri conseguenti allo scavo del canal dei Petroli per rendersi conto che le autostrade d'acqua non sono compatibili con la morfologia lagunare.
In quanto alla chiusura differenziata, D'Alpaos ricorda che l'idea era già stata proposta al Comitatone "quando ancora questa era una istituzione seria, la scienza aveva il suo peso e davvero si ragionava di salvaguardia. Non come ora che è al massimo un Comitatino". Ipotesi interessante per quanto riguarda la difesa dalle acque alte ma improponibile per il gioco di correnti che si creerebbe ed i conseguenti movimenti di sedimentazioni.
Luigi D'Alpaos ricorda anche i dati e le previsioni di innalzamento del livello del mare studiate dall'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, premi Nobel per le fisica. Anche nella migliore delle ipotesi, quella devastante assurdità chiamata Mose sarebbe fuori gioco.

Dati e tabelle alla mano, l'ingegnere idraulico si è divertito a calcolare le ore in cui, in un ipotetico anno 2010, le bocche di porto dovrebbero rimanere chiuse. Se consideriamo lo scenario più auspicabile disegnato dall'ilcc, quello del contenimento della temperatura sotto i due gradi, in una stagione appena un po' ventosa, le bocche di porto saranno chiuse per circa sei mesi, Se poi dovesse avverarsi lo scenario peggiore, le porte dovrebbero rimanere sempre chiuse. E addio laguna.

"In queste condizioni come si fa a parlare di mantenimento della portualità? Chi è quell'armatore che manda una sua nave in porto chiuso per sei mesi all'anno e in balia di un po' di scirocco? Non c'è nulla da fare. E' tutta la filosofia con cui è stata realizzato il Mose che è sbagliata. Salvaguardia dalle alta maree e portualità sono inconciliabili tra di loro. E tutti coloro che si battono per far entrare le Grandi Navi in Laguna, magari scavando altri canali, sono destinati a rimanere delusi. Resta il perché di un progetto realizzato così male. Va bene incapacità, ma credo che nessuno poteva ignorare questi dati. Mi sono fatto l'idea che sapessero tutto sin dall'inizio e abbiano solo cercato pretesti su pretesti per prepararsi a quella grande abbuffata che altro non è stato il Mose".

Quel dialogo tra sordi chiamato Cop 23


Doveva essere una Cop dai contorni essenzialmente tecnici, questa che si è aperta a Bonn lunedì 6 e che si svolgerà sino a giovedì 16 novembre. Una Cop senza grandi novità né particolari aspettative. Perlomeno prima che arrivasse Donald Trump a scombinare tutto. Doveva essere un incontro lontano dai fari della politica e circoscritto in contorni decisamente organizzativi per dare modo ai delegati dei 196 Stati che avevano ratificato l'accordo di Parigi, cui si è recentemente aggiunta anche la Siria, di accordarsi su come continuare quel percorso già avviato in Francia, stabilendo nei dettagli i contributi da versare, gli obiettivi e le misure da adottare per ridurre la produzione di gas climalteranti. Lo scopo di questa Cop 23, in altre parole, era quello di dare un contenuto dettagliato e pratico a quel famoso - e generico! - obiettivo di "mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2 gradi centigradi, meglio di 1,5, in più rispetto ai livelli pre-industriali" con il quale si terra concluso la sessione parigina.
Obiettivo questo, che già all'epoca a molti commentatori avevano definito "utopico" ma che rappresentava, quantomeno per i movimenti ambientalisti, una base di partenza e di lotta per poter esercitare pressioni sui loro Governi, fedeli al motto "pensare globalmente, agire localmente". Governi, c'è da sottolineare, sempre restii a tradurre in leggi quanto pomposamente sottoscritto negli accordi internazionali a salvaguardia dell'ambiente. Citiamo solo il caso dell'Italia che, dopo aver ratificato Cop 21 che metteva i fossili dalla parte sbagliata delle storia, rinnova le concessioni alle multinazionali per le trivellazioni del mare.
Citiamo l'Italia perché è il Paese in cui viviamo, ma gli Usa, stavolta, hanno fatto decisamente peggio. Già in apertura dellla conferenza, i delegati a stelle e strisce hanno pubblicamente dichiarato che loro sono entrati in aula "solo per tutelare gli interessi dei cittadini americani" e nient'altro. Come se gli Stati Uniti non facessero parte del pianeta Terra!

Non è un segreto che Donald Trump ritenga i cambiamenti climatici una bufala da complottisti e che non abbia nessuna intenzione di trattare su quello che ritiene "l'attuale livello di agiatezza americano", basato sull'economia fossile. I recenti cataclismi che hanno devastato anche il sud degli States, non gli hanno fatto cambiare idea. Avvenimenti naturali contro i quali, a parer suo, si può solo pregare dio.

Sin dai primi giorni del suo mandato, Trump ha cominciato a smantellare quanto di buono aveva fatto Obama in tema di ambiente, tra gli applausi delle multinazionali dei fossili che hanno negli Stati Uniti e nel Canada le loro trincee più forti. L'obiettivo del miliardario diventato presidente è ora quello di svincolarsi dagli impegni di Cop21. Non lo potrà fare subito, perché bisogna rispettare l'iter procedurale stabilito dalle Nazioni Unite ma sin da questi primi giorni di incontri è apparso chiaro che la delegazione Usa non ha fatto altro che complicare o addirittura respingere qualsiasi tentativo di lavorare per una soluzione comune.

Atteggiamento questo, che ha irritato in particolare i francesi che, probabilmente, nel rigetto statunitense dell'accordo di Parigi leggono un affronto personale alla loro "grandeur". La delegazione francese, con questo che è stato definito un vero e proprio "strappo diplomatico", ha già fatto sapere che intende organizzare un summit subito dopo questo di Bonn senza invitare gli Usa. Il che non è una cattiva idea. E' molto probabile che proprio l'atteggiamento negativo dei delegati Usa impedirà all'assemblea di risolvere uno dei nodi centrali di Cop 23. Ovvero, quello dei finanziamenti necessari a "rinverdire" l'economia: i famosi 100 miliardi di dollari all'anno. Dollari che, di sicuro, non saranno gli Usa a sborsare, pur se il Paese nordamericano è tra i maggiori produttori mondiali di emissioni climalteranti. Bisognerà, dice la Francia, sedersi ad un nuovo tavolo e rifare i conti senza i cugini d'oltreoceano.

Cop 23 si presenta quindi come un fallimento annunciato. Un fallimento che oltre a tutto lascia aperte tre pericolose domande: è realizzabile l'obiettivo di contenere i cambiamenti climatici entro i 2 gradi senza gli Usa? è pensabile di finanziare questo obiettivo senza il contributo economico degli Usa? Terza e fondamentale questione: come reagiranno le altre potenze mondiali - dalla Cina ai Paesi Arabi, ma mettiamoci anche l'Europa- nel constatare che il Paese più ricco e maggiormente inquinante rifiuta qualsiasi vincolo internazionale e si prepara a giocare sul panorama dell'economia mondiale senza regole e senza limiti imposti?

Sono pochi coloro che ancora si ostinano a trovare risposte positive a questi quesiti.

Eppure, Cop 23 era nato all'insegna del dialogo, della "talanoa". Parola che nella lingua parlata alle isole Fiji, cui spetta la presidenza del vertice, significa "parlare con il cuore". Sarà invece un incontro con sordi che hanno scelto di tornare a 20 anni fa, quando ancora i Cambiamenti Climatici erano una teoria come tante altre.
Per dirla con le parole di Patricia Espinosa, presidente dell'Unfccc, Cop 23 doveva essere "il momento per passare dalla speranza all'azione". Rischia invece di passare alla storia come il vertice in cui la speranza di contenere l'aumento di temperature entro i due gradi è definitivamente morta.

Venezia in festa, Grandi Navi ferme in porto

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Alla fine le hanno fermate. Le Grandi Navi se ne sono rimaste ormeggiate alle banchine del porto e hanno evitato di transitare lungo il canale della Giudecca, risparmiandosi così¬ un altro "scontro navale". Il comitato aveva schierato in acqua una flottiglia di circa una trentina di imbarcazioni tre remi e motore, pronto a dare battaglia corsara. Cosa forse ancora più importante, i dirigenti delle compagnie di crociera hanno preferito risparmiare ai turisti a bordo lo sberleffo del migliaio di cittadini sulle rive delle Zattere, pronti a "salutare" con sfottò vari e gesti poco educati la loro presenza non gradita.
Gli altoparlanti della Msc Musica - 92 mila 409 tonnellate di stazza lorda -, della Norwegian Star - 91 mila e 740 - e delle loro sorelle minori hanno avvisato i passeggeri che potevano ritirare le valige a causa del ritardo accumulato. Solo a sera inoltrata, quando il comitato ha dichiarato conclusa la manifestazione, le Grandi Navi sono potute uscire dal porto e prendere il mare. Per questa volta, i turisti a bordo non hanno potuto godere dello spettacolo della città  dei Dogi vista dall'alto. Che poi è uno dei principali motivi per cui pagano il prezzo del biglietto.
"Ci siamo ripresi la città  - ha spiegato Tommaso Cacciari -. Hanno avuto vergogna a far vedere cosa pensano i veneziani di questo turismo che mercifica e svilisce tutta Venezia".
Finale di manifestazione con un attacco "pirata" alla marittima, con le imbarcazioni che si sono avvicinate al molo per gridare "fuori le navi dalla laguna". Anche per informare i passeggeri del perché del ritardo (mica glielo spiegano gli altoparlanti delle navi che Venezia non li vuole¦)
Sul palco, tanta musica con Cisco, i 99 Posse, il divertentissimo e tutto veneziano! - Coro delle Lamentele e altri.
Tanta voglia di divertirsi e di fare festa, anzi, di fare la festa alle Grandi Navi, anche in fondamenta, dove la pioggia e la giornata da "climate change" (ma chi se lo ricorda un settembre così?) non ha fermato la voglia degli attivisti di lottare per un mondo dove la priorità  sia la tutela dell'ambiente e non gli interessi delle finanziarie.
Un mondo tutto da costruire. Passo dopo passo, lotta dopo lotta. Con la consapevolezza, maturata anche in queste giornate di discussione con tanti comitati e associazioni da tutta Europa, che il nemico è uno solo, sia che si chiami Pfas, Muos, Tap, Tav o Stuttgart o qualche altra grande opera, costosa, inutile e devastante.

Voci dal Sale. Democrazia e giustizia climatica per dare un futuro alle terra

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Tante voci, tante narrazioni, tanti vicende di lotta e resistenza, quelle che sono riecheggiate ieri pomeriggio negli antichi magazzini del Sale della Serenissima, nella prima delle due giornate dedicate alla Giustizia Climatica, organizzata dal comitato Contro le Grandi Navi di Venezia. Tante voci ma una sola storia comune. Quella di chi difende la democrazia dal capitale, l'ambiente dalla mercificazione, i diritti dal sopruso. In altre parole, di chi difende la vita dalla morte, di chi apre strade perché l'umanità abbia un futuro in questo pianeta e chi le chiude.
Già, perché i cambiamenti climatici sono una realtà che nessuno oramai si ostina a negare. Neppure quei pochi potenti che, niente affatto disinteressatamente, affermano di non crederci. La "benzina" degli uragani che hanno investito i Caraibi e il sud degli Stati Uniti non è altro che l'aumento di vapore acqueo nell'atmosfera dovuta alla presenza sempre più massiccia di sostanze climalteranti.
Quelle sostanze di cui, per il 3% almeno, sono responsabili le Grandi Navi. Una percentuale addirittura rimasta fuori dagli accordi di Parigi perché queste navi solcano mari internazionali. Mari di nessuno, mari da inquinare a piacimento, mari dove non vi sono leggi, secondo la logica del capitale. Mari che sono un patrimonio comune, secondo gli ambientalisti, da difendere e conservare perché le generazioni abbiamo un futuro.

Ed è qui che si gioca la partita che ha in palio il futuro dell'umanità, sotto attacco da una economia che dopo aver divorato in pochi decenni quasi tutte le energie fossili che si erano formate in ere geologiche, pretende di infilare nel tritacarne del consumismo ambiente, diritti e dignità. Proprio in questa ottica - vita contro la morte - gli amici napoletani che si battono contro le discariche nella loro terra, hanno coniato l'efficace termine di Stop Biocidio. Basta uccidere la vita. Perché, in Campania, di discarica si muore. Interi territori sono stati occupati e colonizzati dalle mafie dello smaltimento dei rifiuti tossici. Zone senza legge, dove lo Stato è assente. Dove malavita organizzata, capitalismo e politica corrotta hanno stretto un patto sulla pelle dei cittadini che ricorda per molti versi la situazione in cui sono precipitati tanti Paesi sudamericani. E capita che chi non ce la fa più, fugga all'estero. Proprio come quelle famiglie che, più per disperazione che per umorismo partenopeo, hanno chiesto asilo politico alla Svizzera. Anche l'Italia ha i suoi migranti climatici!

L'uso indiscriminato e senza legge del suolo per il deposito di sostanze tossiche nel napoletano, ha un equivalente nel Veneto. Quando prende voce in assemblea, tocca al collettivo resistenze ambientali raccontare dell'inquinamento da Pfas che ha avvelenato le falde acquifere di un bacino di utenti di circa 800 mila persone. Senza nessun controllo da parte di chi doveva controllare, nonostante le denunce degli ambientalisti e della gente che si ammalava e moriva, l'azienda Miteni di Trissino, specializzata nell'impermeabilizzazione di tessuti, ha avvelenato oltre 200 chilometri quadrati appartenenti a ben 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo.

Ma sono anche racconti di resistenza, quelli che si sentono nel Sale. Resistenza da parte di politici onesti come i sindaci della Valsusa che raccontano lo scempio che la Tav sta facendo delle loro valli e della loro impotenza a porvi freno, pur essendo i rappresentanti, democraticamente eletti, dei loro concittadini. Resistenza e disobbedienza civile degli oltre 40 mila (quarantamila, avete letto bene!) bretoni che si sono messi di traverso per bloccare la realizzazione di un aeroporto inutile e devastante come quello di Notre Dame des Landes. Nonostante il Governo avesse deciso che non sarebbero stati realizzati più aeroporti in Francia, in quanto il territorio del paese era sufficientemente coperto dalla rete aerea, le multinazionali edili hanno fatto pressione sino a che quello stesso Governo dovette decidere che "prima però bisogna fare l'ultimo". Prevedendo una reazione dei cittadini, la polizia ha organizzato una grande operazione antisommossa e l'ha chiamata "operazione Cesare". Brutto nome nella terra di Asterix! Infatti, la contromobilitazione popolare, dedicata infatti, al noto gallo bevitore di pozione magica, ha portato in campo per ben tre volte 40 mila cittadini che hanno impedito la realizzazione dei cantieri. Anche senza bevanda magica!

Tante voci, dicevamo in apertura, ma una unica storia, se, invece del dito che indica, si guarda la luna. Per questo l'assemblea svoltasi ieri al sale è stata importante. Per avere un obiettivo comune, è indispensabile avere anche un linguaggio comune. "Ho sentito tanti racconti oggi - ha sintetizzato in chiusura dell'assemblea Tommaso Cacciari -. Racconti che parlavano delle lotte che si stanno portando avanti in Germania, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia, delle battaglie nel Salento, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. E ancora Lisbona, Barcellona, Napoli, la Valsusa, le Marche… e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. Perché la battaglia è solo una e racchiude in sé tutte le nostre battaglie per la difesa della democrazia dal basso, dei diritti dei migranti, della tutela della salute e del territorio: quella per la giustizia climatica, quella contro il neo liberismo, per una società più giusta e aperta. La battaglia per dare un futuro all'umanità".

E alla fine… festa in fondamenta con un banchetto degno di quelli di Asterix! Proprio come si faceva una volta a Venezia, quando non c’erano le Grandi Navi e la laguna apparteneva ai veneziani e non alle Compagnie di Crociera!

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Il Mose è nato dalla corruzione. Ecco cosa ci dice la sentenza della Corte d’Appello

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Alla fine dei conti, dei cosiddetti “imputati eccellenti”, a pagare è rimasto solo lui, l’ex ministro Altero Matteoli. La Corte d’Assise di Venezia lo ha ritenuto colpevole di corruzione per lo scandalo delle bonifiche di Porto Marghera e lo ha condannato a 4 anni di reclusione e al pagamento di 9 milioni e mezzo di euro, oltre all’interdizione dai pubblici uffici. Stessa pena, 4 anni e 9 milioni e mezzo di multa, anche all’imprenditore Erasmo Cinque della Socostramo. Due anni per corruzione  l’altro imprenditore Nicola Falconi, mentre un anno e dieci mesi con sospensione della pena sono stati inflitti l’avvocato Corrado Crialese per millantato credito.
Assolti tutti gli altri. L’ex presidente del Magistrato alle Acque Maria
Giovanna Piva per prescrizione, che non vuol dire che non prendeva soldi dal Consorzio, come era stata accusata, ma che è trascorso il tempo utile per incriminarla. Assolti per non aver commesso il fatto l’ex deputata socialista e poi berlusconiana Lia Sartori, e l’architetto Danilo Turcato, quello che curava i restauri della villa di Giancarlo Galan. Assolto per prescrizione pure l’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni dall’accusa di finanziamento illecito in campagna elettorale. Orsoni,  che tra tutti gli imputati, era quello meno coinvolto nello scandalo, non si è fatto vedere in aula. La vera colpa dell’ex sindaco è quella di aver consegnato Venezia ad uno come il Gigio Brugnaro. Ma su questa “imputazione”, non ci sono Corti d’Assise che tengano.

Resta comunque una sentenza che farà discutere, questa emessa questo pomeriggio dalla Corte d’Assise di Venezia che, in  pratica, dimezza le richieste penali dei pubblici ministeri e assolve metà degli imputati. Difficile un ricorso in appello perché molti dei reati contestati stanno per cadere anch’essi in prescrizione.
Si chiude quindi il sipario, con pochi perdenti e nessun vincitore, sulla grande inchiesta sullo scandalo Mose cominciata, non senza un tocco di spettacolarità, in una calda mattina del giugno 2014 con 35 arresti tra cui, ricordiamolo, l’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, l’ex assessore regionale Renato Chisso e l’ex magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta che al processo hanno preferito la via del patteggiamento.
Si è chiuso un sipario, dicevamo, ma la tragedia chiamata Mose è ben distante dal concludersi. Oggi che le “mele marce” sono state allontanate, i tempi di chiusura dell’Opera si allungano di mese in mese come ai bei tempi dei corrotti. La parlatorie arrugginiscono e fanno acqua da tutte le parti. E “la più grande opera di ingegneria italiana” come l’ha definita il pm Carlo Nordio, si sta rivelando per quel che è: una costosissima baraccata mangia soldi e devasta ambiente.
Anche i costi, al di là delle puntuali dichiarazione del Consorzio, lievitano di mese in mese più o meno come lievitavano una volta, con la differenza che le imprese coinvolte negli scandali di ieri, oggi piangono il morto, licenziano i lavoratori e ricattano la politica con l’arma dell’occupazione.
C’è da scommettere quindi, che questa di oggi passerà alla cronaca come la “prima” sentenza sul Mose. Altri sipari si alzeranno su altri scandali. Perché il vero scandalo sta tutto nell’opera.
Oggi gli ambientalisti, presenti ieri in aula con una nutrita delegazione, hanno comunque vinto una prima battaglia perché il tribunale ha sentenziato esattamente quello che loro sostenevano da tempo: dietro al Mose c’è corruzione. E non bisogna fare lo sbaglio di stare a sindacare sulle prescrizioni, su chi se l’è cavata per il rotto della cuffia, sulle assoluzioni più o meno piene, o sugli anni di galera inflitti o non inflitti. Il punto focale è che il Mose che ha trasformato la nostra laguna in un braccio di mare aperto, è figlio della corruzione. Questa, da oggi in poi, deve essere una certezza per tutti. Ed a questo punto bisogna tornare a chiedersi se l’opera serve anche a qualcosa, oltre che a far cassa per la corruzione. E magari domandarsi anche se è sicura e se porta più vantaggi che svantaggi per la città. Qualche dubbio a proposito, lo hanno solevato eminenti ingegneri idraulici!
“La sentenza dimostra l’alto grado di corruttela che stava dietro al Mose – ha concluso
Cristiano Gasparetto di italia Nostra -. Oggi non siamo più solo noi ambientalisti a denunciare questo malaffare perché anche la magistratura ha dimostrato la sua esistenza. La questione a questo punto è: se è stata necessaria tutta questa corruzione è perché il Mose, senza di essa, non sarebbe stato approvato, Solo la corruzione infatti ha potuto portare alla realizzazione di questa opera inutile, costosissima e devastante. Chiediamo quindi che vengano identificati i responsabili dell’approvazione di questa opera mangiasoldi e che venga finalmente effettuato uno studio per conto terzi, senza corruzione dietro, sulla reale efficacia del progetto”.
Siamo ancora ai primi atti della tragedia, quindi. Il sipario è ben lontano dall’essere calato.

Senza tregua. A settembre si torna a manifestare contro le Grandi Navi, par tera e par mar

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E' il momento della svolta. Da un lato una intera città che ha sostenuto il referendum per ribadire il suo No alle devastazioni provocate dalle Grandi Navi, dall'altro un Governo che non sa governare e che - in incontri dove la trasparenza non la fa certo da padrona con gli alti dirigenti delle multinazionali crocieristiche - ancora torna a sbattere su progetti di scavo e di allargamento dei canali già bocciati dalla valutazione di impatto ambientale.
Per chi ha a cuore Venezia e la sua laguna, è il momento giusto di rilanciare la battaglia contro le Grandi Navi. Ed è questo che è stato ribadito in tutti gli interventi che si sono susseguiti questa pomeriggio nel chiostro di San Lorenzo, durante l'assemblea popolare riunita per commentare il risultato del referendum.
E partiamo proprio dai famosi "18 mila 105 Grazie" a tutti coloro che hanno votato ai seggi. "Una scommessa che abbiamo decisamente vinto e vinto ben oltre le previsioni" ha commentato Tommaso Cacciari del Laboratorio Morion. La generosità dei volontari che hanno seminato di banchetti la città d'acqua e la terraferma è stata superata solo dall'entusiasmo dei cittadini che si sono messi in fila per votare. E a proposito, è stato ricordato negli interventi in risposta a chi li ha accusati di aver "taroccato" le firme, tutti i 18 mila e 105 nominativi con mail, numero di carta di identità o patente, nome e cognome di chi ha votato, sono a disposizione di quanti vogliano effettuare una verifica.

Giustizia ad orologeria
Sul tempismo delle azioni giudiziarie, ne sono state dette tante, sia da destra che da sinistra. Sarà forse un caso, ma fatto sta che due giorni dopo il referendum sono arrivati i decreti penali di condanna ai tuffatori che hanno manifestato in acqua contro le Grandi Navi. Una chiamata a giudizio e la richiesta di una seconda "botta" da 2500 euro a testa (dopo la prima, già versata) che fa del Comitato Grandi Navi uno dei migliori contribuenti dello Stato italiano con la bellezza di quasi 200 mila euro di multe. Un chiaro tentativo, spiegano i portavoce dei No Navi, di intimidire chi lotta per la difesa del territorio. Tentativo che, assicurano, otterrà solo l'effetto di stimolarli ancora di più nella loro battaglia. "Senza considerare - commenta Andreina Zitelli - che i tuffatori hanno difeso la legge. Caso più unico che raro tra tutti i comitati, ma la bocciatura del progetto di scavo del Contorta ha comportato la caduta della deroga rilasciata dalla capitaneria di porto al passaggio delle Grandi Navi che era stato bloccato dal decreto Clini Passera. Sono le Grandi Navi quindi, quelle che violano la legge continuando a transitare per il canale della Giudecca". Magari la procura se ne accorgerà tra trent'anni. Come col Mose.

A settembre si ricomincia
Il referendum ha fatto fare il giro del mondo alla questione delle Grandi Navi a Venezia. Ne hanno parlato tutti i giornali nazionali e, ancor di più, quelli europei. Trasmissioni televisive che ritraevano questi mostri galleggianti che svicolano tra gli sterri canali della città più fragile della terra sono andate in onda negli Usa, nel Canada e anche in Corea, suscitando dovunque indignazione.
La marea di schede e di firme raccolte in una decina di ore saranno portate in tutte le sedi dove si sta decidendo il futuro della laguna. Ma l'assemblea di San Lorenzo ha anche deciso di continuare la mobilitazione dal basso rilanciando una "tre giorni", ancora tutta da organizzare, a settembre, a cavallo di domenica 24, approfittando anche dell'assemblea dei movimenti europei contro l'inquinamento prodotto dalle Grandi Navi in programma proprio a Venezia quel sabato.
Già. Perché non è solo Venezia ad essere asfissiata da questi condomini galleggianti per turisti che non sanno viaggiare. In laguna, casomai, abbiamo qualche problema in più per la fragilità dell'ambiente in cui manovrano. Ma l'inquinamento e i cambiamenti climatici che ne derivano (avete visto il meteo di questi giorni?), sono un problema di tutti. Anche di chi non ci crede. Anche di chi al passaggio delle Grandi Navi si dice d'accordo.

E' arrivata la siccità. Tra cambiamenti climatici e cattive gestioni, il futuro è arido

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Una lunga striscia di sabbia. Una volta lo chiamavamo fiume Adige. E la Piave, solo per restare in Veneto, non è ridotta molto meglio. In quanto al lago di Garda, uno dei bacini idrici più grandi d'Italia, siamo all'allarme rosso: il livello sta scendendo di due centimetri al giorno e attualmente è attestato sui 70 cm, contro i 128 o 130 dei tre anni precedenti.
Le altre regioni italiane non sono messe meglio. Solo nell'ultimo anno, in Sicilia, le riserve idriche sono scese del 15 per cento. In Emilia, le città di Parma e Piacenza hanno dichiarato lo stato d'emergenza. La Sardegna è alla disperazione. Rispetto alla stagione precedente, le precipitazioni sono state minori del 40 per cento e il rifornimento idrico per le coltivazioni hanno registrato punte del 90 per cento di deficit. Anche se la situazione migliorasse improvvisamente, saranno ben poche le coltivazioni dell'isola che riusciranno a sopravvivere.
E poi leggi che che il Food sustainability index - lo studio internazionale dell''Economist Intelligence Unit che mette in relazione risorse e sostenibilità - piazza l'Italia al sesto al mondo per quantità di acqua a disposizione!
Stavolta però, i cambiamenti climatici non c'entrano. O meglio, c'entrano a livello globale. L'eccezionale ondata di caldo ha colpito tutto il bacino Mediterraneo sino al nord Europa. Solo in Italia, è stata registrata una temperatura media di 1,9 gradi in più rispetto alla media stagionale. Fatto salvo per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nessuno mette più in dubbio che questi picchi siano imputabili alla nuova stagione climatica verso cui l'intero pianeta si sta avviando, oramai, senza possibilità di ritorno.


Ma perché allora abbiamo scritto che, nel caso dell'Italia, i cambiamenti climatici non c'entrano con la siccità? Perché l'Italia avrebbe tutti i mezzi per far fronte perlomeno a questa prima fase dei cambiamenti se avesse dei politici all'altezza di gestire le risorse a disposizione. Politici capaci di uscire dalla fase emergerziale per impostare una oculata politica di gestione del bene comune.
Ed invece è l'opposto: il tema dei cambiamenti che avrebbe bisogno di strategie più a lungo che a breve termine, è sottovalutato - per dirla in maniera gentile - dai nostri politici di Governo e anche di opposizione. Evidentemente, è un tema che, al contrario di quelli legati alla "sicurezza" e al "degrado", non porta facili consensi.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Siamo uno dei Paesi più ricchi d'acqua e sprechiamo al bellezza di 2,8 milioni di metri cubi di acqua potabile al giorno - più di un quarto del totale - convogliandola in acquedotti che sono delle autentici scolapasta. Anche gli acquedotti dell'antica Roma erano più funzionali degli attuali.
E non è tutto. Anche noi italiani, siamo spreconi. Colpa nostra certamente, ma anche di chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto una efficace informazione. Il nostro consumo pro capite è superiore al 25 per cento rispetto alla media europea.
E vanno pesati anche i consumi dovuti ad una agricoltura che ha fatto dello spreco, dell'insostenibilità e dei sussidi statali il suo punto forte. L'89 per cento delle nostre risorse idriche se ne vanno a coprire queste produzioni. E anche qua, siamo gli ultimi in Europa con un utilizzo di di oltre 2 mila e 200 litri per italiano all'anno. Come dire che se ogni giorno ciascuno di noi beve circa due litri d'acqua, ne consuma quasi 5 mila per l'alimentazione. Basterebbe solo adottare la dieta mediterranea - si legge nel Food sustainability index - privilegiando i prodotti di stagione prodotti da una agricoltura per quanto possibile sostenibile e non aggressiva verso l'ambiente, per abbassare a 2 mila litri al giorno il consumo pro capite e rientrare nei parametri europei.
Tutti discorsi che la politica di governo, impegnata a salvare banche e a costruire emergenze sui migranti, non vuole ascoltare. Preferisce dichiarare "Stati di emergenza" - come ha fatto il governatore del veneto, Luca Zaia - che hanno il solo obiettivo di mungere qualche milionata di euro allo Stato. Euro che che finiranno nelle tasche degli agricoltori in modo da che possano continuare a fare agricoltura proprio come la fanno adesso e che, di sicuro, non verranno utilizzati per mettere in efficenza il nostro disatrato sistema idrico. Senza contare che la cattiva gestione delle risorse idriche ha avuto come conseguenza in tante amministrazioni, il loro affidamento al privato. Cosa che, come era lecito aspettarsi, ha comportato solo un aggravio di spesa per i contribuenti ed un peggioramento della gestione complessiva della "merce" in termini di sprechi. Più ne viene adoperata, e più il privato guadagna.
Quello che non vogliono sapere, i nostri amministratori, è che gli studi della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Desertificazione, hanno inserito nelle zone a rischio anche l''Italia. Il 70 per dell'intera Sicilia, il 58 per cento della Puglia e del Molise e, in percentuali poco minori anche le altre regioni, rischiano di trasformarsi in un Sahara.
Se va avanti così, tra i futuri migranti climatici, che tra il 2008 e il 2015 sono stato oltre 200 milioni, presto ci saremo anche noi italiani.

Referendum Grandi Navi. Non ha vinto solo il Si', ha vinto la democrazia

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Lasciamo parlare i numeri. Votanti: 18 mila 105, in una sola giornata di raccolta schede, dalle 9 di mattina alle 18 di sera. Favorevoli all'allontanamento delle Grandi Navi dalla laguna il 98,7 per cento, uno per cento i contrari, 0,3 schede annullate. Lasciamo parlare i numeri e abbiamo già detto tutto. Il resto sono tutti tentativi di sminuire una reale pratica di democrazia dal basso da parte di spaventati politici di palazzo. "Si sono votati tra di loro" ha detto qualcuno. "Hanno fatto votare anche i cani e i gatti" ha rilanciato qualcun altro. Ma chiunque si sia anche solo avvicinato ad uno dei 46 banchetti elettorali predisposti dal comitato No Grandi Navi sa bene che non è così. Le attiviste e gli attivisti ai seggi hanno sempre chiesto ai votanti un documento di identità valido. Tutti i nomi sono stati diligentemente registrati nei moduli predisposti con firma, mail (facoltativa), numero del documento e sono a disposizione di quanti vogliano verificare. Avessimo voluto copiare l'elenco telefonico di Venezia lo avremmo fatto spendendoci meno tempo, meno soldi e pure meno sbattimento dei cosidetti. Ed avremmo facilmente raggiunto cifre di "votanti" ancora più elevate. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Perché quei banchetti sono stati prima di tutto un presidio della città. Una dimostrazione -anche per noi stessi - che possiamo riprenderci un bene che ci è stato scippato. E' anche per questo, e non per qualche punto di percentuale in più di votanti, che abbiamo aperto la consultazione a studenti fuori sede, pendolari e anche a turisti. Perché il referendum è stato anche uno strumento per parlare e per ascoltare la città. Una città che è fatta anche di studenti fuori sede, pendolari e turisti. Come quei tanti francesi che si sono avvicinati al mio seggio, alle Fondamente Nuove, per chiedere come sia stato possibile che un luogo magico come "Venise" venisse brutalizzata da quel mostro chiamato Mose (i giornali francesi non sono mai stati raggiunti dalla lunga mano del Consorzio e hanno potuto scrivere la verità!), oppure come sia possile che il Governo continui a permettere a quei condomini galleggianti delle Grandi Navi di ammorbare la laguna.

Voci di una città
E non è neppure vero che "ci siamo votati tra di noi". A parte il fatto che saremmo stati comunque tanti, ai seggi si sono avvicinati a chiedere la scheda anche persone molto distanti dal nostro pensiero. Tanto per citare un episodio di colore, al mio seggio si è avvicinato un signore con un fazzoletto verde al collo. Io speravo che fosse verde… "green". E dopo il voto mi chiede sorridente se faremo dei banchetti anche per raccogliere firme contro lo Ius Soli! Le Grandi Navi però no. Sporcano, inquinano, devastano… quelle non le vuole nemmeno lui.
Sono tante e diverse le voci della città che abbiamo raccolto in questa domenica. Camilla: "Una signora esita prima di prendere la scheda e mi chiede chi siamo. Glielo spiego e rispiego ma lei non è convinta. Alla fine rompe gli indugi e di domanda: 'Ma non sarete mica di Casa Pound?'" No. Su questo punto può stare davvero tranquilla, signora". Riccardo: "Da noi sono venute tente persone che abitano a Santa Marta. Sono le più incazzate. Qualcuna fa anche discorsi che oscillano tra la destra e il populismo, ma poi racconta che non riescono a vedere la Tv per le emissioni radio delle Navi e che i panni stesi diventano neri se li lasciano un po' di più al sole. Pensa i polmoni…" Marco: "Una signora mi ha raccontato di essere veneziana per nascita ma che risiede a Milano dagli anni '70. E' tornata apposta per votare al nostro referendum. Sentiva di doverlo fare per la sua Venezia". Luciano: "Al Lido abbiamo fatto il botto. 1286 schede solo a Santa Maria Elisabetta. E' venuta anche una decina di persone a votare a favore delle Grandi Navi. Una signora attempata urlava che era una fan di Brugnaro, che lei ne vuole decine e decine di Grandi Navi in laguna perché portano 'schei'. Ha chiesto una scheda è ha votato No. Contenta lei…" Maddalena: "Si avvicina questo tipo lateralmente e mi chiede piano se può votare anche lui che ha fatto una crociera su una Grande Nave. Gli chiedo un documento e gli dò la sua scheda. 'Che spettacolo - mi fa - tutta Venezia dall'alto… indescrivibile! Poi la crociera, per me che non vado in discoteca e non gioco d'azzardo, è stata una noia mortale… ma quello spettacolo valeva tutto. Io le capisco le compagnie di crociera, sa? Ma no, non si può farle passare per la laguna. Non è giusto. Peccato però".
L'unico tentativo di innescare una provocazione lo abbiamo registrato a Santi Apostoli. Flavio: "Sono arrivati questi due che mi raccontano di essere ingegneri del Consorzio. Vogliono discutere sul Mose, tutti ne parlano male, dicono, ma nessuno di noi è mai stato arrestato, e non è vero che non funziona o che non serve… Io gli cito D'Alpaos ma quelli mi zittiscono subito alzando la voce. D'Alpaos è un cretino che spara solo idiozie, dicono, ma è chiaro che vogliono provocare. Si mettono davanti al banchetto ed impediscono alle gente di avvicinarsi per votare. Provo a non dargli corda, quelli vogliono una scheda e continuano a parlare. Alla fine votano No e se ne vanno".

Ma la domanda più frequente ai seggi è solo una: "servirà a qualcosa?" Anche le risposte sono sempre le stesse. Scontate. Chi smette di lottare ha già perso. Chi non molla alla fine qualcosa ottiene. Eppoi vuoi mettere la soddisfazione di rompere le scatole a certa gente?
Ma dietro la domanda c'è la crisi profonda di una politica che è scappata di mano non solo ai partiti ma anche alle amministrazioni, come quelle comunali, che dovevano essere le più vicine ai cittadini e che non contano più nulla anche nei rari casi - e non è certo quello di Venezia! - in cui cercano di mettersi di traverso ai grandi interessi economici.
Le persone che ieri sono venute ai nostri seggi a prendere la loro scheda, sia che abbiano votato per il Si che per il No, non chiedevano solo una soluzione al problema delle Grandi Navi. Chiedevano anche democrazia.

Referendum Grandi Navi. L’appello di EcoMagazine per il SI’

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Ci siamo. Oggi l’altra Venezia, quella che respira con la sua laguna, la Venezia che non ci sta a lasciarsi trasformare in un grande parco giochi per turisti, questa Venezia no logo, scende in calle e va a votare. Le attiviste e gli attivisti del comitato No Grandi Navi, dei centri sociali e delle associazioni ambientaliste hanno sistemato seggi in tutte i principali luoghi della città. Sarà impossibile per un veneziano, o anche per un visitatore diretto alla Biennale o alle spiagge, uscire di casa senza incocciarne uno. Un modo anche questo di riappropriarsi dei campi e delle fondamente della nostra città e di rispondere con i fatti a chi si lamenta del degrado scrivendo lettere ai giornali o postando foto di amorosi lucchetti serrati nelle ringhiere dei ponti sui social.
Perché, sia ben chiaro a tutti, che non andremo a votare solo per cacciare le Grandi Navi dalla laguna. Certo, quelle specie di condomini galleggianti, con i motori accesi anche all’ormeggio, sono una fabbrica di inquinamento come neanche un inceneritore riesce ad essere. Certo, il loro assurdo via vai per scarrozzare qualche turista idiota e dargli l’illusione di aver viaggiato per mare, ha il solo effetto di far guadagnare milioni alle compagnie crocieristiche e maciullare i fondali della laguna mettendo a rischio un equilibrio salvaguardato per secoli. Certo, il gigantismo ha fatto il suo tempo come le energie fossili che lo hanno nutrito. In qualunque direzioni questi villaggi vacanze low cost galleggianti girino la prua, il futuro della terra - sempre che la terra abbia un futuro - sta dall’altra parte.


Tutto questo è vero. Ma nel referendum che voteremo oggi, in quella scheda che ci chiede di decidere se le Grandi Navi debbano rimanere fuori o dentro la laguna, c’è molto di più. C’è la voglia inarrestabile di una città unica al mondo e dei suoi cittadini, lasciatemelo dire, anche loro unici al mondo, di riprendersi in mano il destino e cominciare a guardare al futuro come ad un orizzonte verso il quale dirigersi.
Di immaginare un domani possibile per la nostra città, di compiere quelle scelte a difesa della laguna che il Governo centrale, al pari di quello regionale, non ha mai saputo o voluto fare, limitandosi ad avallare passivamente gli interessi delle grandi compagnie che hanno mercificato, stuprato ed umiliato un bene prezioso, come la nostra incantevole laguna, che appartiene a tutti i veneziani come a tutti coloro che amano con sincerità la nostra città. E non è per caso che il referendum dia anche a loro il diritto di esprimersi col voto.
Perché, il vero degrado che affligge l’antica città dei Dogi non sono i lucchetti sui ponti (che ho trovato in tutte le città del mondo in cui sono stato) e neppure qualche turista sbalconato che si tuffa di testa in canal Grande (cosa che, magari non nel Canalasso ma in qualche canale secondario, facevano anche i nostri genitori). Il vero degrado di Venezia è stato lo scippo ai danni dei suoi cittadini della possibilità di decidere sulla loro città. E tutto in nome degli interessi del mercato. Perchè Venezia, come spiega sempre il nostro, ahimé, sindaco Brugnaro Luigi "xe schei". Il degrado invece, sono proprio questi "schei". Il degrado è il Mose e quel consorzio di banditi che ha corrotto, devastato ed inquinato la democrazia. Il degrado sono le barene artificiali e la trasformazione della laguna in un braccio di mare aperto. Degrado è non aversi saputo dotare di strumenti, come doveva essere il parco della laguna, atti a tutelare un ecosistema unico al mondo. Degrado è una giunta comunale che pensa di risolvere il problema del degrado licenziando gli operatori sociali e assumendo vigili palestrati e pistolettati come cowboy.
Le Grandi Navi, che nessuno a Venezia vuole ma che continuano ad andare su e giù nei nostri canali alla faccia nostra… anche questo è degrado.
Per questo domani andremo tutti a votare. Come in quella vecchia canzone che ascoltavo da ragazzino: per riprenderci in mano la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.

I Pfas versati in Veneto ammazzano. Lo svela una ricerca pubblicata sul European Journal of Public Health

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Di Pfas si muore. E si muore male. Ad affermarlo non sono più i "soliti" ambientalisti ma una ricerca pubblicata sull'ultimo numero dell'European Journal of Public Health. Rivista scientifica con tanto di peer review, vale a dire la procedura di valutazione applicata a tutte le pubblicazioni specialistiche da parte di esperti nel settore atta a verificare ed a garantire la validità di quanto pubblicato. La ricerca in questione, titolata "Drinking water contamination from perfluoroalkyl substances (Pfas): an ecological mortality study in the Veneto Region, Italy" (traducibile con "Contaminazione da acqua potabile da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas): uno studio ecologico di mortalità nella Regione Veneto, Italia") porta la firma di una equipe di scienziati coordinata dalla biologa Marina Mastrantonio dell'Enea. In fondo alla pagina, come allegato potete leggere una sua breve presentazione e l'integrale dell'intervista.
La ricerca ha messo a confronto i decessi avvenuti in Veneto nei Comuni dove le acque sono state contaminate dalle sostanze perfluoroalchiliche, Pfas, e quelli non interessati da questi inquinante, rivelando una innegabile presenza statistica nei primi di patologie come il tumore al rene e del seno, il diabete, le malattie cerebrovascolari, l'infarto miocardico, le malattie di Alzheimer e di Parkinson. Nonché un aumento della mortalità media di circa il venti per cento.


"Dal nostro studio - spiega la biologa - è emerso come nei comuni contaminati da Pfas ci siano degli eccessi statisticamente significativi della mortalità per alcune cause che non andrebbero sottovalutati in quanto la letteratura scientifica suggerisce un’associazione tra queste patologie ed esposizione a Pfas. In particolare è stato rilevato un aumento della mortalità generale negli uomini e nelle donne rispettivamente del 19% e 21%, del diabete (21% e 48%), malattie cerebrovascolari (34% e 29%) infarto (22% e 24%) e malattia di Alzheimer (33% e 35%). Nelle sole donne si osserva un aumento del 32% della mortalità per tumore del rene, del 11% del tumore della mammella e del 35% di Parkinson".
Le zone inquinate dalla lavorazione della Miteni, l'azienda che utilizzava i Pfas per produrre tessuti impermeabili, si estende per circa 200 chilometri quadrati e tocca 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo. Un bacino di circa 800 mila residenti potenzialmente vittime della contaminazione. Nell'immagine a fianco, le aree prese in considerazione dalla ricerca della dottoressa Mastrantonio e l'elenco dei Comuni nei quali è stato riscontrato una alta percentuale di decessi imputabili alle sopracitate patologie.
Da sottolineare come questa sia la prima indagine epidemiologica svolta in Italia su una popolazione la cui acqua sia stata contaminata da Pfas. Un inquinante che potremmo definire "emergente", come spiega la biologa dell'Enea. "Come è noto i PFAS sono un gruppo eterogeneo di composti chimici molto stabili e ampiamente utilizzati in diversi prodotti (pesticidi, rivestimenti in carta e cartone, detergenti, cere per pavimenti, vernici, schiume antincendio, oli idraulici, rivestimenti antiaderenti delle pentole (Teflon) trattamenti dei tessuti impermeabili e traspiranti (Goretex). Di conseguenza, i Pfas rappresentano una classe emergente di inquinanti ambientali, ubiquitari, altamente persistenti, rilevabili in tutte le matrici (acqua, aria, suolo) e soggetti a bioaccumulo lungo la catena alimentare. I più importanti studi sulla tossicità dei PFAS nell’uomo sono stati eseguiti a seguito dello sversamento di queste sostanze nel fiume Ohio, in Virginia. Una azienda della Dupont che produceva Teflon vi riversava i suoi reflui idrici e l’acqua del fiume era utilizzata a scopo potabile. A seguito di una class action intentata dalla popolazione interessata, la Dupont fu costretta a finanziare una ricerca indipendente sugli effetti sanitari dei PFAS".
La ricerca, in lingua inglese che potete scaricare in fondo alla pagina, conclude con un invito alla Regione Veneto di avviare "azioni immediate per evitare ulteriori esposizioni delle popolazioni a PFAS nell'acqua potabile".
Azioni che, al di là di qualche dichiarazione di intenti di effettuare screening sulla popolazione, stiamo ancora aspettando. La stessa ricerca in questione non ha avuto nessun riscontro da parte della nostra Regione.
Bisogna anche considerare che il problema non sta solo nel verificato aumento di decessi per patologie imputabili a queste sostanze perfluoroalchiliche. Questi inquinanti sono responsabili anche di malattie a bassa mortalità ma comunque pericolose e debilitanti. "Nelle popolazioni residenti in aree altamente contaminate e nei lavoratori esposti professionalmente - continua la biologa Marina Mastrantonio – sono state rilevate associazioni con ipertensione in gravidanza, aumenti dei livelli di acido urico, arteriosclerosi, ischemie cerebrali e cardiache, infarto miocardico acuto e diabete. Per quanto riguarda le patologie tumorali, incrementi del rischio sono stati evidenziati soprattutto nelle popolazioni professionalmente esposte per tumori del testicolo, rene, vescica, prostata, ovaio, mammella, fegato, pancreas, linfoma non Hodgkin, leucemie e mieloma multiplo".
E conclude: "Sulla base di tali evidenze e per un principio precauzionale non consiglierei agli abitanti delle aree interessate di bere acqua del rubinetto".

Venezia vs Grandi Navi. Domenica 18 giugno si vota Sì al Referendum

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Sarà una domencia importante per Venezia, quella del 18 giugno. Il comitato cittadino che lotta contro le Grandi Navi e il loro carico di inquinamento e di devastazione delle rive e dei fondali lagunari, ha indetto un referendum popolare autogestito. Il quesito è facile: "Vuoi che le Grandi navi da crociera restino fuori dalla laguna di Venezia e che non vengano effettuati nuovi scavi all'interno della laguna stessa?" La risposta che il comitato chiede alla cittadinanza è naturalmente Sì.
Stiamo parlando, ovviamente, di un referendum autoconvocato, considerato che i favorevoli alle Grandi Navi non hanno accettato di misurarsi nelle urne, ma che ha comunque un grande valore politico. Per la prima volta, i veneziano avranno la possibilità di contarsi e di dire la loro opinione su un problema, come quello delle Grandi Navi, sul quale non hanno mai avuto voce, considerando che fino ad oggi ad esprimersi sono stati solo ministeri, comitatoni vari e, last but not least, le compagnie di crociera che sono le vere padrone della laguna. Considerando che se ne sono bellamente infischiate di tutte le decisioni prese dalle autorità politiche. Anche i decreti che cercavano di contenere i danni all'ecosistema, come quello Clini Passera che il 2 marzo 2012 aveva vietato il transito anche alle stazze superiori alle 40 mila tonnellate, hanno avuto vita breve di fronte alle pressioni delle multinazionali del turismo. Quelle che Venezia la sfruttano solo e non lasciano un soldo in città.


Il referendum del 18 giugno sarà quindi una imperdibile occasione per riprendere voce sul governo della nostra città, per ribadire che la nostra salute è importante e non può essere compromessa dai fumi delle Grandi Navi che sparano inquinanti come due autostrade, per ricordare che Venezia è laguna e che la laguna non è un braccio di mare che può essere scavato a piacimento, solo per farci transitare queste specie di villaggi vacanze galleggianti che portano profitto ai soliti noti mercificando beni di tutti.
Già che ci siamo, il referendum sarà anche una opportunità di ricordare che i cambiamenti climatici si combattono localmente, invertendo la rotta di quel gigantismo consumista di cui le Grandi navi sono una bandiera. Donald Trump non è l'unico dinosauro fautore delle energie fossili al mondo. Cominciamo a combattere quelli che vorrebbero prosperare a casa nostra. Una Grande Nave produce più Co2 di una portaerei da guerra. Un motivo di più per andare a votare Sì al referendum. Perché se la terra avrà un futuro, questo sarà senza fossili. E senza Grandi Navi.

A Trento, va in scena OltrEconomia. L'economia delle pratiche dal basso che non ruba diritti e restituisce felicità

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C'è anche un altro festival dell'economia, a Trento. C'è un altro festival perché c'è anche un'altra economia nel mondo. Una economia che non va a braccetto con la finanza, che non indebita i Paesi più poveri e che non detta legge alla politica imponendo uno "sviluppo" - termine questo sempre da scrivere virgolettato come ci insegna Serge Latouche - oramai slegato da qualsiasi logica scientifica, oltre che sociale e umana. Oltre questa economia da banditi, c'è l'economia solidale, quella che ha sposato gli accordi di Parigi parecchi decenni prima che questi fossero scritti e che ha deciso che il futuro dell'umanità, se l'umanità avrà un futuro, sarà verde, sostenibile, democratico, dal basso e completamente svincolato dalla dittatura delle energie fossili. Questa è l'economia che ha saputo saltare il fosso scavato dal capitalismo e andare oltre una idea di economia diventata, in questa ultima fase della globalizzazione, ferocemente predatoria di diritti, di ambiente e di beni comuni.
OltrEconomia è infatti l'azzeccato nome che si è dato questo festival alternativo del quale anche EcoMagazine è partner.


E va da sé che se il primo festival conta un bel po' di sponsor danarosi, dalle banche alle fondazioni, e gode del patrocinio di istituzioni a tutti i livelli, e occupa i salotti buoni della città. Il secondo festival, gli sponsor danarosi non ha neppure provato a cercarseli. Le associazioni ambientaliste, i comitati cittadini e gli spazi sociali che hanno organizzato questa sua quarta edizione, hanno scelto ancora una volta di stare sotto il cielo aperto del parco Santa Chiara. Tanto per ribadire che l'economia che piace a loro non ha bisogno di palazzi e di lusso.
I giorni di svolgimento dei due festival, invece, saranno proprio gli stessi. Tutto si svolgerà in contemporanea. Si apre mercoledì 31 maggio e si chiude domenica 4 giugno.
Radicalmente diversi invece, saranno i temi di attualità trattati dai due festival. Soprattutto, radicalmente diverso sarà il modo di affrontare questi temi. "Le disuguaglianze aumentano, la massa dei poveri, dei migranti, dei precari si allarga senza confini. La ricchezza cresce a dismisura e si concentra sempre di più nelle mani di pochi. Il potere decisionale si polarizza in una 'non-immagine' i cui contorni sfumano, spesso, in acronimi senza forma - si legge nella presentazione di OltrEconomia - I consigli di amministrazione di un manipolo di multinazionali e centri finanziari sostengono e circondano di lobbies l’ascesa di classi dirigenti mondiali e locali, vecchie e nuove: così decidono il futuro del nostro pianeta e dei nostri territori. Il potere si accentra, difende, conserva, moltiplica gli interessi di parte e accresce il bene privato di pochi. E si attua nelle forme coercitive dell'economia, della finanza speculativa, delle privatizzazioni, del debito, delle politiche dell'austerity, del capitalismo vorace, delle guerre, dei fondamentalismi, della violenza di genere, del femminicidio, del patriarcato, della corruzione mafiosa, nel dissesto territoriale, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, della distruzione ambientale".
Il programma completo di OltrEconomia 2017, quest'anno dedicato al tema Corpo e territori, lo potete trovare a questo link. Gli incontri saranno tutti trasmessi in diretta da Global Project. Oltre alle tavole rotonde, ci saranno stand di gastronomia, corsi di teatro, laboratori per grandi e per bambini, spettacoli per divertirsi e musiche per ballare. Già. Perché OltrEconomia, al contrario di quell'altro festival, è anche una festa, e chi abita a Trento o nelle vicinanze ci si reca anche per divertirsi, per mangiare bene e sano, per imparare, per discutere e per stare in bella compagnia.
Anche questa è una differenza non da poco tra le due opposte economie di cui abbiamo scritto. Quella che ha saputo andare Oltre una idea di "sviluppo" paragonabile ad una rapina a mano armata (perché altro non è l'economia finanziaria) è anche quella che rende donne e uomini più felici.
Ed è anche quella che ci piace di più.

Chi decide sul futuro del pianeta?

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Un G7 deludente sotto tutti gli aspetti, quello che si è consumato a Taormina. Deludente per gli accordi sulla lotta al terrorismo che non sono andati oltre ad una formale dichiarazione di intenti, E con un Donald Trump appena tornato da un tour in Arabia Saudita dove ha chiamato gli sceicchi sauditi, noti finanziatori dei movimenti integralisti islamici, "i migliori amici del mondo occidentale" indicando nell'Iran la "fonte di ogni male", non c'era da attendersi che a Taormina, la questione terrorismo fosse affrontata seriamente.
Deludente, il G7 di Taormina, lo è stato anche sul tema immigrazione, confermando "il diritto sovrano degli Stati di gestire i propri confini e di stabilire politiche nell'interesse della sicurezza nazionale", avallando, in pratica, quell'approccio securtario che si è ampiamente dimostrato fallimentare anche e soprattutto in tema di sicurezza. Da sottolineare l'uso del termine "nazionale" davanti a "sicurezza". Come dire: ogni "nazione" faccia quello che vuole. E buonanotte all'ipotesi di affrontare il problema come come dovrebbe essere affrontato: cioè nelle sue dinamiche globali.


Qualche risultato, le diplomazie europee lo hanno ottenuto solo sul tema del protezionismo, portando a casa un impegno - sia pure generico - a mantenere i mercati aperti. E sapendo come la pensa in merito un pazzoide del calibro del presidente degli Stati Uniti, è una cosa non da poco.
In compenso, un totale fallimento si è rivelato qualsiasi tentativo di far ragionare Mr. Trump sui cambiamenti climatici. Che tutte quelle menate sul clima che cambia fossero solo balle da campagna elettorale messe in giro dai democratici, il multimiliardario diventato presidente lo aveva sempre detto. I soldi poi, lo sanno tutti, si fanno solo inquinando. Concetto questo, che gli ha garantito l'elezione e l'appoggio delle maggiori industrie nordamericane, penalizzate dalle politiche green di Barack Obama.
Certo, la decisione finale sulla permanenza o meno della più grande potenza industriale mondiale nel club degli accordi di Parigi, non è ancora stata ufficialmente presa, ma vi sono pochi dubbi a riguardo. L'anima verde dell'amministrazione Trump - pensate un po' come siamo messi - è incarnata dalla figlia Ivanka. Niente di più che un gioco delle parti, naturalmente. Perché sull'inevitabile sganciamento degli Usa da Cop21 scommettono tutti i media statunitensi. Il tweet lanciato da Trump, "I will make my final decision on the Paris Accord next week!" (Prenderò la mia definitiva decisione sull'accordo di Parigi la prossima settimana) è già una pietra tombale. Se avesse capito la posta in gioco o se gliene fregasse qualcosa del problema del clima che cambia, non starebbe a pensarci su una settimana.
Gli scenari che si aprono a questo punto sono inquietanti. Se gli Usa se ne vanno, il club di Cop21 perderà la maggior fonte di investimenti che serviva a coprire le conversioni verso una economia sostenibile dei Paesi meno industrializzati. Secondo punto: la maggior potenza industriale del mondo, svincolata dai limiti di inquinamento posti da Obama, comincerà ad inquinare la terra senza limiti. Quella stessa terra dove camminiamo pure noi. E il clima che cambia non guarda frontiere o "nazioni". Terzo punto: cosa faranno l'Europa e le altre potenze mondiali? E' lecito attendersi che di fronte ad un produzione statunitense svincolata da ogni limite di emissioni di Co2, gli altri gruppi industriali si sentiranno penalizzati e premeranno per avere le stesse possibilità di "sviluppo" - termine da scrivere sempre con le virgolette - delle concorrenti a stelle e strisce. Insomma, senza gli Usa, quell'ultimo salvagente all'umanità che erano gli accordi di Parigi rischia di andarsene a fondo.
Perché di questo parliamo quando parliamo di cambiamenti climatici: della possibilità che ha l'umanità di continuare a vivere su questo pianeta.
E la domanda che bisogna porsi è: chi deve decidere sul futuro del mondo? E' giusto che spetti a quei sette personaggi interpretare i bisogni e le aspirazioni di tutta la razza umana? La questione è tutta qua e può essere rinchiusa in una sola parola: democrazia.
Chiediamoci: chi sono quei sette capi di Stato e chi rappresentano? I Paesi più industrializzati del mondo? E allora come mai non c'erano la Russia, l'India e, soprattutto, la Cina? Per il presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, i sette di Taormina sono i rappresentanti dei "Paesi che associano economia di mercato a democrazia". A parte il fatto che i due termini non possono essere associati per niente, il Gentiloni non l'ha detta giusta. Il vero comun denominatore di questi sette Paesi, è l'aspirazione alla continuazione di un sistema di governance globale ad ispirazione capitalista ed occidentale. E questo non è né giusto né ragionevole, considerando che il cambiamento climatico è una questione da affrontare solo globalmente. Insomma, il teatrino andato in scena a Taormina è tutto il contrario di quello che noi chiamiamo democrazia.
Certo, a parte Gentiloni (l'Italia elettoralmente fa sempre storia a sé), tutti gli altri leader sono stai "democraticamente" votati in regolari competizioni elettorali nei rispettivi Paesi. Anche Mussolini lo è stato. Basta questo a mettere chi vince al timone dei destini di tutto il mondo? I cambiamenti climatici non sono per nulla democratici. Tu puoi democraticamente eleggere un presidente che non ci crede ma il clima continuerà lo stesso a mutare. Se tutti gli scienziati affermano che se non spingiamo l'economia oltre della dittatura dei fossili, la temperatura aumenterà sino a mettere in pericolo la sopravvivenza dell'umanità, democrazia significa cercare tutti insieme una strada per ottenere il risultato di rallentare il cambiamento climatico. L'economia finanziaria non dovrebbe aver voce in questo processo. A Taormina, invece, è successo l'esatto contrario. L'esatto contrario di quello che per noi è democrazia.

Chiusura zapatista (una storia vera)
Me ne stavo a La Garrucha (Chiapas, Messico, America, pianeta Terra) stravaccato sull'amaca a ragionare con un "compa" della Giunta di Buon Governo. Il tipo mi racconta che era appena andato a San Cristobal ad ordinare un sistema di filtraggio dell'acqua per un paese là vicino. Ci avevano investito una bella cifra per il budget del municipio e lo avevano deciso di punto in bianco. La cosa mi stupì alquanto. Da quelle parti, "platicano", ciò discutono, su ogni problema per ore ed ore sino a che tutta la comunità è d'accordo. Noi diremmo: "ti prendono per sfinimento". E lo fanno anche su questioni assolutamente risibili come, che so?, la composizione del desayuno caliente, la colazione calda per i bambini che vanno a scuola (c'è pure una speciale commissione sul problema). Sul sistema di filtraggio che costava una sbarellata di pesos invece… nada! Gliene chiedo la ragione e quello mi guarda come si guarda un imbecille: "E che c'è da discutere sull'acqua? Si lavora perché sia potabile, sufficiente per tutti e… basta".

Una nube nera nera sui cieli di Roma. Facciamo finta di niente?

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Cinque giorni dopo, si viene a sapere che ci avevano ragione gli ambientalisti. Quel fumo sprigionatosi dal deposito dell'Eco X di Pomezia e che, nella mattinata di venerdì 5 maggio, ha invaso i cieli di Roma conteneva anche diossina e amianto. "Avevamo già avuto delle segnalazioni nei giorni precedenti all'incendio - aveva dichiarato all'Ansa il presidente di Legambiente Lazio, Roberto Scacchi - Dei cittadini ci avevano segnalato la presenza di mucchi di materiale plastico all'interno dell'area dell'azienda Eco X dai quali provenivano odori maleodoranti. Si erano anche formati dei comitati di quartiere sul problema. Abbiamo segnalato più volte la situazione alle autorità e denunciato pure la possibile presenza di amianto, ma sembra che tutto fosse in regola". Il problema, come vedremo più avanti, sta tutto nelle cosiddette "regole".


Fatto sta che quando il deposito è andato a fuoco, gli ambientalisti hanno subito denunciato l'inevitabile presenza di diossina, essendosi sviluppato da un cumulo di plastiche di riciclo allo stato grezzo e, quindi, non ancora trattate. Ci son voluti cinque giorni però prima che le autorità ammettessero che avevano ragione loro.
Con il cielo della capitale ancora oscurato dalla nube nera, era tutto un coro di "non destiamo allarmismi nella popolazione che è tutto sotto controllo". Anche Enrico Mentana apre il suo Tg sottolineando che "se la nube fosse sopra un'altra città e non su Roma, non staremmo neppure a parlarne".
Eppure la nube è nera, brutta, puzza e fa paura. E la gente che ci si trova sotto non ci crede che non faccia anche male respirarla, quell'aria che sa di plastica bruciata.
A gettare acqua sul fuoco, ci si mette anche la Giunta capitolina della sindaca Virginia Raggi e lo stesso Comune di Pomezia, pure lui a guida pentastellata. "I valori di Pm10 registrati dall'Arpa sono tutto sommato accettabili - ha dichiarato il sindaco della cittadina situata a poco meno di 30 chilometri dalla Capitale, Fabio Fucci -. I valori rilevati, sebbene siano sopra lo soglia di allarme, sono analoghi ai valori registrati nel centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità".
Il che, secondo lui dovrebbe tranquillizzarci. Secondo noi invece, dovrebbero preoccupare non poco chi si trova a respirare l'aria del centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità, come spiega il primo cittadino.
Ma il punto non è neppure questo. Tanto l'Arpa, quanto gli amministratori locali, e lo stesso ministro della Salute, Beatrice Lorenzin- che ad intervalli regolari esce dal suo ufficio a spiegarci che "stiamo attentamente monitorando la situazione" - parlano dei valori di polveri sottili. La diossina è un'altra cosa e non è rilevabile con questo tipo di analisi. L'amianto pure. E allora di cosa parlavano?
Anche sull'area interessata dal disastro, i conti non tornano. Da Pomezia ai quartieri di Roma, secondo la mappatura del ministero della Salute. Ma secondo segnalazioni raccolte dal Legambiente e dall'Ona, l'osservatorio nazionale amianto, la puzza di plastica bruciata si è sentita per un raggio di oltre 50 chilometri dal rogo. sino ad arrivare nei paesi più a nord della provincia di Latina. Sempre secondo il ministero, non ci sarebbero stati ricoverati a parte un vigile del fuoco, uno dei primi accorsi nel luogo dell'incidente, che ha accusato un lieve malore. Di opinione diversa Legambiente Lazio che parla di decine di persone giunte nei pronto soccorso degli ospedali accusando sintomi come bruciore aglio occhi, nausea e vomito.
Proprio come in tempio di guerra, la prima vittima dei disastri ambientali è sempre la verità. Le amministrazioni, sia locali che nazionali, si rivelano ancora una volta quantomeno impreparate - sia dal punto di vista scientifico che procedurale - a fronteggiare queste situazioni di crisi ambientale. La paura di innescare panico tra la popolazione impedisce di intervenire prontamente, perdendo tempo prezioso proprio nella prima fase, quella più delicata e pericolosa del disastro. Meglio adagiarsi su una politica di monitoraggio continuo, sperando che le cose si sistemino da sole. In fondo, quante volte i limiti di sicurezza di Pm10 e di altri inquinanti vengono sforati nelle nostre città senza che nessuno si sogni di protestare? Al massimo, si può consigliare alla gente di tenere le finestre chiuse. Male, non fa.
E come per tante altre devastazioni ambientali, si attende che sia la Procura a fare i primi passi. Con i tempi lunghi della giustizia italiana che non sono certo quelli che servirebbero a contenere ed a combattere i fenomeni inquinanti.
Subito dopo l'incendio, il cantiere dell'Eco X è stato messo sotto sequestro dalla Procura di Velletri. Ed è toccato allo stesso procuratore che indaga sull'ipotesi di reato per incendio doloso, Francesco Prete, dichiarare quello che gli ambientalisti affermavano, i cittadini sospettavano ma nessun amministratore aveva prima ammesso. Cioè che: "La Asl ha rilevato la presenza di amianto sul materiale campionato".
C'era quindi l'amianto e c'era quindi anche la diossina. E i giornali e i cittadini lo vengono a sapere - cinque giorni dopo - dal procuratore che indaga e non dal ministro o dall'assessore regionale all'ambiente o dal sindaco. C'è qualcosa che non funziona nella catena di comando e di pronto intervento, evidentemente.
Così, per sapere quanto vasta sarà l'area contaminata dove, con tutta probabilità verrà interdetto il raccolto agricolo, bisognerà attendere il prosieguo delle indagini.
Una stima di Coldiretti, parla di circa 150 aziende agricole coinvolte dalla nube. Numeri che sono sicuramente destinati ad aumentare, secondo Legambiente, perché la diossina è un inquinante infido e pericoloso e, più che nell'aria, si diffonde nella terra e nelle acque, avvelenando i prodotti della terra per lunghi periodi di tempo. Ma intanto che la giustizia fa il suo corso, i contadini continuano a lavorare la loro terra inquinata e gli operai impiegati nelle fabbriche della zona industriale di Pomezia, a ridosso del deposito bruciato dell'Eco X, continuano ad andare al posto di lavoro senza neppure la protezione di una mascherina per i residui di amianto. Quali saranno le conseguenze sui polmoni di questi lavoratori?
Non ci sono regole, in Italia, per gestire le crisi ambientali. E nessuno vuole prendersi la responsabilità di scriverle, perché queste regole sarebbero decisamente in contrasto con i dettami imperanti dell'economia e dello "sviluppo". Così come non ci sono regole certe sulle soglie di pericolosità di tante sostanze inquinanti e i limiti di sicurezza sono solo asticelle che si alzano e si abbassano a seconda dei casi. Così come non ci sono normative cui attenersi nella gestione di tante lavorazioni a rischio per il solo motivo di non abbassare la redditività. "Viene da pensare che un’impiantistica necessaria per evitare incendi neppure c’era nella Eco X - nota il presidente di Legambiente Lazio - perché probabilmente non era nemmeno necessaria per legge! Altrimenti la gestione dell’incendio sarebbe stata differente".
Ancora una volta, i tempi e gli obiettivi dell'economia, della politica e dell'ambiente sono sempre più distanti tra loro.

Il gasdotto for dummies. Ovvero, perché noi stiamo dalla parte degli ulivi

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Ulivi contro manganelli? Noi stiamo dalla parte degli ulivi. Anche perché i manganelli scendono sempre in campo quando le altre argomentazioni non convincono. Reprimere e criminalizzare, è un buon sistema per evitare di dare risposte. Soprattutto quando le risposte non ci sono o sono ben diverse da quelle che la propaganda ufficiale cerca di propinarci. In gergo tecnico, si chiamano "bugie". Ecco di seguito un elenco commentato con le principali "bugie" che raccontano quelli che stanno dalla parte dei manganelli. E che, non per altro, hanno bisogno dei manganelli.

Tap, di cosa stiamo parlando?
Lo possiamo leggere nel sito stesso della Trans Adriatic Pipeline: "Tap, Trans Adriatic Pipeline, è il progetto per la realizzazione di un gasdotto che trasporterà gas naturale dalla regione del Mar Caspio in Europa. Collegando il Trans Anatolian Pipeline alla zona di confine tra Grecia e Turchia, attraverserà la Grecia settentrionale, l’Albania e l’Adriatico per approdare sulla costa meridionale italiana e collegarsi alla rete nazionale".

Gas naturale, naturalmente.
Tutta la campagna pubblicitaria a favore del Tap si basa su due equivoci di fondo. Entrambi montati ad arte. Il primo è che "Una volta realizzato, costituirà il collegamento più diretto ed economicamente vantaggioso alle nuove risorse di gas dell’area del Mar Caspio", come si legge sempre sul loro sito che evita di spiegare per chi è "economicamente vantaggioso".
Il secondo è quello del "gas naturale". Naturale come dire che è ecologico. Ma stiamo parlando di metano. Siamo d'accordo che bruciare carbone è più inquinante ma non dimentichiamo che il metano, come tutti i combustibili fossili, fa parte delle energie non rinnovabili, quelle che a Parigi (ce lo vogliamo ricordare o no?) sono state buttate fuori dalla storia dell'umanità. dell'umanità che vuole avere ancora un futuro su questa terra, intendiamo. Il metano è un climalterante, è tutt'altro che un combustibile ecologico ed è un gas serra. Quando, sempre a Parigi, parlavamo di "decarbonizzazione" non intendevamo il processo di sostituzione del carbone col gas, ma abbattere le emissioni di carbonio. Quelle emissioni che anche il metano produce.
Il Tap, come tante altre Grandi Opere, si basa su queste due fondamenta di argilla: convenienza economica e 'sviluppo'. Siccome è facile smentirle con un po' di dati, le manganellate si rivelano sempre necessarie per convincere gli ambientalisti recalcitanti. Dove non può la logica…


L'obiettivo del Tap è variare le rotte di importazione del metano che oggi sono appannaggio di un Paese tutt'altro che stabile e amico dell'Europa come la Russia di Putin.
Già. Perché la Turchia guidata da quel Pinochet del Bosforo che altro non è Erdogan è un Paese serio, democratico e affidabile! Per non parlare della Georgia e dell'Azerbaijan, dei satrapi che le governano e che, oltretutto, pescano parte del gas che rivendono a noi proprio dalla Russia di Putin.

Grazie a questa condotta, l'Italia diventerà un hub dal metano. (Hub è un inglesismo brutto ed inutile per dire "fulcro". Noi lo usiamo perché tutta la propaganda a favore della Tap usa questo termine e ciò da anche l'idea del valore di questa propaganda.)
Manco per sogno. La Germania ha già investito sul raddoppio del North Stream che le porta il gas direttamente dai giacimenti russi. Il gas proveniente dagli Stan ce lo dovremmo ciucciare tutto noi. Anche perché la Francia non ne ha bisogno, visto che ha il nucleare. E così la Croazia.

Questo gas ci serve.
In Italia nessun Governo ha mai affrontato la costruzione di una politica energetica seria. Così come, ad esempio, hanno fatto Paesi come la Svezia o la Danimarca, pianificando per tempo il passaggio alle rinnovabili sulla lunghezza di decenni. Per cui nessuno può dire quanto metano servirà agli italiani nei prossimi anni. Due fatti però possiamo notare. Il primo è che la nostra capacità di importare metano, anche senza Tap, è già doppia rispetto ai fabbisogni attuali. Il secondo è che la tendenza dell'ultimo decennio all'uso di gas è in diminuzione.
La realtà è che il mondo sta cambiando. Le rinnovabili stanno rivoluzionando l'economia e non ci sono dubbi che alla fine, nonostante la fortissima e violenta resistenza delle multinazionali dei combustibili fossili, vinceranno loro. I Paesi che si adegueranno arriveranno primi al traguardo della storia. Il Trans Adriatic Pipeline ci riporta alla partenza.

Il governatore Emiliano gioca sporco sul Tap e cerca di spostare gli equilibri in vista del congresso del Pd.
Domenica scorsa, dopo una combattutissima partita, il Campodarsego si è imposto 2 a 1 sull'Union Feltre nella 29esima giornata del campionato di serie D, girone C. Come dite? Non ve ne frega niente? Neanche a me dell'Emiliano e del congresso del Pd.

I soldi investiti sono dei privati. Gli italiano avranno solo benefici in bolletta.
Questa barzelletta l'abbiamo già sentita e non ci diverte più. Il privato geneticamente modificato che lavora per gli interessi pubblici devono ancora inventarlo. Il Tap, oltre che dalle sei società iniziali - Saipem, Bp, Socar e in misura minore Fluxys, Axpo e Enagas - è finanziato anche dalla Banca Europea per gli Investimenti (che avrebbe nel suo statuto la mission di combattere i cambiamenti climatici, pensate un po') e vi partecipa anche la Snam con altri soldi pubblici che prima o poi ci ritroveremo in bolletta. Ricordiamoci soltanto del rigassificatore di Livorno. Altra Grande Opera "strategica" sull'approvvigionamento di metano che doveva essere realizzata interamente dai privati e poi si è trasformata nell'ennesima inutile incompiuta capace solo di fagocitare vagonate di finanziamenti pubblici. E senza che i privati ci abbiano rimesso un euro. Anzi.

Gli ulivi verranno solo spostati e non distrutti.
Che bello! E i poveri orsi polari che per colpa dei cambiamenti climatici si troveranno senza ghiaccio sotto il culo, li carichiamo su una nave e li portiamo nello zoo del film Madagascar. Scherzi a parte, non possiamo ridurre problemi complessi che richiedono una soluzione radicale al destino di ulivi e di orsi. Rispondere, a chi ribadisce il suo No al Tap chiedendo una diversa politica energetica, che gli ulivi saranno risparmiati, vuol dire fare brutta demagogia. Talmente brutta che servono le manganellate per farla entrare nella testa degli ambientalisti. E poi cosa significa "li spostiamo su un altro posto dove si troveranno ancora meglio"? Se son cresciuti là, devono restare là. Se c'è un altro posto adatto, piantiamoci ulivi giovani e facciamoli crescere. Con questo ragionamento, tra un po' sposteremo tutte le opere d'arte, anche quelle architettoniche, dentro musei privati a pagamento ed i paesaggi li ricorderemo in cartolina. A pagamento, pure queste.

Il metano ci aiuta nel passaggio alle rinnovabili
Questo sarebbe vero se ci fosse un Governo più serio. Ma, d'altra parte, un Governo più serio avrebbe fermato le trivelle in mare e non si imbarcherebbe mai in una opera senza futuro come il Tap. Il rischio, piuttosto, è che avvenga il contrario. Il nostro Paese attualmente ha creato una sovracapacità di energia elettrica basata sui fossili e in particolare sul metano che finisce per rallentare, se non addirittura opporsi, ad un auspicabile passaggio verso le rinnovabili.
Soprattutto, perseverare in questa direzione, ostinata e contraria ad un futuro senza fossili, ci allontana dalla vera soluzione che è la creazione di una politica energetica sostenibile, atta a contenere davvero i cambiamenti climatici. Bruciare metano al posto del carbone, - come ci ordinano le multinazionali del Tap - non è la risposta corretta alle domande che sono state poste negli incontri di Parigi. La soluzione è sempre quella: risparmiare energia, consumare meno, combattere lo spreco, utilizzare mezzi sostenibili, rinunciare al superfluo.
Ma non abbiate timore che un giorno ci arriveremo. Il giorno in cui i fossili saranno solo un ricordo e non sarà più l'economia ma la scienza e la democrazia dal basso a dettare l'agenda politica.

Pfas, il veleno nell'acqua e nella testa

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Un vero paradiso, il Veneto. Per gli inquinatori. Quegli inquinatori che, anche quando i risultati di ricerche scientifiche e le denunce dei comitati per l'ambiente portano a scoprire intere aree trasformate in discariche tossiche, possono sempre contare sulla complicità della Regione Veneto, pronta a ritoccare al rialzo i limiti di sicurezza delle percentuali delle sostanze tossiche. Anche a costo di andare allegramente in deroga a regolamenti nazionali ed europei, oltre che alle stesse indicazioni dell'Oms. E' accaduto con le polveri, è accaduto con l'amianto, è accaduto… sempre.
Accade anche oggi con i Pfas, composti chimici nati dalla fusione di solfuro di carbonio e acido floridico. Composti di cui, solo fino a qualche anno fa, soltanto gli studiosi di chimica conoscevano l'esistenza, ma che ora, secondo alcune stime (e neppure le più pessimiste) perlomeno 400 mila persone che vivono lungo il bacino del Fratta Garzone hanno scoperto di avere nel sangue con valori ben oltre la soglia di attenzione. Numeri degni di una epidemia di peste medioevale, quando i medici giravano con le bautte dal becco lungo per difendersi dal contagio e il popolino, complici i governanti, se la prendeva con gli untori.
Oggi che il popolino, complici i governanti, se la prende con i migranti e la scienza qualche progresso l'avrebbe pur fatto, ci è voluto un medico epidemiologico vicentino, Vincenzo Cordiano, per scoprire che nella ottantina di Comuni attorno a Trissino da anni la gente moriva in percentuali che sforavano le medie Istat per patologie riconducibili ai Pfas. A qualcuno allora è venuto il sospetto che tutto fosse riconducibile a quella fabbrica, la Miteni, di Trissino appunto, specializzata nell'impermeabilizzazione di tessuti tramite i Pfas, che aveva fatto registrare negli ultimi anni la bellezza di ventun operai morti delle medesime patologie: tumori ai reni e ai testicoli, in particolare.
La faccenda a questo punto, si sposta in procura. Anzi, in tre procure, perché tre sono le provincie le cui falde sono state contaminate di Pfas: Vicenza, Verona e Padova. Arrivano studi scientifici, analisi e gli screening. La Regione ne ha attivato uno che durerà dieci anni senza pensare che certe malattie ammazzano molto prima ma considerando che, per i tempi della politica, dieci anni senza dover prendere decisioni scomode sono una manna del cielo. Arriva anche l'Unione Europea che laurea il Po e i suoi affluenti come i fiumi più inquinati e pericolosi del continente. Come dire: "Ecco cosa ottenete ad andare in deroga ai nostri limiti". Arriva una prima sentenza del tribunale di Venezia che non può che prendere atto che le falde sono inquinate da far paura ma si prende il disturbo di sottolineare che detto inquinamento non è dovuto soltanto ai Pfas ma anche a tante altre sostanze nocive. E se per voi questo è un motivo in più per intervenire velocemente, per la Regione è un motivo in più per prendere tempo e studiare un "piano complessivo di bonifica". Aspettando i risultati dello screening tra dieci anni o, se preferite, due legislature. Arriva anche la Miteni che casca dalle nuvole. "Abbiamo inquinato? Beh… bonificheremo" e intanto continua ad inquinare come prima, complice, come abbiamo detto, la Regione Veneto che per evitare di scontrarsi con chi produce pur sempre "schei", oltre che morti ammazzati, gli adegua i limiti di sversamento così da non far perdere alla fabbrica neppure un giorno di lavoro.
A chiedere la chiusura immediata della Miteni e la bonifica immediata della falda, rimangono solo i soliti ambientalisti. Quelli che hanno ragione sempre dopo una decina di anni e dopo un bel po' di inchieste della magistratura.
Abbiamo detto tutto? Ah già… dimenticavamo… Buona giornata mondiale dell'acqua potabile a tutti!

Occhio al parco! La Regione Veneto non è posto per ambientalisti. Delibera o no, sabato si manifesta per il Parco dei Colli

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Vista dalla pagine dei giornali di oggi, parrebbe che la Regione Veneto abbia alzato bandiera bianca. Un bel #ciaone al consigliere "sparattutto" Berlato e il Parco dei Colli, a furor di popolo, viene salvato per direttissima delibera regionale da cacciatori e palazzinari.
Ma è davvero così?
Come minimo, prima di cantar vittoria, bisogna fare qualche considerazione. La prima è che la Regione Veneto - e con essa intendo tanto la maggioranza al governo quando buona parte della cosiddetta opposizione - sta all'ambientalismo come Erdogan sta alla democrazia.

D'accordo, consentire la caccia all'interno di un parco naturale, e bello come quello dei Colli per di più, era una proposta degna di un titolo di Lercio. Troppo persino per una Regione che ogni hanno paga salatissime multe all'Europa - con soldi nostri! - pur di varare norme che consentono la caccia a specie protette, in deroga a tutte le tutele. La sollevazione di cittadine e cittadini, delle amministrazioni locali e di tutte le associazioni ambientaliste, erano inevitabili e certo devono aver pesato non poco sulla decisione annunciata dal governatore Luca Zaia di cassare l'emendamento Berlato con salvifica delibera. Delibera che comunque non è ancora stata firmata. Lo sarà lunedì, così perlomeno è stato annunciato. Ma stiamoci attenti. Non sarebbe la prima volta che il governo regionale annuncia una correzione di rotta davanti ad una protesta popolare col solo proposito di sgonfiare le mobilitazioni. Magari per poi varare alla fine dell'iter legislativo, con qualche ritocco qua e là, una legge che si rivela ancor peggio di quella annunciata.
La manifestazione di sabato quindi si deve fare, e si farà, con ancor più determinazione di prima per ribadire quello che abbiamo sempre detto e scritto. Nel parco dei Colli Euganei non c'è spazio per cacciatori e cementificatori.
Ma c'è anche un'altro motivo che ci spinge a tener duro nella nostra battaglia ambientalista. Ce lo spiega bene Francesco Miazzi in questo breve video. Questa delibera che con troppo ottimismo è stata chiamata "Salvaparco" puzza troppo da operazione di marketing e non incide minimamente sul vero pericolo che minaccia l'integrità dei parchi veneti: quella legge 143 che smantella i piani ambientali messi a punto dagli enti gestori dei parchi, demandando nei fatti la loro gestione ai Comuni. In pratica, proprio quanto il fratello d'Italia Sergio Berlato ha cercato di fare, pur se per altre strade!

Anche per questo, domani, sabato 11 marzo, cittadini e ambientalisti si ritroveranno a Merendole alle ore 15,30, per manifestare tutti insieme. Lo slogan "Salviamo il parco dei Colli Euganei" è valido oggi, come ieri, come domani.

A questo link, l'intervista a Francesco Miazzi
https://youtu.be/y5hJceEMODM

Il luogo più inquinato del mondo? Il ponte di una nave da crociera!

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E poi c'è chi va in crociera per "respirare aria buona"! Tutto il contrario, invece. Lo testimonia una ricerca condotta dai tecnici del Nabu (Naturschutzbund Deutschland), una delle maggiori organizzazioni ambientaliste tedesche, e diffusa in Italia dall'associazione Cittadini per l’Aria.
Sul ponte passeggeri di una comune nave da crociera sono presenti concentrazioni di microparticelle fino a 200 volte superiori ai livelli di fondo naturali. Un dato davvero incredibile che in Francia è stato oggetto, il 20 gennaio, di una speciale trasmissione televisiva mandata in onda su France 3 e visibile a questo link focalizzata in particolare sul porto di Marsiglia.
Non è la prima volta che Nabu denuncia l'inquinamento provocato dalle navi. Ricordiamo dal 15 al 19 aprile 2016, i tecnici dell'associazione tedesca sono scesi fino a Venezia per documentare i danni prodotti dal via vai delle Grandi Navi. Qui i risultati delle misurazioni che testimoniano come le emissioni inquinanti non solo danneggiano gravemente l'ambiente, ma soprattutto la salute umana.

"Gli armatori espongono i loro passeggeri a elevate dosi di inquinanti dannosi per la salute mentre promettono vacanze, mare e aria puliti e rigeneranti– ha detto Anna Gerometta, presidente di Cittadini per l’Aria - In realtà, come risulta dalle misurazioni effettuate, chi sta sul ponte di una nave da crociera a prendere il sole è esposto a concentrazioni di particelle superiori anche di 200 volte i valori che si misurerebbero in assenza della nave”.
Nonostante questi dati sconvolgenti i principali attori del settore delle crociere si rifiutano di passare a carburanti più puliti e installare sistemi di depurazione dei gas di scarico come accade per i motori terrestri.
“Tali misure potrebbero ridurre l'inquinamento massiccio da navi da crociera immediatamente e quindi limitare l'impatto per l'uomo, l'ambiente e il clima in modo significativo – continua Gerometta - Interpretiamo questo comportamento come una forma di speculazione irresponsabile resa possibile dalla generale ignoranza del problema". Nabu- si legge in un comuicato diffuso dalla battagliera associazione ambientalista - ha richiamato anche l’evidenza scientifica sui danni ai polmoni a cui possono essere soggette in particolare le persone che già soffrono di malattie respiratorie come l'asma se esposte a simili livelli di particolato e le istituzioni mediche che raccomandano di stare lontano da alcune parti del ponte di una nave da crociera per evitare di inalare gas di scarico che potrebbero innescare riacutizzazioni. Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha di recente classificato gli scarichi dei motori diesel come sostanza cancerogena, allo stesso livello di rischio come l'amianto. Quando si brucia olio combustibile pesante o diesel marino – ciò di cui si alimentano le navi - accanto al particolato vengono emesse altre sostanze dannose come la fuliggine, il biossido di azoto e metalli pesanti. Il responsabile della politica dei trasporti NABU Daniel Rieger ha detto: "Non siamo stati sorpresi quando abbiamo visto questi nuovi numeri. E’ noto da anni che i gas di scarico delle navi contengono elevate quantità di inquinanti atmosferici tossici poiché utilizzano i carburanti più sporchi disponibili sul mercato, senza dotarsi di eventuali sistemi di filtraggio. Finora siamo stati solo in grado di documentare l'inquinamento atmosferico delle navi a terra, vicino ai terminal crociere, per esempio, ma né a noi né ad altri soggetti indipendenti era stato permesso di farlo sulle navi al fine di verificare l'inquinamento lì. Forse perché gli armatori si aspettavano questi esiti drammatici? Sarebbe molto grave se si scoprisse che l'industria delle crociere guarda deliberatamente altrove pur essendo a conoscenza del problema".
Si potrebbe supporre che i risultati delle misurazioni non siano un caso isolato, molto probabilmente infatti rappresentano la realtà a bordo della maggior parte delle navi da crociera della flotta corrente. Questa misurazione dovrebbe essere considerata come una prova di inadeguatezza e stimolare ulteriori verifiche nel settore delle crociere, verifiche di cui siamo in attesa da lungo tempo.
I soli annunci pubblici sono stati sin qui di gran lunga insufficienti: ad esempio Aida Cruises, leader del mercato tedesco promise di fare il retrofit di tutta la sua flotta con filtri antiparticolato dal 2014, ma ancora non vi è alcuna prova di un solo sistema installato.
In Italia, neppure promesse!


Tabella 1: I risultati delle misurazioni a bordo di una nave da crociera

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Tabella 2: comparazione dei livelli con altre situazioni (aria pulita e traffico urbano)
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Guerre per il petrolio e petrolio per le guerre

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I cambiamenti climatici generano guerre. E le guerre generano i cambiamenti climatici. Facciamo le guerre per i combustibili fossili e consumiamo combustibili fossili per fare le guerre. Ci siamo mai chiesti quanto costa un carro armato in termini di emissioni di Co2? Quante emissioni serra porta con sé un bombardamento? 
D’accordo, di fronte a tragedie come quella di Aleppo, tentare di valutare la questione in termini di riscaldamento globale, sembra una bestemmia. Ma non dimentichiamoci che la guerra in Siria è stata causata anche dai cambiamenti climatici. 
Uno
studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” e riportato in italiano dalla celebre rivista Le Scienze (versione nostrana di Scientific America) ha spiegato come la guerra civile che sta insanguinando il Paese mediorientale sia imputabile, tra le altre cause, ad una tremenda siccità. La peggiore mai registrata in quell’angolo di medio oriente che ha visto nascere la civiltà. Tra il 2006 e il 2011, la siccità ha messo in ginocchio l’agricoltura, costringendo decine di migliaia di contadini a spostarsi verso le città. Un flusso migratorio che si è mescolato con quello dei profughi provenienti dal vicino Iraq in guerra – altro conflitto che ha radici profonde nel riscaldamento globale – causando un forte aumento dei prezzi, scarsità di generi alimentari e tensioni sociali. “Non stiamo sostenendo che la siccità abbia causato la guerra – scrive il climatologo Richard Seager – ma che, aggiunta a tutti gli altri fattori di tensione, ha contribuito a spingere la situazione oltre il limite, fino al conflitto aperto. E una siccità di tale entità è stata facilitata dalle attività umane in corso in quella regione”.
“I cambiamenti climatici mettono sotto stress le risorse idriche e l’agricoltura e probabilmente aumenteranno ancor più il rischio di conflitti – ha spiegato Seager su Scientific America – La guerra siriana vive ormai di vita propria, tuttavia, l’aggravamento della siccità per i cambiamenti climatici è stato un fattore importante nell’innescare la disgregazione sociale.”

Il caso della Siria non è certo l’unico. Altri
studi scientifici hanno messo in relazione l’aumento di temperatura con lo scoppio di conflitti in tutto il mondo, dall’africa sub sahariana allo stesso Egitto, dove la rivoluzione è stata preceduta da una impennata dei prezzi del cibo causata dalla siccità. 
Non è quindi una questione secondaria chiedersi quanto ci costa in termini di emissioni di Co2 quelle guerre causate proprio dalle emissioni di Co2. 
Più difficile dare una risposta esauriente. 
Il primo in Italia a fare i conti in tasca ai… carri armati è stato, a quanto ci risulta, il meteorologo Luca Mercalli. In un suo
articolo del 2003 (quando ancora i negazionisti contestavano la teoria dei cambiamenti climatici), consultabile nel sito della società meteorologica italiana, l’ambientalista si domandava, riferendosi a Desert Storm: quanto petrolio ci costa la guerra per il petrolio? 
Partiamo intanto dai dati che abbiamo. 
  • Un carro armato consuma in media 200 o 300 litri ogni 100 chilometri. Poi ci sono le “eccellenze”: l’Abrams M1, ad esempio, soprannominato “l’ingozzatore di benzina”, ne brucia almeno 450. 
  • Un aereo tipo F-15 Strike o un F16 Falcon consumano 16 mila e 200 litri all’ora. (Non mi lamenterò più della mia Kawasaki 750Z!)
  • Un bombardiere B52, 12 mila litri all’ora.
  • Un elicottero da combattimento Apache, 500 litri all’ora. 
  • I mezzi di appoggio sono assai più parchi, e possiamo stimare, sempre lavorando di difetto, il consumo medio in un litro a chilometro. 
Limitandoci solo alle forze dell’esercito statunitense e dei loro alleati, Desert Storm ha messo in campo 42 F17 che volarono per 6900 ore in 38 giorni, 2400 aerei, 1848 carri Abrams, più di 50 mila veicoli d’appoggio. Solo i rifornimenti in volo che tutti i telegiornali mandarono in onda in quanto “spettacolari”, costarono 675 milioni di litri di carburante sufficienti a riempire i serbatoi di 17 milioni di auto. 
“Assegnando un parco mezzi più o meno di questa consistenza – scrive Mercalli – e applicando un coefficiente di utilizzo molto prudente di una sola ora al giorno per mezzo, si ottiene un consumo giornaliero di 45 milioni di litri di carburante”. E parliamo solo delle forze alleate di terra. Senza considerare le navi, le portaerei che vanno col nucleare e sulle quali bisognerebbe fare tutto un altro discorso, i consumi dell’esercito iracheno e i pozzi di petrolio dati alle fiamme. 
Facciamo adesso due conti della serva: 45 milioni di litri di carburante bruciati si traducono con emissioni pari a 112.400 tonnellate di Co2. Come dire che 10 giorni di guerra inquinano – e, ripetiamolo, la cifra è calcolata per difetto – come per una anno una città di oltre 110 mila abitanti. 
“Da ciò si constata come, oltre ai problemi di ordine etico che difficilmente giustificano un tale sperpero di risorse volto a danno di una nazione (quindi si preparano altri costi energetici per ricostruire quanto distrutto) – scrive Mercalli –
un tale volume di emissioni gassose in atmosfera vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto”. Tanto per fare un esempio, l’emissione giornaliera derivante dal conflitto iracheno equivaleva almeno alla metà del carico di emissioni che il nostro Paese avrebbe dovuto ridurre per mettersi in regola con gli allora accordi di Kyoto. 
A questo punto vien da chiedersi
come mai, durante la Cop parigina, le attività militari siano state esonerate dall’obbligo di ridurre le emissioni. Anzi, le cosiddette “spese per la difesa” non hanno neppure fatto parte degli argomenti messi nelle agende di discussione. Quella guerra che secondo Gino Strada dovrebbe diventare un tabù come l’incesto, è stata invece esonerata da ogni rendicontazione climatica. Come fosse welfare cui l’umanità non può rinunciare. 
Eppure la guerra ammazza. Prima ammazza con le bombe, poi ammazza ancora di più con l’inquinamento climalterante e le conseguenti guerre innescate all’inquinamento climalterante. 
Marinella Correggia giornalista di Altreconomia in un suo
interessante articolo si chiede provocatoriamente “quanto carburante fossile ha consumato il 3 ottobre 2015 l’aereo AC-130 della United States Air Force per i 45 minuti di bombardamenti sull’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz”.
Mike Berners-Lee, autore di “How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything” scrive: “I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche oltre e dopo la fase della guerra”. 
Opinione condivisa anche da Barry Sanders, autore di “Green Zone. The environmental costs of militarism”: “Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Scrivendo il mio libro mi sono accorto che
il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi”. Una prospettiva davvero inquietante. 
Nel 2005, l’associazione ecologista Friends of the Earth ha stimato che
solo il mantenimento dell’apparato militare mondiale – senza contare il suo uso – produce due miliardi di tonnellate di Co2 all’anno. Oggi, più di dieci anni dopo, il bilancio è peggiorato. 
E la fetta più grossa della torta militare mondiale, è quella che si mangiano gli Usa. “Da quanto ne so – scrive sul suo Facebook il meteorologo Luca Lombroso –
il solo Pentagono ci costa in emissioni quanto la Svizzera“. Il sopracitato Sanders è ancora più esplicito. “L’esercito degli Stati Uniti è il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo: oltre il 5% del totale. E la percentuale sarebbe molto più alta, se si comprendessero i costi energetici di produzione delle armi, il consumo di combustibili fossili e di materiali da parte dei privati contractors e infine l’enorme peso della ricostruzione di quanto distrutto dalle guerre”. 
Vien da chiedersi se si possa pensare di contenere l’aumento di temperature entro i due gradi, come prevede Cop 21, mantenendo questo mostruoso apparato inquinante capace solo di generare altre occasioni di inquinamento climatico. 
L’ultimo rapporto dell’International Peace Bureau spiega che ciò non è possibile: “
Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti. Le spese militari rubano alla comunità internazionale i fondi di cui ha disperatamente bisogno per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica”.
Destinare alle iniziative di contenimento dell’inevitabile aumento della temperatura globale le risorse che oggi vengono spese per finanziare le guerre che sono la principale causa dell’impennata della temperatura globale, sarebbe probabilmente la sola speranza dell’umanità di vivere su questo pianeta così come ha vissuto sino ad oggi. Ed è quanto ha chiesto l’appello “
Stop the Wars, Stop the Warming” lanciato da scienziati climatici e ambientalisti Usa nel luglio del 2014. Appello inascoltato dall’allora presidente Barack Obama. E possiamo azzardarci a prevedere che non avrà miglior fortuna con Donald Trump!
“È un circolo vizioso infernale – si legge nel documento -: l’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense per condurre guerre per il petrolio e le risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita non solo con le guerre per il petrolio, ma con l’uso di petrolio per fare le guerre”.

I cacciatori nel parco. La Regione confeziona un bel regalo di Natale alla lobby degli “sparatutto”

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Alla regia di questo ennesimo tentativo della Regione Veneto di smantellare le – poche – aree protette del Veneto per trasformarle in riserve di caccia per gli amici degli amici, c’è ancora lui: il consigliere Sergio Berlato, eletto nelle liste di Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale. Sotto tiro, è proprio il caso di dirlo, c’è il parco dei Colli Euganei. Un emendamento alla legge regionale legge di stabilità che sta per andare in discussione a Palazzo Ferro Fini, a firma del consigliere vicentino, chiede di ridurre di ben due terzi l’attuale superficie del parco, così da poter permettere ai cacciatori di praticare il loro “sport” preferito in aree sino ad oggi proibite alle doppiette
Un provvedimento che è stato definito una autentica porcheria, non solo dagli ambientalisti ma anche dai sindaci dei Comuni interessati come Arquà, Montegrotto, Battaglia, Lozzo, Este, Monselice e Galzignano, che vedono azzerare tutti i benefici che i loro cittadini ottengono dal parco, per fare un regalo di natale alla potentissima lobby dei cacciatori che ha nel consigliere Berlato il suo punto di riferimento. Una lobby, questa dei cacciatori, molto appetita da tutti i politici di destra (e anche da qualcuno di sinistra), considerato che il suo esempio è stato immediatamente seguito dal collega consigliere Stefano Valdegamberi, lista Zaia, che ha presentato un emendamento fotocopia sostituendo al nome “parco dei Colli”, “parco della Lessinia”. 

In poche parole, se gli emendamenti dovessero essere approvati, il nostro povero Veneto, già abbastanza cementificato, si ritroverebbe con due storici parchi in meno e due aziende venatorie in più. 
Il tutto, nel silenzio (complice?) del presidente Luca Zaia, dal quale ci si attenderebbe un po’ di veemenza in meno nella difesa di una lingua che non esiste e di una etnia immaginaria, e un po’ di attenzione in più per l’ambiente in cui viviamo.
E, siccome siamo sotto natale, i regali ai cacciatori non sono finiti: l’emendamento a firma Berlato prevede anche la depenalizzazione degli illeciti penali in materia di caccia. Come dire: fate quello che volete anche se la legge lo vieta. Tanto, tutti i vostri reati saranno condonati. Pensate che festa se questo principio giuridico fosse applicato anche alle altre categorie come, che so, gli automobilisti o i ladri!  
E c’è ancora qualcuno che sostiene che i cacciatori non siano una lobby! Lo sono invece. Proprio come quella dei costruttori che sarebbero i secondi a beneficiare dell’emendamento Berlato perché, una volta abbattuti i vincoli di tutela dei parchi, anche il cemento e le speculazioni edilizie avrebbero la strada spianata. 
La colpa poi, è tutta dei cinghiali! Il partito dei cacciatori giustifica questa vergognosa operazione di smantellamento dei parchi veneti imputandola ai cinghiali. E che ci sia un numero eccessivo di questi animali nella nostra Regione, che questi causino danni all’agricoltura e che trovino rifugio all’interno dei sopracitati parchi, è una verità indiscussa. 
Ma la soluzione non sono i cacciatori. Nessuna questione ambientale può essere risolta con la caccia. Soprattutto per come la intende chi oggi se la spassa a procurare dolore agli animali. Un cacciatore come lo era Mario Rigoni Stern, sottoscriverebbe ogni parola che abbiamo scritto perché non avrebbe nulla da spartire con chi spara per “sport”. 
I cacciatori non sono la soluzione. Casomai, sono il problema. Se la popolazione di questi animali ha raggiunto nel nostro Veneto livelli preoccupanti è solo perché proprio i cacciatori ne hanno fatto continue, e spesso illegali, immissioni. Non è neppure un mistero che questi animali sono fonte di grandi guadagni nel mercato clandestino della carne da tavola. 
Affidare la “tutela” della fauna, o anche una suo semplice contenimento, ai cacciatori è un controsenso. Intanto perché la loro sensibilità ambientale è quella di un dirigente del Consorzio Venezia Nuova, ma soprattutto perché l’interesse di un cacciatore è quello di riempire il carniere e, di conseguenza, di avere tanti animali ai quali sparare. 
Quello che si deciderà in consiglio regionale è il destino dei parchi veneti. Ed è appena il caso di notare che le scelte saranno irreversibili. Da una colata di cemento, dalla scomparsa di una specie, dalla devastazione di un’area protette non si torna più indietro. 
Chi ha a cuore l’ambiente e i beni comuni, deve agire oggi perché domani i pentimenti non serviranno a niente. 
Ambientalisti, comitati civici, associazioni animaliste hanno invitato tutti cittadini alla mobilitazione. L’appuntamento è lunedì 12 dicembre a Venezia, a mezzogiorno, davanti a Palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale.
Dovremo essere in tanti. Solo così riusciremo a far capire un bel po’ di cose a gente che ha la testa dura. 

Referendum costituzionale, ecco perché gli ambientalisti devono votare NO

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Non è solo sul futuro del bicameralismo paritario, che saremo chiamati a decidere domenica 4 dicembre.
La revisione del Titolo V della Costituzione nasconde un tentativo - vergognosamente mascherato sotto il velo della "riduzione del numero dei parlamentari" e del "contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni", che si legge nel quesito referendario - di espropriare democrazia ai territori per accentrarla nelle mani di un apparato governativo che - qualsiasi sia il suo colore politico - è sempre di più un obbediente e prono portavoce dei dettami della finanza.
Basti solo pensare che l'introduzione della clausola di "supremazia statale", tanto cara alla Boschi e Renzi, su temi come l'energia, le infrastrutture, il governo del territorio, avrebbe reso impossibile condurre battaglie come quelle, vinte, per l'acqua pubblica e contro il nucleare o come quella, persa ma che comunque qualche risultato lo ha ottenuto, sulle trivelle.


Il disegno renziano di accentramento del potere non può essere accettato supinamente da chi si definisce ambientalista e crede in un allargamento della democrazia capace di includere i territori in cui conduce le sue battaglie, e si batte per una società slegata dai condizionamenti di un sistema economico che ha causato la crisi e i cambiamenti climatici.

Una visione di un futuro possibile e indispensabile, totalmente in contrasto con quella che sta proponendo il premier Matteo Renzi con questa riforma raffazzonata e, volutamente, poco chiara che si inserisce nell'ondata populista e antidemocratica che, proprio grazie al democratico strumento del voto (che non significa affatto "partecipazione"), sta investendo il mondo intero e che ha portato all'affermarsi di partiti filo nazisti in tanti Paesi dell'est europeo, alla Brexit in Gran Bretagna e all'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.
Una ondata che ha come principale nemico l'ambiente e coloro che si oppongono alla sua devastazione e trasformazione in merce. Perché altro non è che il riflesso politico dei cambiamenti climatici.

Per questo, oltre 150 comitati territoriali, dai No Tav ai No Muos, da Stop Biocidio a Medici per l'Ambiente - la lista completa la potete leggere a questo
link - hanno deciso di prendere posizione contro la riforma costituzionale con un appello. Una scelta doverosa per difendere non soltanto la pratica di rappresentanza contro chi vorrebbe arrogarsi il potere di scegliere i membri del senato, ma anche il diritto di poter continuare a lottare dai nostri territori per difendere salute, ambiente, diritti e beni comuni. In altre parole, per difendere la democrazia. Quella vera. Quella dal basso e partecipata, come solo chi ama, rispetta e cura l'ambiente in cui vive la può intendere. 

"La riforma Costituzionale formalizzata dal Governo Renzi, e sostenuta da Confindustria e dalle lobbies finanziarie ed economiche è un attacco diretto alla nostra possibilità di decidere sul futuro delle nostre vite e dei nostri territori. - si legge nell'appello - Un ulteriore e definitivo attacco da parte di quello stesso Governo che, in spregio ai valori della democrazia, ha sbeffeggiato con un #ciaone gli oltre 13 milioni di persone che il 17 Aprile scorso hanno votato per un modello energetico libero dal petrolio".

Domenica 4 dicembre, gli ambientalisti sbarrando la casella del No sulla scheda, avranno la possibilità di restituire il #ciaone a Renzi ed ai suoi referenti finanziari lanciando un segnale forte che affermi che, se si deve ammodernare la Costituzione, lo si faccia come hanno fatto Germania, Spagne e Francia, introducendo la tutela dell'ambiente, il principio di precauzione e la difesa delle generazioni future.
Tutte cose verso le quali la riforma renziana marcia in senso opposto, partorita come è da un sistema economica che si basa ancora sull'aggressione e sulla mercificazione dei beni comuni e delle risorse ambientali.

Il Parlamento Europeo ratifica l’accordo di Parigi. Per i movimenti si apre la stagione delle battaglie per il clima?

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Dalla politica non ci si deve aspettare niente. Una legge dello Stato, un accordo internazionale, non valgono più di un due a scopa se non c’è la volontà di applicarli. Non basta neppure la supposta buona fede di chi siede nella stanza dei bottoni. Tutto questo per spiegare che il raggiungimento del quorum di ratifica dell’accordo di Parigi, pur se va annoverata tre le “buone notizie” del giorno, non porta con sé assolutamente niente di definitivo o di vincolante. La partita del clima è ancora tutta da giocare.
In ogni caso, la ratifica degli accordi di Parigi, sancita ieri, martedì 4 ottobre, dall’Unione Europea, rimane comunque un fatto positivo. Ricordiamo infatti, che il documento di intenti varato da Cop21 sul mantenimento della temperatura entro i 2 gradi, per diventare operativo, implicava la successiva ratifica dei Governi di perlomeno 55 Paesi del mondo per una responsabilità complessiva del 55% delle emissioni climalteranti. Ieri, con la firma dell’Unione Europea il tetto è stato ampiamente raggiunto.
E qualcuno potrebbe anche stupirsi di come mai ci son voluti più di sette anni per ratificare il protocollo di Kyoto, mentre per Cop21 ne è bastato uno solo. Il perché di questa velocità, lo si spiega facilmente con due osservazioni. A dar la sveglia all’agenda politica dei nostri Governi, non è stata purtroppo la scienza - che da decenni mette in guardia dai pericoli conseguenti ai Cambiamenti Climatici - ma, ancora, il capitale.

Il primo punto da tenere in considerazione è che il futuro dell’economia, anche di quella che la Naomi Klein definisce “shock”, è solo e comunque green. Se Paesi come l’Olanda o la Svezia hanno già avviato l’iter per bonificare l’intero sistema di mobilità, sia pubblica che privata, vietare i motori a benzina e convertirli all’elettrico, non lo hanno fatto per amore dell’ambiente. O, perlomeno, non soltanto per amore dell’ambiente. I loro Governi si sono semplicemente resi conto che con il petrolio siamo agli sgoccioli. Gli ultimi giacimenti rimasti sono una delle prime cause delle guerre, delle devastazione e delle migrazioni forzate che affliggono la Terra. L’economia fondata sui fossili continua a combattere ma è già morta, pur se non se n’è ancora accorta (scusa Ariosto). Prima si sterza verso il green, e prima si arriva al traguardo dei Paesi che nel domani prossimo venturo potranno dire di contare nello scacchiere mondiale. E l’Italia? Stiamo ancora trivellando i nostri mari per non scontentare le multinazionali estere! All’appuntamento con la green economy del futuro, ci presenteremo con le classiche mutande del nonno.
La seconda osservazione è ancora più triste della prima. Dobbiamo ricordarci che nel piatto di Cop21 è stata rilanciata una posta di oltre 100 miliardi di dollari, da stanziare tra il 2020 al 2025, con i quali compensare le perdite dovute ai tagli di emissioni climalteranti ed incentivare le aziende verdi. Su chi dovrà gestire questi finanziamenti e con quali criteri (tanto per dirne una, si sono “dimenticati” di inserire la clausola del rispetto dei diritti umani per i Paesi che dovranno godere dei finanziamenti climatici) è la vera partita per la quale si sono scannati a Parigi. E questo spiega anche perché Paesi come l’India o la Cina, dove il concetto di “tutelare l’ambiente” non ha neppure una traduzione credibile, si sono affrettati a ratificare tutto ciò che c’era da ratificare pur di essere tra i primi a sedersi al tavolo dove verrà spartita la torta.
Ma, come dicevamo in apertura, la notizia che l’accordo di Parigi è diventato legge, sia pure non vincolante, né in Italia né altrove, rimane comunque una buona notizia. La politica, almeno stavolta, ha fatto quello che doveva fare e nei tempi previsti. Adesso la palla passa ai movimenti, alla cittadinanza attiva, alle associazioni. Perché la politica di più non può o non sa fare. Dovranno essere i cittadini a fare di Cop21 una bandiera, alzare la voce e pretendere che amministrazioni locali e Governi rispettino quegli accordi che loro stessi hanno ratificato. E dobbiamo aspettarci una battaglia dura, perché mai, nel dopoguerra, la democrazia è scesa a livelli così bassi come di questi tempi. E non è un caso. Perché la battaglia per il clima e la battaglia per la democrazia sono la stessa battaglia.
Cop21 ha ratificato che i fossili e l’economia che vi aveva capitalizzato sopra, stanno marciando dalla parte sbagliata delle storia dell’umanità. E, assieme a loro, tutto quel cieco fervore sviluppistico fatto di Mose, Tav, Grandi Opere, Grandi Navi, Ponti sullo Stretto, “Milioni di posti di lavoro” che hanno massacrato ambiente e democrazia negli ultimi 50 anni.
Il loro tempo sulla nostra Terra è finito. Dobbiamo solo farglielo capire.

Come dobbiamo dirvelo che l’inceneritore non lo vogliamo?

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E sempre all’erta bisogna stare! L’Sg31, buttato fuori dalla porta grazie ad una dura mobilitazione popolare, rischia di rientrare dalla finestra della partecipata. Finestra spalancata dalla cessione del 40% delle quote di Veritas alla srl Ecoprogetto. E il marcio non è solo in Danimarca evidentemente, considerato che della ventilata riapertura dell’inceneritore, se non addirittura della costruzione di un nuovo impianto nella stessa area, ne siamo venuto a sapere soltanto grazie all’allarme lanciato dal sindaco di Mira, il pentastellato Alvise Maniero, che ha prontamente informato la stampa non appena ne ha avuto notizia. C’è da chiedersi dove fossero gli altri 42 sindaci che pure fanno parte del consiglio di Bacino. A parte il Brugnaro “Gigio” che, di sicuro, stava sparlando di “schei” o di “sicurezza” davanti a qualche microfono. Ed è proprio sulla mancata trasparenza che il presidente della municipalità di Marghera ha puntato l’indice, questo pomeriggio, durante la riunione del consiglio. Un consiglio che sembrava più una assemblea popolare, pieno com’era di cittadini incazzati e preoccupati. “Proprio sul campo della gestione dei rifiuti bisognerebbe garantire la massima trasparenza - ha commentato l’ambientalista in apertura del dibattito -. Non è un caso che recentemente ci siano stati due attentati ai mezzi e agli impianti di trattamento, uno dei quali ha colpito proprio Veritas. I rifiuti, se non sono gestiti in maniera chiara e pulita, causano inquinamento ambientale e criminale”.

Il comunicato con il quale la partecipata Veritas, prende le distanze dal progetto Sg31 è sicuramente un passo avanti in questa battaglia per un futuro sostenibile - e non solo dal punto di vista ambientale ma anche economico considerato che, Parigi insegna, o saremo green o non saremo niente - ma rimane comunque una presa di posizione assolutamente non vincolante, perlomeno sino a quando il consiglio di Bacino formalizzerà la bocciatura del progetto.
Con un comunicato congiunto, si sono fatto sentire anche l’assemblea contro il Rischio chimico e il comitato Opzione zero che invitano i cittadini a tempestare di mail la posta dei membri del consiglio di Bacino ed a partecipare con pentole e fischietti al presidio che si svolgerà domani, alle ore 9 davanti a Veritas, via Porto di Cavergnano, Mestre, proprio in concomitanza con la riunione del consiglio.
La preoccupazione che gli interessi economici privati delle società legate all’incenerimento dei rifiuti prevalga sulla tutela dell’ambiente e della salute pubblica è forte, nonostante le rassicurazione di Veritas secondo cui Venezia non tornerà indietro dalla politica avviata dalla precedente amministrazione comunale che era riuscita a chiudere l’ultimo inceneritore potenziando la differenziata. Ma oggi, in laguna, l’aria tira da un altro versante.
E sempre all’erta bisogna stare, dicono i comitati ambientalisti. Nel Veneto, come in tutta Italia, chi parla di riciclo, riuso, riduzione, raccolta e recupero viene visto come un nemico dello “sviluppo” economico. L’Europa è ancora lontana. Alle mafie dei rifiuti va bene così. Ma i comitati, i movimenti e gli ambientalisti sono pronti alla mobilitazione. Sanno che dei comunicati non ci si può fidare. Non con questi sindaci, non con questa Regione, non con questo Governo.

Chi ama Venezia difende la laguna

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Mancavano solo loro, alla grande festa di musica e bandiere, che questo pomeriggio, sino a sera inoltrata ha colorato la fondamenta delle Zattere. Mancavano le Grandi Navi. Dalla marittima fanno sapere che l’autorità portuale ha preferito deviarle nei canali dietro la Giudecca. Eppure, il passaggio era sgombro. Questa volta, nessuno ha tentato di bloccare la circolazione di quelle specie di villaggi di vacanza galleggianti.
“Gli abbiamo fatto paura” spiegano dal palco. Più che paura forse, gli abbiamo fatto provare vergogna. Perché chi ama Venezia, questo pomeriggio, era là, in fondamenta, con i veneziani, a difenderla. Chi stava sulle navi, no. Di Venezia, dei suoi problemi e della sua vera bellezza, quei turisti da “tutto compreso”, non possono sapere nulla. Quelle tremila persone che dalla fondamenta chiedevano politiche per la residenzialità, interventi di tutela per la laguna, politiche per governare il turismo, l’allontanamento delle Grandi Navi e del loro inquinante passaggio, avrebbero anche potuto guastare la festa della partenza. Così, i condomini galleggianti, che di nave hanno ben poco, sono stati fatti girare al largo. I turisti si sono persi l’indubbio splendore di ammirare dall’alto del ponte la città dei dogi arrossare al tramonto del sole, ma gli è stata risparmiata l’umiliazione della verità: Venezia non vi vuole.

La vera festa, questo pomeriggio, era tutta alle Zattere, tra le tante bandiere Non Grandi Navi in riva, le barche a vela e a remi in canale, e la musica sul palco galleggiante, dove ad artisti come Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli e sir Oliver Skardy, si alternavano gli interventi politici dei rappresentanti del municipio di Barcellona e di altre “città ribelli”, o di portavoce di comitati ambientalisti come la No Tav, Nicoletta Dose, che si battono contro la politica delle Grandi Opere. categoria nella quale le Grandi navi rientrano di buon diritto: devastano il territorio, fagocitano soldi e risorse pubbliche per deviarle ad aziende private in odor di mafia. In cambio, rubano democrazia e drogano la politica. Impossibile non citare il Mose, che ha inaugurato la stagione delle Grandi Opere. Perché se puoi fare impunemente una tale porcheria in una città sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare ciò che vuoi dappertutto. “Il Mose è stato il bidone del secolo che ha portato via a Venezia soldi, risorse e anche democrazia – gridano dal palco -. A due anni dalla grande retata tutto è rimasto come prima. Le prove sono state un fallimento annunciato. L’opera non funziona ed è stata pensata apposta per divorare vagoni di euro in manutenzioni continue. Chiediamo al commissario di fare il suo mestiere e di verificare non soltanto l’aspetto finanziario ma anche le numerose criticità del progetto messe in evidenza da studi indipendenti dal consorzio”.
Tanta gente, abbiamo detto. Pochi gli onorevoli. Tra questi, ricordiamo solo Giulio Marcon, che venerdì ha chiesto una question time in parlamento proprio sul tema delle Grandi Navi. “Mi ha risposto il sottosegretario del ministero allo Sviluppo economico Antonello Giacomelli. Cosa mi ha detto? Poco e quel poco mi preoccupa. Prima mi ha fatto la storia delle Grandi Navi, che, se permettete, conoscevo già. Poi ha ribadito che stanno esaminando le varie proposte e che, purtroppo, non escludono lo scavo di altri canali. In conclusione, tanto per dimostrare che non aveva capito le mie domande, mi ha ricordato che nel canale della Giudecca non transitano più navi commerciali o traghetti. Grazie tante! Io stavo parlando delle Grandi Navi”.
Ultima nota per la Chiesa Pastafariana che ha aderito alla manifestazione con una sua coloratissima imbarcazione piena zeppa di birre e di pirati: i “fritelli” della costa.
Non posso sapere dove fossero gli altri dei, ma il Grande Spaghetto – o il suo spirito spiritoso-, questo pomeriggio, era in fondamenta delle Zattere ad ascoltare il concerto ed a “birredire” i manifestanti con le sue Pappardellose Appendici.
Ramen.

La Venezia che (r)esiste in assemblea a Rialto per preparare la festa di domenica 25

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Venezia si prepara alla grande manifestazione contro le Grandi Navi, prevista per domenica 25 settembre. E lo fa con una partecipata assemblea svoltasi questo pomeriggio nel cuore stesso della città: nella pescheria di Rialto. Quel cuore che “no se vende” come i residenti hanno scritto a grandi lettere sotto quello che fu un tempo il primo palazzo del Doge. Tanta gente, tante associazioni hanno accolto l’appello dei No Grandi Navi a dare vita a questo dibattito, comprendendo che la battaglia contro il gigantismo navale non solo è una battaglia in difesa della città, della sua laguna e della salute dei suoi abitanti, ma è anche un grimaldello per affrontare tutte le tante questioni che riguardano Venezia, dal turismo di massa al tanto citato “degrado”. Dietro il No alle Grandi Navi, ha spiegato Marco Baravalle in aperture dell’assemblea, ci sono tanti Sì: sì a una città solidale e sostenibile, sì alle case per i residenti, sì al controllo del traffico acqueo, sì all’artigianato e alla vita a Venezia.
“Proprio qui a Rialto dove sopravvive il valore d’uso di uno dei luoghi storici di Venezia, vogliamo ribadire che la nostra idea di città è ben diversa da quello che ne ha la Giunta e le compagnie di crociera che la vedono solo come uno strumento di profitto - ha spiegato Baravalle -. Ed è proprio sulle idee e sulle proposte che possiamo vincere questa battaglia, di fronte ai balbettii di chi non sa proporre nessuna soluzione, noi ripetiamo ancora una volta che le grandi navi debbono stare fuori dalla laguna e che Venezia esiste e resiste”.

Marta Canino, portavoce dell’assemblea No Grandi Navi, ha spiegato come si svolgerà la manifestazione. “Sarà una grande festa che si svolgerà attorno ad una grande piattaforma galleggiante. La manifestazione ha le autorizzazioni in regola. Venite tutti, a piedi alle Zattere o in barca in canale della Giudecca domenica 25 pomeriggio per dare voce alla Venezia che vogliamo”. Tra gli ospiti che saliranno sul palco galleggiante ci saranno attivisti No Tav come Nicoletta Dosio, e portavoce di movimenti e associazioni ambientaliste di tanti Paesi d’Europa. Ci saranno anche musica e spettacolo, naturalmente. Tra gli artisti che hanno aderito all’iniziativa, ricordiamo Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli, sir Oliver Skardy, Herman Medrano, Marco Furio Furieri, i Rimorchiatori, Banda Nera, Storie Storte, 4 Rooms Family e Big Mike.

Non resta altro da dire se non “Ci vediamo domenica 25 settembre alle Zattere”

Dieci Sì per Venezia

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Diciamocelo pure: con l’amministrazione Brugnaro, Venezia ha toccato il punto più basso della sua storia millenaria. Prima causa di quel degrado e di quell’insicurezza contro cui sbraita ogni santissimo giorno chiedendo, come “unica soluzione”, poteri da “sceriffo” - del tutto fuori misura per un sindaco -, multe, daspo, vigilantes armati ad ogni angolo e altre amenità da guerra civile, il nostro poco amato sindaco si è rivelato del tutto inadeguato a gestire i problemi di una città unica al mondo e che ha sempre vissuto sul filo sottilissimo di un perfetto equilibrio mare/terra/laguna. Un equilibrio che già da un pezzo è andato a farsi fottere. E così, proprio nel momento in cui servivano scelte coraggiose, magari, per certi versi, anche impopolari ma comunque capaci di disegnare un futuro a partire da un passato che sui nostri canali continua scorrere assieme l’acqua, ci siamo trovati il Gigio da Spinea a far da padrone di casa. Con tutto quello che ne è conseguito. Mediocrità amministrativa (un Comune non è una azienda, ma questo non lo ancora capito e non lo capirà mai). Completa incapacità di immaginare un progetto a lungo termine atto a gettare le basi di un domani sostenibile per questa nostra città che, dicono, sia la più bella del mondo ma che non per questi deve necessariamente prostituirsi al turismo più becero, ignorante e danaroso.
Non dimentichiamoci inoltre, il dichiarato asservimento ai poteri forti - “Costa può fare quello che vuole con me come sindaco” - di cui il nostro personaggio si è sempre fatto vanto e che è uno stato d’animo naturale in un “imprenditore” che si è fatto i soldi vendendo il lavoro degli altri. Ma la cosa che più salta agli occhi, in tutta la sua foga amministrativa volta a svendere tutto quello che è svendibile, dai quadri ai giardini storici, è che al Gigio da Spinea, di Venezia, non gliene è mai fregato niente. “Trasferitevi in terraferma che è meglio”, l’ho sentito dire a dei ragazzi che manifestavano contro le Grandi Navi. Lui, in riva ad un canale, non ci abita e non ci abiterebbe mai. Non è uno di quelli che gli capita di svegliarsi “con l'acqua alla gola, e un dolore a livello del mare”, come cantava Guccini. Per lui, Venezia è solo una merce come tante altre. Proprio come il lavoro, i diritti, i beni comuni e l’ambiente. Finché ce n’è, si vende e si compra. Come tutto a questo mondo. Solo questione di “schei” e, naturalmente, anche di ordine pubblico. Misura indispensabile a far funzionare la “macchina dei schei” secondo i dettami del moderno capitalismo predatorio. Più in là di così, il Gigio non arriva. Eccolo a chiudere i gabinetti pubblici e a sbraitare se qualche disgraziato la fa in canale, ed a minacciare i turisti in bici - “Li colpiremo duro!”, come fossero terroristi dell’Isis - senza pensare che se non organizzi un deposito a piazzale Roma, chi arriva a Venezia sulle “due ruote”, per forza di cose se la deve tirare dietro. Come se fosse questo il famoso “degrado” che sta ammazzando la città!

Di contro, c’è un Governo che di Venezia non ha mai capito niente. Un Governo che ci ha regalato solo Grandi Opere e commissariamenti. Un Governo che da oltre 4 anni sta derogando dall’assumere l’unica soluzione atta a difendere la laguna, o quel che ne resta, dallo stupro, continuo e doloroso, delle Grandi Navi. Un Governo che ha consentito all’Autorità Portuale di regalare concessioni senza gare d’appalto alle lobby crocieristiche e di avviare, di fatto, la privatizzazione del porto con la benedizione della Regione e di Veneto Sviluppo. Un Governo che, tra progetti assurdamente secretati o decisamente farlocchi, e nonostante i tanti moniti dell’Unesco e di altri organismi internazionali di tutela, ha sempre evitato di assumersi la responsabilità dell’unica scelta logica e sostenibile per la città. Che poi è solo questa, semplice semplice: le Grandi Navi debbono rimanersene fuori dalla laguna.

E per ribadire a tutti, dalle lobby finanziarie, al Comune ed al Governo, che Venezia non è ancora morta e che il suo cadavere non è ancora in vendita, movimenti, ambientalisti, spazi sociali e le tante, tantissime associazioni che esistono e ancora lottano per una città diversa hanno organizzato una grande mobilitazione.
L’appuntamento è per domenica 25 settembre, a partire dalle 15.30 in Riva delle Zattere. Sarà una grande giornata di festa e di lotta per urlare al mondo che Venezia è incompatibile con queste sorte di inquinanti Villaggi Vacanza galleggianti chiamati Grandi Navi. Non solo. La giornata sarà anche una importante occasione per fare politica come questa dovrebbe essere sempre fatta: discutere assieme e provare ad immaginare una idea diversa della nostra città.

Domenica 25 settembre, gli ambientalisti di Venezia faranno un passo in avanti. E, in fondo, avanti di un passo, il movimento ambientalista lo è sempre stato, giusto? Ricordate le nostre critiche al Mose? Inutile, devastante e funzionale solo a far lievitare i costi e dirottare vagonate di fondi pubblici dalla salvaguardia ad aziende in odor di mafia e politici corrotti? Adesso pure il Gazzettino si è accorto che avevamo ragione!
Il passo in avanti che i cittadini di Venezia faranno domenica sarà quello di trasformare il No di protesta in Dieci Sì.

Sì a una città con un turismo su misura
Sì a alle case per i residenti
Sì a un controllo per i cambi d’uso per immobili
Sì a controllo del traffico acqueo
Sì a all’artigianato veneziano
Sì a a una vita a Venezia
Sì a al controllo dell’inquinamento dell’aria e del moto ondoso
Sì a una città solidale
Sì alle Grandi Navi fuori dalla laguna

Come dite? Solo solo nove? Avete contato bene. Ne manca uno. L’ultimo Sì. Quello che viene dai nostri cuori. Sì a riempirci il cuore di un infinito e disperato amore per la nostra bellissima e violentata città.

Intanto, in attesa del 25 settembre, aderite alla campagna “Venezia che parla dai balconi!” e fate sventolare su calli, fondamente e canali, una bandiera che racconti a chi passa sotto le vostre finestre che Venezia è ancora viva e che è qui, e solo qui, che vogliamo immaginare il nostro futuro.


L’appello del comitato Laguna Bene Comune No Grandi Navi alla mobilitazione
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/grandi-navi-a-venezia-storia-e-presa-in-giro-infinita-o-prossima-vittoria-per-la-citta-per-lambiente-e-loccupazione/20306

La pagina Facebook del Comitato
https://www.facebook.com/comitatonograndinavi/?fref=nf

e della campagna “Venezia che parla dai balconi!”
https://www.facebook.com/events/170389006698307/

"Ciao fossili" I cambiamenti climatici tra resilienza e futuro post carbon

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Si definisce un "transizionista", Luca Lombroso. Ritiene infatti, il nostro meteorologo di fiducia, che il "cambiamento verrà dal basso e dalle comunità resilienti in transizione post carbon". Ottimista sul futuro dell'umanità - più che per altro, perché essere pessimisti sarebbe troppo catastrofico e, forse, anche troppo facile - Luca Lombroso ha appena dato alle stampe il suo terzo e ultimo libro sul cambiamenti climatici: "Ciao fossili" edito da Artestampa, 17 euro ben spesi. Ultimo, sottolinea l'autore, non solo in senso temporale. "Mi auguro proprio di non dover scrivere più libri sui rischi dei cambiamenti climatici e che l'umanità cominci finalmente ad agire".
Il cambiamento dal basso che auspica Lombroso, riguarda semplicemente tutti e tutto. Niente e nessuno può chiamarsi fuori. Sarà una rivoluzione economica, tecnica, culturale ma anche etica e sociale. Soprattutto, sarà inevitabile. Ed è per questo che la prima parte del libro è una sorta di dizionario alfabetico per insegnarci a "convivere con la resilienza". Accanto ai capitoli che ti aspetti, come Bicicletta, Trivelle" e Biodiversità, troviamo Ogm ("Il problema del cibo - spiega Lombroso - non si risolve con gli Ogm. Anzi non si farebbe altro che rendere i piccoli produttori dipendenti dalle grandi compagnie abbassando la resilienza") e Sforzi Vanificati ("i politici per primi devono essere coerenti ed evitare che mentre vengono promossi iniziative di sostenibilità ... dall'altro si insista per costruire nuove autostrade, cercare petrolio e gas"). Con la categoria dei "politici", Luca Lombroso non ci va a nozze. E come dargli torto? Il politico più lungimirante lavora nell'arco del suo mandato. Cinque anni, forse dieci se riconfermato. Ma i tempi della terra non sono i tempi della politica. Per non parlare dei tempi dell'economia. Che non solo non sono i tempi della terra - né lo sono mai stai - ma nemmeno quelli dell'umanità. Dire "Ciao fossili", Lombroso lo spiega con coerenza ed efficacia, significa salutare per sempre una economia che ha mercificato ambiente, beni comuni e diritti. Significa lasciarci per sempre alle spalle una economia che ha trasformato in nostro futuro in uno sportello di bancomat.

Ma se la politica si rivela inadeguata, a chi spetta il compito di indicare all'umanità una nuova rotta attraverso il burrascoso mare della transizione? Racconta Luca Lombroso che, in seguito alla pubblicazione di Apocalypse Now? (che Luca venne a presentare proprio al laboratorio Morion, alla nostra scuola #ClimateChaos), le mail più intelligenti gli vennero spedite dai bambini. "Nelle giovani generazioni c'è una grande preoccupazione per il futuro e non comprendono l'immobilismo e il ritardo dei potenti, nonché l'insensibilità di tanti adulti". La speranza dell'umanità sta nella loro capacità di rispondere in maniera positiva agli eventi traumatici che, non c'è dubio alcuno, i cambiamenti climatici porteranno con sé, anche nella migliore delle prospettive possibili, e "nella capacità di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre senza perdere la propria umanità". In altre parole, nella resilienza.
Non è un caso che la seconda parte del libro sia tutta dedicata alla Cop 21 di Parigi, che Luca ha seguito dalla capitale francese, sottolineandone le manchevolezze e le ambiguità. Non fa mistero infatti, di preferirgli l'enciclica Laudato Si' di papa Francesco delle cui citazioni è infarcito il volume. Una lettura della Cop, quella di Lombroso, non del tutto negativa considerato che la Conferenza ha quantomeno sancito che le energie fossili sono dalla parte sbagliata della storia (quella che non ha futuro). Ma neppure totalmente positiva. Al massimo, l'accordo di Cop 21 può essere letto come una Costituzione ambientale. La prima Costituzione valida per tutta la terra perché del futuro della terra tratta. E, come tutte le costituzioni, ne sappiamo qualcosa in Italia come in Turchia, è fragile se non saranno i popoli a difenderla, inutile se non saranno i popoli a pretendere che venga applicata. Dall'altra parte ci sono i poteri forti della finanza, le multinazionali del fossile, politici inadeguati e senza coraggio, destre trasformiste che alzano muri di ignoranza per nascondere sotto le nebbie del nazionalismo e della xenofobia i veri problemi dell'umanità.
Loro non hanno futuro. Tocca a noi far sì che non rubino il nostro.

La laguna fa la festa alle Grandi Navi. Attivisti in acqua per impedire il transito

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Proprio come la Val di Susa. Magari con l’acqua al posto delle montagne, ma con la stessa identica voglia di resistere e di difendere la propria terra. Come i valsusini non mollano sulla Tav, così i veneziani hanno voluto ribadire ancora una volta che la laguna è un bene comune che non deve essere né mercificato né devastato. E proprio come in Val di Susa, la giornata di lotta è stata trasformata in un momento di festa popolare con musiche, canti e bandiere. Tutti in fondamenta alle Zattere, questo pomeriggio, per la Festa della Laguna davanti al canale della Giudecca trasformato in una autostrada per le Grandi Navi. Tutti a ribadire che quegli inquinanti villaggi turistici galleggianti sono incompatibili col delicato ecosistema lagunare. Tutti sostenere la ventina di sub - attivisti che anche quest’anno si sono gettati in acqua con maschera e pinne per impedire il passaggio di quei Mostri del mare. Guardia costiera, motoscafi della polizia e moto d’acqua non sono riusciti a fermare i nuotatori che, trincerandosi dietro tre grosse boe, sono riusciti a bloccare per tutto il pomeriggio il transito di tre grandi navi. Intanto, dalla riva, qualche centinaio di cittadini applaudiva e sventolava bandiere No Navi, mentre dal microfono si alternavano gli interventi degli ambientalisti che ricordavano perché queste speculazioni edilizie galleggianti sono incompatibili con la laguna di Venezia per via dell’enorme spostamento d’acqua che causa lo smottamento dei fondali e delle rive. Per non parlare dell’inquinamento da polveri sottili e ultra sottili che portano l’inquinamento di una autostrada a tre corsia all’interno dell’unica città al mondo senza auto.

Una situazione che non può più essere tollerata e alla quale la politica deve dare una risposta. E dovrà essere una risposta compatibile con l’ambiente e la tutela della salute dei veneziani. Soprattutto, dovrà essere una risposta partecipata e trasparente. Proprio quella che il Governo non vuole dare, considerando che proposte e alternative sono attualmente secretate ed è difficile seguirne anche l’iter procedurale. Il timore è che gli interessi dei grandi gruppi crocieristici e le acquisite rendite di posizione, pesino sulle scelte finali più della volontà di tutelare la città più bella del mondo.
Ed è proprio per ricordare a tutti che Venezia è la sua laguna, e difendere la laguna dalle Grandi Navi significa difendere la città, che le ragazze e i ragazzi degli spazi sociali, questo pomeriggio, non hanno esitato ad infilare le pinne e a tuffarsi, un’altra volta, in acqua. Proprio come in Val di Susa gli attivisti no Tav tagliano le reti dei cantieri.

Quella rapina a mano armata che chiamano TTIP

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Si scrive TTIP. Si legge “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, ma col "trade" e con la "partnership" non ci azzecca nulla. Nei media, l'acronimo viene comunemente tradotto con "trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti". Da cui si evince che, in questa storia brutta assai, anche il nome è sbagliato. Il TTIP infatti, non è un trattato sul commercio e sugli investimenti. E non perché lo scrivo io.
Lo ha sottolineato, tra gli altri, anche il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz in uno suo intervento al Parlamento italiano il giorno 24 settembre del 2014, che passerà alla storia per il totale disinteresse dimostrato dai nostri onorevoli. "Il TTIP non è un accordo di libero scambio, come vogliono farci credere - ha sottolineato il Nobel statunitense -. Un accordo simile potrebbe essere contenuto in tre pagine: noi eliminiamo le nostre barriere doganali e voi le vostre. Ma gli Usa non sono interessati ad un accordo di libero scambio. Gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio per favorire particolari interessi americano che non non sono neppure gli interessi dei cittadini americani. Ecco cosa è il TTIP. Questo è il motivo per il quale l'Ustr (United States Trade Representative, l'agenzia governativa che gestisce le trattative in materia.ndr) si è rifiutata di rivelare il testo dell'accordo anche ai membri del Congresso. Vogliono che i nostri e i vostri rappresentanti siano all'oscuro di quando contenuto nell'accordo. Figuriamoci i normali cittadini che non ne devono sapere assolutamente nulla".

La segretezza con la quale sono condotte le trattative su un piano economico che, nel bene e nel male, coinvolgerà oltre 820 milioni di persone tra cittadini europei e statunitensi, e alla fine dovrà essere ratificato da un parlamento europeo che, per ore, non ne sa assolutamente niente, è il primo punto che fa suonare una campanella d'allarme.
Nell'unico documento ufficiale diffuso dall'Ue si leggono obiettivi quanto meno superficiali e generici, tipo
«aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche..." e via discorrendo. Ma perché tanta segretezza allora? Tutti si spiega con le bozze di accordo, pubblicate e mai smentite dalla Ue, da settimanali come il tedesco Zeit o lo Huffington Post che hanno messo in evidenza come la direzione generale commercio della Commissione europea (l'unico "ministero" preposto alla trattativa con gli Usa) stia tramando - non trovo parola migliore - per portare avanti una liberalizzazione feroce che farebbe la felicità degli economisti della scuola di Chicago.
Il
TTIP punta infatti ad eliminare tutti i dazi sugli scambi bilaterali di prodotti, liberalizzare tutti i servizi e gli appalti, con conseguente perdita del lavoro per delocalizzazione in mercati più convenienti (e con meno diritti sociali e ambientali) e il decadimento delle norme a favore dell'imprenditoria locale in tema di forniture pubbliche,. Inoltre, il TTIP punta a tutelare i grandi investitori con l'introduzione dell'Isds (Investor to State Dispute Settlement) che consente ai finanzieri di citare in giudizio i Governi e, di fatto, assoggetta gli Stati nazionali ad un diritto tagliato apposta per le multinazionali.
Tra le altre conseguenze denunciate da pressoché tutte le associazioni europee di consumatori e di tutela dell'ambiente, sono state evidenziate una maggior dipendenza dal petrolio (Cop21 ci fa una pippa!), la mercificazione del territorio e dei beni comuni, un aumento dei rischi per la salute perché verrebbero meno tutte le garanzie ed i controlli sui farmaci e sugli alimenti.
Senza contare che per la frammentata agricoltura europea che oggi punta sulla qualità del prodotto, la scomparsa delle protezioni doganali sarebbe il colpo finale e le culture Ogm sarebbero invocate come la sola soluzione possibile per allineare il settore a quello d'oltre oceano.
In poche parole, il Ttip altro non è che una rapina a mano armata che spazzerebbe via le piccole e medie aziende europee a favore delle grandi multinazionali. E con loro, quello che resta di una democrazia rappresentativa che già adesso, in Italia come in Europa, non rappresenta più nessuno.

Una storia, questa dei trattati Usa per il "libero scambio", che sbarca in Europa dopo aver fatto piazza pulita dell'economia dell'America latina.
Le conseguenze di un simile accordo economico lo possiamo già vedere nell'odierno Messico dove, il primo gennaio 1994, gli Stati Uniti imposero il Nafta (
North American Free Trade Agreement) e la nazione centroamericana perse, con la sua indipendenza economica, anche la sua sovranità, consegnando il suo territorio alle multinazionali minerari e la sua democrazia alle multinazionali del narcotraffico.

Quel giorno, nel Chiapas, qualcuno disse che era ora di finirla. Occupò cinque città in armi e salì sul balcone del municipio di San Cristobal per gridare "Ya basta" ed annunciare al mondo intero che, se la scelta era tra morire combattendo o morire di fame, loro sarebbero morti combattendo.

Fin che la barca va, l'inquinamento aumenta

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Peggio di Pechino. Per quanto riguarda le polveri ultrasottili, le particelle con un diametro inferiore a 2,5 µm (un quarto di centesimo di millimetro), l'aria che si respira a Venezia è più pericolosa di quella che ammorba i cieli eternamente grigi della capitale cinese. Ad affermarlo è un esperto di inquinamento atmosferico del calibro di Axel Friedrich, già capo divisione del settore Ambiente e trasporti della Germania e uno dei fondatori dell'Icct, il consiglio internazionale per i trasporti puliti. Per quattro giorni, da venerdì 15 a lunedì 18 aprile, il dottor Alex e il suo staff hanno monitorato con le loro apparecchiature scientifiche l'aria di Venezia e i risultati, presentati oggi alla sede della Municipalità di San Lorenzo, sono davvero preoccupanti. L'iniziativa è stata organizzata dall'associazione Ambiente Venezia in collaborazione con la Nabu tedesca.
Sotto osservazione, in particolare, l'inquinamento atmosferico che deriva dal traffico navale e dal via vai di Grandi Navi al porto di Venezia. "Ho effettuato valutazioni dell'aria in tanti porti e tante città - ha dichiarato Axel Friedrich - ma un inquinamento simile non l'ho mai rilevato. In Italia, si continua a permettere alle navi di bruciare carburante di pessima qualità e di non adoperare i filtri antiparticolato con conseguenze tragiche per la salute di migliaia e migliaia di cittadini, per non parlare degli effetti nefasti sul clima, sull'ambiente e anche sui monumenti. I Paesi che si affacciano nel mare del Nord e nel mar Baltico, invece, hanno ottenuto per le loro acque il riconoscimento dell'area Seca (SOx Emission Control Area. ndr) migliorando notevolmente la qualità dell'aria".

In Italia le cose marciano diversamente, le lobby crocieristiche giocano al risparmio, e di filtri e di carburanti a basse emissioni non vogliono sentir parlare. Anche l'accordo Venice Blue Flag con il quale le compagnie si impegnavano ad abbattere la percentuale di zolfo nei carburanti utilizzati in entrata e in uscita del porto, lascia il tempo che trova, considerato che nessuno ha mai effettuato un serio controllo sulle emissioni e che gli stessi dati ottenuti dallo staff di Friedrich dimostrano tutto il contrario. Vedi i picchi registrati ogni qualvolta volta che una nave transitava per il canale della Giudecca.
Le modalità con le quali l'Arpav controlla le emissioni, infatti è uno dei punti focali delle critiche dello scienziato tedesco. Ad oggi c'è una sola centralina in tutta la laguna e sistemata, per di più, a Sacca Fisola. Cioè sottovento rispetto ai principali venti che soffiano a Venezia che sono quelli di bora. "Un posto perfetto per dimostrare che l'inquinamento non esiste. Se proprio vogliono usare una sola centralina dovrebbero sistemarla dove c'è più flusso di persone e dove batte di più l'inquinamento. A San Marco, per esempio. Là noi abbiamo rilevato i picchi più preoccupanti".
Da sottolineare che, pur se misurati con un arbitraggio... "casalingo", i dati raccolti dalle centraline Arpav in questi primi mesi dell'anno hanno ugualmente sforato i limiti di legge. E che in Italia si continua a morire di inquinamento lo afferma anche l'Unione Europea, che ha sanzionato il nostro Paese per mancanza di interventi a tutela della salute dei suoi cittadini. Secondo l'agenzia Ambiente europea, sarebbero oltre 50 mila in Italia le morti premature dovute agli inquinanti atmosferici.
Una situazione criminale nella quale Governo, Regione e Comune, a veri livelli, si guardano bene dall'intervenire preferendo continuare con la politica dello struzzo. Tanto per citare un esempio, da quest'anno la normativa rende obbligati i controlli delle polveri ultra sottili (proprio queste misurate dal dottor Friedrich) ma l'Arpav non è ancora stata dotata degli strumenti per effettuare un corretto monitoraggio. E stiamo parlando di apparecchiature che costano poche migliaia di euro.
Non ci sono soldi o non c'è la volontà politica di affrontare una situazione che imporrebbe scelte radicali e ben diverse da quella di continuare a far fare passerella in laguna alle Grandi Navi?
Ma sappiamo già da che parte pende la bilancia quanto il governatore Luca Zaia e il sindaco Gigio Brugnaro, mettono sul piatto la salute dei cittadini e gli interessi delle grandi lobby.
Fin che la barca va, lasciala andare.

Non solo il mare. Il petrolio inquina anche la politica e la democrazia

petrolio
Di Cop21 abbia già scritto in tante occasioni. Così come in tante occasioni abbiamo sottolineato l’ipocrisia di un premier come il nostro Matteo Renzi che dinanzi alla platea parigina si spertica in lodi sui progressi fatti dal nostro Paese verso una politica energetica basata sulle rinnovabili, salvo poi tornare a Roma per inserire nello Sblocca Italia tutti gli emendamenti volti a favorire gli amici petrolieri ed atti a consentire alle compagnie di trar profitto, inquinando, sin dentro ai parchi naturali, come quello del Pollino. Eppure, che il petrolio e le energie fossili non abbiano un futuro, è stato ampiamente ribadito alla conferenza sui cambiamenti climatici. Che l’economia debba abbandonare lo sfruttamento di risorse inquinanti e, per di più, in via di esaurimento è un impegno che tutti i Governi mondiali, sia pure con vari distinguo, si sono assunti. Compreso quello italiano che ora ci racconta che non serve andare a votare al referendum sulle trivelle e che il nostro futuro energetico è ancora basato sul petrolio.
Il problema sta tutto nel fatto che l’oro nero non inquina solo l’ambiente ma la stessa democrazia.

E’ appena il caso di ricordare come proprio il petrolio sia stato, ed è tutt’ora, un formidabile veicolo di corruzione in tutta la terra. Non ultimi, i Paesi del sud del mondo dove le briciole di bilancio di una qualsiasi compagnia petrolifera sono sufficienti per comperarsi l’intero Governo, con apparato burocratico in gentile omaggio.
Global Witness, una bene informata associazione internazionale che monitora i legami tra povertà, corruzione, violazione dei diritti umani e sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi meno industrializzati, ha identificato nel petrolio e, in generale, nelle risorse minerarie il settore di maggior rischio di corruzione. Su 427 casi “ufficiali” monitorati nel 2014, il 20% di questi è imputabile al settore estrattivo.
Un effetto dovuto alla sproporzione tra la debolezza economica del tessuto sociale del Paese sfruttato e i profitti miliardari delle compagnie, certo. Ma il petrolio è anche causa di questa sproporzione perché alimenta regimi corrotti e totalitari, fomenta sanguinose guerre e trova nella diseguaglianza e nelle ingiustizie sociali un fertile concime sul quale prosperare.

Pensiamo solo alla Nigeria dove il settore petrolifero rappresenta il 14,4 % del pil. Il recente scandalo che ha coinvolto l’Eni e alcune sue associate come la Saipen ha portato al sequestro di oltre 200 milioni di dollari in conti svizzeri di presunta corruzione per le concessioni di sfruttamento dei giacimenti marini.
Nell’interessante dossier di Legambiente “Sporco petrolio”, la situazione viene egregiamente riassunta con questa parole. “La corruzione è un micidiale strumento per aggirare leggi e processi democratici, per spostare ingenti risorse economiche in capo a pochi soggetti in grado di organizzare e gestire reti di corruttele e malaffare, per drenare a costi irrisori risorse pubbliche alle comunità locali, lasciando sul posto solo una lunga scia di problemi ambientali”.

E questo non vale solo per la Nigeria e per gli altri bacini del sud dove si estrae l’oro nero, come l’Amazzonia, ma anche per Paesi industrializzati come la nostra povera Italia. Anche solo considerando gli scandali petrolifici degli ultimi due anni, tra manager, funzionari pubblici e “amici di amici” sono stati indagati e, in alcuni casi, già condannati, ben 189 persone per reati che spaziano dall’inquinamento alla corruzione, dalle frodi fiscali alle truffe.
Il caso della Tempa Rossa è solo l’ultimo di un lungo elenco che, facciamo una facile previsione, è tutt’altro che concluso.

Il petrolio, in altre parole, potrebbe ben essere annoverato nell’elenco delle tante Grandi Opere che ammorbano il nostro Paese, pur se con una valenza più internazionale. Ogni tanto, la magistratura mette le manette a qualche alto dirigente e tutti a gridare allo scandalo della “male marcia” infiltrata - chissà come? - in un sistema produttivo che si continua a definire immacolato. Poi tutto continua come prima sino al prossimo scandalo.
Il punto della questione invece, sta nel fatto che il sistema petrolio continua a funzionare ed a macinare profitto privato solo se assieme all’oro nero produce anche corruzione, devastazione ambientale, disuguaglianza sociale, criminalità organizzata e impoverimento della democrazia. Senza queste situazioni a contorno, il gioco non vale la candela.
Solo in termini di emissioni di C02 - e senza considerare sversamenti eccezionali o anche i “normali” danni all’ambiente che sono impliciti nell’attività estrattiva e che i petrolieri non pagano mai -, un barile di petrolio ha un costo di circa 100 dollari. Se consideriamo che, pur tra altalenanti fluttuazioni, il prezzo del petrolio si aggira sui 30 dollari a barile, è chiaro che questa differenza o la paga lo Stato, oppure l’investitore gioca in perdita.
Una corruzione diffusa a tutti i livelli ed un controllo totalitario sull’opinione pubblica sono elementi senza i quali il sistema petrolio non potrebbe funzionare. A questo punto viene solo da chiedersi coma mai qualcuno si stupisca ancora che l’economia fossile è andata in crisi nera.
Quel che le trivelle estraggono dai giacimenti in fondo al mare, in altre parole, non devasta solo l’ambiente ma anche la nostra democrazia.

Non è un Paese per ambientalisti. Lo scandalo Tempa Rossa travolge la ministra per lo Sviluppo economico

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«La chiamo per darle la buona notizia, si ricorda che tempo fa c’è stato casino e che avevano ritirato un emendamento? Pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato... pare ci sia l’accordo con Boschi e compagni. È tutto sbloccato». Questa è la trascrizione della telefonata effettuata il 5 novembre 2014, dal petroliere Gianluca Gemelli, compagno della ministra per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, al dirigente della Total Giuseppe Cobianchi.
La “buona notizia” in questione è che il progetto Tempa Rossa, un inquinante impianto di estrazione a Corleto Perticara, in provincia di Potenza ed a ridosso dal parco nazionale dell’Appennino lucano, inizialmente stralciato dallo Sblocca Italia, era stato reinserito grazie alle pressioni della compagna ministra. Cinque minuti prima, la stessa ministra aveva telefonato al Gemelli, rassicurandolo sul suo progetto. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte”. La Maria Elena in questione, è la ministra con delega all’attuazione del Programma di Governo, Boschi. Altro personaggio che puntualmente sale alle cronache per le strette parentele finite sotto inchiesta, come nel recente caso di Banca Etruria.
L’emendamento è stato puntualmente approvato e ancora una volta il nostro Paese ha svenduto un suo pezzo di territorio pubblico ai petrolieri privati. Un “regalo”, per le sole aziende di Gianluca Gemelli di circa 2 milioni e mezzo di euro di subappalti.
Da sottolineare che il progetto è stato approvato qualche giorno prima che il nostro capo di Governo, Matteo Renzi, volasse a Parigi, davanti all’assemblea di Cop21, per raccontare quando brava fosse l’Italia ad investire sulle rinnovabili.


Stavolta però la pubblicazione dell’intercettazione che non lascia spazio ad equivoci, ha inguaiato la ministra che proprio ieri ha rassegnato le dimissioni. Dimissioni chieste dall’opposizione ma prontamente accettate anche dalla maggioranza. Va sottolineato che il solo a non voltarle le spalle è stato Silvio Berlusconi che per le intercettazioni, evidentemente, ha una idiosincrasia tutta sua, e non ha perso l’occasione di bollarle ancora una volta come “inaccettabili” in un Paese democratico.
C’è da dire che le intercettazioni sono solo l’aspetto più teatrale di una inchiesta sulla quale la Procura di Potenza sta indagando da quasi tre anni e che ha messo sotto inchiesta una sessantina di persone, tra ex sindaci, dirigenti dell’Eni e di altre aziende appaltatrici, dirigenti regionali e dipendenti pubblici. Oltre al già citato Gianluca Gemelli, proprietario di ben due società petrolifere, accusato di concorso in corruzione e millantato credito per aver promesso vantaggi agli imprenditori in cambio del suo rapporto col ministro.
Sotto sequestro preventivo, sono state posti gli impianti incriminati, bloccando l’attività in Val d’Agri dove si estraevano circa 75mila barili di petrolio al giorno.
Secondo gli inquirenti, i dirigenti dell’Eni, accusati di traffico e smaltimento illecito di rifiuti, sforavano volutamente il tetto di inquinamento imposto dalla normativa e inviavano dati “non corrispondenti al vero, parziali o diversi da quelli effettivi” agli enti di controllo. I rifiuti pericolosi inoltre, venivano trasformati in ordinari e smaltiti come tali con la complicità delle aziende appaltatrici con un guadagno valutabile, sempre secondo la magistratura, tra i 44 e i 110 milioni all’anno.
"Per risparmiare denaro si sono ridotti ad avvelenare il territorio con meccanismi truffaldini” ha sintetizzato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che in conferenza stampa ha restituito il quadro di un fitti intreccio di rapporti malavitosi tra petrolieri e politica, con la complicità delle strutture regionali di controllo.

Il tutto a pochi giorni dal referendum sulle attività estrattive in mare. Giustizia ad orologeria? Il procuratore Roberti nega decisamente: “Le richieste di misura cautelare sono state presentate tra agosto e novembre del 2015. Prima del referendum e in tempi non sospetti”. La pubblicazione delle intercettazioni ha comunque fatto arrabbiare Matteo Renzi che si è sperticato ad assicurare che lo scandalo della Tempa Rossa e le dimissioni del suo ministro non hanno nulla a che vedere con il Sì al referendum del 17 aprile.
La realtà è un’altra. Ancora una volta, le inchieste della magistratura non hanno fatto altro che confermare - pur con il consueto ritardo - le tesi degli ambientalisti secondo le quali il Governo Renzi si fa forte di uno strettissimo legame con le lobby petrolifere. Lobby che perseguono interessi propri, non di rado con metodi truffaldini per non dire mafiosi, inquinando il Paese e mercificando beni comuni.
Le dimissioni della ministra Guidi dimostrano che dietro l’attività estrattiva si celano interessi privati miliardari e non il semplice mantenimento dei posti di lavoro, come sostengono i fautori del No.
Come è stato per l’acqua, il referendum sulle trivelle ha una valenza politica che travalica il quesito sull’opportunità di rinnovare o no le concessioni estrattive a mare.
Il voto del 17 aprile sarà una occasione per ribadire al Governo che il futuro energetico che vogliamo per il nostro Paese è quello che la stessa Italia si è impegnata a costruire a Cop21. E non è quello che continua ad inseguire quei combustibili fossili tanto cari ai loro “amici” petrolieri.

Comincia la battaglia per difendere il nostro futuro dalle trivelle. A Venezia si costituisce il comitato per il Sì

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Votare Sì per difendere il nostro mare, il nostro futuro e anche il nostro lavoro. Perché, checché ne dicano i fautori del no, l’economia di domani sarà tutta sulle rinnovabili e i combustibili fossili, Cop21 ci insegna, appartengono al passato dell’umanità.
Quello sul quale gli elettori saranno chiamati ad esprimersi, domenica 17 aprile, è un referendum senza storia perché, contrariamente a quanto accaduto per l’acque e il nucleare, i sostenitori delle trivelle, che alla fin fine sono solo i petrolieri, non hanno nessun argomento valido da opporre alle tesi ambientaliste. Le attività estrattive contribuiscono al bilancio nazionale per appena 340 milioni di euro all’anno. Come dire che solo a fare il referendum si spende di più. In compenso, “regalano” al nostro Paese, inquinamento del mare e delle falde, subsidenza e un forte rischio ambientale.
Il “No” non ha ragioni da vendere e per questo punterà sulla disinformazione e sull’astensione. “A poche settimane dal referendum il 50 per cento degli italiani non sa neppure che si andrà a votare” spiega Michele Boato, del comitato per il Sì. Il lavoro degli ambientalisti e di quei partiti come i 5 Stelle, Sel, Verdi e anche la Lega Nord, (folgorata sulla via dell’ecologia?) dovrò puntare tutto ad informare gli italiani, a far sapere loro che domenica 17 si aprono le urne e che è importante depositarvi dentro la propria scheda.

Questa mattina a Venezia si è costituito il comitato Vota Sì per fermare le trivelle. Tra i presenti, oltre al Boato, Paolo Cacciari, Salvatore Lihard, Isabella Albano, Cristiano Gasparetto e altri.
“Non è solo una questione ambientale – ha rimarcato Cristiano Gasparetto di Italia Nostra – Si tratta di riprenderci in mano il nostro destino contro delle prese di posizione arbitrarie di un Governo che tratta i cittadini come sudditi”.
Come già dicemmo per l’acqua, si scrive “trivelle” si legge “democrazia”

Dalla Val di Susa alla Laguna. La battaglia è per la democrazia

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Di zone rosse ne abbiamo viste tante. Di reazioni spropositate da parte delle cosiddette “forze dell’ordine” ancora di più. Ma quanto accaduto oggi in bacino San Marco va oltre ogni comprensibile logica anche militare di difesa di due capi di Stato. Diciamola tutta: San Marco era presidiata da tante e tali forze di terra, di cielo e di mare che ci si poteva liberare dieci Kobane. La reazione al tentativo di violare il cordone di sicurezza da parte di una decina di imbarcazioni da laguna, che ha scatenato speronamenti e idranti da parte di navi militari da guerra, testimonia una volta per tutte lo scollamento che è in atto nel nostro Paese - ma potremmo anche scrivere in Europa - tra il potere politico e la cittadinanza.
Il palazzo Ducale di Venezia (e dei veneziani!) che, ricordiamolo, ai tempi dei Dogi non è mai stato difeso da una milizia armata in quanto il popolo doveva avere il potere e la possibilità di rovesciare il governo dogale qualora questi avesse contro la città e la sua laguna, è stato usato dal premier Matteo Renzi come una prestigiosa ed esclusiva location per un vertice con il suo parigrado francese, François Hollande. Vertice in cui si è discusso, tra le altre cose, di una eventuale guerra di cui non solo i semplici cittadini ma ma neppure i parlamentari sanno qualcosa.


Quanto è successo a Venezia, quindi, chiarisce una volta per tutte che la battaglia dei No Tav non è solo contro l’Alta Velocità, quella dei No Grandi Navi non è solo contro i condomini galleggianti che devastano la laguna, la battaglia contro le trivelle non è solo per difendere il mare e far rispettare gli accordi - che lo stesso Renzi aveva sottoscritto - di Cop21, quella degli studenti medi (confortante la loro massiccia presenza al corte) non è solo per la scuola… E’ una battaglia di tutti per riportare in Europa quella cosa che oramai non esiste più: la democrazia.

Intendiamo, parliamo di una democrazia reale, dal basso e partecipata. Una democrazia che non può esaurirsi in una croce su una scheda per eleggere un parlamento che oramai non conta più niente.Ma una democrazia che consenta alla cittadinanza di gestire in autonomia il proprio territorio e di rifiutare le Grandi Opere finalizzate non a rispondere ai bisogni della collettività ma per dare linfa ad una economia mafiosa e militarizzata che trita ambiente, diritti e beni comuni. Perché i valsusini non vogliono la Tav, così come i veneziani non vogliono le grandi navi o il Mose. E’ la mafia capitale a volerle. La soluzione non è la magistratura. Non lo è mai, la magistratura una soluzione. Casomai questa può solo dimostrare il fallimento della politica. E il fallimento della politica, scritto con gli idranti di questa mattina, è l’aver demandato i suoi compiti e le sue prerogative ad un capitalismo predatorio, ultimo epigone di una economia devastata e devastante.

Una economia che, come è stato dimostrato a Parigi, non ha più futuro o, meglio, non è più in grado di costruire futuro per l’umanità. Quello che accadrà domani lo dobbiamo costruire sin da oggi. E la strada giusta non è quella del vertice militarizzato ma di quei ragazzi che oggi sono venuti in duemila a Venezia per difendere la Val di Susa e la laguna e chiedere giustizia climatica, diritti e democrazia.

Quei buchi nell’acqua chiamati trivelle. #CementoArricchito

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Qualsiasi giudizio si possa dare su Cop21, su un punto tutti i commentatori si sono trovati concordi. Il vertice mondiale sul clima, svoltosi a Parigi nelle due prime settimane di dicembre, ha posto una pietra tombale sui combustibili fossili.
Vero che l’opposizione di alcuni Paesi petroliferi, come l’Arabia Saudita, ha impedito che nell’accordo finale comparisse il termine “decarbonizzazione”, ma è pure vero che, se davvero vogliamo anche soltanto provare a contenere l’aumento globale della temperatura "ben al di sotto di 2 gradi Celsius in più rispetto ai livelli pre-industriali” - come si legge nel documento conclusivo - tutti gli Stati firmatari dovranno impegnarsi sin da subito a trovare alternative energetiche sostenibili.
In altre parole, gli idrocarburi come il petrolio, il carbone in tutte le sue forme, il gas come il metano, sono stati definitivamente buttati fuori della storia dell’umanità.
O non ci sarà futuro per questi combustibili, o non ci sarà futuro per l’umanità.


Fa riflettere quindi che, neppure un mese dopo gli incontri parigini, dove tanto il premier Matteo Renzi, quanto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, vantavano l’Italia come uno dei Paesi più virtuosi e pronti a fare carte false per mantenere il surriscaldamento globale nei limiti proposti, il Governo varava uno Sblocca Italia tutto incentrato su Grandi Opere, consumo indiscriminato del territorio e, dulcis in fundo, dichiarasse “strategico” un piano di trivellazioni che aveva fatto infuriare non solo i “soliti” ambientalisti ma addirittura gli enti locali.
Tanto è vero che la richiesta del referendum popolare sulle trivellazioni in programma il prossimo 17 aprile, è stata presentata, come prescrive la Costituzione, da dieci Regioni interessate, tra le quali il Veneto. Ed è la prima volta, nel nostro Paese, che un quesito referendario viene presentato dai governi regionali. Tra l’altro, in numero doppio rispetto al quorum prescritto che è di cinque.

Come sia possibile che enti non sempre coerentemente schierati su tematiche ambientaliste come le Regioni, siano stati così solerti nell’accogliere le pressioni referendarie provenienti dal mondo ecologista, è presto detto. Per i governo locali, le trivelle sono soltanto un buco nell’acqua: nulla hanno da guadagnare e tutto da perdere, nel caso, non certo impossibile, di uno sversamento o di altre conseguenze inquinanti.
Come ha spiegato, in un incontro pubblico Venezia, Andrea Boraschi, responsabile energia e clima di Greenpeace, i permessi di ricerca e di sfruttamento di idrocarburi, altro non sono che un regalo ai petrolieri a spese dei cittadini. “Il petrolio estratto in Italia non appartiene alla nazione ma alle compagnie petrolifere. Il quantitativo estratto andrebbe inoltre a coprire il consumo nazionale per sole 7 o 8 settimane, così come le riserve di gas non durerebbero più di 6 mesi”.
Perché allora le compagnie come l’Eni, pronta a trivellare a poca distanza da un parco naturale come quello del Delta del Po, sono disposte ad accollarsi questi impegni economici? “Perché le royalties, i diritti di concessione, da noi, sono i più bassi del mondo, e non superano il 7% di quello che si estrae - ha concluso Boraschi -. Per questo parliamo di regalo di Natale ai petrolieri”.

A far da contrappeso, nell’altro piatto della bilancia, c’è un… mare di rischi. Anche senza arrivare al pericolo di scatenare reazioni di subsidenza - punto sul quale la comunità scientifica ha opinioni divergenti - rimane il costante rischio di sversamento. Ipotesi accreditata anche dall’alta sismicità dell’area in cui dovrebbero sorgere le piattaforme. Di disastri marini legati all’estrazione o al trasporto di combustibili fossili, ne abbiamo già registrati tanti al mondo. Anche a considerare solo l’aspetto economico, i costi per la collettività si sono rivelati assolutamente sproporzionati ai vantaggi. Inoltre, tutti questi disastri si sono verificati nell’oceano. Cosa succederebbe in caso di sversamento in un mare chiuso come quello Adriatico, a poche miglia marine dalla laguna di Venezia e da tante spiagge che vivono di turismo?

Preoccupazioni queste, che investono anche settori non propriamente vicini all’ambientalismo, come quello degli albergatori e degli stessi pescatori.
“Le compagnie petrolifere ci hanno offerto qualche migliaio di euro come indennità in previsione di un ridimensionamento della pesca dovuto alle loro attività - ha raccontato Giampaolo Buonfiglio, presidente delle cooperative italiane pesca -. Ma come potremmo accettare? Nel solo Veneto, ci sono migliaia di barche e di famiglie che campano solo di questo lavoro”.

Da Venezia, la mobilitazione in vista del vicino referendum si è allargata a tutta la Regione. Comitati popolari e associazioni ambientaliste hanno organizzato sit in, incontri pubblici e colorate iniziative in tutte le provincie.
I sostenitori del No punteranno soprattutto sull’astensione ed a sminuire la portata del referendum. “E’ sbagliato pensare che con questo referendum l’Italia venga chiamata a scegliere tra i combustibili fossili e la ricerche sulle fonti di energia rinnovabili - commenta il consigliere emilianoromagnolo del Pd Gianni Bessi -. Le due cose devono andare avanti insieme”.

Di opposto avviso gli ambientalisti. “Invitiamo tutti gli italiani ad andare a votare ed a votare Sì - spiega Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto -. La nostra battaglia contro le trivelle non è solo contro le trivelle. Il referendum dovrà anche essere un segnale forte per il Governo Renzi affinché si decida a tradurre in pratica gli accordi di Parigi. I combustibili fossili devono essere abbandonati per investire sulle energie rinnovabili, le sole capaci di regalarci davvero un futuro”.

In nome del popolo asfissiato

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Titola la Tribuna “Pm10: l’aria di Treviso quasi pari a quella di Marghera”. Occhiello: “E il resto del Veneto non va certo meglio”. A veneziani e margheritini non farà piacere che l’aria che si trovano a respirare tutti i giorni sia considerata un metro di paragone per la tossicità e non sarà neppure di consolazione sapere che oramai tutto il Veneto, ma potremmo dire tutta la pianura padana, sia diventata una gigantesca “Marghera”.
L’allarme, si legge sempre sulla Tribuna, è stato dato dall’ambientalista Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità di Marghera, dalla sua pagina Facebook il 31 dicembre. Ultimo giorno di un anno, tra l’altro, superiore alla media in quanto piovosità. In questa prima quindicina di gennaio, caratterizzate da una marcata siccità, la situazione è alquanto peggiorata. Gli sforamenti dei limiti di sicurezza delle polveri sottili registrati dalle centraline Arpav in tutta la Regione sono oramai una norma. E la cosa più grave è che tutto ciò avviene nella completa indifferenza dei nostri amministratori. “Speriamo che piove presto - si è limitato a dichiarare il governatore veneto, Luca Zaia -. Questo è l’unico rimedio”.
Certo. La pioggia è un rimedio. Ma starsene con le mani in mano in attesa della pioggia è un delitto. Ci sono tanti provvedimenti che si possono, che si debbono prendere. Provvedimenti, lo sappiamo bene, anche assai impopolari per l’elettore medio come il blocco della circolazione, ad esempio, ma indispensabili in un momento in cui la salute di tutti è messa a rischio. Provvedimenti che, chi governa, non può esimersi dal varare.


Ci sono cose da fare subito a livello locale, e cose da fare subito a livello nazionale. Ci sono cosa da fare a lungo termine a livello locale, e cose da fare a lungo termine a livello nazionale.
Ma, sempre e comunque ci sono “cose” da fare, se non vogliamo asfissiare.
Ci sono interventi contingenti ed urgenti, ed interventi strutturali a lungo termine. Interventi di competenza dei Comuni, delle Regioni e, per quanto riguarda una strategia d’insieme, anche del Governo.

A livello locale, bisogna bloccare le fonti di emissione più impattanti, organizzare un lavaggio quotidiano delle strade più trafficate, mettere mezzi pubblici gratuiti o a prezzo ridotto, limitare il traffico ordinario.
A livello regionale e nazionale, bisogna avviare una radicale conversione energetica, proprio come prevedono gli accordi di Cop21: incentivare auto e mezzi elettrici, ed il riscaldamento con più metano e più solare e meno biomassa e meno carbone, chiudere gli inceneritori e le centrali a carbone più vecchie (come è stato fatto a Marghera dalla precedente Giunta) e ambientalizzare le più moderne con una conversione dell'apparato produttivo in chiave meno impattante, limitare l'impatto di aerei e navi (quelle “grandi” prima di tutto!), potenziare nelle città la mobilità ciclopedonale, espandere le grandi aree verdi intorno alla città come il bosco di Mestre, ed i parchi ed i giardini interni, offrire incentivi e obblighi per mutare il sistema di riscaldamento dei condominii e degli uffici, delle scuole, degli ospedali.

“Sperare che piova”, non serve a niente. Situazioni come questa che stiamo vivendo sono entrate oramai nella normalità.
“L'emergenza era prevedibile”, ha commentato Bettin su Fb. “Bisognava creare i tavoli regionali e nazionale di coordinamento e predisporre i piani integrati già da settembre o ottobre. Tutto questo va coordinato e predisposto per tempo: perciò è indecente, ai limiti del crimine, che siano passati quaranta giorni senza che il governo centrale e i governi regionali si muovessero. Incompetenti, negazionisti della crisi climatica e complici dei peggiori interessi, però, non potranno mai farlo. Ed infatti…”

Se non si muovono gli amministratori, si muove la gente. Ecco perché il
comitato Marghera libera e pensante, ha invitato la cittadinanza alla mobilitazione.
L’appuntamento è per sabato prossimo, 23 gennaio, alle ore 11, davanti alla sede dell’Arpav, cavalcavia Giustizia.

Non sono tollerabili, afferma il comunicato dell’associazione, “oltre 70 sforamenti dei limiti massimi in un anno e nessun straccio d'intervento da parte della Regione del Veneto e Comune di Venezia”.
“Non è possibile avere centraline come quella di via Beccaria - si legge - che rilevano giorno dopo giorno sforamenti dei PM10 e non aver nessun intervento che ne riduca la produzione”.

Italia in stile gruviera. Il Governo apre la porta alle trivellazioni e rinnega Cop21

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Dimenticate Parigi. Dimenticate la Cop 21 e il documento conclusivo dell’assemblea delle nazioni che decreta la fine dell’epoca dei combustibili fossili. Dimenticate tutte le promesse di ministri e capi di governo di tutto il mondo. Dimenticate soprattutto, le sparate di Matteo Renzi che giurava di come l’Italia fosse pronta ad investire sulle rinnovabili. Dimenticate tutto questo.
Facciamo finta che i cambiamenti climatici siano il parto di un fecondo scrittore di fantascienza, che i combustibili fossili non siano in via di esaurimento e che l’inquinamento atmosferico sia l’ultimo dei problemi dall’umanità. Immaginate anche, se ci riuscite, che le emissioni di scarico siano un toccasana per la salute. Immergetevi in questo scenario idilliaco e converrete che la sola idea di trivellare mezza Italia per cavarne qualche goccia di petrolio è ugualmente - per dirla come ebbe a dirla Fantozzi della Corazzata Potëmkin - una cagata pazzesca.

I 114 permessi di ricerca ( 90 di terra e 24 di mare) e le 212 concessioni di estrazione di idrocarburi (143 di terra e le rimanenti 69 di mare) rilasciati dal ministero per lo Sviluppo economico con un provvedimento che - guarda caso! - portano date da ferie natalizie come il 24 e il 31 dicembre, sono una follia sotto tutti i punti di vista. Quello economico compreso. Lo ha messo bene in evidenza il verde Angelo Bonelli che ha fatto due conti alla concessione che il Governo ha assegnato alla Proceltic Italia, aggiudicatasi il lotto adiacente alle Tremiti per la modica cifra di 5 euro e 16 centesimi al metro quadrato. Come dire che la devastazione di un’area unica al mondo per la biodiversità, come quella che arricchisce queste isole, porterà nelle casse dello Stato la miseria di mille 928 euro e 3 centesimi (arrotondati per eccesso!) all’anno. Se questa non è follia…


In totale, le concessioni rilasciate dal nostro poco attento all’ambiente Governo, riguardano un’area che equivale pressapoco alla Campania e alla Lombardia messe insieme. In un Paese ricco di storie,di arte e, per quel che ne resta, di bellezze ambientali come l’Italia, pare superfluo sottolineare che le trivellazioni saranno per forza di cose adiacenti - quando non proprio sopra - aree di pregio.
Le isole Tremiti, Pantelleria, la costa della Sardegna, sono solo alcuni esempi che gridano vendetta al cielo. Per tacere del mare antistante Venezia, anch’esso finito nell’elenco delle aree “legalmente devastabili”. Ma la nostra laguna, oramai lo abbiamo imparato, è già diventata da tempo “carne di porco”. Proprio sui nostri lidi, quotidianamente massacrati dalle Grandi Navi, è stata avviata col Mose la prova generale di quella politica delle Grandi Opere - imposta a furia di leggi liberticide, prima ancora che devastanti, come la berlusconiana Legge Obiettivo e la renziana Sblocca Italia - che hanno cambiato volto al nostro Paese.
Nel prosieguo di questa politica che non dà futuro e nel mantenimento di una economia predatoria di ambiente e di democrazia, va interpretata la voglia del Governo di trasformare l’Italia in un gruviera.

Eppure… eppure esiste una differenza sostanziale tra le tante Grandi Opere che hanno massacrato la Penisola e queste disgraziatissime concessioni di idrocarburi. Le trivelle non hanno nessuna giustificazione.
Intendiamoci: neppure il Mose ne aveva una, neppure la Tav ce l’ha. Eppure, in questi casi, i sostenitori della shock economy, qualche motivazione che non fosse quella vera “dobbiamo pur finanziare le mafie, o no?”, riuscivano comunque a tirarla fuori. Salvare Venezia dalle acque alte, velocizzare il trasporto… Bugie, certo. Lo scrivevamo all’epoca, e tutti gli accadimenti successivi - non di rado giudiziari - ce lo hanno confermato. Ma erano comunque motivazioni sulle quali risultava difficile far ragionare una opinione pubblica mainstream stregata dai miti in stile Canale 5 dello “sviluppo” illimitato.
Con le trivelle invece, non ci sono argomentazioni a favore. Ci sono solo argomentazioni contrarie. Pure se, come abbiamo scritto in apertura non avessimo la testa sotto la mannaia dei cambiamenti climatici.
L’Italia non è una terra ricca di idrocarburi. Estrarli non è un affare per nessuno. Non lo è mai stato e non lo sarebbe neppure oggi se, per le aziende concessionarie, non fossero spuntati i soliti “aiutini miliardari” da parte dello Stato. E non ci raccontino che lo si fa per favorire l’occupazione o la “ripresa” (altro mito dei nostri giorni). La devastazione di intere aree che oggi campano di turismo, pesca o agricoltura porterà solo miseria culturale, povertà e ulteriore disoccupazione.
L’area critica del dissenso, stavolta, non è limitata ai “soliti” ambientalisti, a quelli che urlano No a tutto. Lo dimostra la radicale contrarietà con la quale non solo tutti i sindaci e le organizzazioni di categoria dei territori interessati, ma anche Regioni per le quali “ecologia” è un termine desueto, come il Veneto o la Lombardia, hanno accolto le aperture del Governo.

Ecco perché questa delle trivelle è una battaglia che possiamo vincere. Nessuna faccia di palta, nessun opinionista venduto, stavolta, potrà andare in televisione per giustificare una scelta che non ha giustificazioni e che, per di più, si lancia in direzione opposta agli accordi della Cop21 sul cambiamento climatico. Accordi sui quali il Governo si è formalmente impegnato.
E se non lo faranno i nostri ministri, dovranno essere i cittadini a farli rispettare.
Parigi non va dimenticata.

Parigi, il vertice è finito. Ora cominciamo a fare sul serio

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Si spengono i riflettori sulla Cop21. Il summit di Parigi è concluso e l’accordo firmato. Abbiamo salvato il mondo? No, naturalmente. Ma neppure ce lo aspettavamo. Non c’è, e non poteva starci dentro il documento conclusivo, la reale volontà dei Paesi industrializzati di avviarsi verso quella nuova forma di economia reale che, sola, potrebbe contenere l’aumento della temperature sotto i 2 gradi, ma che avrebbe come inevitabile conseguenza l’accantonamento di un sistema capitalistico predatorio ed una radicale destrutturazione verso il basso di quella che è attualmente la piramide del potere.
Alla fin fine, l’unica strada davvero risolutiva del problema clima, era quella prospettata dal signor Raoni Metuktire, cacique del popolo amazzonico kayopo, nel suo intervento davanti ai leader della terra: “Europei e nordamericani dovrebbero imparare a mangiare solo quello che producono sotto le loro case”.
L’avesse detto Obama, non sarebbe più potuto tornare negli States.
Come valutare allora l’accordo di Parigi? Non certo con lo stesso tono col quale lo ha promosso Laurent Fabius, presidente della Cop21: “Giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”. Ma neppure come lo ha liquidato al Guardian James Hansen, uno degli scienziati che per primi hanno denunciato il pericolo del cambiamento climatico. “Porsi l’obiettivo di stare sotto i 2 gradi con un piano di verifiche quinquennali per cercare di migliorare un po’ alla volta è una cosa ridicola, uno scherzo”. In conclusione, ha tagliato corto lo scienziato, l’accordo siglato a Parigi “It’s just a bullshit”. Frase che il traduttore di google fa finta di non capire ma che azzardo a tradurre con “E’ solo una stronzata”. (Se sbaglio correggetemi…)
Eppure, per quelli che, come noi, dal vertice francese si aspettavano poco o niente, va detto che qualcosa di buono è venuto fuori. E per “buono” intendo strumenti che potremo utilizzare nelle nostre battaglie ambientaliste.


Entriamo velocemente nei termini dell’accordo. L’articolo 2 fissa il limite massimo dei 2 gradi con l’obiettivo ideale di mantenersi entro il grado e mezzo. Il che significa, secondo i dati dell’Ipcc, tagliare le emissioni tra il 40 e il 70 per cento rispetto al 2010 entro il 2050. Tra il 70 e il 95 per cento, se puntiamo ad un aumento contenuto entro il grado e mezzo. Bene. Il problema è che per non scontentare petrolieri, multinazionali e governi, il testo non specifica come e dove. Tutto viene demandato alle Indc, le Intended Nationally Determined Contribution, cioè alle misure che ogni Stato intende volontariamente adottare.

Dal testo iniziale dell’accordo è stato stralciato tutto quanto poteva penalizzare le grandi corporation finanziarie. Desaparecido anche il concetto di decarbonizzazione, che implicava il completo abbandono di carburanti fossili, per fare spazio ad una ipotesi di “bilancio energetico” che non sta a significare niente se non che si continuerà ad usare il petrolio (fin che ce n’è, e fin che questo sarà economicamente vantaggioso). Anche i famosi 100 miliardi di dollari annui da stanziare per i Paesi non industrializzati sono solo fumo. Non è stato stabilito come, quando, con quali criteri e con quali vincoli saranno stanziati. Inoltre, questione non da poco, non è stato neppure precisato se stiamo parlando di finanziamenti a fondo perduto o… prestiti!
Conclusione: il testo finale partorito dalla Cop21 è debole, imperfetto, facilmente aggirabile, non vincolante né per i Governi né per le multinazionali. Prospetta e auspica un contenimento utopistico di 1,5 gradi ma non detta quei severissimi vincoli e quei drastici cambiamenti indispensabili di rotta per raggiungerlo. Come possedere la mappa del tesoro ma non sapere su quale isola andare a scavare.

Eppure… eppure questo accordo ha anche una lettura positiva. Quella di relegare definitivamente l’industrializzazione, così come l’abbiamo concepita sino a oggi, nei libri di storia del Novecento. A Parigi è stata chiusa l’era del petrolio e dei grandi consumi. Il futuro passerà per le rinnovabili.
Perché rispettare l’obiettivo dei 2 gradi, significa senza se e senza ma, tenere gas, petrolio e carbone là dove Madre Natura ce lo ha messo: sotto terra.
Questo è l’impegno che gli Stati, Italia compresa, hanno preso a Parigi. Un impegno che presto proveranno a disattendere facendo leva su tutte quelle deficienze del testo cui abbiamo accennato. Un impegno che sicuramente cercheranno di farci dimenticare con la scusa del terrorismo (che non a caso introita dal mercato del petrolio) o altre invenzioni.
Fateci caso. A poche ore dalla firma - fatta salva qualche rara eccezione - la Cop21 è già sparita dalle home dei siti di informazione e pochissimi quotidiani gli hanno dedicato la prima pagina. Tutti a sbavare su truculenti fatti di cronaca, a commentare fuffe bancarie o a sbavare su quella stramenata da infarto cosmico che è la Leopolda.

Toccherà ai movimenti sociali e ambientali, alle loro lotte, ricordare che c’è una emergenza clima e pretendere che Cop21 venga rispettato. Dopo Parigi, possiamo scriverlo senza tema di smentita: trivellare l’Adriatico va contro l’accordo sul clima che l’Italia ha sottoscritto. Questa è una verità che nessun politico, nessun amministratore, nessun petroliere, neppure un Salvini (tanto per dire la cosa peggiore che mi viene in mente), potrà negare. Questa è una verità sulla quale chi dice No ad Ombrina deve battere, ribattere ed ancorarsi senza far sconti a nessuno. Lo stesso lo possiamo ribadire per la Tav, le industrie cancerogene come l’Ilva, la Pedemontana e tutte le Grandi e devastanti Opere che hanno partorito crisi sociale, economica, ambientale e, adesso è ufficiale, anche climatica.
Pure le Grandi Navi, viste sotto i criteri dell’accordo parigino, navigano verso la parte sbagliata della storia. Fuori dalla laguna? No, fuori dal mondo le vogliamo!

La scuola #ClimateChaos. Democrazia climatica tra pinguini stanchi ed orsi impagliati

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“Se pianti un ramo, cresce una pianta”
il Corano


“Cambiano i venti, si riduce la neve, la fauna marina è a rischio, e ancora ci decantano il pollice opponibile”
Lercio


Orsi polari impagliati. Qui, sulla costa che guarda verso il mar Artico dell’Islanda dove si gela anche in estate, tutti i musei ne espongono uno. In quest’isola civile che è riuscita a far arrestare i suoi banchieri, ogni “grande” città (200 o addirittura anche 250 abitanti!) ha il suo bravo museo. Non hanno niente da esporre, poveretti!, se non vecchi arnesi per la pesca o coperte tarlate, ma l’orso bianco impagliato con la dentatura feroce non manca mai. Son tutte new entry dell’ultimo ventennio. Non che in Islanda ci siano gli orsi, eh? Son venuti tutti dal polo nord a cavallo di un iceberg. Il bestione gironzolava per la banchisa artica in cerca di qualche pesce per riempirsi la pancia quando - patatrack - un pezzo di pack grande come tutta Venezia, si è staccato dalla banchisa e se ne è andato per i fatti suoi con lui sopra.
Trascinato verso sud, sopra quella traballante isoletta di ghiaccio che rimpiccioliva di minuto in minuto, il bestio è approdato - incazzato ed affamato come solo un orso polare sa esserlo - sulle coste islandesi dove è stato immediatamente preso a fucilate dai villici locali. Quindi impagliato e sistemato a far bella mostra di sé su un bel museo locale, moderno, interattivo e con tanto di “spazio bimbi”. L’ho già detto che è gente civile, no?
Sì, va ben: povero orso. Ma povero anche l’islandese che incappa nell’orso senza il suo fucile.

Dall’altra parte del mondo, ai pinguini le cose vanno meglio. Sette anni fa, ha fatto il giro del mondo la notizia di una quarantina di pinguini della Patagonia che si son fatti più di 3 mila chilometri a nuoto per andare ad approdare ad Ipanema. Non che la loro intenzione fosse quella di andare in vacanza a Rio per farsi una caipirinha e salire in teleferica sul Pão de Açúcar. Quegli elegantoni in frac si son fatti fottere da una corrente oceanica che da una milionata di anni li portava dalle coste della Terra del Fuoco all’Antartide ma che, nell’ultimo decennio, ha deviato verso le assolate spiagge brasiliane.
Ai pinguini è andata meglio che agli orsi. Salvati dai surfisti, ingozzati con aringhe e sardine dai bagnanti, quindi rimpatriati a furor di popolo in terre più adatte alla loro gelida costituzione.

Pinguini senza bussola. Orsi accolti a fucilate. E’ tutta qua la questione sui cambiamenti climatici? No. Spiace per i pinguini. Spiace ancora di più per gli orsi. Ma quello dei cambiamenti climatici è un problemaccio che va ben oltre le pur pittoresche conseguenze come queste che ho raccontato dei pinguini e degli orsi o del fatto che, se va avanti così, resteremo senza cacao per farci la cioccolata!
Da quando ha cominciata la rivoluzione industriale (secondo alcuni addirittura con la nascita dell’agricoltura. ma in ogni modo la tendenza ha subito una fortissima impennata nell’ultimo secolo), l’uomo ha avviato un sistematico processo, una sorta di esperimento in stile mad doctor, che non era mai stato fatto prima - e che non potrà essere ripetuto in un prossimo futuro! -: prelevare tutto il combustibile fossile presente sulla terra e travasarlo nell’atmosfera, alterando tutti gli equilibri che avevano permesso la nascita della vita sul pianeta. Vien da dire: e pretendevamo che non succedesse nulla?
Una cosa da pazzi, a ragionarci adesso, e che investe non solo la questione della sopravvivenza dell’umanità ma anche di tutte le altre specie, animali e vegetali, che hanno avuto la sfortuna di svilupparsi in un mondo dove era presente il virus homo sapiens.

Un processo, questo dell’uso e abuso di risorse non rinnovabili, che per forza di cose è a scadenza. Nessuno può farci nulla. Solo gli economisti sono talmente coglioni da credere che in un sistema limitato come è la terra, si possa avviare uno sviluppo illimitato e, per di più, basato su risorse finite.
Che le cose cambieranno quindi, è sicuro. Resta da vedere in che condizioni lasceremo la terra alle future generazioni. Soprattutto, resta de decidere come (e se) governeremo questo cambiamento.
E’ su questo capitolo che va inserita la questione della democrazia climatica. Democrazia che non vuol dire fare quello si vuole, certamente, ma che non significa neppure delegare ogni decisione alla maggioranza. Democrazia, intendo, come regole da seguire. Dobbiamo scrivere una sorta di Costituzione terrestre per il clima. Oppure, se preferite, ogni singola Costituzione di ogni singolo Paese dovrebbe avere un articolo 0 che recita pressapoco: quando si scrive una legge o si progetta qualsiasi cosa, è necessario tener conto delle inviolabili leggi fisiche che regolano l’ambiente. Ci vogliono paletti precisi su quello che si può fare e quello che non si può più fare. Questo è un campo che sposa politica e scienza ma lascia a casa l’economia così come l’abbiamo intesa sino ad oggi.

La democrazia climatica quindi è una questione totalizzante, perché investe, stravolge e cambia i nostri primitivi punti di vista su tutte le questioni aperte dall’umanità nel suo cammino. Saperne di più, informarci, studiare, quindi, sono passi che non possiamo esimerci dal fare. Questo è il motivo per il quale, come EcoMagazine, abbiamo lanciato la scuola #ClimateChaos.
Anche soltanto nel buttare giù la lista dei relatori da invitare alle lezioni, abbiamo subito constatato come qualsiasi problema che abbiamo affrontato come attivisti, dalle migrazioni al lavoro, dai beni comuni alla democrazia dal basso, possa essere riletto sotto la lente dei Cambiamenti Climatici. Un esempio per tutti. Le Grandi Navi.
Potrei elencare perlomeno un ventina di motivi per i quali questi condomini galleggianti devono starsene fuori dalla laguna. La democrazia climatica semplifica il problema perché ti spiega, con la massima coerenza scientifica, che non è più tempo di gigantismi. Il futuro del turismo non passa sui ponti lustrati a specchio di questi centri commerciali del divertimento idiota. L’inquinamento che producono, il consumo energetico, la loro stessa “filosofia” dell’intrattenimento, non è compatibile con le necessità della terra. Fuori quindi le Grandi Navi, non solo dalla laguna, ma dal mondo.

La questione, a questo punto, sta tutta nel far entrare questo concetto nelle zucche di politici ignoranti (per non dir di peggio) o di arraffatori di beni pubblici abituati a programmare, ragionare e far di conto in uno spazio temporale che non si allarga mai oltre il decennio. In questo atomo di tempo, i cambiamenti climatici, per loro natura epocali, non sono una variabile cui tener conto. Anzi, i disastri, come ha spiegato Naomi Klein, rappresentano solo altre occasioni di “sviluppo”. Se le statistiche dicono che nei prossimi cinque anni ci saranno più uragani… investiamo nelle imprese immobiliari! Se l’acqua comincerà a scarseggiare, privatizziamola! Ma queste non sono soluzioni.
Tutto il contrario.
E’ su questo punto che si aprono spazi per i movimenti e per l’attivismo politico che non si è adagiato in partecipazione alla cosa pubblica basata esclusivamente sul voto e sulla rappresentanza. Le Costituzioni, lo sappiamo bene, nascono solo dopo le rivoluzioni. Le Costituzioni non ce le ha mai regalate nessuno. Sempre, abbiamo dovuto conquistarcele sulle barricate. Così dovrà essere anche per la Costituzione climatica.

Perché una scuola di formazione sui Cambiamenti Climatici. Ovvero: perché noi non possiamo sottometterci all’effetto Dunning-Kruger

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Cominciamo con lo spiegare chi sono David Dunning e Justin Kruger. I signori in questione sono due ricercatori in psicologia della Cornell Unversity di New York che nel 2000 si sono aggiudicati il prestigioso premio Ignobel dedicato agli scienziati autori degli studi più… “originali” dell’anno. Dunning e il collega Kruger, infatti, sono riusciti a dimostrare con criteri sperimentali e clinici quello che tutti noi già avevamo già intuito da un pezzo. E cioè che più uno è imbecille e più è sicuro nelle sue convinzioni. Contrariamente a quanto affermava Carlo Marx (che sbottava picchiando con i pugni sul tavolo della biblioteca: “L’ignoranza non ha mai aiutato nessuno”) nella nostra società impigliatasi nelle rete globale, essere idioti e sparare cazzate aiuta ad aumentare i “mi piace” sulla propria bacheca di Fb e, di conseguenza, a rafforzare le proprie convinzioni.
In sostanza, la distorsione cognitiva sulla quale i nostri due scienziati hanno speso anni di studio, è pressappoco questa: mentre le persone intelligenti e competenti su una determinata questione dimostrano una forte tendenza a mettersi in discussione ed a sottovalutarsi, i coglioni partono dal presupposto di avere ragione e, smanettando in rete, cercano – e trovano, perché in rete si trova di tutto – solo conferme delle proprie tesi, rafforzando le proprie sballate tesi.

C’è da dire che ci sono personaggi politici che idioti non sono (fetenti sì, però) che su questo effetto costruiscono le loro fortune e capitalizzano milionate di voti grazie a siti ed a pagine Fb becere che pubblicano “notizie” inventate di sana pianta ma che trovano mutue “conferme” rimbalzando l’una sull’altra. L’ignoranza, in questo caso, aiuta e come Consideriamo, a titolo di esempio, tutte le pagine Fb che elencano “crimini” di migranti alloggiati in lussuosi hotel a cinque stelle e retribuiti come pascià a spese degli italiani poveri. Consideriamo anche quanta gente, ahimè, abbia finito per crederci sul serio e quanto sia difficile far cambiare loro idea, anche basandosi su quelle strane cose, sempre più avulse dal giornalismo televisivo, che sono i “fatti”.
Adesso il punto è: perché anche noi non possiamo fare i cazzari e, proprio su un tema complesso come i Cambiamenti Climatici, occorre tornare nei banchi di scuola?
Le risposte sono tante. Prima di tutto siamo minoranza e quello che dobbiamo percorrere è sempre un cammino in salita. Tocca a chi ha proposte concrete, l’onere di dimostrare tutto. Chi ha una visione alternativa della società (ma potrei dire anche dell’arte o della scienza) sa, fin dall’inizio, che dovrà abbattere a testate muri di cemento. E la conoscenza, in questo caso, sarà la sua unica arma. Un altro punto è che con la cialtroneria non si vincono le battaglie. L’ignoranza è utile solo al mantenimento dello status quo. Anche quando parla di “rivoluzione”, l’ignorante fa solo il gioco del potente che afferma di voler cambiare tutto per non cambiare niente. Sono i sognatori capaci di concretizzare i sogni, quelli che hanno il potere di cambiare il mondo. Studiare ed informarsi è un dovere per tutti coloro che vogliono uscire dal gregge.
Infine, avremo anche altri difetti, ma cazzari proprio non lo siamo. Movimenti come i No Tav o i No Mose hanno maturato negli anni conoscenze e competenze scientifiche di prim’ordine che li hanno portati a surclassare sul piano dialettico gli avversari, forti di slogan varati da quotati studi pubblicitari e di manganellate celerine, ma assolutamente deficitari sul piano politico, strategico e tecnico (per tacer sul versante della democrazia che proprio non è mamma loro).
Fateci caso. Mai, dico mai e ripeto mai, il Consorzio Venezia Nuova ha accettato un confronto sull’efficacia delle paratie mobili con tecnici e idraulici terzi, lontani cioè dal loro libro paga. Non lo hanno fatto e non lo fanno ora per il semplicissimo motivo che il risultato sarebbe scontato. Il Mose non serve se non a riempire le tasche di faccendieri in odor di mafia e di politici corrotti. Tra l’altro, proprio le previsioni dell’Ipcc, anche quelle meno impattanti, rendono inutile l’intero progetto che, pure, continua ad avanzare.
In questi giorni che precedono la Cop21 di Parigi, abbiamo deciso quindi di tornare sui banchi di scuola. Questa è la strada vogliamo e dobbiamo percorrere per prepararci alla battaglia più importante che dobbiamo combattere: quella sui Cambiamenti Climatici. Una battaglia che, come spiega il documento pubblicato su Global Project “Apocalisse o rivoluzione, cambiamo tutto per non cambiare il clima”, sarà una battaglia globale, perché investe ed illumina di una nuova luce, tutte le lotte che abbiamo sostenuto sino ad ora: dall’ambiente alle migrazioni, dai beni comuni alla democrazia.
La scuola di formazione politica #ChaosClimate che EcoMagazine propone in collaborazione con Global Project sarà aperta a tutti coloro che vorranno partecipare, e punta a restituire la complessità di un tema sul quale niente è scontato, per fornire strumenti scientifici di comprensione del problema ed un bagaglio di conoscenze da tradurre in azioni.
Il calendario completo degli incontri, i relatori e le modalità di iscrizione saranno pubblicati  presto sul nostro sito. Il primo appuntamento si svolgerà al Morion di Venezia, domenica 15 novembre alle ore 16 con la lezione d’apertura del fisico triestino Luca Tornatore.
Vi aspettiamo. Perché questa è una battaglia che non ha alternative. Bisogna cambiare tutto per non

Ladro di democrazia, devastatore di ambiente. Il sistema Mose messo a giudizio dal Tribunale di Popoli

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Il Mose e tutta la cupola mafiosa che ruotava - e tutt’ora ruota - attorno al Consorzio Venezia Nuova è stata portata a giudizio del tribunale permanente dei Popoli. Oggi, 22 ottobre, nell’aula magna del liceo artistico Guggenheim di Venezia, si è svolta la prima fase, aperta al pubblico, delle audizioni. Dal 5 al 8 novembre, a Torino, sono in programma le udienze finali alla fine delle quali, il tribunale si pronuncerà sulla violazione dei diritti democratici in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli proclamata ad Algeri nel 1976.
Il tribunale permanente dei Popoli nasce come ideale continuazione del tribunale Russell che a sua volta deriva dall’esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra fondato dal filosofo Bertrand Russell e dallo scrittore Jean-Paul Sartre nel novembre del 1966 con lo scopo di fare luce sui crimini commessi dall'esercito statunitense nella guerra del Vietnam.

Dalla sua fondazione, nel 1979, il tribunale dei Popoli si è espresso in numerosi casi di violazione di diritti fondamentale di popolazioni in tutto il mondo, dai mari d’Indonesia alle coste del Salvador. Si tratta naturalmente, di un tribunale di “opinione”, di natura associativa con giudici volontari, ma comunque dotato di una copertura mediatica internazionale.
Il tribunale interviene in tutti quei casi nei quali le legislazioni nazionali risultino inadeguate, se non addirittura complici dei violatori, nel difendere i diritti dei popoli. In Italia, il tribunale è stato chiamato a giudicare le violazioni legate alle Grandi Opere, come la Tav, il Muos e, grazie all’associazione AmbienteVenezia che si è costituita parte civile, il Mose.


Le inchieste della magistratura che hanno messo a nudo il sistema di tangenti e di corruzione legato all’ecomostro lagunare, portando all’arresto e al rinvio a giudizio di imprenditori, funzionari pubblici e politici di tutti i livelli, si sono rivelati assolutamente insufficienti a spiegare come un tale sistema di malaffare abbia potuto inquinare Venezia, tanto da portare alla realizzazione di un sistema di dighe mobili che non solo è 20 volte più costoso di qualsiasi altra soluzione, non solo non risolverà il problema dell’acqua alta, ma ha comportato una devastazione senza precedenti in un fragile ecosistema unico al mondo violando tutte le leggi di salvaguardia. Non soltanto: le inchieste della magistratura e gli arresti eccellenti che ne sono derivati, si sono rivelate assolutamente inutili a porre un rimedio al problema. Tanto è vero che il Consorzio è ancora là, forte del suo regime di “concessionario unico” - che è un po’ come la licenza di uccidere per l’agente 007 - e il Mose ancora in fase di perenne costruzione, a divorare miliardi ed a continuare a massacrare quella che un tempo era la laguna dei dogi.

Il sistema di corruzione “legale” portato avanti dal Consorzio che non era finalizzato tanto a pagare tangenti per gli appalti (di cui era, alla faccia di qualsiasi principio di trasparenza e di democrazia) quanto a corrompere commissioni di salvaguardia, comprare consenso in città e a mettere a tacere le pur qualificate voci dei tanti tecnici che sottolineavamo la criticità non ancora risolte del sistema di dighe mobili, oltre a quelle degli ambientalisti preoccupate di salvare la laguna e la città.

Proprio il pericolo insito nell’opera che, tanto per fare un esempio, non tiene conto dei nuovi valori di marea dovuti ai cambiamenti climatici, la sua inutilità ai fini di fermare le “acque alte” e il continuo degrado cui sottopone la laguna, anche senza considerare le opere complementare e di compensazione (che non compensano un bel niente ma, essendo pure loro appaltate al Consorzio, sono solo un’altra occasione di corruzione e devastazione), sono tutti fattori che le inchieste della magistratura non hanno neppure sfiorato. Nè potevano farlo perché spettano alla politica. La magistratura può arrestare le mele marce. Quando è il sistema che fa marcire le mele, allora deve intervenire la politica imponendo regole più democratiche e trasparenti.

Ed è proprio su questo punto che il tribunale permanente dei Popoli è stato chiamato a pronunciarsi. E sulla sentenza finale, noi non nutriamo il minimo dubbio. Il sistema Mose ha violato il diritto dei veneziani a decidere della loro laguna, a difendere la loro città, a salvaguardare il loro ambiente. Perché, quello che quei mascalzoni ci hanno davvero rubato non è qualche miliardata di euro, ma la stessa democrazia.

L’Ordine dei Giornalisti apre la mostra Grandi Navi. Presidio degli ambientalisti e show di Brugnaro

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Il titolo è tutta retorica: “Danno o risorsa per Venezia?” La risposta è tutta in quelle 27 spettacolari gigantografie che raccontano in maniera inequivocabile il devastante impatto che queste speculazioni edilizia galleggianti chiamate“Grandi Navi” hanno nel delicato ecosistema lagunare. Non c’è storia, non c’è paragone e non c’è neppure spazio per il punto di domanda, tra le due posizioni, pro e contro, davanti a queste immagini che raccontano il quotidiano stupro di meganavi grandi cinque volte il Titanic forzate a passare in un ecosistema idrico a misura di gondola.
E d’altronde, guardando dietro l’obiettivo della reflex, chi voleva documentare il danno o la bruttura di una ingombrante presenza che non ha nulla a che vedere né con la storie né con la morfologia della laguna, ha giocato facile. E non me ne vogliano i bravissimi autori delle foto se scrivo questo. Intendo solo considerare che, volendo sostenere la tesi “pro grandi navi”, cosa c’era da immortalare? La faccia beota di qualche turista da comitiva a prezzo fisso che saluta dal ponte del condominio, pensando di viaggiare sul praho di Sandokan e che invece si ritrova su un centro commerciale galleggiante? Che è come farsi le vacanze all’Auchan?


No, no, hanno ragione i pro grandi navi a sostenere che la mostra, inaugurata questo pomeriggio nella sede dell’Ordine dei Giornalisti - e che là rimarrà sino al 16 ottobre - è tutta di parte. Proprio come dalla parte degli ambientalisti sta la verità sostanziale dei fatti. Possiamo discutere sulle possibili e ragionevoli soluzioni - tra le quali non c’è quella terrificante di scavare e distruggere ancora la laguna per farci passare ‘ste Love Boat da grande magazzino! - ma non sul fatto che le Grandi Navi siano mostruosamente brutte, inquinanti oltre ogni dire e omicide per l’ecosistema che sostiene Venezia. E taccio sul rischio di trovarcene prima o poi, una spampanata sulla basilica, come già successo a Genova e in altre parti d’Italia.

Certo, non si può pretendere, né sarebbe giusto pretendere, che l’Ordine dei Giornalisti del Veneto che ha ospitato la mostra realizzata dei reporter veneziani tra i quali Marco Secchi del collettivo Awakening, prenda posizione su un tema come questo. Va bene allora anche il punto di domanda retorico sul titolo. E va bene anche il comunicato diffuso dall’Ordine secondo il quale la mostra ha come obiettivo quello di “offrire ai veneziani e al mondo un panorama il più ampio possibile su una problematica di estrema complessità e delicatezza”.
Ma la vera spiegazione del perché l’esposizione sia stata organizzata dall’Ordine e proprio dentro i locali dell’Ordine sta tutta nella premessa del detto comunicato: “Dopo le polemiche innescate dalla decisione del sindaco di Venezia di sospendere la prevista mostra del fotografo Gianni Berengo Gardin…” In altre parole, i giornalisti veneziani hanno voluto rispondere ad un sindaco come il Brugnaro Luigi, abituato a comandare da padrone in Comune come nella sua azienda, tanto da mortificare assessori (uno dei quali si è già dimesso), dirigenti e consiglieri, che l’informazione non sta alle dipendenze di nessuno. Il sindaco del fare - e che nei suoi primi cento giorni ha fatto due delibere e una ordinanza, peggio del Milan in campionato - non può pretendere e permettersi di trattare i giornalisti come suoi dipendenti o suoi portavoce. Può trasformare le sue conferenze stampa in uno spettacolo di Carlo e Giorgio, ma non può chiedere ai giornalisti di fargli da spalla.

Che il Brugnaro Luigi sindaco abbia recepito il messaggio poi, è tutto da vedere. Di sicuro, il problema dell’indipendenza dell’informazione non è tra le sue priorità. “Con la maggioranza che ho, faccio quello che voglio” ripete sempre. E anche ieri ha regalato agli spettatori - un nutrito gruppo di No Grandi navi venuti ad assistere all’apertura della mostra - il suo show quotidiano. Ha accettato una bandiera No Grandi Navi, ha passato in rassegna le gigantografie commentando come fosse davanti ad una pizza Quattro Stagioni che “c’è chi le Grandi navi piacciono e c’è chi non piacciono. A me piacciono. Guarda qua che belle!” Inutile chiedergli come intende muoversi per tutelare la laguna perché altrimenti ti tira un pistolotto da 40 minuti in dialetto spiegandoti che lui è contrario alla teoria del gender, sia nelle scuole che nell’ambiente. Si è guardato bene dall’affrontare la questione dello scavo del Vittorio Emanuele ma ha dichiarato che “le grandi navi sono la storia di Venezia. Oh? Lo sapete o no che un ingegnere ci impiega 50 anni per costruirne una?” E poi, tra lo sconcerto generale, ha abbandonato la sala indirizzando ai presenti un’ultima appassionata esortazione: “Ma venite a Mestre che è più bella e si sta meglio che Venezia!”
Mah? Mestre no. Ma sto seriamente pensando a Reykjavík che ha per sindaco uno come Jón Kristinsson Gnarr. Il dubbio è che non sia abbastanza distante.

La Venezia ambientalista in riva per dire No ad altri scavi. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna

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Domenica di lotta e di festa a Venezia. Domenica di orgoglio cittadino. La Venezia che non ci sta a veder trasformare in merce la laguna che le ha dato vita, è scesa in riva per ribadire il suo No alle Grandi Navi ed a tutto quello che queste portano con sé, dall’inquinamento dell’aria alla devastazione dei fondali.
Parecchie centinaia di cittadini hanno accolto l’appello del movimento contro le Grandi Navi e si sono radunate questo pomeriggio alle Zattere, proprio davanti a quel canal della Giudecca dove sfilano impuniti queste brutte speculazioni edilizie galleggianti che sbandierano nomi come Preziosa o Deliziosa.

Una manifestazione riuscita che ha ridato voce alla Venezia ambientalista dopo una tornata elettorale nella quale i temi ecologisti non sono mai stati al centro della discussione e che, per di più, ha visto la vittoria di un sindaco che se gli chiedi quali siano i suoi programmi per tutelare l’ecosistema lagunare ti risponde che è contrario alle teorie gender nelle scuole come nell’ambiente.
Non è un caso che alla bocciatura da parte del Tar del progetto dello scavo del canal Contorta per farci passare le Grandi Navi evitando la rischiosa passerella davanti alla basilica, Comune e Autorità Portuale abbiano subito presentato la proposta di scavare il Vittorio Emanuele.
Per chi ragiona con la logica delle Grandi Opere infatti, scavare qua o là non fa nessuna differenza. Son comunque fondi pubblici da deviare a mafie e appaltatori. Per chi ragiona con l’ottica della salvaguardia, sono invece milioni di metri cubi di fondale da buttare in pattumiera col risultato di lasciare il problema dell’inquinamento da fumi come sta, ed impoverire una laguna che oramai altro non è che un braccio di mare.
“Il problema delle Grandi Navi - hanno dichiarato gli organizzatori - non può essere circoscritto al passaggio davanti a San Marco perché l’inquinamento che producono e la devastazione dell’ecosistema causato dallo spostamento d’acqua rimane tale anche se il percorso viene deviato. La soluzione non può essere lo scavo di un altro canale, che sarebbe un rimedio peggiore del male. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna di Venezia”.

Inutile, devastante, costosissimo: ecco il Mose. La prova generale per il sistema di tangenti legato alle Grandi Opere. #CementoArricchito #Venezia

MostroMose
Tutto cominciò con la grande alluvione del ’66. In una sola giornata, la Venezia dei Dogi, la Serenissima Repubblica, la Dominante dei mari, apparve agli occhi del mondo per quello che effettivamente era: la città più fragile di questa terra. Quella stessa laguna che per secoli l’aveva cullata e protetta, adesso, devastata e stravolta dalle grandi manomissioni d’inizio secolo – come gli interramenti di Porto Marghera e lo scavo del canale dei Petroli – si era trasformata in una nemica mortale ed implacabile. L’antico patto tra l’uomo e il mare, che il Doge celebrava ogni anno gettando tra le onde un anello d’oro, era infranto.



Il progetto di una “linea Maginot” – come la definì il ministro Antonio Di Pietro (che evidentemente ignorava quele fine fece l’autentica linea Maginot) – di grandi dighe mobili per tenere a freno le ondate di marea in entrata e “risolvere definitivamente il problema dell’acqua alta”, nasce proprio dall’idea che la laguna sia un elemento da dominare e non più da tutelare, da artificializzare e non da riequilibrare.

L’impatto mediatico dell’acqua granda che il 4 novembre 1966 sommerse Venezia sotto quasi due metri di marea (194 cm) ebbe comunque un effetto positivo, perlomeno all’inizio. La salvaguardia della città fu dichiarata “di preminente interesse nazionale” e nacque la prima Legge Speciale per Venezia, n. 171 del 1973, che apri spazi per una gestione partecipata della tutela della laguna e riuscì a fermare il prosieguo degli interramenti industriali, che nel progetto iniziale, avrebbero dovuto arrivare quasi sino a Chioggia.
Ma proprio in questo spazio, pensato per la salvaguardia dell’ambiente lagunare, si fece largo il Mose. E lo fece con un iter che sarà poi ricalcato da tutte le Grandi Opere che successivamente assassineranno l’Italia sotto una coltre di cemento mafioso. Prima la dichiarazione di emergenza, poi la gestione affidata ad un unico soggetto, l’affidamento dei lavori senza gare d’appalto a ditte legate alla malavita organizzata, quindi la spaventosa lievitazione dei costi coperta da ricche tangenti elargite a 360 gradi.
Ma per intraprendere questa strada, la legge Speciale doveva essere riformata. A portare il Mose in laguna tocca alla seconda legge speciale, la 798 del 1984, col Bettino Craxi presidente del Consiglio, che affida la salvaguardia ad un committente unico: il Consorzio Venezia Nuova.

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Il Mose divenne un grande laboratorio su come dirottare vagonate di denaro dal pubblico al privato (non di rado, mafioso), comprando politici e giornalisti, devastando l’ambiente che doveva tutelare e mercificando la democrazia. Così, nella laguna dei Dogi venne sperimentato quel modus operandi che poi fu seguito da tutte le Grandi Opere, dalla Tav alle mega autostrade. Perché se si riesce a realizzare un progetto distruttivo ed irreversibile come questo in una città fragile e sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
Nel 1989, Il Consorzio avviò la stesura del progetto preliminare orientandosi subito verso il sistema più costoso ed impattante (il Mose ha avuto una sola Via e negativa, inoltre sono state aperte varie procedure di infrazione nei confronti dell’Italia dal’Unione Europea), senza curarsi di rispondere alle critiche e alle osservazione che il mondo scientifico gli muoveva, forte di una disponibilità di denaro praticamente illimitata e slegata da ogni controllo democratico.  Così, il Consorzio, padre e padrone del Mose e del suo sistema di tangenti, cominciò ad assorbire tutti i fondi destinato alla salvaguardia di Venezia, ed a trasformarsi in un bancomat per, quasi, tutti i partiti sia di Governo che di opposizione.

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I lavori conclusivi delle barriere furono avviati nel 2003, grazie anche alla Legge Obiettivo fortemente voluta dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con l’apertura dei cantieri alle tre bocche di porto.
Sin dall’inizio, le critiche degli ambientalisti si concentrarono su tre punti.
Il Mose non servirà a risolvere il problema dell’acqua alta, casomai lo peggiorerà aumentando la sezione dei canali di sbocco (e questo lo verificheremo solo vivendo)
il Mose devasterà la laguna (e puntualmente tutta la laguna sud si è trasformata in un braccio di mare aperto)
il Mose serve solo a chi lo fa. Ovvero: tutta la baracca altro non è che una gran macchina da tangenti e non ha altra ragione di esistere che questa.




A dimostrazione del terzo punto, su cui ci soffermeremo in questo articolo, sono stati sottolineati due fattori. 1) La continua proroga dei tempi: l’opera come presentata nel ’90 doveva essere terminata nel ’95. 2) L’esplosone dei costi: dai preventivati 3 mila e 200 miliardi di lire (avete letto bene, lire!) nell’89, il Consorzio ha “sforato” un tantinello, spendendo sino ad oggi 5 miliardi e 267 milioni di euro (sì, euro!). Ancora adesso non si sa bene quando le dighe saranno completate e quanto costeranno definitivamente (per non parlare dei  successivi e altissimi costi di manutenzione  e gestione che sono tutta un’altra storia).
Durante una delle ultime “inaugurazioni” l’ex ministro Maurizio Lupi, dimissionario in seguito allo scandalo delle Grandi Opere, ha pomposamente dichiarato che il Mose “sarà tassativamente ultimato nel 2016” e costerà attorno ai 6 miliardi di euro. Se voi volete crederci…
Chi proprio non gli ha voluto credere, tanto per dirne uno, è il presidente dell’’Anticorruzione, Raffaele Cantone, che ha dichiarato alla Nuova Venezia che i lavori certo non saranno finiti neppure per il giugno del 2017! In quanto ai costi finali, il magistrato ha preferito non esprimersi.
A dare sostanza – sia pur col senno del poi – alle tesi degli ambientalisti secondo i quali il Mose altro non è che una enorme tangente, ci ha pensato la magistratura quando ha cominciato a scoperchiare la Tangentopoli Veneta. Il  28 febbraio 2013, la procura di Venezia ha  spiccato un mandato di arresto per frode fiscale nei confronti di Piergiorgio Baita e di altri amministratori della società Mantovani, la dita incaricata di realizzare le paratoie mobili. La frode si basava su un sistema di false fatturazioni e di finte compravendite tra finte aziende canadesi e croate. Quattro mesi dopo, altre 14 persone finiscono in manette per la scoperta di un giro di fondi neri austriaci. Tra loro c’è Giovanni Mazzacurati, già presidente e direttore generale del Consorzio.
Ma la botta grossa arriva il 4 giugno 2014. La guardia di finanza, nelle prime ore del mattino, arresta 35 persone accusate di vari reati tra i quali corruzione, concussione e finanziamento illecito. Sono tutti nomi di spicco nel panorama politico ed imprenditoriale. Ci sono amministratori regionali come Renato Chisso, assessore alle Infrastrutture, e Giancarlo Galan, già presidente della Regione (che evita le manette in quanto deputato), il tesoriere del Pd veneto Giampiero Marchese, l’europarlamentare del PdL Lia Sartori, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, e tre deputati del Pd: l’ex Presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia, Michele Mognato e Sergio Reolon. Vengono fermati anche il vicecomandante nazionale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, e due Magistrati alle Acque, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta.
Il nome che desta più scalpore è comunque quello di Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, accusato di avere accettato un finanziamento illecito di 250 mila euro da parte del Consorzio durante la campagna per le primarie del centrosinistra, utilizzato per battere l’ambientalista (e no Mose) Gianfranco Bettin.
Lo scandalo portò alle dimissioni del sindaco e alla caduta della Giunta comunale, pur se gli altri amministratori risultavano estranei alla vicenda. Uguale sorte non seguì la Regione amministrata dal centro destra.



Un mese dopo, finiscono nei guai anche Marco Milanese, ex deputato PdL e braccio destro dell’allora ministro Giulio Tremonti, accusato di aver incassato una tangente di 500 mila euro dal Consorzio per far sbloccare al Cipe i finanziamenti necessari per il Mose, e Altiero Matteoli, già ministro dell’Ambiente e delle Infrastrutture e dei Trasporti con l’accusa di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri.
Intanto che le inchieste proseguono, il Mose continua ad avanzare, come quei tumori per i quali non c’è chemioterapia che tenga. Gli arresti hanno fatto gridare allo scandalo, alla necessità di liberare le amministrazioni dalle mele marce, alla desolante richiesta di un “nuovo” in politica che poi altro non è che la continuità gattopardesca del vecchio. Pochi sono coloro che hanno messo in dubbio la validità strutturale di un’opera che ha nel finanziamento illecito la sua sola ragione di esistenza. Una Grande Opera voluta solo dal partito trasversale degli affari sporchi e fatta avanzare con prepotenza, nonostante tutti i pareri negativi della comunità scientifica. Le barriere mobili, tra l’altro, non tengono conto dei nuovi parametri imposti dai cambiamenti climatici.
Nel migliore dei casi, il Mose sarà inutile.
Quella che, come il Vajont prima della catastrofe, è stata definita ‘l’orgoglio dell’ingegneria italiana” è un’opera nata sul binario sbagliato, partita male e proseguita peggio. Una soluzione rigida ed irreversibile in una laguna fluida e in continuo mutamento.
Le tangenti, a questo punto, sono solo la preoccupazione minore.


Dietro le Grandi Opere. Enzo Guidotto denuncia mafia e corruzione. #CementoArricchito

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Il primo campanello d’allarme, racconta Enzo Guidotto, oggi presidente onorario dell’osservatorio veneto sul fenomeno mafioso e già consulente della commissione parlamentare antimafia, è squillato circa venticinque anni fa, quando la sopracitata commissione cominciò ad indagare nella finanza veneta, scoprendo una forte penetrazione di capitali provenienti dal malaffare organizzato. Un campanello che rimase inascoltato. La politica preferì guardare da un’altra parte lasciando spazi grandi come praterie a quella corruzione che, come già avvertiva Paolo Borsellino, è l’humus ideale per far attecchire le attività mafiose. Quelle stesse attività che oggi si alimentano di Grandi Opere, devastando l’ambiente ed inquinato a tal punto la politica da aver mercificato la stessa democrazia.


In questo intervento, Enzo Guidotto, fa nomi e cognomi di personaggi che ancora oggi sono ai vertici del governo regionale e dell’imprenditoria e denuncia gli intrecci tra ministri, casalesi, appalti e assessori regionali, da Bernini a Galan, dalla Valdastico Sud alla Pedemontana.
La mafia non esiste solo quando spara.




L’intervento di Enzo Guidotto è tratto dal convegno Veneti e Mafia, svoltosi a Resana di Treviso il 31 maggio 2013

La Goletta Verde lancia la campagna “Don’t waste Venice”

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Una "scoassa" ogni tredici metri di canale è decisamente troppo. Senza contare che là, dietro al barena, dove butta la corrente, le stesse "scoasse" formano delle vere e proprie isola galleggianti. Regni incontratati di pantagane e di "magoghe" sparpagliarifiuti.
Più al largo, dopo le dighe delle bocche di porto, la situazione non migliora. In ogni chilometro quadrato di Adriatico galleggiano 27 rifiuti vari. Un buon 90 per cento dei quali composto da plastiche non biodegradabili. E sotto il mare? Ancora peggio! Qui le "scoasse" si accumulano formando delle sottospecie di "tegnue" di immondizia di cui solo chi si immerge conosce il segreto della loro esistenza.
Il tutto va a finire, prima o poi, nelle nostre pance, considerato che siamo una delle specie ai vertici della catena alimentare. "Pochi lo sanno ma le plastiche sono delle vere e proprie spugne che assorbono l'inquinamento del mare - spiega Giulio Pojana, chimico e responsabile per Ca’ Foscari del progetto Defishgea -. Tutta la plastica che buttiamo a mare, finisce con lo sgretolarsi sino a particelle grandi pochi micron, praticamente invisibili all'occhio umano ma che rimangono comunque nell'ambiente marino e vengono filtrate dai mitili o assorbite al pari del plancton da altre specie animali. In poche parole, tutta la sporcizia che gettiamo a mare, prima o poi, ce la ritroviamo a tavola".
A presentare il progetto internazionale di cooperazione Defishgea volto a raccogliere dati sul marine litter in tutta la regione Adriatico-Ionica, è stata la Goletta Verde di Legambiente che, dopo la tappa a Rovigno per denunciare l'affaraccio brutto delle trivellazioni, ha approdato in Riva Sette Martiri. Il progetto promosso dalla Comunità Europea è stato tradotto in veneziano come la campagna "Don’t Waste Venice" (non sporcate Venezia). Che la nostra non sia una città come tutte le altre, non lo scopriamo oggi. Anche le "scoasse" qua parlano il veneziano e, invece di sporcare le rive dei fiumi o gli angoli delle strade, finiscono tutte a ciondolare per i canali.

Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, ha trascorso il fine settimana in barca, a gironzolare per le nostre vie d'acqua, con un retino in mano a raccogliere rifiuti in compagnia di un nutrito gruppo di volontari del Cigno Verde. "Don't waste Venice - spiega - è una campagna che si è prefissa il compito di monitorare scientificamente i rifiuti galleggianti nei canali di Venezia e portare all’attenzione della popolazione, dei turisti e dei media non solo il problema dei rifiuti abbandonati in città ma soprattutto la possibilità di contribuire alla loro riduzione tramite alcune semplici buone pratiche".
Perché i nostri canali sono depositi di immondizia, si chiede Gigi Lazzaro. Perché ci sono persone distratte e poco attente al problema, perché ci sono altre persone incivili, ma anche perché la città ha una sua conformazione tutta particolare (vedi ad esempio l'invasione turistica da fine Impero Romano cui è vittima) e, sono necessarie pratiche tutte particolari per risolvere il problema.
Diamoci da fare quindi. Don't waste Venice. Non devastiamo noi Venezia. Che, se tanto mi dà tanto, abbiamo eletto un sindaco che ci metterà del suo to waste Venice.

Il clima del cambiamento. #OltreEconomia Festival

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Duecento metri più in là, dietro un cordone di polizia da 800 mila euro (tanto è costata la protezione della sua persona nell'ultima visita a Venezia), c'era il premier Matteo Renzi. Il presidente del consiglio era a Trento per parlare di economia. E a Trento ci siamo andati anche noi, per parlare di economia. Ma dai luccicanti saloni del Festival dello Scoiattolo ci siamo tenuti lontano, e gli abbiamo preferito il prato del parco Santa Chiara e le tavolate sotto il tendone sistemato dagli organizzatori dell'OltrEconomia Festival. Perché, al di là del casinò truccato della finanza mondiale, capace solo a parlare di recessione e di crisi, c'è l'economia vera, quella dei movimenti, quella delle produzioni dal basso, di chi recupera le fabbriche e occupa la terra. Quella di chi chiede democrazia, difende l'acqua come bene comune e si oppone alla mercificazione di ambiente e diritti.
Tutte cose che, se ieri erano solo giuste, oggi sono anche necessarie. Perché nella scena mondiale è intervenuto un grande attore che, non per caso, non ha trovato spazio dalla parte renziana del cordone di polizia: il clima. O, per essere più precisi e per dirla all'inglese, il Climate Change. Il primo attore dei cambiamenti che avverranno su questo nostro pianeta ma che il circo degli economisti di regime continua ad ignorare.
Proprio con i cambiamenti climatici, il festival OltrEconomia ha voluto aprire i suoi dibattiti, invitando un meteorologo di fama coma Luca Lombroso. Applauditissimo il suo intervento, ieri mattina al parco Santa Chiara all'incontro sul tema "Cambiamenti climatici, conflitti ambientali e grandi opere inutili. Verso il Cop 21 di Parigi".

"Questi incontri mondiali mi trovano pessimista - ha commentato -. Nonostante nessun scienziato ponga in discussione la realtà dei cambiamenti climatici e che a produrli l'inquinamento, trovare un accordo appare sempre più difficile".
Ancora, ha spiegato Lombroso, si continua a perseguire una economia fallimentare. Un esempio sono le trivellazioni in Adriatico. "Una scelta insostenibile non solo per i costi ambientali ma anche per quelli economici. Una scelta inoltre, fallimentare anche dal punto di vista energetico. Dovremmo spendere 50 barili di petrolio per estrarne cento. Inoltre, la produzione intera non basterebbe che per sei mesi, lasciandoci in eredità un'altra ferita alla terra per la produzione di gas. Oramai l'atmosfera è una discarica abusiva. Non so se le trivellazioni provocano terremoti, ma di sicuro a lungo andare causano inondazioni, fenomeni atmosferici estremi e maremoti".
Per Lombroso la parola d'ordine, più che sostenibilità, è resilienza. "Mi spiego. La raccolta differenziata va bene. Certo, meglio degli inceneritori. Ma a alla lunga si spende energia e si inquina anche con la differenziata, Il futuro è semplicemente quello di imparare a riciclare ed a non produrre più rifiuti".
Con Lombroso, sul palco del dibattito condotto da Stefano Bleggi, redattore del nostro giornale web, anche Gianfranco Poliandri, NoTav Brennero, che ha spiegato come funziona la scatola cinese delle grandi opere, e Tommaso Cacciari del comitato No Grandi Navi di Venezia, che ha raccontato fatti e misfatti di quei centri commerciali galleggianti che devastano e inquinano la laguna di Venezia. Chiusura per Renato de Nicola del forum abruzzese dei comitati per l'acqua. "Rischiamo di andare a Parigi per non ottenere una cippa! Dobbiamo capire, mantenendo e anzi rafforzando la specificità, che tutte le nostre lotte ambientali hanno a che fare con i cambianti climatici. Dobbiamo capire che lottare contro i cambiamenti climatici significa lottare contro lo Sbloccaitalia, le Grandi Opere e tutta un sistema economico folle che viene finanziato rubando dalle nostre tasche soltanto per mantenere alto il profitto bancario. La strada per cambiare l'economia e non il clima, è sempre quella: radicalità di scontro e lotta di massa".

I tanti livelli della corruzione. Intervista con Gianfranco Bettin

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La devastazione di Venezia e della sua laguna, con la quale abbiamo aperto il nostro viaggio inchiesta sui conflitti ambientali del Nordest, comincia ben prima del Mose. Da un secolo a questa parte, per cementificatori e “sviluppisti” la Città dei Dogi è stato un grande laboratorio di sperimentazione che ha aperto la strada a tutte le Grandi Opere, inutili e distruttive, che hanno afflitto il Paese. Perché se riesci a far approvare un progetto come il Mose in una città che è sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
E’ anche vero comunque che, il “sacco di Venezia” ha avuto delle caratteristiche uniche, come unica è la nostra città. Ne parliamo con una persona che questo “sacco” lo ha seguito, denunciato e combattuto sulle barricate degli ambientalisti sin dal suo primo approccio con la politica: Gianfranco Bettin.

A Venezia non si può fare speculazione edilizia, come in terraferma. Tutta città storica è vincolata. La sua cementificazione è stata l'alterazione dell'equilibrio idrogeologico ed idrodinamico della laguna con le grandi manomissioni del 900: lo scavo dei canali come quello dei Petroli l’interramento di una larga percentuale della laguna per realizzare Porto Marghera, l’aeroporto e altri imbonimenti. Non potendo attaccare la città storica, la speculazione si è scaricata sulle sue acque, stravolgendone il delicato equilibrio ecologico. Pochi purtroppo avevano chiaro il concetto che la laguna è una parte imprescindibile di Venezia.



Poi arrivò, l’Acqua Granda…
L’alluvione del ’66 è stata campanello d’allarme. Tutti hanno capito che l'ecosistema lagunare, negli anni precedenti, era stato manomesso talmente tanto da farlo… impazzire. Questo comunque non ha impedito il prosieguo dello scavo del canale dei Petroli che era in fase di completamento. Ma di positivo c’è l’arrivo, nel ’73, della legge Speciale in cui, per la prima volta, viene colta la necessità di fermare lo stravolgimento dell’ecosistema e si pone la questione di interventi di salvaguardia e di interventi di natura eccezionale. Fu un inizio promettente perché questa legge ferma la realizzazione della terza zona industriale. Ricordo che la Porto Marghera storica ha due zone industriali realizzate coprendo le barene con quello che veniva estratto dallo scavo dei canali. La terza zona industriale, che doveva sorgere da Fusina a Chioggia, era progettata per essere più vasta delle due precedenti messe insieme. Oggi, di questa follia, è stata realizzata solo una piccola fase iniziale con le casse di colmata. 

Un inizio promettente, quindi. Ma poi cosa è successo?
Che la legge speciale viene stravolta. I cosiddetti “interventi straordinari” vengono intesi non come opere di manutenzione e di riequilibrio per combattere le acque alte intervenendo sulle loro cause, ma come lavori di tipo ingegneristico per contrastarne gli effetti. Il primo progetto, che non a caso chiamato Progettone, parla di dighe fisse. Questa idea viene poi superata con quello che sarà il Mose ma contraddicendo, anzi tradendo, il mandato della legge speciale che parla di interventi graduali, reversibili, non impattanti. Tutte caratteristiche che il Mose certo non possiede. 

Come è stato possibile che un progetto così devastante e contrario alla legge venisse approvato?
Quello che avete chiamato “sacco di Venezia” è stato attuato attraverso una vasta opera di concussione e di prosciugamento delle risorse destinate alla rigenerazione socioeconomica e alla manutenzione diffusa. I finanziamenti che dovevano essere destinati alla città e alla salvaguardia vengono addirittura spesi contro di essa. A spianargli la strada ci ha pensato il primo governo Berlusconi con la legge Obiettivo. In questo modo il Mose è stato divento una sorta di paradigma per tante oltre opere simili. Penso al ponte di Messina, a certi tratti di Tav, a tante autostrade inutili. 

Ma la corruzione, ha avuto un peso determinate? Il Mose poteva essere realizzato da persone oneste?
La corruzione è stata un elemento in più. L’opera sarebbe stata ugualmente sbagliata ma nulla impediva che fosse realizzata in modo onesto. Il fatto è che la corruzione è un problema italiano diffuso e avviene sia con le procedure semplificate che con le procedure… complicate. Nel caso del Mose, la corruzione è stata indispensabile a superare una serie di scogli. Ricordo che il Mose ha avuto una sola Via e negativa, e negativo era anche il parere del consiglio superiore dei Lavori Pubblici. Ma tutte le volte che c'è stata qualche complicazione è intervenuta la corruzione a semplificare e a mandare avanti l'opera. Possiamo quindi dire che la corruzione è un elemento costitutivo del Mose, come di tante altre Grandi Opere. Ma non cadiamo nella trappola degli ultimi fautori del Mose che sostengono che l’opera è eccellente ma la realizzazione avvelenata da qualche mela marcia. L’opera rimane comunque sbagliata. 

Come funzionava la corruzione? A leggere il libro “La Grande Retata”, scritto dai giornalisti del Gazzettino, pare che tutta la città fosse corrotta.
Non tutti erano corrotti. Ma va dato atto al Consorzio di essersi mosso in maniera molto molto spregiudicata. Operavano una corruzione a 360 gradi che non investiva solo la destra. Ci sono anche persone di sinistra e di estrema sinistra che sono finite nel libro paga del consorzio. Certo, magari non hanno fatto perizie false, come altri hanno fatto, ma comunque hanno lavorato sotto l'ombrello vasto del Consorzio Venezia Nuova che aveva messo in atto una strategia mirata ad ingraziarsi la città, coinvolgendo anche gente che non era d'accordo col Mose ma che, grazie a questa strategia, finiva per starsene tranquilla pur di mantenere buoni rapporti con loro

Un sistema corruttivo a più strati, quindi…
Sì, c’era la corruzione vera e propria per cui quel funzionario, quell'esperto, sanciva che l'opera andava bene, o addirittura si faceva scrivere i referti dal consorzio e lui poi li sottoscriveva, come stato documentato. Poi c'era il politico corrotto che prendeva i soldi e sapeva che in ogni caso doveva difendere il Consorzio. Poi c'era la “corruzione”, da scrivere tra virgolette, di scienziati, periti ed esperti che facevano consulenze magari su aspetti marginali o addirittura del tutto irrilevanti. Magari erano perizie sane ma che non toccavano il cuore della questione. In questo modo anche queste persone entravano nell'orbita del Consorzio.
Poi c'era un altro tipo di “corruzione”, questa da scrivere con quattro virgolette, con cui giornalisti, scrittori, intellettuali venivano coinvolti in attività pulite e prendevano qualche cachet dal Consorzio per qualche iniziativa, anche benemerita, come la scrittura di un libro. Penso a ottimi scrittori come Acheng, Brodskij e altri. Tutto faceva immagine e creava relazioni. Intendiamoci, io penso che un'impresa fa bene a sponsorizzare attività sportive, culturali o di beneficenza, perché è un modo per ricambiare la città del fatto che ha ricevuto dei lavori da realizzare. Ma nel caso del Consorzio Venezia Nuova tutto questo faceva parte di un sistema in cui tutto era teso ad assumere un controllo egemonico che andava dalla corruzione vera e propria al semplice accattivarsi le simpatie.


Un sistema che presuppone molto denaro a disposizione.
Certamente avevano bisogno di rubare molto. Se voglio oliare meccanismi, corrompere a largo raggio, avere nel mio libro paga politici potenti e funzionari di grado elevato ho bisogno di un sacco di soldi e quindi debbo fare creste enormi sulle spese. Ma tutto questo è un “di più” odioso rispetto un'opera che sarebbe comunque stata sbagliata
Di fronte a questo strapotere non solo economico ma anche mediatico, che spazio veniva lasciato ai pochi oppositori?
Questa è un altro punto dolente della questione. Una tale potenza di fuoco ha messo a tacere tutto il dibattito sulle possibili alternative. Non è potuta crescere una seria discussione sulla salvaguardia o maturare ipotesi su come realizzare una città sostenibile. Soprattutto non è stata fatta crescere l’idea che si possa salvare la laguna e progettare un futuro per Venezia anche senza Grandi Opere. Questi sono percorsi che avrebbero avuto bisogno di dibattiti e di discussioni che non ci sono stati. I guasti compiuti dal Mose sono molto profondi e non si fermano alla devastazione ambientale. 


Aprire un dibattito sul futuro della laguna era anche lo scopo del Parco per il quale ti sei tanto speso?
Già. In quel mese e mezzo che mancava per concludere il percorso di istituzione del parco e avviare la discussione su quello che sarebbe diventato il piano socioeconomico, stava proprio per venir fuori questo discorso. Il punto è porsi finalmente la domanda “quale laguna vogliamo?” Il disastro provocato dal coinvolgimento del sindaco nello scandalo Mose - il sindaco solo, perché la procura ha escluso qualsiasi coinvolgimento del resto dell’amministrazione - ha fermato tutta la discussione. Adesso è un anno che non si parla del parco. 

Un argomento fuori anche dalla campagna elettorale?
Sì, a parte qualche domanda che viene posta a me negli incontri a sostegno di Felice Casson. Ma l’unico a parlare ancora del parco è Brugnaro. Ma solo per assicurare che, se sarà eletto, la prima cosa che farà sarà di abrogare tutto.

C'era una volta la laguna

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Tanto tempo fa - tanto che potremmo anche scrivere "c'era una volta", se ci fosse un lieto fine come in ogni favola che si rispetti - viveva nella nobile città di Venezia uno studioso che rispondeva al nome di Cristoforo Sabbadino e che copriva il delicato incarico di "proto" della Serenissima. Noi moderni lo definiremmo un ingegnere idraulico. All’epoca correvano i primi anni del XVI secolo e nella Città dei Dogi infervorava un acceso dibattito sul futuro della laguna. Che poi, come ben sanno tutti i veneziani, è il futuro stesso della città. Perché non c'è Venezia senza laguna, né laguna senza Venezia.
Alle tesi del Sabbadino, convinto che la laguna fosse un organismo vivo e, come tale, andava accudita, protetta e gestita giorno per giorno, assecondando il suo millenario respiro tra le maree periodiche e la entranti acque fluviali, si opponeva tale Alvise Cornaro, un "nobilhomo" padovano che aveva costruito le sue fortune economiche e politiche come proprietario terriero.


Detto Cornaro, leader del partito agrario, non aveva nessuna specifica competenza in idraulica ma ugualmente sosteneva che la laguna doveva essere dominata e arginata. Acqua e terra, diceva il Cornaro, andavano nettamente separate per impedire alle maree di invadere i campi. I canali inutili alla navigazione e al trasporto delle merci, dovevano essere interrati e le barene bonificate per recuperarle all'agricoltura.

Doppio futuro
Due concezioni inconciliabili. Due strade diverse che avrebbero portati a due futuri radicalmenti diversi. La spuntò, per nostra buona sorte, il proto che davanti al doge e al maggior consiglio mise a tacere l'agricoltore con questa inconfutabile argomentazione: "Cornaro sta a Padoa" e di conseguenza è "incompetente a ragionar d'idraulica". Quel giorno, la scienza trionfò sulla (cattiva) politica. Anche per merito di un po' di campanilismo.
L'idea della laguna come organismo vivente, bisognoso di cure continue e di infinite attenzioni, così che questa regali spazio vitale tanto all’uomo che alle terre e alle acque, visse finché visse la Serenissima. Non so dire se i nostri antenati fossero più saggi o se avessero un rapporto con la laguna che oggi noi abbiamo perduto. Diciamo semplicemente che erano altri tempi. Certamente avevano - cosa che noi oggi non abbiamo - la sovranità nel loro territorio e la difesa della laguna era la prima "ragion di Stato”.

Progresso o morte
Storia passata. Col secolo del carbone e dell'acciaio arrivò il modernismo e la laguna fu letta come un fastidio, un ostacolo di acqua e terra che si opponeva al progresso, alla realizzazione delle grandi periferie industriali, all'approdo delle petroliere. Cominciarono le opere distruttive d’inizio secolo come lo scavo del canale dei petroli e l'interramento di Porto Marghera. Il Doge non c’era oramai più e il Cornaro sarebbe stato felice.
Ma la storia non si ferma mai e c’è sempre una partita di ritorno. Con l’Acqua Granda di quel pauroso 4 novembre del 1966, come racconta la prima puntata di Cemento Arricchito, la laguna suonò il primo campanello d’allarme per ricordarci che le catastrofi, anche quelle naturali, non sono mai davvero naturali. Se costruisci dove il terreno è franoso, prima o poi la casa crolla. Se interri le barene che assorbivano l’acqua in entrata, prima o poi la marea ti travolge.
Il futuro di Venezia, evolutasi da Città dei Dogi a Patrimonio dell’Umanità, divenne una questione dibattuta a livello mondiale. La legge speciale che ne scaturì ripropose, per tanti versi, il dibattito "Sabbadino vs Cornaro". E anche questa volta a spuntarla fu il Sabbadino. La legge poneva dei solidi principi di rispetto delle paculiarità dell’ecosistema lagunare. Ricordiamo solo il divieto di realizzare in laguna opere per loro natura irreversibili.

La legge defraudata
Ma di buoni propositi, si sa, è lastricata la strada che porta all’infermo. Proprio la legge speciale - stravolta nei suoi principi dagli indirizzi applicativi e dall’istituzione di un organismo gestionale unico come il Consorzio Venezia Nuova, totalmente slegato dal controllo democratico dei veneziani - si trasformò in una potente bocca da fuoco per i nuovi pirati che avevano preso di mira la laguna. Il nemico stavolta era il “partito del fare”, i sostenitori delle Grandi Opere. In laguna arrivano devastazioni come il Mose, le opere complementari, le barene artificiali, le Grandi Navi… Ancora si parla di “opere necessarie”, si fa leva sul ricatto “lavoro contro ambiente”. Gli investimenti pubblici vengono deviati verso la criminalità organizzata e finiscono per drogare la stessa democrazia, finanziando politici corrotti a destra, in particolare, ma anche a sinistra.

Filibustieri di ieri e filibustieri di oggi
E qui corre tutta la differenza tra i devastatori di oggi e i cementificatori di un secolo fa. Il canale dei Petroli fu scavato perché si pensava, con un ragionamento poco lungimirante ma onesto, di costruire un futuro occupazionale per Porto Marghera. Il Mose invece non ha nessuna giustificazione onesta. L’opera è sbagliata di per sé. Lo dice la Via, lo dicono gli scienziati, lo dicono i pescatori che tutti i giorni vedono l’antica laguna trasformarsi in un braccio di mare aperto. E così, per gli stessi identici motivi, è sbagliato in sé lo scavo del Contorta. Come è sbagliato che tutta la città debba pagare i danni causati dal passaggio di quegli aborti di meganavi per far far cassa alle Compagnie di Crociera. E questi sono dati di fatto. Dati assodati da un milione di studi che non starò qui a ricordare.
Non ci sono motivazioni sbagliate, o poco lungimiranti, ma oneste per questi scempi. Il loro unico scopo è costruire una macchina da tangenti. Il loro unico obiettivo è trasformate la laguna in “carne di porco” per deviare finanziamenti pubblici in tasche private.
Il nostro, è un nemico che ha tanti volti e nessuna dignità.
Un nemico che si combatte solo a colpi di democrazia, costruendo spazi di partecipazione come la splendida manifestazione di sabato scorso, dando il giusto peso ai pareri tecnici degli scienziati, restituendo potere decisionale alle amministrazioni del territorio, più vicine ai cittadini.
Perché la battaglia per la laguna è la battaglia per la democrazia.

Campi e calli piene di gente. La Venezia ambientalista vince la sfida delle Grandi Navi

Tutti dietro alla bandiera del Leon Marciano. Questa è la Venezia dei veneziani. La Venezia che non la trovi in vendita in nessun negozio di souvenir. La Venezia che si è mobilitata per dire no alle Grandi Navi, no alle soluzioni peggiori del male, come lo scavo del Contorta, no ad altri stupri della laguna finalizzati solo a far fare cassa alle multinazionali delle Grandi Opere e alle mafie che ci mungono giù.
Tutte cose che gli ambientalisti dicevano sin dai tempi in cui si cominciò a parlare di quella macchina da tangenti che sarebbe stato il Mose. Tutte cose che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Non stupisce quindi la grande partecipazione alla mobilitazione che questo pomeriggio ha colorato la città lagunare da campo Santa Margherita a campo Sant'Angelo.
Nei campi e nelle calli si sono radunate più di quattromila persone. La testa del Corteo era alle Zattere che la coda usciva da campo Santa Margherita. Tutti dietro alla grande bandiera del Leon Marciano che apriva la sfilata. Tantissime bandiere No Grandi Navi, tante bandiere No Mose, tante bandiere di comitati come Opzione Zero e, in fondo al corteo - siamo pur sempre in campagna elettorale! - qualche timida bandiera di partito.

Sul palco allestito a Santo Stefano, microfono anche ai candidati sindaci. Tutti presenti, tutti pronti a far barricate, perlomeno a parole, contro il passaggio di questi aborti di Titanic, e contro uno scavo del Contorta bocciato a 360 gradi da scienziati, ambientalisti, economisti ma sul quale Paolo Costa rimane avvinghiato con la rabbia di un cane che difende il suo osso.
Tutti i candidati sindaci, abbiamo scritto. Intendevamo: tutti i candidati sindaci con un minimo di credibilità. Il candidato miliardario Luigi Brugnaro si è fatto la sua manifestazione personale in marittima a favore delle Grandi Navi, in concomitanza con quella degli ambientalisti,
Li ho visti. Una trentina di persone, per lo più sul libro paga delle compagnie di crociera, con un paio di lussuosi striscioni fatti stampare da aziende specializzate (a parecchi là in mezzo non mancano i soldi) e montati sui rimorchiatori di proprietà del Porto. Una cialtronata a dir poco.

Venezia stava tutta dall'altra parte. Stava con i negozianti che applaudivano il corteo al suo passaggio (e che sanno bene che il turista mordi e fuggi che si imbarca sulle grandi navi non è quello che passa per la sua bottega), la gente alle finestre che sventolava, in mancanza d'altro, la bandiera della pace o quella di San Marco. E uno svalvolato anche quella della Juve.

Applausi a scena aperta anche dai visitatori internazionali della Biennale. Oggi infatti è il giorno dell'apertura dell'esposizione. Dai padiglioni in festa, ho visto gli artisti ed i loro ospiti che festeggiavano l'inaugurazione delle installazioni, uscire per chiedere cosa stesse succedendo e, subito, manifestare solidarietà. All'estero, più che in Italia, ha fatto scandalo il passaggio di queste specie di speculazioni edilizia galleggianti in un fragilissimo ecosistema come quello lagunare. Un artista poi, non può che stare dalla parte della bellezza.
E bella come quella Venezia che vuole difendere, è stata la manifestazione di questo pomeriggio. Neppure il violento scroscio di pioggia finale è riuscito a rovinarla.

Altro non voglio aggiungere se non invitarvi a guardare le gallerie di foto o di video che stanno girando sui social. Ne vale la pena.

Una solo considerazione finale. Questo pomeriggio la Venezia vera, la Venezia della cittadinanza attiva, la Venezia che non si è mai prostituita alle mafie ed alle tangenti ha ribadito chiaramente che le Grandi Navi debbono stare fuori dalla laguna e che il Contorta non si devasta. La partita a questo punto non è più "Contorta sì" o "Contorta no", ma "chi deve esercitare la sovranità su un territorio". I cittadini, tramite le amministrazioni locali regolarmente elette e tenendo in giusta considerazione i pareri scientifici finalizzati alla tutela dell'ecosistema, o le lobby delle Grandi Opere con il solo obiettivo di macinare ambiente, lavoro e diritti per far cassa da finanziamenti pubblici.
Tutto quello che accadrà d'ora in avanti sarà una battaglia per la democrazia.

Cemento Arricchito, un viaggio dall’altra parte del Veneto

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Immaginiamo un lungo viaggio a tappe. Un viaggio al di fuori delle rotte turistiche che ci conduca verso quel Veneto che in tanti, troppi, fanno finta di non vedere. Immaginiamo di viaggiare attraverso un paesaggio letto nella sua fragilità ambientale, tra devastazioni passate, devastazioni presenti e devastazioni future. Un viaggio che ci racconti storie di corruzione, cementificazioni, mafie e tangenti, ma anche storie di donne e uomini che hanno avuto il coraggio di opporsi, di resistere e di urlare a tutti,  anche a chi questo coraggio non lo avuto, che un altro Veneto, un altro mondo, non solo è possibile ma è anche necessario.
Questo viaggio è Cemento Arricchito. Un progetto nato dalla giornalista vicentina Chiara Spadaro che si è meritato il premio istituito dall’Ordine dei giornalisti del Veneto in memoria di Massimiliano Goattin. Non senza soddisfazione, possiamo annunciare che Cemento Arricchito uscirà in anteprima su EcoMagazine in una serie di puntate a cadenza bisettimanale.


Il progetto coordinato da Chiara, si avvarrà della collaborazioni di altri giornalisti come Ernesto Milanesi e Sebastiano Canetta. L’obiettivo è di tracciare una mappa dei conflitti ambientali in atto nella nostra Regione, con un occhio nel passato e lo sguardo nel futuro. Reportage, inchieste, articoli a tutto tondo per esplorare assieme a noi quel Veneto che i media tradizionali tendono volentieri ad ignorare.
Come è caratteristica del giornalismo on line, Chiara e il suo gruppo utilizzeranno per questo nostro viaggio/inchiesta tutte le tecniche multimediali, dai filmati in esclusiva alle gallerie fotografiche, dalle geolocalizzazioni alle mappature, dai documenti in pdf per approfondimenti ai link ad altri siti, sino agli ebook scaricabili ed agli oramai inevitabili social network. E senza neppure trascurare la buona, vecchia, tradizionale… scrittura!
Che altro dirvi se non “seguiteci nel nostro viaggio!” Partiremo come si conviene da Venezia, in prossimità della manifestazione di sabato 9 maggio, col primo reportage dedicato alle Grandi Navi (a proposito di devastazioni… che altro non sono questi aborti di nave se non  speculazioni edilizie galleggianti?) Altre tappe seguiranno a cadenza bisettimanale.
Dimentico qualcosa? Ah sì, l’hashtag!
Sarà #CementoArricchito naturalmente!

Festa d’Aprile a Venezia! Occupata la paratia del Mose

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E' festa d'Aprile in Italia. Festa della Liberazione da un regime fascista, dittatoriale, corrotto e violento. Anche Venezia ha voluto celebrare il suo 25 aprile con un segnale forte: liberiamo la nostra città da mafia e corruzione preparando la manifestazione del 9 maggio.
Questo pomeriggio, una cinquantina di attivisti ha pacificamente occupato la paratoia di quella fabbrica di corruzione che è stato ed è tutt’ora il Mose. Perché gli arresti pur eccellenti e le inchieste tutt’ora in corso non hanno cambiato niente: la macchina della corruzione continua a macinare tangenti e conserva tutto il suo potere decisionale sulla laguna alla faccia dei veneziani e della stessa amministrazione comunale democraticamente eletta. Alzare sulla paratia la bandiera “No Mose”, significa alzare la bandiera della democrazia e del diritto dei cittadini di decidere sulla loro città. Occupare la paratia che il Consorzio ha portato all’Arsenale significa ribadire al Consorzio che nessuno oramai a Venezia è tanto fesso da cascare nella sua propaganda patinata e che tutti oramai hanno chiaro che altro il Mose non è che un furto alla città, alla legge Speciale e alle casse dello Stato. Un furto consumato tra appalti truccati e criminalità organizzata per realizzare un’opera distruttiva, da sempre osteggiata tanto dai cittadini quanto dagli scienziati esperti nell’idrodinamica lagunare. Un furto consumato tra tangenti e sprechi vergognosi, non ultimo quello di trasportare una paratia con tre rimorchiatori sino all’Arsenale per mostrarla a turisti e cittadini. Ma anche stavolta, il Consorzio ha fatto male i suoi conti. Più che stupore, tra i visitatori si respirava rabbia ed indignazione. Quella stessa rabbia ed indignazione che è esplosa nella simbolica occupazione della paratia dei ragazzi e delle ragazze degli spazi sociali.
No Mose, quindi, e No mafia. Per un 25 aprile di Liberazione. In attesa della manifestazione del 9 maggio.

L’Ispra stronca il Progetto Contorta

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Stavolta ci siamo. La stroncatura è di quelle definitive. Definitive perché non viene dai “soliti” ambientalisti. Non viene neppure dai “soliti” scienziati che si sono rifiutati di entrare nel “libro paga” del Consorzio. A stabilire che il progetto dello scavo del Contorta per farci passare le Grandi Navi è una porcheria (termine poco scientifico ma senz’altro adeguato alla questione) è l’Ispra, l’istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, l’autorevole ente di ricerca che fa capo al ministero dell’Ambiente. La relazione che potete leggere in allegato, affonda il ventilato scavo del Contorta sotto tutti i profili: ambientale, idraulico, morfologico, ecotossicologico. Per non parlare dei conflitti normativi con la legislazione speciale per Venezia e le direttive europee. Nessuno via di uscita viena lasciata al proponente del progetto (tanto per cambiare, l’Autorità Portuale di Paolo Costa). Tutte le 134 osservazioni avanzate per soddisfare la procedura Via vengono bocciate con gudizi come “insufficiente”, “non esaustiva”, “non soddisfa la domanda”, “incompleta ed incoerente”. Una bocciatura che in un qualsiasi Paese civile, dove il parere dei tecnici e dei ricercatori, viene tenuto in giusta considerazione, significherebbe l’abbandono del progetto. In Italia, purtroppo, siamo abituati in tutt’altra maniera. La politica, ma forse sarebbe meglio scrivere, il sistema di malaffare mafioso che sovrintende le Grandi Opere – e lo scavo del Contorta, rientra a buon diritto in questa categoria – ci ha insegnato che più della logica, della salvaguardia e della scienza pesa la tangente.
Ed è per questo che il senatore Felice Casson e la senatrice Laura Puppato, a proposito di questa relazione dell’Ispra in procinto di arrivare in commissione Via, chiedono al Governo con una interpellanza di adoperarsi per garantire “trasparenza e correttezza” nella procedura di valutazione ambientale (cosa che quasi mai si è vista a quei piani del palazzo) e soprattutto “di assicurare l’assoluta indipendenza dei membri della commissione Via, evitando ogni indebita ingerenza nella decisione finale”. Cosa che si è vista ancora meno, sempre in quei famosi piani del palazzo.


Gli ambientalisti intanto stiano in campana e ricordino che anche il Mose ce lo hanno fatto senza neppure passare per la Via! La definitiva bocciatura dell’Ispra dello scavo del Contorta è certo un rigore a nostro favore ma adesso bisogna buttare la palla dentro e lo faremo sabato 9 maggio, a Venezia, se saremo in tanti a manifestare contro le Grandi Navi, contro la mafia e il sistema corrotto che ci sta sotto. E’ il momento giusto per chiudere la partita. Non lasciamoci sfuggire l’occasione.
 
 
Di seguito il comunicato di Ambiente Venezia
Ecco il Documento ISPRA che analizza le Risposte dell’Autorità Portuale alle richieste di Integrazioni della Commissione VIA – e Rileva una marea di Criticità residue del Progetto Contorta
In allegato anche un’ interrogazione dei senatori  Casson e Puppato sull’argomento
L’associazione Ambiente Venezia ritiene utile rendere noto un documento dell’ ISPRA ( Istituto Superiore per la Protezione e per la Ricerca Ambientale ) da cui emerge un articolato giudizio decisamente negativo sul progetto di  “Adeguamento via acquea di accesso alla stazione marittima di Venezia e riqualificazione delle aree limitrofe al canale  Contorta- S.Angelo “.
Con una rigorosa analisi l’Istituto relaziona su ognuna delle 134 richieste che nel corso della procedura la commissione VIA ha formulato all’ Autorità Portuale di Venezia mettendone in evidenza tutti gli aspetti critici ( le cosiddette “ criticità residue “ ) che  connotano inequivocabilmente ed in modo definitivo la condanna del progetto in esame.
Vengono vagliati nel dettaglio  i vari temi quali: – il quadro progettuale,-la modellistica impiegata,-gli aspetti dell’idrodinamica e della morfologia,-lo stato dei sedimenti e delle opere di mitigazione e compensazione per la realizzazione di velme e barene,-i vari tipi di inquinamento e la salute pubblica,- la perdita di habitat prioritario e il conflitto con le direttive europee ,-le componenti della vegetazione,  flora, fauna ,pesca e molluschicoltura,- l’aggiornamento della Valutazione di Incidenza,-ecc.
Gli elementi valutati per la loro valenza  riconosciuta “ importante e significativa  “ pongono  questioni irrisolvibili di carattere ambientale e rendono così il progetto irrealizzabile: in oltre l’80% delle componenti si riscontrano giudizi di “insufficienza”, “ la risposta non è esaustiva” , “la risposta non soddisfa la domanda”, “elementi incompleti ed incoerenti “,  ecc. In termini meno tecnici ciò significa la pietra tombale del Contorta-S.Angelo.
Si confermano così, e per alcuni versi si esaltano, i contenuti di tante osservazioni già inviate alla commissione Via dal mondo civile e scientifico ( tra cui la scrivente associazione )  e soprattutto si deve subito ottemperare al volere della cittadinanza  che ha sempre contrastato questo disastro lagunare e indica realisticamente quella soluzione alternativa alla bocca di Lido già definita progettualmente che nel mantenere l’attività crocieristica a Venezia riesce a coniugare lavoro e salvaguardia dell’ecosistema lagunare.
In tale contesto si ringrazia il senatore Casson e la senatrice Puppato che hanno presentato prontamente una interrogazione in materia che trovate in allegato e che provvederemo a diffondere via e-mail e via facebook negli indirizzari con i quali siamo collegati.
Allegati:
ISPRA – Istogramma sulle criticità residue – Progetto Contorta
Relazione ISPRA su Contorta Integrazioni
Interrogazione Senatori Casson e Puppato su Progetto Contorta S

Una malora da mezzo miliardo. Viaggio nella Ghost Town di un G8 nato morto

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Non vogliono giornalisti tra le palle al super ultra mega lussuoso grand hotel La Maddalena (con annesso Yacht Club). Faccio appena in tempo a buttare un occhio sullo spettacolare lampadario firmato dalla Zaha Hadid, quello che da solo è costato - ci è costato - 110 mila euro, che il guardiano mi caccia via. Dice che non c'è niente da vedere. E, da un certo punto di vista, ci ha pure ragione! E' tutto vuoto, tutto spento, tutto abbandonato, tutto buttato là alla va la che va bene. Non fosse che tutto l'ambaradan è costato - ci è costato - mezzo miliardo di euro, ci sarebbe pure da ridere.
Invece c'è solo da incazzarsi.
Ed i primi ad incazzarsi sono loro, gli abitanti dell'isola che ha la disgrazia di trovarsi, sia pure di poco, più vicina alla Sardegna italiana che alla Corsica francese. "Perché in Corsica non si fanno mettere i piedi in testa dallo Stato centrale come da noi - mi racconta un'amica sarda - Là han messo le bombe e si sono conquistati una forte autonomia, così che possono decidere loro sulla loro terra. Cosa che da noi è impossibile. Guarda quello che è successo qui, alla Maddalena. il Governo ci ha messo nelle peste realizzando strutture inutilizzabili per un G8 mai arrivato e poi ha lasciato la gatta da pelare alla Regione Sardegna che non ha i soldi per ristrutturare tutto ma deve comunque spenderci perlomeno 3 milioni all'anno per la manutenzione minima e, addirittura, per pagare l'Imu a quello stesso Stato che l'ha messa nelle peste".

G8, Grandi Opere, Basi militari e altre porcherie
Quella che andiamo a raccontare è una brutta storia che ci ha dentro un po' di tutto il pattume che sta infangando anche il Continente (come da queste parti chiamano il resto d'Italia). Ci sono le tangenti, il malaffare, il G8, la corruzione, lo spreco di denaro pubblico, la malapolitica, l'inquinamento, la devastazione ambientale, il ricatto "lavoro o ambiente", le Grandi Opere e pure la base americana. E partiamo proprio dalle Stelle e Strisce.
Finita la guerra, la marina Usa si insedia alla Maddalena e in alcune isole circostanti per impiantare una base super segreta. Non nel senso che nessuno sa dove sia, ma che non si ha idea di quello che ci fanno dentro. Tanto è vero che i rilievi ambientali sulla qualità dell'acqua che sono stati eseguiti, non all'interno delle basi top secret, ovviamente, ma nelle prospicienti coste sarde, hanno sempre rilevato una forte contaminazione da mercurio e idrocarburi. Una indagine di Legambiente nei primi anni del 2000 ha confermato valori di radioattività di gran lunga superiori alla norma e ha rilevato nelle acque tracce di plutonio.
Eppure, più che gli italiani, a preoccuparsi e ad incavolarsi sono i francesi. Nei giornali transalpini, trova grande eco la notizia delle tracce di torio 234 rilevate in quantità anomala, in campioni di alghe raccolte lungo le sponde corse. Il torio, ricordiamolo, è una sostanza inquinante e radioattiva, figlia dell’uranio impoverito per le armi nucleari. Il tutto alla faccia dello Stato Italiano che casca dalle nuvole. Interrogazioni e richieste di spiegazioni da parte di deputati e senatori più francesi che italiani, ottengono soltanto un netto "no comment" da parte della marina Usa che a casa sua, anche quando sarebbe casa degli altri, è abituata a fare quel cavolo che gli pare.



Dollari e bistecche
Fatto sta, che la base e la forte presenza di militari nordamericani condizionano pesantemente l'economia dell'isola, abitata da poco più di 10 mila persone. Tutti alla Maddalena lavorano per gli americani e nelle edicole è più facile trovare il Washington Post che il Corriere della Sera. I marinai pagano in dollari e nessuno si sogna di protestare per il torio. Arriviamo al 2007. Gli scenari della guerra globale sono cambiati e anche la Casa Bianca si accorge che una base navale nel canale di Bonifacio non serve più a un beato cazzo. Così, gli Usa ringraziano e se ne vanno. Senza peraltro curasi di lasciare i cessi puliti o di bonificare l'area inquinata. Di più, senza neppure spiegare cosa e come aveva causato l'inquinamento.
Se per tanti sardi al di là del canale, la partenza delle navi di Zio Sam è un sollievo, per i maddalenini è la crisi nera. Tutta l'isola si ritrova improvvisamente nelle proverbiali braghe di tela. "Tutti noi lavoravamo con i soldati americani - mi spiega una ragazza che oggi gestisce un b&b -. Io facevo la cameriera in un locale. I soldati ordinavano solo bistecche e patatine, ma pagavano senza fiatare e tutte le sere c'era il pienone nel mio come negli altri locali. Oggi non sono rimasti in piedi neppure un quarto dei ristoranti che c'erano allora. Tanti della mia generazione sono dovuti partire per il continente. Il turismo locale non è bastato a coprire l'uscita di scena dei militari. Anche perché tutte le nostre strutture turistiche erano conformate a quel tipo di clientela. Gli yacht poi, non arrivano perché le acque sono inquinate e piene di barriere sommerse".

Prima Prodi e poi Berlusconi. Le disgrazie non vengono mai da sole
I maddalenini si sono accorti di punto in bianco, sulle loro tasche, che una economia incentrata su una presenza militare alla lunga non paga. Alla fine dei conti, si sono trovati a gestire isole impestate di caserme e mega strutture di guerra, un mare inquinato da non-si-è-ancora-capito-bene-cosa, senza prospettive future e senza più entrate presenti. Come si dice: cornuti e mazziati.
Come se non bastassero le disgrazie, ci si mette pure Romano Prodi che nel 2008 è presidente del Consiglio. Ecco la sua soluzione: "Risarciremo i maddalenini trasformano le strutture Usa in grandi alberghi per ospitare il G8 del 2009. Finito il summit, alberghi e yacht club saranno il volano per far ripartire l'economia dell'isola". Evviva, evviva.
Prodi non lo sapeva, ma qualcuno nel suo stesso Governo lavorava per fargli le scarpe, e non toccherà a lui concludere l'operazione Maddalena. A Palazzo Chigi sale tale Silvio Berlusconi, la corruzione fatta uomo, che coglie la palla al balzo e, con la scusa di velocizzare i lavori per il G8, vara una leggina che avrebbe fatto arrossire di vergogna anche la Repubblica Popolare della Corea del Nord: la gestione degli appalti per il G8 viene affidare alla... Protezione Civile! Non vi sto a dire che era il capo della Protezione Civile all'epoca. Anzi, ve lo dico: tale Guido Bortolaso che riesce a spendere in un anno o poco più 470 milioni di euro, lampadario di Zaha Hadid compreso.
Con la regia di Bortolaso, i costi lievitano come una torta paradiso in forno di circa il 60 per cento del previsto. In campo scende anche la Mita Resort, una società che fa riferimento ad Emma Marcegaglia che era appena diventata primo presidente donna di Confindustria. La Mita si aggiudica l'appalto col collaudato sistema del "un solo partecipante, vittoria sicura, nessuno protesta e tutti contenti".

Lo scippo del G8
C'è da dire, rispetto alle perennemente inconcluse Grandi Opere dai Grandi Crolli cui siamo abituati negli ultimi tempi, che alla fine la premiata ditta Bortolaso&cricca riesce a sistemare tutto per la partenza in grande stile. Soltanto che il G8 non si farà più alla Maddalena.
Il 6 aprile del 2009 un terremoto devasta l'Umbria. Il Berlusca coglie la palla al balzo. Alla Maddalena oramai i soldi pubblici erano stati spesi, le tangenti distribuite, la cricca dei Grandi Eventi accontentata. Non c'era quindi motivo di continuare un progetto che, tra le altre cose, era stato voluto dall'odiato predecessore Romano Prodi. All'Aquila, al contrario, con la ricostruzione si apre un'altra mangiatoia mica da ridere (e questa è un'altra storia). Così, all'ultimo momento, il G8 viene deviato verso il capoluogo umbro.

Per i maddalenini è un'altra mazzata. Il Berlusconi prova a tranquillizzarli (ed a tranquillizzare la Marcegaglia che già minacciava di levare l'appoggio di Confindustria al Governo). "Faremo alla Maddalena una decina di grandi eventi all'anno" dice. Non dice però quali. Nel 2011, parte una specie di "stagione turistica d'apertura" ma le mega strutture rimangono vuote. Al Grand Hotel Carlo Felice si sono dimenticati di fare il parcheggio, non c'è la piscina ma in compenso hanno lasciato i muri alti circondati da filo spinato da caserma. Il posto era un ex ospedale militare e le ristrutturazioni fatte alla cazzo di cane non sono riuscite a cambiarne l'aspetto inquietante. Di clienti non si vede neppure l'ombra. Un po' meglio al super ultra mega hotel La Maddalena, gestito dalla Mita (che si è guardata bene in fase di concessione da accollarsi quella bruttura dell'ex ospedale). Ma anche qui la clientela ricca preferisce frequentare la vicina e più esclusiva Costa Smeralda, senza sbattersi in scomodi traghetti, per frequentare i poveri - dal loro punto di vista - locali maddalenini ancora tarati sul gusto "bistecche e patatine" dei marinai Usa. Senza contare che nessuno è tanto fesso da ancorare la sua barca allo Yacht Club sempre in attesa di bonifiche dove rischio, oltre alla salute, anche la chiglia della barca sui dissuasori sommersi che gli americani han lasciato in eredità.
Per farvela breve, la stagione d'apertura è un fallimento completo. Gli hotel aprono e chiudono subito.

Arrivano puntuali gli scandali. E che altro?
E questo è anche l'ultimo tentativo di rilanciare le mega strutture realizzate per quel G8 fantasma. In quello stesso anno, gli scandali investono Bortolaso. Viene a galla il marciume nascosto sotto i Grandi Eventi. Anche il Berlusca se ne va.
A finir nelle rogne è pure la Mita Resort che, oltre all'inchiesta della magistrature, si trova a gestire una serie di strutture non soltanto inutilizzabili ma anche costosissime da mantenere. L'azienda fa causa alla Protezione Civile per i mancati guadagni e il tribunale accoglie in parte le sue richieste, condannando l'ente che non ha soldi neppure per salvare i paesi delle frane, a pagarle 39 milioni di risarcimenti. Per adesso, perché altre cause sono in corso. Intanto, la Mita Resort si guarda bene dal pagare la concessione di 65 mila euro all'anno pattuita con la Regione, sostenendo che le strutture sono impraticabili per via della mancata bonifica. La faccenda tra corsi, ricorsi e vari gradi di giudizio è ancora in mano agli avvocati. Categoria questa, che non conosce crisi soprattutto in tempi di crisi.

Come se non bastasse, cala la scure del patto di stabilità
Qualche anima candida tra i lettori potrebbe obiettare: "Ma non sarebbe una mossa intelligente completare le bonifiche così da far ripartire perlomeno il porto? Per non parlare della salvaguardia della salute di isolani e turisti". Giusto. Ed è per questo che nel 2013 lo Stato ha designato il Comune della Maddalena come soggetto attuatore delle bonifiche, stanziandogli il ragguardevole finanziamento di 11 milioni di euro. Finanziamento di cui il Comune ha sentito appena l'odore, perché il patto di stabilità gli ha chiuso i cordoni della borsa meglio di una cassaforte svizzera. I soldi ci sono ma non ci sono.
Senza le indispensabili bonifiche, chi ci rimette economicamente, maddalenini a parte, è soprattutto la Regione Sardegna che, tra Imu allo Stato e le pur minime manutenzioni alle enormi strutture, che ugualmente cadono a pezzi giorno dopo giorno, butta ogni anno 3 milioni di euro. Senza contare gli stipendi al personale - una dozzina di persone - impegnato a sorvegliare alberghi, moli e club.
Anche se tutto sta andando alla malora, una guardia è comunque necessaria. Ci sono i gruppi elettrici da far funzionare, i giornalisti da allontanare, le ricche attrezzature turistiche da sorvegliare. Beni di ultra lusso per circa 9 milioni di euro.
Senza contare l'immenso quanto assurdo lampadario firmato dalla Zaha Hadid che non deve mai essere perso d'occhio. Fosse mai che qualche maddalenino se lo volesse appendere in camera sua.

Venezia, la laguna, lo scempio

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La mobilitazione del 9 maggio passa per San Leonardo. Un salone riempita di gente, quello di ieri pomeriggio; come sempre quando si discute in città su un tema come quello delle Grandi Navi. Tante associazioni, tanti comitati ma anche tanti cittadini perché è oramai chiaro a tutti che quando si parla di Grandi Navi non si parla solo di Grandi Navi ma di gigantismo, tangenti, mafia, grandi opere, devastazioni ambientali, economia insostenibile, profitti per pochi e danni per molti, gestione malavitosa del territorio... In altre parole, di una democrazia che ancora non c'è.


L'occasione dell'incontro, organizzato dal comitato No Grandi Navi - Laguna Bene Comune, è stata la presentazione del libro bianco "Venezia, la laguna, il porto e il gigantismo navale", Moretti & Vitali editore, scritto da Gianni Fabbri e Giuseppe Tattara. Più che un libro, una testimonianza ricca di dati, statistiche e studi scientifici sul terrificante impatto che queste specie di speculazioni edilizie galleggianti hanno sulla nostra laguna. O su quel che ne resta.
Proprio il grande divario tra saperi, studi scientifici e la retorica vuota, e qualche volta anche becera, dei portavoce stipendiati dalle multinazionali crocieristiche è stato sottolineato nell'intervento di Francesco Vallerani, docente di Ca' Foscari. Vallerani ha parlato con metafore molto convincenti di come sia indispensabile "decostruire una visione cornucopiana delle economia" e passare "all'estetica dell'etica" per combattere "lo sfregio, più che il consumo del suolo. Perché da certe devastazioni non si torna più indietro se non con una nuova glaciazione".
L'incontro è stato presentato dall'ambientalista Luciano Mazzolin che ha ricordato quanto è stato fatto, sia in termini di raccolta firme che di esposti alla magistratura e ricorsi al Tar, dai No Grandi Navi. Soprattutto, di quanto rimanga ancora da fare per tenere questi condomini galleggianti fuori della laguna, considerato che la nuova stagione crocieristica è già cominciata e puntualmente sono cominciati gli incidenti e l'inquinamento. Come quel cimaiolo rotto della Neo Classica, Costa Crociere, che è si è fatta tutto il canal della Giudecca sputando fumo nero come una carboniera di due secoli fa.

Una inutile e controproducente caduta di stile, va segnalata, invece nella scelta del relatore che ha introdotto il dibattito. Tale Domenico Luciani della Fondazione Benetton (avete letto bene! Benetton!) che, prima di pontificare sulla "vocazione acquatica" di Venezia - pensate un po' che novità! - con un chilometrico intervento non sappiamo dire se più banale o inutile, potrebbe anche farsi qualche domanda sulle violenze assassine che i suoi padroni stanno perpetrando contro i mapuche della Patagonia oppure sullo stupro di un palazzo storico come il Fondaco dei Turchi, nel cuore di Rialto, per farne un centro commerciale. E tutta la gente in sala a domandarsi "ma chi l'ha invitato 'sto trombone qua?"
In attesa di una risposta, la parola è passata all'economista di Ca' Foscari Jan van der Berg. Citando proprio gli studi di Paolo Costa, che ha fatto le pulci al "turismo povero" portato dalla Grandi Navi. "Un turismo che porta benefici a pochissimi contro rilevanti danni alla collettività". Un bilancio negativo che nessun economista serio potrebbe prendere in considerazione ma che è comunque figlio della stessa economia "cornucopiana", la definirebbe Vallerani, che genera le Grandi Opere. E pure la crisi.

Chiusura per Gianni Fabbri, coautore del volume. Nel suo appassionato intervento ha spiegato come il progetto Contorta preveda non solo lo scavo di un nuovo canale ma anche la sua arginizzazione per contenere la spinta idrodinamica delle navi. Unica soluzione accettabile, afferma, è tenere le Grandi Navi fuori dalla laguna. "Questi sono dati scientifici che nessuno mette in discussione ma che una politica schiava dell'economia preferisce ignorare".

La politica è proprio il punto cardine della questione. Una politica che deve slegarsi da una economia in crisi per non finire essa stessa in crisi. Una politica che deve tornare nella mani della cittadinanza attiva. In questo senso, chiudiamo con l'appello di Marta Canino del laboratorio Morion per la manifestazione del 9 maggio. "Il comitato No Grandi Navi ha saputo darsi in questi tre anni autorevolezza, conoscenze ed indipendenza. Tutto questo lo ha posto al servizio della città. Gli scandali come quello del Mose e del Consorzio che sin dall'inizio abbiamo denunciato, ora sono venuti a galla ma il ricatto cui Venezia è sottoposta è sempre lo stesso. Eppure, tutto il dibattito politico sembra adagiarsi su chi sarà il futuro sindaco. La manifestazione del 9 è l'occasione per riprendere voce ed aprire spazi al di là degli schieramenti dei partiti per dire quale è la democrazia e la Venezia che vogliamo costruire".

Idee a confronto per una politica che non sia più serva dell’economia

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Tante idee a confronto, tante battaglie da combattere, tante proposte da mettere in atto. Soprattutto, tanta gente, tanta voglia di fare e tanta voglia di resistere ad una economia che ogni giorno di più assume i contorni di una rapina a mano armata. La giornata di approfondimento organizzata oggi da EcoMagazine, in collaborazione con il cso Bocciodromo, ha offerto ai portavoce di comitati e di spazi sociali, giunti a Vicenza da tutto il nordest, una utile occasione per trovare un linguaggio comune su delle lotte che già sono comuni. Anche in previsione di appuntamenti determinanti come il prossimo Cop 21 di Parigi.

Mattinata dedicata agli approfondimenti con Gianfranco Poliandri (No Tav Brennero), Mattia Donadel (Opzione Zero) e i giornalisti Ernesto Milanesi e Sebastiano Canetta. Nel pomeriggio, spazio agli interventi dei presenti. Nel mezzo, un ottimo pranzo targato “genuino e clandestino” che certo non ha favorito la ripresa dei lavori.



Senza dilungarci sulle varie relazioni, a molte delle quali daremo spazio in questo nostro sito, sottolineiamo brevemente come la relazione di Poliandri abbia tracciato un esaustivo schema di funzionamento del perverso sistema delle Grandi Opere, mettendo in evidenza come non abbia fondamento alcuno la giustificazione secondo queste favoriscano gli investimenti dei privati. In realtà, il capitale privato è plurigarantito, non solo nelle perdite, ma anche nei mancati guadagni dal pubblico. “Un sistema di ingegneria finanziaria che non a caso è figlio di Tangentopoli e di una politica che ha legalizzato la tangente” ha concluso lo studioso.

Mattia Donadel si è soffermato sul concetto, che continuano a propinarci senza pietà, secondo il quale le grandi opere favorirebbero la ripresa economica. Niente di più falso. “I potentati multinazionali che traggono vantaggio da queste devastazioni ambientali sono solo scatole finanziarie vuote che non producono valore ma che speculano sul valore. Bolle bancarie che scaricano i rischi ed i costi verso il basso, verso le imprese che ancora lavorano con la produzione di opere o servizi e che, a loro volta, rispondono con precarizzazione sperando di riuscire a fagocitare perlomeno le briciole della commessa. Le grandi opere sono quindi funzionali a questo sistema malato che lo alimentano e se ne alimentano, trasformando in valore non più il lavoro o la produzione ma il patrimonio pubblico, l’ambiente, i diritti, il welfare”.

A chiudere la mattinata, i due giornalisti che sono entrati nella notizia citando fatti, storie e nomi di un sistema che, a differenza dei tempi di Tangentopoli, oggi lavora alla luce del sole protetto da una legge che colpisce - ogni tanto e sempre in ritardo - le cosiddette “mele marce” ma non sfiora mai l’albero che le produce.

Adriatico “No Oil”

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Il Governo Renzi le sbandiera come “strategiche”. In realtà le trivellazioni petrolifere nell’alto Adriatico non coprirebbe il fabbisogno nazionale che per poche settimane, perché il greggio sotto il nostro mare è scarso e di bassa qualità. Senza considerare che - e la crisi economica dovrebbe avercelo insegnato! - il futuro corre verso le rinnovabili. Una politica perdente anche dal punto di vista economico quindi, questa che vuole devastare l’Adriatico, mettendo a rischio l’ambiente e le attività come il turismo che ad esso sono legate, solo per pagar dazio alle compagnie petrolifere.
Per ribadire un netto “no” alle trivellazioni in mare, un centinaio di attivisti si è radunato in piazza San Marco per colorare uno striscione con la scritta “Italia - No Oil - Croazia”. Ovvero: niente estrazioni tra la le due sponde del mare. La manifestazione è stata organizzata da Legambiente, Wwf e Greenpeace e vi hanno aderito Vas, associazione Balcani Caucaso, Movimento 5 Stelle, Verdi Green Italia e Verdi Europei (che in questi giorni sono a Venezia per il direttivo europeo).


“Le trivelle appartengono ad una logica di sviluppo a discapito dell’ambiente che non ha futuro - ha spiegato Davide Sabbadin di Legambiente -. I vantaggi sarebbero pochissimi e solo per i petrolieri, i rischi tantissimi e tutti nostri. Cosa succederebbe alla pesca, al turismo nel caso si ripetesse anche qui uno di quei disastri che si sono già verificati in altre parti del mondo? Oramai il 40 per cento dell’energia che si consuma in Italia viene da fonti rinnovabili. In Europa questa percentuale è ancora più alta. Invece di investire in questa direzione e in quella del risparmio energetico, in Italia si preferisce ripercorrere la vecchia strada del combustibile fossile. Che poi è la strada che ci ha portato alla crisi economica, regalandoci in cambio solo devastazioni ecologiche”.
Tanta solidarietà ai manifestanti dai turisti che, in piazza San Marco, non mancano mai. Molti si sono avvicinati per contribuire a colorare lo striscione, Altri hanno chiesto informazioni sulle trivellazioni. Tutti si sono stupiti che un Governo accettasse di metter a repentaglio la straordinaria bellezza di una città come Venezia per pochi barili di petrolio di cattiva qualità.

Ambientalisti europei per Casson sindaco
In Comune

I verdi d’europa sostengono la candidatura a sindaco dell’“ambientalista” Felice Casson. Una scelta naturale per una città come Venezia che è stata travolta dallo scandalo del Mose - ha spiegato Angelo Bonelli, presidente dei Verdi italiani -. Una scelta che, ne sono sicuro, i veneziani in cerca di un riscatto politico non potranno non sostenere. Felice Casson è l’uomo giusto perché, tanto come magistrato che come politico, si è sempre speso a difesa del popolo inquinato”.
Proprio per sostenere Casson, i nove componenti del direttivo dei Verdi Europei si sono dati appuntamento a Venezia, nella sede della Fondazione Levi. Dopo un incontro con la stampa, al quale ha partecipato anche il candidato sindaco, i verdi europei hanno tenuto il direttivo mensile, quindi la giornata si è conclusa con un seminario sulle strategie di riconversione ecologica delle industrie inquinanti. Un tema che da queste parti significa: Porto Marghera. Significativa in questo senso la presenza di tanti eurodeputati ambientalisti. “Venezia è un patrimonio dell’umanità - ha spiegato il tedesco Reinhard Bütikofer, copresidente dei verdi europei - ed è un dovere dell’Europa non lasciarla sola e non abbandonarla alle speculazioni”.
Per una giornata, la nostra città ha ospitato il ghota dell’ambientalismo europeo e personaggi come Maurizia Giusti, Davide Sabbadin, Domenico Finiguerra, Bartolomeo Pepe, Francesco Ferrante, Luigi Lazzaro, Claudia Bettiol, Monica Frassoni, Annalisa Corrado, Oliviero Alotto. A far gli onori di casa, Luana Zanella. Tra i vari ospiti nostrani, ricordiamo solo Maria Rosa Vittadini che ha garantiamo Casson il personale sostegno.


Occupata Ca' Farsetti

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Senza sindaco, senza assessori ma, in compenso, sull'orlo della bancarotta. Tira brutta aria sul Comune di Venezia, commissariato dopo lo scandalo del Mose. E poco importa chi sederà sulla poltrona di Primo cittadino, dopo le elezioni primaverile. Stavolta non ci sono conigli da estrarre dal capello, stavolta. Far quadrare il cerchio attorno ad un bilancio stretto nel nodo scorsoio del Patto di Stabilità è una operazione impossibile. Si rischia di chiudere baracca e burattini. Anche perché, nonostante una marea di promesse di vari ministri, deputati e senatori, Matteo Renzi ha annunciato che il Governo non varerà nessun decreto Salva Venezia.
Un default annunciato quindi, che, come prime vittime, mieterà i lavoratori comunali.



Ecco il perché dell'iniziativa di ieri sera quando, in pieno carnevale, i lavoratori auto organizzati Cobas hanno deciso di occupare Ca' Farsetti per costringere il Governo a gettare la maschera. A poco è valso il grosso cordone di polizia a presidio del portone del palazzo. Un centinaio di lavoratori è entrato per la porta sul retro e si è accampato nel bel mezzo della sala del consiglio comunale, decisa a tener duro sino ad una assemblea cittadina prevista per questo pomeriggio.
Una assemblea cittadina, per l'appunto, perché un Comune in bancarotta non riguarda solo i dipendenti pubblici ma l'intera Venezia che si troverà a non avere più quei servizi essenziali che già sono stati ridotti all'osso dal commissario Vittorio Zappalorto. Da ieri Ca' Farsetti è tornata ad essere la casa dei veneziani aprendo uno spazio per un confronto aperto non solo al dipendenti ma anche alla cittadinanza attiva, ai movimenti ambientalisti, agli spazi sociali. A tutti coloro insomma che sin dall'inizio hanno denunciato lo scandalo di un'opera come il Mose che non ha portato nessun beneficio alla laguna e alla sua gente ma è servita solo a dirottare i fondi per la salvaguardia nelle tasche di politici tangentari e di aziende in odor di mafia.
"Non parlateci della crisi che i soldi ci sono - ha commentato Mattia Donadel, uno dei portavoce degli occupanti -. Spendiamoli per il welfare, per la tutela dell'ambiente, per il lavoro, invece di continuare a finanziare una politica delle Grandi Opere che non ha devastato solo l'ambiente e l'economia ma anche la stessa democrazia italiana".

Naomi Klein: la rivoluzione che ci salverà parte parte da noi

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Diamoci da fare. La conclusioni che l'autrice di No Logo tira al termine dell'incontro svoltosi nella serata di oggi all'auditorium di Santa Margherita, potrebbero essere condensate in queste tre parole. Diamoci tutti quanti da fare perché il mutamento del clima è oramai una verità accettata da tutti gli scienziati. Un cambiamento ci sarà. E sarà un cambiamento inevitabile perché il modello economico imposto dal capitalismo non è più sostenibile dalle risorse di cui dispone la terra. Eppure, nonostante sia ancora il sistema neoliberista a dettare i paradigmi sui quali corre l'informazione dominante, la consapevolezza che questa crisi non sia come ce la raccontano le banche si sta facendo strada tra la gente. Lo dimostra il successo di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia. E in Italia? "In Italia - scherza Naomi Klein - avete l'Expo sponsorizzato dalla Coca Cola".



L'incontro organizzato dall'associazione In Comune in collaborazione con Ca' Foscari e la Rizzoli Libri è stato un successo annunciato, considerato che questa veneziana è stata una delle tre sole tappe che la scrittrice canadese ha tenuto nel nostro Paese per presentare il suo ultimo libro "Una rivoluzione ci salverà", sottotitolo "Perché il capitalismo non è più sostenibile". Tutti 237 posti a sedere occupati, tanta gente, giovani soprattutto, in piedi o seduta per terra. Tanti altri fuori a masticare delusione perché, per ragioni di sicurezza, i responsabili della sala sono stati costretti a chiudere le porte.

Ad introdurre il dibattito, dopo l'inevitabile rito dei saluti del magnifico rettore, Michele Bugliesi, è stato il politologo Beppe Caccia, che ha ricordato come proprio la nostra città sia particolarmente toccata dai cambiamenti climatici e come tutti i veneziani, sulla loro pelle, hanno vissuto la storiaccia brutta del Mose. La grande opere salvifica che alla fin fine ha dirottato i fondi per la salvaguardia nel baratro della corruzione e della devastazione ambientale.

La Klein ha cominciato il suo intervento proprio da questa suggestione, ricordando come proprio a Venezia, una quindicina di anni or sono, venuta a presentare il suo libro "No Logo", abbia sentito per la prima volta la parola "precarietà" dagli attivisti dei centri sociali. "Un termine che oggi potrebbe essere esteso a tutto il mondo - ha sottolineato -. Il fatto è che non esistono risposte non radicali al problemi che ci pone l'ambiente. La scienza ci dice che entro i prossimi anni la temperatura crescerà di un valore tra i quattro e i cinque gradi. Questo cambiamento può forse essere evitato ma solo con una altro cambiamento radicale che investa la società, la cultura la produzione. Non illudiamoci che il neo liberalismo posso affrontare questo problema perché la sua agenda va in direzione completamente diversa. Un programma finalizzato al taglio delle emissioni è improponibile semplicemente perché il loro progetto è di aumentare le emissioni".

Il compito di stimolare Naomi Klein, è toccato all'ambientalista Gianfranco Bettin. L'incontro poi si è chiuso gli interventi del pubblico coordinati dal docente Duccio Basosi. Ma è proprio Bettin a buttare benzina sul fuoco sottolineando come, nel libro della Klein, vengano mosse pesanti critiche anche un certo ambientalismo non radicale ed alle sinistre di governo che, pur con sensibilità ben diverse rispetto alle destre, continuano a non mettere l'ambiente al primo posto delle loro agende, perseverando, alle fin fine, nel sostenere una politica neo liberista che, allo stato attuale delle cose, non può più essere riformata. Un esempio è stata l'Unione Sovietica con il suo capitalismo di Stato che ha devastato tutto il devastabile ed oltre. Oppure la Cina di Mao con la sua dottrina di "guerra alla natura" in nome della quale, tra le altre cose, ha cercato di sterminare tutti i passeri del continente. Un altro esempio sono le democrazie di sinistra dell'America latina: il Brasile, l'Ecuador, il Venezuela di Chavez. Paesi che, pur con atteggiamento diverso rispetto alle dittature, hanno comunque continuato l'attività estrattiva del greggio a spese dei popoli indigeni che dalla foresta ricavavano sostentamento.

"I cambiamenti climatici - ha risposto la scrittrice canadese - pongono in discussione tutte la nostra civiltà, dalla nascita della società industriale, quando si vendevano le macchine a vapore sostenendo che con questa avremmo sconfitto la natura, ad oggi dove il capitalismo è addirittura capace di proporsi come unica via di uscita ai danni che egli stesso ha causato. I cambiamenti climatici, in fondo, altro non sono che una risposta a scoppio ritardato a questo atteggiamento di scontro che l'uomo ha avuto nei confronti della natura. Come se ne esce? Con una sorta di, come l'ho chiamato, nuovo Piano Marshall. Non aspettiamoci che siano i Governi a farlo per noi. Neppure i Governi di sinistra. E' il momento di scendere in piazza e non solo per bloccare le grandi opere devastanti ma anche per proporre con forza progetti alternativi, cosa che non sempre siamo stati capaci di fare. Progetti che siano allo stesso tempo credibili, entusiasmanti e coinvolgenti. Perché il capitalismo è bravo a smuovere le acque della paura. Ma l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è che sia il capitalismo a governare i cambiamenti che, inevitabilmente, stanno arrivando".
Diamoci da fare, dunque.

Corruzione a norma di legge. Così il Bel Paese è stato svenduto alla lobby mafiosa delle Grandi Opere

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La prima osservazione da fare è tutta positiva: tanta, tantissima gente. In sala San Leonardo, questo pomeriggio, non si trovava un posto a sedere neppure a pagarlo. E questo, per una città che sta cercando di riscattarsi da quel sistema corrotto e corruttore legato al Mose che l'ha tenuta in scacco per tanti anni, è senz'altro un sintomo positivo. "Tanti anticorpi per far da antidoto al veleno che ha intossicato il nostro tessuto sociale" ha sottolineato Beppe Caccia in apertura del dibattito sul tema "Come liberare Venezia dal sistema Mose?" augurandosi che "la comunità sappia trovare la strada per ribaltare un sistema legato alla concessionaria unica capace solo di generare corruzione, ridando spazio alla buona politica".

L'incontro promosso dall'associazione In Comune aveva lo scopo di presentare il libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, "Corruzione a norma di legge", edito da Rizzoli. Sottotitolo da sottolineare: "La lobby delle grandi opere che affonda l'Italia". Nel volume si sostiene la tesi che ci siano due tipi di corruzione: quella in aperta violazione delle leggi e quella, molto più subdola e pericolosa, che viene portata avanti a norma di legge con meccanismi come la concessione unica. "Corruzione a norma di legge", appunto, è una inchiesta giornalistica come non se ne fanno tante in Italia, tanto più apprezzabile in quanto firmata da un economista come Giavazzi che, in passato, certo non è mai stato critico nei confronti di quella Grande Opera chiamata Mose.


Ed proprio l'ambientalista Armando Danella, primo ospite della serata, che non esita a dichiarare il suo disagio nel parlare di un libro che, quando parla del Mose, evita di affrontare l'aspetto ecologico per focalizzarsi su quello della corruzione. "A mio avviso è un errore - spiega - perché la tragedia del Mose non sta solo sulla corruzione ma anche sulla devastazione ambientale che ha portato con sé. Ancora oggi non sappiamo se le paratoie funzioneranno o no. Studi terzi ne hanno evidenziato la criticità strutturale in condizioni particolari. Prima di proseguire, dobbiamo essere certi quanto meno che l'opera funzioni e che non ci sia pericolo per la città".

Roberto d'Agostino ha sottolineato come, con un giro d'affari di oltre 10 miliardi di euro, il Mose sia stato il più grande trasferimento di denaro dal pubblico al privato del Dopoguerra.  "Di solito si corrompe per far cambiare le leggi, il sistema Mose pagava perché tutto continuasse così. Adesso è necessario fare pulizia. I politici che hanno preso soldi dal Consorzio perché non sapevano chi fosse se ne devono andare. E se lo sapevano debbono andarsene lo stesso. E così le imprese che sono state sorprese a rubare, non debbono più continuare ad occuparsi della Salvaguardia".




Corruzione sì, ma una corruzione che viene da lontano e che, come ha spiegato Luana Zanella, è cominciata con la Legge Obiettivo, fortemente voluta dal Governo Berlusconi, che ha abbassato i controlli antimafia e favorito procedure semplificate per bypassare le verifiche ambientali ed i controlli democratici. "Tutt'oggi non vedo la volontà politica di uscire da questo sistema che genera solo corruzione e devastazione - ha spiegato l'ex senatrice verde - Il decreto Sblocca Italia varato dal Governo Renzi continua ad andare proprio in questa direzione. La stessa legislazione speciale per Venezia nel corso degli anni è degenerata sino a dirottare i fondi solo al Consorzio Venezia Nuova, sostenendo che anche questa è Salvaguardia".

Proprio la Salvaguardia con le Bonifiche di Porto Marghera sono stati i capitoli di finanziamento che hanno portato più denaro in laguna. Denaro che, come ha spiegato Gianfranco Bettin, è finito dritto dritto nelle casseforti della criminalità organizzata. "Perché in altro modo non riesco a definire il Mose e il Consorzio Venezia Nuova. Anche la terza voce in classifica, il turismo, ha seguito questo esempio, pure se, in questo caso, la corruzione non è ancora classificabile come a norma di legge". Lo dimostrano i fatti legati alle infiltrazioni di Cosa Nostra al Tronchetto. "La tragedia raccontata nel libro sta nel fatto che non tratta solo della corruzione del corrotto, che sarebbe facile da affrontare con l'aiuto della magistratura, ma della corruzione delle regole. Su questo punto, i magistrati non possono aiutarci. Questa corruzione avvelena lo stesso tessuto sociale e politico della città perché porta voti, denaro facile, potere". In questo stato di cose, ben pochi possono dichiararsi davvero estranei. "Non assolviamo i tecnici che si sono fatti corrompere ma non assolviamo neppure tutta la città. Rendiamoci conto che una parte della società civile con la corruzione ci marciava bene e, per vantaggi o per paura, era ben contenta di rintanarsi nel grembo accogliente del Consorzio. Non crediamo quindi, che basti gettare le mele marce per bonificare la politica. E' necessario andare molto più in profondità e cambiare l sistema".

Spazio quindi a Felice Casson, senatore e candidato alle primarie per il centrosinistra. L'ex magistrato comincia con una battuta al suo compagno di partito, nonché presidente del Consiglio, Matteo Renzi che recentemente ha presentato a Roma il libro di Giavazzi e Barbieri: "Chissà se lo ha letto? Probabilmente no, ma gli farebbe bene impararselo a memoria". Casson raconta le difficoltà che ci sono a far passare in parlamento una legge anticorruzione o una normativa a tutela dell'ambiente. "Ci troviamo davanti un fronte
comune pronto a fare opposizione ad oltranza. Un fronte composto non solo dalle destre, che in questo caso dimenticano tutte le divergenze interne, ma anche da elementi del mio partito che certo mi guardo bene dall'assolvere". La chiusura è tutta elettorale: "Mi auguro che Venezia sia un punto di partenza per mettere definitivamente all'angolo questo sistema corruttivo e ridare voce ai veri valori del centrosinistra".


Chiusura per i due autori, Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi. "Nel nostro libro, affrontando il tema della corruzione, abbiamo cercato di fare un passo in avanti - ha dichiarato Giavazzi - esplorando quel meccanismo che, dal Mose all'Expo, viene ripetuto ogni volta dalla lobby politica ed affarista delle grandi opere. I problemi non vengono mai affrontati se non quando si può parlare di emergenza. Allora appare un solo progetto in campo ed su questo vengono dirottate tutte le risorse. Con la scusa di 'fare presto' vengono sospese le misure cautelari antimafia, le norme a tutela dell'ambiente. Tutto viene affidato ad un concessionario unico e spariscono gli attori politici che dovrebbero fare da controllori. Anche quando scoppia lo scandalo ed interviene la magistratura, i mass media parlano del corrotto e dimenticano di riferire che lo scandalo più grande, la corruzione più grave, è sempre quella delle leggi. Che poi è la corruzione della democrazia".

All'Ilva arriva la "soluzione Alitalia": privatizzare i profitti e statalizzare le perdite

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Si è preso pure il plauso della Cgil, il presidente del consiglio Matteo Renzi quando ha annunciato, in una intervista a Repubblica, di voler "nazionalizzare" l'Ilva di Taranto. "Da lungo tempo diciamo che la siderurgia è un settore strategico per il nostro Paese - ha dichiarato la segretaria sindacale Susanna Camusso-. Non si può perderla, e questa è un'ottima ragione per prevedere un intervento pubblico".
Una "corrispondenza d'amorosi sensi" quantomeno singolare, considerato che di questi tempi Governo e Cgil si guardano come cane e gatto. Ma sul tema del mantenimento nel Golfo di una industria che, più che inquinante, è corretto definire assassina, si sono trovati completamente d'accordo.
Su come arrivare a questo risultato invece, le strade si dividono. "Non facciamone un'altra Alitalia" avverte la Camusso. Una soluzione che però andrebbe incontro ai possibili acquirenti perché, in definitiva, la formula è sempre quella "privatizzare i profitti, statalizzare le perdite". A sentire odore di fregatura è anche il leader della Fiom, Maurizio Landini che sottolinea come serva "un'operazione vera di politica industriale. Non si può pensare di scaricare ancora i debiti di una società su tutta la collettività per regalare agli stranieri di turno un' impresa strategica".



Ma è proprio al modello Alitalia che Renzi sta pensando per rendere appetibile ai grandi gruppi industriali stranieri, su tutti il colosso dell'acciaio Arcelor Mittal, lo stabilimento tarantino che dà lavoro, diretto o indiretto, a circa 20 mila operai,
In poche parole, l'idea sulla quale sta lavorando Renzi è di modificare ad hoc la legge Marzano, che adesso consente di imporre una amministrazione straordinaria solo alle aziende insolventi, e "commissariare" l'Ilva che ora appartiene quasi interamente alla famiglia Riva. A questo, punto, in virtù dei poteri straordinari del commissario, l'azienda sarebbe smembrata in due: una "bad company" che si farebbe carico di debiti e strascichi giudiziari, e nuova società ripulita per bene grazia agli investimenti della Cassa Depositi e Prestiti da mettere immediatamente sul mercato in nome di quei principi di privatizzazione che Renzi non tradisce neppure quando parla prima di "nazionalizzare".
Un'altra Alitalia, insomma. In Francia e in Germania, l'industria pubblica esiste e prospera. In Italia, una Ilva pubblica non è neppure pensabile se non per lo stretto necessario a risanarne, a spese nostre, perdite e danni, in vista di farne omaggio a qualche potentato economico. "Eppure - conclude Landini - anche la nostra Costituzione prevede l'intervento pubblico nell'economia. La verità è che non se ne esce fuori senza una vera strategia di politica industriale". Cosa che questo Governo, come i precedenti, certo non ha.

Contrario alla soluzione "Alitalia", anche Angelo Bonelli, portavoce del comitato Taranto Respira. "Significherebbe lasciare la città a convivere con i veleni senza che nessuno paghi per i danni subiti dalla popolazione. Una 'bad company' violerebbe la direttiva comunitaria sul principio chi inquina paga e non sarebbe etico nei confronti della popolazione tarantina che aspetta di vedere il suo territorio bonificato dai veleni e di avere il giusto risarcimento per i gravi danni subiti".

Parallelamente, la vicenda Ilva continua a trascinarsi nelle aule giudiziarie. Il sistema tumorale creatosi attorno all'acciaieria avvelenava l'ambiente come la politica. Oltre a quelle del governatore Niki Vendola e di tre componenti della famiglia Riva, sono in corso una 50ina di rinvii a giudizio per accuse che spaziano dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. I sei "decreti Ilva" varati dagli ultimi Governi non hanno ottenuto altro che sommare disastri a disastri.
Intanto, la gente a Taranto continua a morire avvelenata.

Eternit. Tremila morti e nessun colpevole

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Tremila morti e nessun colpevole. La sentenza della Cassazione sul caso Eternit è una vigliaccata bella e buona. Né più né meno di quella d’appello su Stefano Cucchi. Tutti omicidi coperti dallo Stato. Ieri mattina, con sentenza definitiva, la Corte ha assolto l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, precedentemente condannato a 18 anni per disastro ambientale. Come conseguenza sono state annullate tutte le richieste di risarcimento dei familiari delle vittime che ammontavano a 90 milioni di euro. Tutto annullato perché il reato è caduto in prescrizione. E non perché il magnate svizzero non sia colpevole dei reati imputatigli. Lo ha confermato lo stesso Francesco Iacovelli, il procuratore della Corte Suprema che ha firmato la sentenza. “Stephan Schmidheiny è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte - ha sottolineato - ma tra diritto e giustizia il giudice deve sempre scegliere il diritto, anche quando vanno su strade opposte”. Una ulteriore conferma, proprio come nel caso Cucchi, che giustizia e tribunali non sono parenti neppure alla lontana.
E intanto, gli operai continuano a morire.



L’industria Eternit per la lavorazione dell’amianto, era arrivata in Italia nel 1906 con quattro stabilimenti, a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e, il più importante, a Casale Monferrato. Chi andò a lavorare in quei capannoni di morte, imparò ben presto a chiamare la merda che gli toccava respirare la “malapolvere”. La scienza ci mise qualche decennio in più per arrivare alla stessa conclusione. Già negli anni ’30 però, alcuni studi medici pioneristici dimostrarono che la lavorazione dell’amianto causava un fortissimo incremento di patologie tumorali.
La prima nazione a prevedere condotti di sfogo nei capannoni per facilitare l’areazione fu l’Inghilterra. Successivamente, negli anni ’40, la Germania per prima riconobbe che l’inalazione di particelle di asbesto causavano il cancro al polmone. Ma mentre studi scientifici sempre più accurati dimostravano una indiscutibile correlazione tra l’amianto e i tumori, la grande industria faceva pressione nelle redazioni dei giornali, comprava politici e sindacalisti, e diffondeva rassicuranti comunicati nei quali si negava tutto. Anche e soprattutto l’evidenza.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Negli anni ’50 però nessuno però poteva più sostenere che l’amianto non fosse pericoloso per la salute anche se, in Italia, bisognerà attendere il ’92 perché ne fosse vietato l’uso. Ci sono voluti quarant’anni di omicidi bianchi. Quarant’anni di bugie. Quelle degli industriale certo, ma anche quelle altrettanto sporche di quelle “coscienze in prestito” che altro non sono i loro avvocati. Quelle di tanti “scienziati” che si sono fatti pagare per confutare tesi abbondantemente dimostrate, e pure quelle di qualche sindacalista preoccupato di non far chiudere la fabbrica che, alla fin fine, “dà pane a tante famiglie”. Tutti quanti a sostenere in coro che l’amianto non causava danni alla salute. Tutti a mentire spudoratamente.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Alla fine degli anni ’50, per l’Eternit cominciò una inesorabile crisi che portò alla chiusura definitiva dell’ultimo stabilimento di Casale nell’86.
La causa penale però, era già cominciata 10 anni prima su iniziativa di circa 6mila parenti di operai morti d’amianto che accusavano Schmidheiny e il suo socio, un nobile belga ultranovantenne dal nome altisonante di Louis De Cartier De Marchienne che ha pensato bene di rendere l’anima al diavolo nel 2013, giusto per vedersi condannare dalla Corte d’Appello a 18 anni.

Poi, è tutta storia di ieri. La sentenza della Cassazione ha ribaltato il verdetto, assolvendo l’imputato rimasto per prescrizione del reato.
Come sia possibile che tremila morti ammazzati possano essere considerati un “reato soggetto a prescrizione” è una anomalia tutta italiana. Proprio così. Il fatto è che il disastro ambientale, in Italia e solo in Italia, non è considerato un reato grave, ma viene annoverato tra quelli di natura contravvenzionale. Un disegno di legge che integra i reati contro l’ambiente nel codice penale è stato recentemente votato dalla Camera ma si è perso da qualche parte negli scaffali della commissioni Ambiente e Giustizia del Senato. E intanto i reati cadono in prescrizione e chi avvelena e distrugge paga, se gli va male, una multa neppure salata. E spesso, come nel caso dell’Eternit, neppure quella.
Come è stata accolta la sentenza sull’Eternit? Come è prevedibile, con infinita rabbia dai parenti delle vittime di ieri e dei malati di oggi, perché a Casale l’amianto non ha ancora finito di uccidere. Le lacrime di dolore si sono mescolate alle lacrime di rabbia per l’ingiustizia sofferta.
Come un inno alla giustizia dai legali di Schmidheiny che, dalla sua villa di Zurigo, che non ha perso l’occasione di ribadire che “l’amianto è inoffensivo”.
E intanto, gli operai continuano a morire.

“El mostro”. Un progetto per raccontare la storia di Gabriele Bortolozzo

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Non solo un film d’animazione. “El mostro” è molto di più. Un progetto dal basso innanzitutto. Un progetto che ha appena mosso i primi passi attivando un crowdfounding sulla piattaforma Eppela per raggiungere i primi 5 mila euro necessari a cominciare i lavori. L’obiettivo è quello di raccontare “a chi ne ha perso la memoria”, come si legge nel sottotitolo, la storia di Gabriele Bortolozzo. E raccontarla con un linguaggio nuovo come quello dell’animazione che ha il magico potere di “creare un immaginario e scavalcare le generazioni” come ha sottolineato Gianfranco Bettin, intervenuto ieri pomeriggio al municipio di Marghera all’incontro di presentazione dell’iniziativa. “Gabriele è stato il primo che dall’interno della fabbrica ha trovato il coraggio di denunciare la nocività della lavorazione e a superare il ricatto di chi offriva lavoro in cambio della salute. La sua è una vicenda esemplare che va tenuta viva e raccontata a tutti, e soprattutto ai giovani” ha sottolineato l’ambientalista. Con lui, Felice Casson, oggi senatore del Pd ma all’epoca il pubblico ministero che trascinò i vertici della Montedison al banco degli imputati. Casson ha rievocato il momento in cui Bortolozzo bussò alla sua porta di magistrato. “La storia di Gabriele, scomparso proprio vent’anni fa, mi ha accompagnato professionalmente e umanamente per tutta la vita. E’ merito suo se ho scoperto che oltre la mia vecchia aula al palazzo di Giustizia c’era un mondo reale”.
A presentare il progetto, sono intervenuti Flavio del Corso, presidente della municipalità di Marghera, Elisa Pajer, dello Studio Liz che lo produce, Cristiano Dorigo che ne ha scritto il soggetto assieme a Federico Fava, e Lucio Schiavon che lo ha disegnato. L’incontro si è svolto proprio nella sala che a Gabriele Bortolozzo è dedicata.




Non solo un film d’animazione, abbiamo scritto in apertura. “El Mostro è anche un percorso che abbiamo intrapreso con tanto entusiasmo e tanta convinzione - ha spiegato Elisa Pajer -. Un percorso che ci ha aiutato ad incontrare tanta gente. Giovani soprattutto, ma non solo. Siamo entrati nelle scuole, abbiamo tenuto incontri nelle librerie e nelle biblioteche con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sui temi del lavoro e della salute, Abbiamo raccontato a tutti la storia di Gabriele che è poi la storia di Porto Marghera come anche quella di tante realtà, penso all’Ilva di Taranto, che stano vivendo lo stesso dramma. Gabriele ha avuto il coraggio di andare oltre e questo fa della sua vicenda una storia epica”.
Una storia che è stata già raccontata in tanti modi, cito solo il libro a fumetti di Claudio Calia “Porto Marghera” edito da Becco Giallo, ma mai attraverso un cartone animato. “Per il tipo che era Gabriele - ha concluso Bettin - sono sicuro che ne sarebbe stato contento”.

Di seguito alcuni link sui quali si può seguire il progetto e partecipare alla raccolta fondi. Ricordiamo la cena di sostegno che si svolgerà giovedì 11 dicembre al Bagolaro di Forte Marghera.

Pagina Facebook
https://www.facebook.com/events/1485840401681450/?fref=ts

http://www.eppela.com/ita/projects/992/gabriele-bortolozzo-el-mostro

http://producinuovevisioni.studioliz.org/2014/11/14/sostieni-el-mostro/

http://studioliz.org/2014/07/14/sostieni-gabriele-bortolozzo/

Mose: è tempo di fare luce anche sui “collaudi tecnici” milionari

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La società è stata commissariata, alcuni ex presidenti sono finiti in galera, le inchieste hanno oramai accertato come la corruzione fosse usata a tutti i livelli in maniera sistematica ed i costi fatti costantemente lievitare per coprire tangenti e malversazioni. Eppure, in mezzo a tutta 'sta merda, la macchina della propaganda non si arresta. Anzi. Il Consorzio Venezia Nuova continua a parlare del Mose come di un'opera eccelsa, dalle magnifiche sorti e progressive, ed accende vetrine su vetrine di sfavillanti "collaudi tecnici" il cui copione è sempre lo stesso: gitarella in mare con brochure plastificata e ricco buffet ad uso e consumo di politici e giornalisti. Il tutto, per mostrare loro la magnificenza della Grande Opera che testimonierebbe l'italico genio.
Ebbene, non pare a voi che sia arrivato il momento di fare luce anche su questi "collaudi"? Sapere chi sono i membri della commissione che li effettua, come sono stati selezionati, quali i loro corricula e, magari, anche quanto guadagnano per far da passerella?
Tutte domande alle quali il Cvn, sino a qualche giorno fa, non si sarebbe neppure degnato di prendere in considerazione. Ma adesso il vento è cambiato (o perlomeno così ci auguriamo). Il Consorzio del malaffare è stato commissariato e Gianfranco Bettin e Beppe Caccia – esponenti del progetto aperto 2020VE - si sono rivolti all'Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, per chiedere ufficialmente di fare luce anche su questo aspetto.


"Pubblicare integralmente tutti i dati riguardanti le commissioni di Collaudo è un atto di trasparenza, necessario e non più rinviabile - spiega Bettin - preliminare ad effettuare una reale due diligence tecnico-scientifica indipendente sui cantieri del Mose, in modo da verificare affidabilità e sicurezza, funzionalità e congruità economico-finanziaria delle opere fin qui realizzare e in corso di realizzazione”.
Già. Perché, come sottolinea l'ambientalista, la questione non è solo quella dei compensi milionari e di chi se li merita e di chi no. Diciamocela tutta, tangente più o tangente meno, i compensi ai collaudatori non cambieranno che di poche righe la storia che i posteri dovranno scrivere su questo disastro chiamato Mose.
Il vero problema è la sicurezza. Davvero vogliamo affidare il futuro di Venezia e di chi ci vive al giudizio di non si sa chi, non si sa come e neppure a quale titolo, se non che è nel libro paga della banda del Consorzio?
Per i collaudi del Mose infatti, sono stati spesi decine di milioni di euro in incarichi affidati ad alti burocrati dello Stato, figure con ruoli cruciali nei ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture ma con competenze tecniche e scientifiche tutte da verificare. "La vicenda - commenta Beppe Caccia che aveva già segnalato la questione in una inascoltata interrogazione datata maggio 2012 - pone non solo una macroscopica questione relativa ai molteplici conflitti d’interesse nell’indistricabile intreccio tra chi avrebbe dovuto essere controllato e chi avrebbe dovuto controllare, ma anche e soprattutto solleva dubbi enormi che riguardano l’affidabilità tecnologica, la funzionalità e la sicurezza di un’opera di tale importanza, il cui percorso autorizzativo, a quanto risulta dalle indagini finora condotte dalla Magistratura, risulta essere segnato e condizionato dal sistematico ricorso alla corruzione”.
Il malaffare legato al sistema Mose non può essere liquidato, come vorrebbe far credere il Consorzio, affibbiando la colpa alle solite "poche mele marce" che si trovano in qualunque famiglia. Il marcio è nell'opera stessa. E, se vogliamo, in tutta quella logica delle "Grandi Opere", inutili ai fini che si prefiggono, devastanti per l'ambiente, invise dalle comunità locali che altro scopo non hanno che dirottare denaro pubblico a privati malavitosi, condizionando politica e gestione del territorio.
Un sistema corrotto e corruttore che va colpito anche con l'arma della trasparenza. Questo è quanto Bettin e Caccia chiedono a Raffaele Cantone: affidare i collaudi a seri professionisti estranei al Cvn, e andare con tutti i mezzi a disposizione sino in fondo nel colpire il legame tra un sistema politico-affaristico, complesso e ramificato, e le scelte compiute nell’imporre un progetto che, oggi più di ieri, appare lontano dagli obiettivi dichiarati di salvaguardare la Città e la sua Laguna.

Commissariato per tangenti il Consorzio Venezia Nuova. Adesso facciamo luce sulla validità del progetto Mose

597_Il MOSE_Bocca di porto di Malamocco_Venezia
Che il Mose fosse una fabbrica di appalti malavitosi, gli ambientalisti lo ripetevano da sempre. Adesso che l'opera è in fase di completamento e i danni non sono più reversibili, se ne è accorta anche la magistratura. La procedura di commissariamento avviata dall'Autorità Anticorruzione è una inevitabile conseguenza di tutta la serie di scandali e di arresti eccellenti che faceva capo al Consorzio Venezia Nuova e che si estendeva come una cancrena dalla politica all'imprenditoria. Ben venga quindi il commissariamento, augurandoci come sottolinea in una intervista alla Nuova l'ex sindaco, e strenuo oppositore del progetto, Massimo Cacciari che "questa sia una occasione per poter dare un occhio e ficcare finalmente il naso su quello che il Consorzio ha fatto negli ultimi anni. Soprattutto nelle decisioni prese per far andare avanti il Mose".
Il punto infatti è proprio questo. Nella conferenza stampa organizzata subito dopo la retata che ha ingabbiato l'assessore regionale Renato Chisso e l'ex governatore Giancarlo Galan (cosa che peraltro non ha fatto dimettere la Giunta Regionale e ci chiediamo ancora il perché), il procuratore Carlo Nordio, raccontando il sistema di tangenti legato al sistema del concessionario unico, si è affrettato a sottolineare che tutto questo marciume non inficiava "l'eccellenza dell'opera", orgoglioso prodotto "della genialità italiana".
Da quando sappiamo, ma potremmo anche sbagliarci, Carlo Nordio ha una laurea in giurisprudenza. Sul campo dell'ingegneria idraulica non abbiamo idea di quando sia ferrato. Certamente, né lui né tantomeno tutti quei politici che dalla Regione al ministero hanno spinto per la Grande Opera hanno mai dato peso ai pareri di tutti i tecnici non legati alle bustarelle del Consorzio che spiegavano di come il Mose fosse inutile ai fini che si prefiggeva, causa esso stesso di alte maree in quanto per realizzarlo sono state ampliate le bocche di porto, devastante per la laguna che è stata trasformata in un braccio di mare aperto, calcolato per livelli di marea resi obsoleti dai Cambiamenti Climatici e potenzialmente pericoloso per Venezia in caso di inondazioni eccezionali.


Altro che "eccellenza all'opera!" L'unica cosa in cui il Mose ha eccelso è stato il dirottare soldi dal pubblico al privato malavitoso, riempiendo di passaggio le tasche dei politici corrotti.
La domanda che pone Cacciari, e che poi è quella che fanno gli ambientalisti, è quindi questa. Appurato che ci sono stati ladrocini, tangenti e gonfiature dei costi, siamo certi che la Grande Opera abbia un suo fondamento tecnico e non sia esclusivamente un escamotage volto a mungere denaro dalle casse statali a scapito dell'ambiente e della cittadinanza? Il fatto che il Consorzio non abbia mai accettato perizie terze e abbia accuratamente evitato di confrontarsi con tecnici estranei alla sua cerchia, come quelli della Facoltà di Idraulica di Padova fa pensare brutte cose.
Il Commissariamento quindi deve essere una occasione per far luce anche e soprattutto su questo aspetto tutt'altro che secondario. Cacciari confessa che non vede l'ora che l'opera sia terminata, per togliersi lo sfizio di vedere se funziona o no. Da persona onesta com'è, l'ex sindaco è convinto che, nel caso tutto andasse a cartoni, qualcuno si dovrà prendere le sue responsabilità. Buonanotte, signor filosofo! Voi ricordate qualcuno in Italia che si sia mai assunto le sue responsabilità?
Meglio saperle subito le cose. Ci sono modelli matematici e informatici che possono simulare con rigore scientifico il funzionamento delle paratoie mobili. Il commissario non guardi solo i libri contabili ma chieda anche pareri scientifici terzi sul progetto, prima che si proceda ulteriormente.
E, già che ci siamo, facciamo anche chiarezza su un altro punto controverso. Se mai entrasse in funzione, il Mose, oltre ai costi di gestione, costerebbe dai 40 ai 50 milioni di euro all'anno per le manutenzioni. Chi li tira fuori questi soldi? Il Governo o la Regione sono pronti a far cassa? Non fateli pagare a noi veneziani, eh?! A parte il fatto che il Comune non ha un euro neanche a piangere, sarebbe la beffa dopo il danno. Devastarci la laguna e farci pagare le spese della devastazione! E avete mai conosciuto voi, un veneziano "nato sui masegni" che abbia mai voluto questa porcheria chiamata Mose?

Venezia si è ripresa la sua laguna

Lag
Eccola qua la Venezia che non ti aspetti. Quella che continua a far “movimento” pur con un Comune commissariato e l’iter decisionale trasferito d’ufficio a Roma o, peggio ancora, nelle sale di rappresentanza delle Compagnie di Crociera e dell’Autorità Portuale.
Eccolo qua il “popolo delle calli”, oramai messo in minoranza da inarrestabili ondate turistiche ma che continua ad amare e a difendere la sua città proprio come facevano i suoi antenati: salendo in barca e sventolando il Gonfalone di San Marco.
Gonfaloni ce n’erano tanti, questo pomeriggio. Ruggenti Leoni di San Marco che battevano il vento a fianco delle bandiere No Grandi Navi. Perché Venezia è la laguna e la laguna è Venezia. Non si può pensare di difendere l’una a spese dell’altra.
E difendere Venezia significa oggi difendere il canal Contorta, l’ultima trincea di una laguna che assomiglia sempre di più ad un braccio di mare aperto, sul quale pesa un devastante progetto di scavo proposto da Polo Costa per difendere gli interessi delle compagnie di Crociera.
Un progetto per il quale il Governo Renzi è pronto a fare carte false, bypassando con l’inserimento in Legge Obiettivo non solo qualsiasi consultazione con i veneziani e il Comune di Venezia (che comunque ora come ora non c’è), ma anche qualsiasi valutazione ambientale od economica.



Su questi argomenti non ci dilunghiamo perché abbiamo già scritto e invito i lettori, per approfondirli, a far scorrere le video interviste pubblicate su Global.
Oggi vogliamo solo raccontare una giornata di mare e di festa. Più di cento imbarcazioni con a bordo perlomeno un migliaio di cittadini. Tanti comitati, tante associazioni ma soprattutto tanta, tanta gente che ha ribadito a gran voce come Venezia non voglia altri scavi in laguna. In un pomeriggio miracolato anche dal tempo atmosferico, sono scese in acqua tante, tante barche. A remi, a vela e a motore. Tradizionali caorline in legno come moderni barchini col fuoribordo.
Barche “vere”. Barche di gente che sa andare per mare. Tutta un’altra cosa da quelle speculazioni edilizie galleggianti che altro non sono le Grandi Navi. Un corteo festoso che dalla Punta della Dogana si è disteso sino all’isola di Sant’Angelo delle Polveri. Un corteo forte e colorato come quelle migliaia di palloncini con i quali gli ambientalisti hanno ornato le “bricole”.
Per la nostra città è stata una giornata storica. Venezia si è ripresa la sua antica laguna.
Non abbandoniamola più in mano agli speculatori.

Difendiamo le nostre terre. A Mira, giornata nazionale contro la Orte Mestre

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Quattrocento chilometri di cemento. Quattrocento chilometri di devastazione ambientale inutile e costosissima. Questo è l’autostrada Orte Mestre. L’ennesima Grande Opera sbloccata dal Governo Renzi, dopo le bocciature del Via e della Corte dei Conti, grazie ad un apposito decreto che gli ambientalisti hanno già battezzato Sbanca Italia. L’ultima folle Grande Opera, figlia di una economia fallimentare ed insostenibile che ha portato l’intero pianeta sul baratro del Climate Change.
E proprio a un giorno di stanza dalla grande marcia per il clima che si svolgerà domani a New York, gli ambientalisti di mezza Italia sono scesi in piazza per denunciare l’assurdità di una politica che, con l’obiettivo dichiarato di uscire dalla crisi, persegue esattamente la stessa economica insostenibile che ha generato la crisi.
Manifestazioni e presidi contro la Orte Mestre si sono svolti in tutte le Regioni interessate dall’ennesimo sfregio ambientale: dal Lazio all’Emilia Romagna, dall’Umbria alla Toscana.
Nel Veneto, la rete nazionale Stop Orte Mestre si è mobilitata con una biciclettata da Mira a Giare dove nella mattinata si è svolto un colorato presidio a ridosso dell’incrocio con la Romea.



“Abbiamo scelto di manifestare proprio su questa incrocio dove ogni anno succedono tragici incidenti - ha spiegato Mattia Donadel, portavoce del Comitato opzione Zero - per rimarcare quanto sia assurdo spendere 10 miliardi di euro per costruire un’altra strada quando basterebbe davvero poco per mettere in sicurezza questa che abbiamo già”. Durante la manifestazione è stato distribuito un simpatico “kit di sicurezza” per il pedone costretto ad affrontare le insidie dell’attraversamento della Romea composto da pettorine catarifrangenti, vuvuzela, fumogeni di segnalazione e una striscia pedonale personale da stendere all’occorrenza.
Da segnalare la partecipazione alla manifestazione, conclusasi a Dolo con musica e festa, anche del sindaco di Mira, Alvise Maniero. Il Comune di Mira infatti, è stato il primo a votare una mozione in cui chiede al Governo l’abbandono del progetto Orte Mestre. Un esempio importante, che in seguito ha fatto scuola anche da Dolo, Camponogara, Fossò e Pianiga. “Amministrazioni di colore diverso ma unite nel ritenere folle buttare miliardi per una strada che c’è già e cementare la campagna rimasta - ha commentato il Primo Cittadino a 5 Stelle -. E devo dire che queste prese di posizioni coraggiose sono tutto merito vostro. L’idea iniziale dei miei colleghi sindaci era quella di provare a limitare i danni, venendo a patti con i costruttori. Sono state le vostre ragioni e le vostre mobilitazioni a far capire a tutti che non ci sono patti che tengano con chi vuole devastare il nostro territorio”.
“Gli architetti del nostro futuro non possono essere personaggi pluripregiudicati come Vito Bonsignore - ha concluso Tommaso Cacciari del Laboratorio Morion -. Gli stessi attori si apprestano a recitare nel palcoscenico della Orte Mestre, sono gli stessi che ieri hanno voluto il Mose e che oggi vorrebbero realizzare lo scavo del Contorta per difendere con i soldi pubblici gli interessi privatissimi delle compagnie di crociera”.
Tommaso Cacciari ha quindi invitato tutti alla festa della laguna che si svolgerà domani pomeriggio proprio su quel canale largo 4 metri e profondo 2 ma che il presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Costa, pretenderebbe di “ricalibrare“, proprio questo il termine che ha adoperato!, sino a farlo diventare largo 25 e profondo 200 metri per farci passare quelle specie di speculazioni edilizie galleggianti che chiamano Grandi Navi.
La butto là: e se invece del Contorta “ricalibrassimo” Paolo Costa?

Venezia chiama Terra

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“Quando ci pentiremo, sarà troppo tardi”. A lanciare l’allarme sui rischi derivanti da una politica che continua a sottovalutare i rischi legati ai Cambiamenti Climatici non è il “solito” ambientalista catastrofista ma lo stesso Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon.
Il V Rapporto Ipcc infatti mostra inequivocabilmente come il riscaldamento globale costituisca una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell'umanità sulla terra. Ma se la scienza oramai è concorde nel considerare il Climate Change un fatto acquisito e le voci dei pochi negazionisti sono state messe a tacere dai fatti, la politica è ancora lontana dal capire che il passaggio ad una nuova economia basata sulle rinnovabili non è più procrastinabile.
“Le azioni dei leader mondiali - ha dichiarato il segretario della Nazioni Unite che ha convocato per martedì 23 settembre i rappresentanti dei Governi di tutto il mondo - mostrano un approccio dalla mentalità ristretta sul tema dei cambiamenti climatici e sono distratti, assai spesso, da questioni di rilevanza meramente elettorale”.
Cambiare adesso quindi, perché tra un po’ sarà troppo tardi anche per pentirsi.
A sostegno di un auspicabile cambio di rotta verso un sistema energetico atto a contrastare il Global Warming, i movimenti ambientalisti di tutta la terra ha indetto una giornata di mobilitazione per domenica 21 settembre.



L’appuntamento principale sarà a New York dove è atteso un milione di persone per dare corpo alla più grande mobilitazione ambientalista mai organizzata: la People’s Climate March.
Da Sidney a Brasilia, da Stoccolma a Città del Capo, in tutto il mondo sono previste azioni di sostegno e di sensibilizzazione.
Anche Venezia questa mattina si è mobilitata con un flash mob e lo srotolamento di grandi striscioni sul ponte di Rialto. Le immagini, iconografiche e spettacolari come tutto quello che riguarda Venezia, saranno proiettate a Time Square durante la People’s Climate March.
L’iniziativa è stata organizzata da centri sociali, movimenti per la decrescita e le associazioni ambientaliste come Legambiente, AmbienteVenezia, Opzione Zero e NoGrandiNavi.
Non è un caso che gli organizzatori abbiano scelto come sede della conferenza stampa a sostegno della marcia newyorkese, proprio la sede dell’Ufficio Maree del Comune di Venezia, a due passi dal ponte di Rialto. Secondo il V Rapporto Ipcc, infatti, la nostra laguna così come il Delta del Po, è una delle aree costiere più a rischio di essere sommerse dal mare. Il simbolo vivente di un disastro planetario annunciato.
Ed il giorno in cui il mare coprirà le nostre calli, lo si legge chiaro nel rapporto Ipcc, non basterà il Mose a salvarci. Questa grande opera che ha devastato la laguna, inquinando la politica e drogando l’economia, è solo un’altro simbolo: quello del fallimento delle politiche di adattamento locale.

Non è neppure un caso che all’iniziativa rialtina abbiano partecipato i comitati che domani manifesteranno in bicicletta a Mira contro la Orte Mestre e quelli che domenica pomeriggio remeranno in barca sino al canal Contorta per difenderlo dal progetto di scavo.
La grande e inutile autostrada, così come l’ennesima devastazione lagunare a vantaggio delle Grandi Navi, altro non sono che due eclatanti esempi di quelle politiche sviluppiste che hanno innescato il Global Warming e di una economia predatrice che si nutre dell’ambiente in cui viviamo.

2020Ve lancia una petizione per restituire a Venezia i soldi saccheggiati dalla cricca del Mose

2020
Quasi un migliaio di firme in pochi giorni per chiedere al Governo di restituire a Venezia i soldi della “cricca del Mose” e recuperare così quei 75 milioni di euro che potrebbero evitare tagli al welfare e disagi ai veneziani. La petizione lanciata da 2020Ve vola nel mare magnum della rete dei social network mietendo consensi.
Quello che i veneziani chiedono a Matteo Renzi è innanzitutto un “atto di innovazione e di coraggio” che parte da un presupposto consolidato. Come risulta dalle recenti indagini della Magistratura, “ampia parte delle risorse stanziate dallo Stato per Venezia” sono state “gestite, senza alcun effettivo controllo, dal Consorzio Venezia Nuova e finite ad alimentare il cosiddetto ‘sistema Mose’”. Una palude di commistioni affaristiche e politiche che hanno inquinato tanto la società quanto l’ambiente dirottando denaro pubblico verso interessi privati e malavitosi.



Non sarebbe quindi più giusto se il Governo restituisse alla città, una quota delle “spese generali di gestione” del Consorzio – la voce di bilancio dalla quale sono scaturite le principali tangenti – già stanziata per il completamento del Mose? Se solo questa percentuale scendesse dall’attuale 12 al 6 per cento, sarebbe possibile recuperare subito 75 milioni di euro da destinare al risanamento della situazione di bilancio del Comune per l’anno corrente oltre che costituire un avanzo attivo per il bilancio del 2015.
Questo è quanto chiede la petizione lanciata da 2020Ve (se legge “venti, venti, ve”), l’associazione promossa da In Comune, Sel e Verdi – Green Italia che vuole proporsi come un progetto aperto per costruire la Venezia che si incammina verso il traguardo del 2020. Per altre informazioni, potete collegarvi al 
blog dell’associazione, alla pagina FaceBook e al profilo twitter @2020Ve
Questo di seguito il testo integrale della petizione che potete sottoscrivere al seguente 
link

Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e al Commissario Prefettizio Vittorio Zappalotorto
Signor Presidente, Signor Commissario,
Venezia condivide con tutti i Comuni italiani i problemi economici derivanti da anni di politiche di austerità, che hanno pesato quasi esclusivamente sulla finanza pubblica locale. Particolari difficoltà di bilancio sono poi derivate all’Amministrazione veneziana dalla scelta dei precedenti governi di destinare al solo progetto Mo.S.E. tutte le risorse per la salvaguardia previste dalla Legislazione speciale per Venezia e prima impiegate per la manutenzione della città e per la sua rivitalizzazione socio-economica. Le procedure di calcolo del rispetto del Patto di Stabilità interno hanno, per questo, ulteriormente penalizzato il Comune.
Dalle inchieste della Magistratura risulta che ampia parte delle risorse stanziate dallo Stato per Venezia e gestite, senza alcun effettivo controllo, dal Consorzio Venezia Nuova, sia finita ad alimentare il cosiddetto “sistema Mo.S.E.”. Non con solo le somme illegalmente distratte con la creazione di fondi neri a fini corruttivi, ma con i super profitti assicurati al Consorzio dalla concessione unica con il 12 per cento garantito al Consorzio su ogni trasferimento statale per le “spese generali di gestione” dei progetti. Un prelievo ingiustificato, se consideriamo che abitualmente ai general contractor di opere pubbliche viene riconosciuto non più del 6 per cento.
Ciò stride con le attuali difficoltà finanziarie del Comune di Venezia: per chiudere la parte corrente del Bilancio di previsione 2014 mancano infatti 47 milioni di Euro, una cifra risibile se paragonata all’enormità delle risorse sottratte dal Concessionario unico e dal sistema corruttivo emerso dalle inchieste giudiziarie. Ma è una cifra che si sta traducendo in conseguenze pesanti per la vita cittadina, con tagli al bilancio comunale che comporterebbero la chiusura o il drammatico ridimensionamento di numerosi servizi sociali ed educativi e nella penalizzazione delle retribuzioni dei dipendenti. Venezia corre il rischio di essere doppiamente vittima “sistema Mo.S.E.”. Noi crediamo invece che la città debba essere risarcita e che non debbano essere cittadini e lavoratori a pagare il prezzo più alto.
Per questo vi chiediamo di farvi carico di una concreta proposta. Nell’ottobre 2012 il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) ha stanziato oltre 1.250 milioni di Euro per il completamento del Mo.S.E.. In sede CIPE sono attualmente in discussione il trasferimento della penultima e ultima tranche di pagamenti al Consorzio Venezia Nuova, per 401 e 226 milioni di Euro. Se, con un provvedimento del Governo, la percentuale per le “spese generali di gestione” del Consorzio fosse portata dal 12 al 6 per cento si potrebbero accantonare oltre 75 milioni di Euro da destinare subito al risanamento della situazione di bilancio del comune per l’anno corrente e a costituire un avanzo attivo per il bilancio del 2015. Sarebbe il modo più corretto per risparmiare alla Città quelle tensioni sociali che scelte indiscriminate di tagli al welfare e alle retribuzioni dei dipendenti sicuramente comporterebbero.
Vi chiediamo perciò un atto di innovazione e di coraggio, che consenta a Venezia di voltare pagina.

Il Comitatone decide per Venezia. V.I.A. libera allo scavo del Contorta

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Certo, non ci aspettavamo niente di meno. I cosidetti “blitz di Ferragosto” sono oramai proverbiali per far passare sotto il naso delle gente che sta pensando solo alla tintarella, le peggiori porcherie ambientali. Così è stato anche questa volta. Solo che l’hanno fatta più sporca ancora. Perché alla riunione del Comitatone che doveva decidere sulla presenza delle Grandi navi in Laguna, non c’era uno straccio di rappresentante della nostra città. Come dire che ci hanno mangiato la pastasciutta in testa!
Alla riunione svoltasi quest’oggi a mezzogiorno, hanno partecipato infatti tre ministri (Trasporti, beni culturali e Ambiente), Regione, Provincia, Magistrato delle Acque e Autorità Portuale. Del tutto assenti i rappresentanti del Comune - coloro cioè che i cittadini hanno votato appunto perché li rappresentassero in occasioni come queste - per il semplice fatto che i rappresentanti del Comune non ci sono più. Tutti a casa. Tutti commissariati per uno scandolo - quello del Mose - che, alla fin fine, come hanno ammesso gli stessi magistrati, riguardava il Comune solo di striscio (qualche centinaio di euro di finanziamento illecito dal Consorzio all’ex sindaco per la sua campagna elettorale contro Gianfranco Bettin alle primarie) ma, al contario, ha investito in pieno la Regione, dove nessuno si è sognato di dimettersi, il Consorzio e tutto il suo apparato tangentato e tangentaro, ministri e faccendieri compresi, che sono ancora alla plancia di comando. Tant’è vero che sono stati proprio loro a decidere la “soluzione” al problema della Grandi Navi. Ed è la soluzione che tutti gli ambientalisti temevano: il devastante “scavo del Contorta” che mette d’accordo compagnie marittime, autorità portuale, consorzio e imprese cementificatrici. A pagarne le spese sarà quanto rimane della laguna di Venezia. Sempre ammesso che possiamo ancora continuare a chiamarla “laguna”!



Lo scavo del Contorta: “Il solo progetto capace di allontanare le navi da San Marco mantenendo l'eccellenza crocieristica veneziana” ha dichiarato soddisfatto Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale, che dello scavo è stato sin dall’inizio il più accanito sostenitore e che è il vero vincente di tutta questa storia.
Certo, Il progetto dovrà prima essere sottoposto alla Valutazione di impatto ambientale. E grazie tante che non abbiamo ancora aperto l’autostrada della legge Obiettivo con la scusa di sveltire la burocrazia e di accelerare i finanziamenti. Ma non facciamoci illusioni sull’esito. Sappiamo bene come funziona il Via e come la commissione di valutazione ambientale sia sensibile alla pressione del potere politico ed economico.
“Una beffa che comporterà danni enormi. Una scelta compiuta in assenza di una democratica rappresentanza del Comune da quegli stessi Ministeri e quegli stessi enti che sono stati fino al collo condizionati dalla cricca del Mose - ha commentato in una nota Gianfranco Bettin già assessore all’Ambiente -. Si realizza così il sogno di certi poteri forti e di tutti i poteri marci: comandare su Venezia senza mediazioni, senza confronti o controlli da parte di un’amministrazione eletta. Si capisce così anche meglio perché non si voglia far votare la città al più presto, in autunno, per restituire pienezza di poteri e di rappresentanza al Comune, mentre ogni giorno, per impoverirla e destrutturarla, si denigra Venezia presentandola come un covo di parassiti e di privilegiati.
“Occorre ricostituire questa rappresentanza democratica al più presto, in modo che possa intervenire nella procedura di Via e che possa aprire il confronto con l’Autorità competente sul nuovo Piano regolatore portuale che assumerà le decisioni davvero strategiche - conclude l’ambientalista -. Oppure, che nominino un Podestà: sarebbe tutto più chiaro”.
"Non si illudano: questi signori - avverte Beppe Caccia - il blitz agostano del Comitatone si rivelerà una vittoria di Pirro. In tante e tanti impediremo con ogni mezzo la realizzazione di una nuova grande opera, che rischia di dare il colpo di grazia all’equilibrio idrodinamico della Laguna".

Una mattinata di ordinaria mobilitazione. Consegnato il dossier a Renzi, occupato il Magistrato alle Acque, smantellato l'ufficio

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E’ finita con una bella occupazione alla sede del Magistrato delle Acque - proprio come ai bei tempi delle battaglie contro il Mose - la giornata di mobilitazione #civediamol’8 #tuttidarenzi. Gli attivisti dei comitati ambientalisti e dei centri sociali si sono dati appuntamento davanti alla porta dell’Arsenale di Venezia. Un arsenale difeso da potenti cordoni di poliziotti in assetto antisommossa.
Uno spiegamento impressionante di forze che strideva con la storia della Serenissima. Lo stesso palazzo ducale infatti, non è stato concepito come un fortino e il doge non ha mai avuto una milizia a sua difesa proprio perché spettava ai veneziani decidere se abbattere o difendere la governanza a seconda del suo comportamento.
Oggi invece a difendere Matteo Renzi venuto ad inaugurare la Digital Venice Week (“settimana digitale veneziana”, una mostra sulle innovazioni informatiche scritta in inglese perché si crede che faccia più figo) c’era lo schieramento delle grandi occasioni.
I manifestanti sono riusciti comunque ad ottenere di far passare una delegazione per incontrare lo staff del presidente del Consiglio e consegnare le richieste tra le quali, ricordiamo, lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova. Consorzio che, come ci spiega Beppe Caccia, è stato la “madre di tutto il malaffare veneto”.



“Se Renzi vuole davvero trovare una via di uscita alla palude di corruzione in cui è sprofondata Venezia - ha commentato Caccia - deve ascoltare chi da oltre vent’anni denuncia questo sistema che mescola malaffare e malgoverno. Inutile cercare di scaricare tutte le colpe su Baita e Mazzacurati! Erano tutte le imprese che facevano capo al Consorzio a decidere chi spingere politicamente e chi corrompere per far proseguire un’opera come il Mose che non poteva essere realizzata se non bypassando tutte le procedure di tutela ambientale e di gestione trasparente dei fondi”.
Per conoscere nel dettaglio le richieste dei comitati, dallo smantellamento del Consorzio sino ad una moratoria su tutte le Grandi Opere, collegatevi a questo
link di EcoMagazine.
La mattinata di mobilitazione si è conclusa con una spettacolare azione nel “cuore” del malaffare. Gli attivisti hanno occupato la sede del Magistrato alle Acque, ai piedi del ponte di Rialto, e gli hanno letteralmente smontato l’ufficio. Pezzo per pezzo.
Una azione simbolica, come ci spiega Tommaso Cacciari del laboratorio Morion: “Abbiamo chiesto a Renzi che il Magistrato alle Acque che si è rivelato uno dei cardini della corruzione (nell’elenco degli ultimi presidenti, difficile trovarne uno che non abbia mai avuto le manette ai polsi.ndr) e che fa capo direttamente al Ministero, venga sciolto per riversare le sue competenze all’interno del Comune di Venezia che è un ente più vicino ai cittadini”. E così, per portarsi avanti col lavoro, gli hanno smontato l’ufficio che neanche all'Ikea trovi pezzi più piccoli dei mobili!
Proprio come ai bei tempi della battaglia contro il Mose, scrivevamo in apertura. Ricordiamo una analoga occupazione avvenuta qualche anno fa, quando responsabile dell’ufficio era - sempre per la serie “manette ai polsi” - tale Maria Giovanna Piva. Alcuni dei ragazzi che avevano compiuto l’azione di protesta si sono visti appioppare dai 4 agli 8 mesi di reclusione. La loro colpa era solo quella di aver denunciato quanto gli stessi magistrati inquirenti oggi denunciano e di aver ribadito ciò che oggi tutti ribadiscono: il Mose è un’opera funzionale solo alle tangenti. Ad altro non serve.
Ma questa mattina, ritornando in quell’ufficio vuoto, nessuno provava soddisfazione per gli “arresti eccellenti” che, ad opera avanzata, ci hanno dato ragione. Solo tanta, tanta rabbia.

Comitati in campo per la moratoria alle Grandi Opere. “Le inchieste non bastano. Bisogna cambiare il sistema”

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Comitati in campo, questa mattina a Venezia, per ribadire che il problema delle Grandi Opere non sta solo nelle tangenti o nella corruzione di pochi, ma nel sistema malavitoso che questa innesca e che finisce per drogare l’economia, devastare il territorio, inquinare la politica e demolire la democrazia. Sistema malavitoso il cui mantenimento è, alla fin fine, il vero obiettivo della Grande Opera. Ben vengano quindi le inchieste della magistratura, ma sia chiaro a tutti che non è con la galera che si cambia questo sistema corrotto. Bisogna fermare la “macchina” che macina corruzione portando democrazia e partecipazione nei territori, impostare una politica di tutela dei beni comuni, smantellare enti a gestione unica come, in primis, il Consorzio Venezia Nuova.
Ecco quanto hanno ribadito i rappresentanti dei tanti comitati veneti riuniti in una rete contro le Grandi Opere che si sono dati appuntamento in campo San Tomà, a due passi da palazzo Balbi, sede della Giunta Regionale del Veneto. Tante bandiere, tanti striscioni colorati per ricordare le tante devastazioni sulle quali sia il Governo che la Regione insistono nel perpetuare, nonostante gli arresti e le inchieste. Il tutto nel sacro nome di uno “sviluppo predatorio” che oramai detta legge sia da destra che da sinistra.
“Le Grandi Opere sono state il pozzo senza fondo di una corruzione così ramificata e organizzata che possiamo definire mafiosa. Assieme a grandi gruppi imprenditoriali, vede coinvolti politici e uomini delle istituzioni - si legge nei volantini distribuiti durante l’iniziativa -. I comitati che in tutti questi anni hanno provato a richiedere trasparenza e legalità hanno sempre trovato il rifiuto a ogni tipo di partecipazione e perfino l’impedimento ad accedere agli atti pubblici dei vari progetti”.



Le inchieste della magistratura, le promesse del Governo Renzi non hanno cambiato questo stato di cose. Oggi più di prima le Grandi Opere come il Mose, la Tav, la Nogara Mare, lo scavo del Contorta, sono operazioni secretate e, in qualche caso addirittura, militarizzate come se fossero un obiettivo sensibile per la difesa del Paese.
Il sistema cha ha creato le Grandi Opere si difende tagliando qualche ramo ma salvaguardando il fusto e le radici del malaffare.
Per questo, i comitati hanno chiesto una moratoria per tutte le Grandi Opere e l’abbandono dei tre strumenti base che sono stati usati per finanziarle e gestirle: la legge Obiettivo, il project financing e il commissario straordinario.
E questo è quando i comitati chiederanno a Renzi, atteso proprio a Venezia martedì 8 luglio. #civediamol8

E con questa sono tre. Gli Organismi Genuinamente Mobilitati ripuliscono ancora i campi coltivati a Mon810

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Oramai è proprio come andare a trovare un vecchio amico che ci aspetta a braccia spalancate. Ogni volta che il mais comincia il suo processo di impollinazione, gli attivisti autonominatisi Organismi Genuinamente Mobilitati, salgono cantando nelle loro auto armati di falci e falcioni e si recano in quel di Vivaro, ridente località tra il confine veneto e la città di Pordenone. Qui li aspetta un campo verde smeraldo dove cresce rigoglioso, forse troppo rigoglioso - annaffiato da un potente impianto di irrigazione perché queste piante qui consumano tre volte l’acqua di una pianta normale - il Mon810. Quindi i nostri attivisti si infilano la tuta bianca e ci danno di falcetto sino a che non rimane su neppure una piantina rachitica.
La storia si è ripetuta anche oggi, giorno di San Giovanni, giorno “magico” per l’agricoltura. Il giorno dei fiori di camomilla e del nocino. In questo giorno magico, per la terza volta consecutiva, dei grandi campi coltivati a mais transgenico di Giorgio Fidenato, cavallo di troia della Monsanto in Europa, non ne è rimasto abbastanza da sfamare un paio di cavallette. 
Il folto gruppo di attivisti, arrivato a Vivaro verso le 12,30, ci ha dato alla grande che neppure un “machetero” di professione. E’ bastato un quarto d’ora per "ripulire" duemila metri quadri di mais transgenico che, ricordiamolo, è illegale sia in Italia che in Europa. Il Fidenato infatti si è già preso un multone di 40 mila euro ma evidentemente per chi lavora con la Monsanto sono solo bruscolini. Tanto è vero che l'agricoltore/imprenditore ha immediatamente riseminato lo stesso campo con lo stesso mais transgenico che anche questa volta è cresciuto vigoroso, come abbiamo detto, sino all’arrivo degli ambientalisti. Ora non rimane che cantare “Là dove c’era l’erba...” 



“Distruggere le piante, anche piante come queste, non è cosa che ci fa piacere - ha dichiarato un attivista in tuta bianca - Ma abbiamo risposto con una azione di ripulitura ad un atto di violenza contro la biodiversità e la salute che è quello compiuto da Giorgio Fidenato. Lui e altri come lui sono riconducibili a quella cricca di apprendisti stregoni legati all'impianto di potere della Monsanto che cerca di introdurre per vie traverse le coltivazioni Ogm laddove sono vietate dalle normative statali. L'abbiamo visto in diversi Paesi di tutto il mondo, e lo stiamo vedendo anche in Europa ed in particolar modo in Italia, soprattutto in previsione dell'Expo 2015 in cui le grandi multinazionali delle sementi saranno direttamente protagoniste della gestione diretta o indiretta di alcuni padiglioni”. 
Ora che l’Europa ha delegato agli Stati membri le decisioni sull’uso di organismi geneticamente modificati, vi è il rischio - sostengono gli attivisti - che passi una idea di coesistenza tra il biologico e il transgenico. Una idea fallace per sua stessa natura, in quanto le coltivazioni Ogm sono contaminanti e invasive per tutto l’ecosistema di cui si nutrono. 
“E questo - concludono gli attivisti - è uno dei motivi per i quali siamo contrari all’agricoltura transgenica. la nostra Europa è libera dagli Ogm. Keep calm and use Falce”

Il Consiglio Comunale rassegna le dimissioni ma prima vota la mozione in cui chiede lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova

Mafcon
Cala il sipario sulla Giunta Orsoni. Cala il sipario senza l’inchino del primo attore che preferisce rimanersene a casa e spedire lettera ai consiglieri. Lettera che, senza voler essere prosaici, potremmo tradurre con: “andate tutti a quel paese”.
Lunedì 23 giugno, ultimo consiglio a Ca’ Farsetti. Giusto il tempo di approvare un paio di delibere importanti, come il trasferimento del mercato ortofrutticolo e naturalmente il bilancio, e poi comincia l’inevitabile rito delle dimissioni dei consiglieri. Il tutto davanti ad un merdaio di fasci&forconi bercianti. Non più di quattro gatti, per la verità. Niente di paragonabile alla seduta precedente quando uscirono dalle fogne persino i forzanuovisti a sventolare cartelli con scritto “Amici dei violenti e ora anche delinquenti”. Ma lo spettacolo di urla e spintonate in platea non è mancato neppure questa volta. La cosa incredibile è che i più “gettonati” per gli “andate a lavorare” sono stati coloro che del Mose e del sistema Mose sono stati i più grandi contestatori: Beppe Caccia, Gianfranco Bettin, Sebastiano Bonzio! Per non parlare della Camilla Seibezzi, sempre in testa alla hit parade degli strillatori da osteria, come se le sue fiabe gay fossero peggiori delle fiabe che han sempre cercato di contarci sul Mose.
Come ha osservato lo stesso Caccia, lo scandalo Mose ha colpito la Regione, la Corte dei Conti, ministri ed ex ministri del Governo, la Guardia di Finanza, il Magistrato alle Acque, per tacere del Consorzio Venezia Nuova. Il Comune è stato investito di striscio e solo nella persona del sindaco per un finanziamento di poche centinaio di migliaia di euro che Orsoni ha usato proprio per vincere le primarie contro Bettin. Fatto, per carità, gravissimo ed imperdonabile da un punto di vista politico ma che di fronte alla cricca mafiosa che sta dietro al Mose ci sta come uno scasso col cacciavite ad un distributore di bibite contro il cartello del narcotraffico sudamericano.



Eppure chi finisce a cartoni all’aria è proprio il consiglio comunale. Come mai? Una spiegazione c’è. Il sistema che ha creato il Mose può anche condannare qualche pedina ma deve comunque salvare se stesso. E’ un sistema misto politico - affaristico - mafioso che macina diritti, ambiente e democrazia per ricavare capitale e potere per pochi. Il consiglio comunale di Venezia che, come tutti i consigli comunali è l’organo più vicino ai cittadini, è sempre stato un bastone tra le ruote di questo sistema accentratore che rifugge ogni controllo e rendicontazione. Tanto è vero che i soli Massimo Cacciari e Gianfranco Bettin votavano contro la Grande Opera nel Comitatone. Ecco perché Orsoni è rimasto vittima del sensazionalismo giudiziario e il suo (evitabilissimo, a nostro avviso) arresto - l’arresto del sindaco di Venezia! - ha fatto più scalpore delle accusa ben più pesanti a carico di personaggi come Renato Chisso e Giancarlo Galan, a piede libero solo perché onorevole.
Ed ecco perché quei quattro buzzurroni che invocavano forche e pene di morte a destra e a manda in consiglio se la pigliavano con le uniche persone che, potete metterci tutti la mano sul fuoco, dal Consorzio non si sono mai fatte corrompere. Ed ecco perché questi stessi forcaioli a bassa scolarizzazione che nei fumetti vengono regolarmente presi a calci in culo da Tex Willer, applaudivano sino a spellarsi le mani agli interventi dei consiglieri di destra che il Mose - il sistema Mose - lo hanno sempre difeso e voluto.
Cosa questa, chiarissima anche negli interventi dei consiglieri che si sono espressi sulla mozione portata in aula da Caccia, Seibezzi e Bonzio con la quale si chiede al Governo di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e il Magistrato delle Acque per attribuirne i poteri al Comune. Dichiarandosi contrari alla richiesta, i consiglieri di destra ribadivano che, proprio per evitare questi scandali e non intralciare la realizzazione dell’opera, i poteri di questi enti andavano al contrario potenziati.
La cosa ha una sua logica, c’è da osservare. Se berlusconianamente attribuissimo a questi enti anche un controllo sulla magistratura inquirente... beh, potremmo essere certi che certi scandali non vedrebbero più la luce del sole! Il discorso invece è l’esatto contrario. Consorzi dotati di poteri straordinari servono solo a creare scandali straordinari. Enti che operano in deroga alle leggi, finiscono per derogare anche alla legalità. Servizi che gestiscono fondi pubblici senza rendicontazione, finiscono per dirottare questi fondi al privato e a creare un mercato di tangenti e di opere inutili finalizzate alla tangente stessa. La soluzione non sono gli arresti ma la democrazia dal basso, la partecipazione delle cittadinanza attiva alle scelte sul territorio, i controlli incrociati, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente attraverso studi scientifici seri ed indipendenti. Tutte cose che col Mose non abbiamo mai visto.
Per questo riteniamo importante che coma ultimo atto il consiglio abbia approvato la mozione per lo scioglimento del Consorzio. Anche se il Governo ben difficilmente accoglierà la richiesta, sarà comunque un buon punto di partenza per il consiglio che verrà. Peccato solo non averla votata qualche anno fa, una mozione così. Ma qualche anno fa non avremmo mai sperato di sentire tanti consiglieri del Pd sparare ad alzo zero sul Mose come in questi ultimi consigli comunali. Va ben. Scriviamo “Meglio tardi che mai” e chiudiamola qua.

Una lettera indecente. Il presidente del Consorzio scrive a Renzi: “Concludiamo l’opera senza verifiche”

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Beppe Caccia, dalla sua pagina di Facebook (che vi invito caldamente a seguire) l’ha definita “una lettera indecente”. A noialtri, che siamo molto meno signorili del consigliere della lista In Comune, vengono in mente epiteti assai più coloriti. Ma la lettera con la quale il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mauro Fabris, chiede al Governo di non interferire sulla realizzazione dell’opera è, oltre a tutto quello che sottolinea Caccia e che riportiamo sotto, anche e soprattutto un ammissione di colpevolezza.
In sostanza Fabris fa questo ragionamento: le inchieste della magistratura sono una cosa, il Mose un’altra. I politici, dice Fabris, sono corruttibili (soprattutto gli amici suoi, potremmo obiettare noi), lo si sa. Ma se vogliamo che i lavori delle paratoie mobili continuino, il Governo si guardi bene dal commissariare il Consorzio o, peggio ancora, far le pulci agli appalti, addentrarsi nella giungla delle consulenze ed effettuare verifiche scientifiche sull’opera. Come dire: il carrozzone politico affaristico che ci ha regalato il Mose deve essere tutelato a tutti i costi, altrimenti il Mose non si fa. Perseguitiamo pure gli uomini, ma difendiamo il sistema.
Lo stesso ex Magistrato alla Acque, Patrizio Cuccioletta, ha ammesso a i magistrati che, grazie alla capillare corruzione da parte del Consorzio di cui lui è solo una povera vittima, non c'è mai stato alcun serio controllo scientifico sul progetto delle paratie mobili. Questo perché, se ci fosse stato, il progetto non sarebbe stato avviato. Per questo e non per altro, la corruzione era e continua ad essere una “politica” necessaria.



A far scrivere la “lettera indecente” al boss del Consorzio, quindi, è stata la paura che le indagini della magistratura spingano l’opinione pubblica a chiedere una verifica tecnica, autorevole e soprattutto indipendente e non corrotta - come mai è stato fatto - sulla validità del progetto. E magari qualcuno potrebbe anche domandarsi da dove sono venute tutte quelle deroghe alle valutazioni di impatto ambientale, pure previste dalle normative, che hanno fatto volare il mostruoso progettone sulle ali di milionate di euro.
Il punto è che, come per tante altre Grandi Opere, il nemico principale del Mose sono la trasparenza sugli appalti, il rispetto dei vincoli ambientali, l’approccio scientifico sulla validità della realizzazione, la possibilità di scelta di chi vive sul territorio. Che poi sono quattro aspetti di quella cosa che, a parer nostro, altro non è che democrazia partecipata dal basso. Il sistema della concessionaria unica che funge allo stesso tempo da controllore e controllata, è stato studiato apposta per bypassare questi quattro “impicci” sull’onda di vagonate di finanziamenti pubblici.
Per questo Fabris si è appellato a Renzi. Se arriva la democrazia, noi andiamo a casa.
Ultimo aspetto cui accenna anche Caccia, chiedendo una sospensione immediata dei lavori, sono i “pesantissimi dubbi dal punto di vista tecnico-scientifico, dalla questione delle cerniere a quella della risonanza” che gravano sul sistema delle paratie mobili.
Davvero vogliamo affidare la sicurezza di Venezia e quella dei suoi abitanti a un progetto pensato e realizzato solo in funzione di un sistema integrato e capillare di corruzione?
I disastri, ricordiamocelo, non sono mai naturali.


Di seguito, le osservazioni di Beppe Caccia


INDECENTE LA LETTERA DI FABRIS A RENZI:
SCANDALOSO IL TENTATIVO DI SALVARE IL SISTEMA
E DI SOTTRARRE IL MO.S.E. A VERIFICHE RIGOROSE

La lettera del presidente del Consorzio Venezia Nuova Mauro Fabris al presidente del Consiglio Matteo Renzi è una delle cose più indecenti che si siano viste nelle ultime due settimane.

Innanzitutto per la posizione personale del mittente, cui andrebbe suggerito un più sobrio silenzio. Invece di pretendere garanzie dal Governo, Fabris dovrebbe dare un bel po' di spiegazioni sui rapporti intrattenuti negli ultimi vent'anni con la cricca che guidava il Consorzio. Dovrebbe immediatamente, ad esempio, rendere pubblico il contratto di "consulenza strategica" - di cui ha parlato l'ing. Piergiorgio Baita - che Fabris avrebbe ottenuto per sé dallo stesso Consorzio e spiegarci se il contratto era valido e retribuito anche per gli anni, decisivi per l'approvazione del progetto Mo.S.E., in cui si trovava a ricoprire il delicato incarico di sottosegretario ai Lavori Pubblici e svariati ruoli parlamentari e commissariali.

In secondo luogo, per l'arroganza con cui pretenderebbe di salvare, insieme a se stesso, tutto il "sistema", quello della concessione unica dello Stato per le opere di salvaguardia che ha regalato il monopolio su queste al pool di imprese private del Consorzio, in condizioni di totale, criminogena opacità. Chi - in sede di ministero per le Infrastrutture - avrebbe già assicurato a Fabris che il Consorzio non verrà mai commissariato e tantomeno sciolto? Lo stesso ministro Lupi, sulla cui scrivania stanno transitando decisioni cruciali per il futuro della Laguna? E il presidente Renzi non ha nulla da dire al proposito?

Terzo, ma non meno importante, per la volontà di sottrarre i cantieri delle dighe mobili a qualsiasi verifica rigorosa, autorevole e indipendente, sulla sicurezza dell'opera in via di realizzazione, sulla sua efficacia rispetto agli obiettivi dichiarati, sulla congruità dei suoi costi, quelli sostenuti e quelli da sostenere. Il presidente del Magistrato alle Acque Cuccioletta ha ammesso che, grazie alla capillare corruzione da parte del Consorzio, non c'è mai stato alcun serio controllo sul progetto Mo.S.E.: non può pertanto essere conclusa e messa in funzione, come se nulla fosse, un'opera su cui gravano pesantissimi dubbi dal punto di vista tecnico-scientifico, dalla questione delle "cerniere" a quella della "risonanza". Serve invece un'immediata sospensione dei lavori per procedere a tutte le necessarie verifiche.

Beppe Caccia
consigliere Lista "in comune"

Fuori le Navi dalla Laguna. Ce lo chiede pure l’Unesco

NAviUnesco
Non solo Grandi Navi. A preoccupare l’Unesco sono anche quelle più piccole che trasportano merci ad alto pericolo di sversamento come le petroliere. Anche queste dovrebbero rimanere a distanza di sicurezza dal delicato ecosistema della laguna di Venezia. E poi ci sono tutte le infrastrutture di cui non si capisce la necessità come il Mose, ad esempio. Progettone megamiliardario che, come è oramai chiaro a tutti, con la salvaguardia della laguna c’entra come i cavoli a merenda ed altro non è che un sistema malavitoso politico ed affaristico per distribuire tangenti e poltrone.
Nel summit internazionale World Heritage che si sta svolgendo a Doha (Qatar), l’Unesco ha diffuso un elenco preciso di tutte le opere ad altissimo impatto ambientale che rischiano seriamente di alterare per sempre la morfologia della laguna e che potrebbero obbligare l’organizzazione internazionale che ha il compito di tutelare i siti più belli del pianeta a declassare Venezia dal registro mondiale delle aree di interesse artistico e ambientale da difendere.
Come dire: se continuate così, di Venezia non rimarrà nient’altro che cemento, mare aperto e Grandi Opere inutili.
Il documento redatto dall’Unesco potete scaricarlo da questo
link. Se masticate un po’ di inglese vi consigliamo di darci una letta. Trovate il capitolo dedicato a Venezia e alla sua laguna da pagina 32 in poi. Le preoccupazione dell’organizzazione riguarda in particolare il sistema di paratie mobili del Mose e altri “progetti attualmente in fase di sviluppo che includono: una piattaforma in mare aperto a circa 8 miglia al largo del porto di Malamocco, un nuovo terminal Autostrade del Mare di Fusina, un nuovo terminal container sul sito degli ex impianti industriali di Porto Marghera, di una nuova struttura multi-funzionale tra Venezia e la sua stazione marittima, e un porto turistico in San Nicolò”.



Un paragrafo a parte è dedicato alle Grandi Navi. L’Unesco esprime “preoccupazioni circa gli impatti ambientali negativi innescati dalle navi da crociera e petroliere”. Purtroppo, si legge, “l’obiettivo che mira ad escludere tutte le navi incompatibili con la città storica e con la laguna non è stato raggiunto nonostante l’impegno del Consiglio Comunale che ha promosso una serie di studi approfonditi … a causa della decisione del tribunale regionale del Veneto di sospendere la legge che riduceva il numero di navi da crociera”.
L’Unesco mette anche in guardia dalle ipotetiche “soluzioni” al problema delle navi: “Trasformazioni irreversibili potrebbero derivare da proposte di progetti di grandi infrastrutture di navigazione e di costruzione in laguna che hanno il potenziale di compromettere seriamente la Ouv della città”.
Per Ouv si intende “Outstanding Universal Value” che è il “metro” con il quale l’organizzazione mondiale misura il valore artistico, storico e paesaggistico di un sito.
Il documento conclude con una calorosa raccomandazione ad “attuare tutte le misure pertinenti per vietare alle navi più grandi di entrare in laguna e trovare alternativa a basso impatto per permettere ai croceristi di godere e allo stesso tempo comprendere il valore e la fragilità di Venezia”.
In quanto ai problemi legati  “all’eccezionale pressione turistica sulla città e alle numerose attività legate al turismo debbono essere affrontato e risolti solo con meccanismi che non includano trasformazioni irreversibili”. Più chiari di così…
L’ultima preoccupazione dell’Unesco riguarda la miriade di competenze e “responsabilità che gravitano sulla laguna di Venezia, divise tra le autorità nazionali, regionali e locali in cui il Magistrato alle Acque gioca un ruolo decisivo. Si raccomanda quindi al Governo di stabilire un forte coordinamento tra tutte le parti interessate al fine di garantire gli equilibri idrogeologici della Laguna di Venezia e l’intero bacino di drenaggio nonché la tutela di tutti gli attributi che trasmettono l’Ouv del sito”.
Un’ultima nota. L’Unesco segnala anche due fatti positivi che riguardano la nostra laguna. Il primo è la riserva naturale di Valle Averto, la sola area che rispetti la convenzione di Ramsar sulle aree umide. Il parco della laguna Nord non è ancora attivo, purtroppo, ma confidiamo che, già dal prossimo congresso, l’Unesco premierà anche questa soluzione di tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico insieme.
La seconda bella notizia segnalata dall’Unesco è il Palais Lumière. Quel torrone in puro stile “arabian nights” che un sarto trevisano di nome Piero Cardìn ma che si fa chiamare alla francese, Pier Cardèn, aveva disegnato per “migliorare” lo skyline della nostra laguna. Come dite? Il progetto è stato ritirato? Ma è proprio questa la bella notizia, no? Lo dice anche l’Unesco!

Niente sconti. Vogliamo smantellare il Consorzio Venezia Nuova

Consorz
Avevamo ragione e lo sapevamo. Adesso anche i magistrati che ci hanno accusato e condannato per quando abbiamo detto e fatto nel denunciare lo scandalo del Mose ci hanno dato ragione. Scandalo che non sta solo nella Grande - e costosissima - Opera in sé, inutile ai fini cui si propone e distruttiva per la laguna, ma sopratutto nel sistema di malaffare trasversale a tutte le amministrazioni, dalla Regione al Comune, ed a tutti i gradi di controllo, dalla Corte dei Conti alla Guardia di Finanza, per tacere delle ditte in odore di mafia e riciclaggio cui venivano puntualmente assegnati gli appalti senza gara.
Alla fin fine, la questione sta tutta qua. Una opera così devastante per un ecosistema dagli equilibri così fragili come la laguna dei dogi non poteva essere realizzata se non in totale deroga a qualsiasi etica e a qualsiasi studio di impatto ambientale. Non poteva compiersi senza corrotti e senza corruttori, senza inquinare tanto la politica e quando gli organismi di controllo. Il denaro che dal pubblico si tramutava in stipendi miliardari, ville e motoscafi per pochi noti e in finanziamenti illeciti ai soliti partiti per le loro campagne elettorali, è il vero scopo del Mose. Fosse costato mille euro, non lo avrebbero realizzato.
Il polverone sollevato dai magistrati con l’inchiesta cominciata dalla Mantovani non ci coglie quindi di sorpresa. La sorpresa casomai, sta tutta nel fatto che ci sia voluto tanto tempo.
C’è comunque un secondo punto che bisogna sottolineare con forza. La magistratura non ci risolverà il problema. Gli arresti, pure se eccellenti, non possono risolvere un problema politico. Non lo possono fare mai. Non solo in questo caso. La bufera di Tangentopoli è servita solo a regalarci un ventennio di berlusconismo. Come dire: la tangente fatta governo.



Col Mose non dobbiamo permettere che la storia si ripeta.
Non sediamoci in attesa del prossimo arresto. Il fiume non porterà il cadavere del nostro nemico perché non abbiamo un nemico umano ma un intero sistema malavitoso e anti democratico che si riproduce come per talea: ad ogni ramo abbattuto ne cresce un altro.
Adesso è il momento per intensificare le lotte, che non riguardano solo Venezia perché il dietro il Consorzio e le sue ditte ci sono tutte le Grandi Opere del Veneto. E’ il momento per chiedere con forza al Governo di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e di fare piazza pulita di una politica di commissariamenti, leggi obiettivo, deroghe ambientali e assegnazioni senza gare d’appalto.
Questo è quanto chiedono alcuni consiglieri comunali di Venezia dopo la... movimentata seduta di lunedì. Il documento che andrà in discussione in uno dei prossimi consigli, ha visto come primi firmatari Beppe Caccia e Camilla Seibezzi, lista In Comune, e Sebastiano Bonzio (Rifondazione). Il testo integrale “Otto punti per smantellare il sistema Mose”lo potete leggere a
questa pagina di Eco Magazine.
Il sintesi, il documento chiede al Governo di costituire una Commissione d'inchiesta parlamentare sulle attività del Consorzio e delle imprese collegate, di riprendere rapidamente l’iter delle proposte di riforma della Legge speciale per Venezia, di superare l'attuale struttura del Magistrato alle Acque trasferendo i suoi poteri al Comune di Venezia, l’organo amministrativo più vicino e più controllabile dai cittadini oltre che, come scrive Beppe Caccia, "unica istituzione a essersi sempre opposta al Mose e i cui atti politico-amministrativi sono risultati estranei a comportamenti illeciti". Richiesta fondamentale del documento è un intervento immediato per il superamento del regime di 'concessione unica' per le opere finalizzate alla salvaguardia di Venezia e della Laguna “attraverso la revisione della Convenzione del 1991 tra MAV e Consorzio Venezia Nuova e di tutti gli atti aggiuntivi". Caccia, Seibezzi e Bonzio e i consiglieri che ne hanno appoggiato la richiesta, chiedono quindi "lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova e l'affidamento della supervisione e del controllo sui cantieri attualmente aperti per gli interventi di salvaguardia ad un'Authority indipendente" e una verifica tecnico-scientifica e contabile, affidata a un organismo indipendente e qualificato dell’intero progetto delle dighe mobili.
Quella stessa verifica che, se fosse stata concessa, in tempi non sospetti, avrebbe allontanato dalla laguna quella mostruosità chiamata Mose e tutta la sporcizia politica e affaristica che ha portato con sé.

Cinque ora d’assedio alla Marittima. I No Grandi Navi bloccano gli imbarchi

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Tutti giù per terra e le Grandi Navi non partono più! Per quasi sei ore, oltre duemila attivisti No Grandi Navi hanno letteralmente assediato la marittima di Venezia impedendo l’accesso ai turisti. “Una città che non rispettate è una città che non vi vuole” spiegavano dal furgoncino d’appoggio i ragazzi del Laboratorio Morion ai crocieristi che certo non si aspettavano un tale comitato di... malvenuto. La manifestazione, colorata e fantasiosa, si è svolta senza nessun problema o incidente di sorta. Dall’una alle 6, nonostante le prescrizioni della questura avessero imposto di smobilitare alle 5, gli attivisti hanno tenuto il campo con musiche, striscioni colorati e voli di aquiloni. Anche il People Mover si è fermato per una mezz’ora per uno sciopero spontaneo dei manovratori a sostegno della causa No Grandi Navi.
Da sottolineare la colonna sonora che spaziava da “Mare profumo di mare”, a “Onda su onda” sino a “Un’estate al mare”. Buona anche la partecipazione. Duemila persone in rappresentanza di tanti comitati veneti come la Rete Polesana, Opzione Zero, Lasciateci Respirare oltre, ovviamente agli spazi sociali del Veneto, Rivolta e Morion, padroni di casa, in primis. All’iniziativa ha aderito anche una nutrita rappresentanza di indipendentisti veneti.




Di seguito, alcuni commenti raccolti durante la manifestazione.

Carlo Costantini frolla rete Altro Veneto
http://youtu.be/qN1R3j9MQY4

Franco Rocchetta indipendentisti veneti
http://youtu.be/sSnrpOAYieo

Claudio Milan comitati Polesine
http://youtu.be/UewTj77CiQM

Beatrice Andreose comitato Lasciatevi Respirare Monselice
http://youtu.be/-MAldiZtypk

Mose e Grandi Navi. Stessa devastazione, stesso malaffare, stessi personaggi. Ma sabato scendiamo in piazza per cambiare!

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Parafrasando un vecchio modo di dire, Mose e Grandi Navi sono la stessa faccia della stessa medaglia. Quella medaglia che dal lato buono brilla di efficienti concessionarie uniche, iter amministrativi velocizzati e autoreferenziali, finanziamenti a vagonate, soggetti controllati che sono anche i propri controllori. Dal lato nascosto spuntano i tentacoli della piovra che affondano in un sistema misto politico ed economico, corrotto e corruttore.
Così è stato il Mose. Un sistema che, come spiega senza pudore la stessa pubblicità che compare nei vaporetti, “non solo dighe mobili ma un sistema completo per la salvaguardia di Venezia”. Se si cambia “salvaguardia” con “corruzione”... lo slogan calza alla perfezione.
Oggi lo dicono anche i magistrati. Ieri ci siamo presi decine di denunce per aver detto le stesse cose. Per aver denunciato quella palude di intrallazzi che ora è venuta a galla pure nel salotto di rappresentanza della Procura.
“Otto mesi di condanna definitiva per aver occupato l’ufficio di quel magistrato delle acque, Maria Giovanna Piva, che ora è agli arresti accusata di quello stesso malaffare che denunciavamo noi” ha ricordato Tommaso Cacciari in un incontro con la stampa svoltosi in tarda mattinata a Ca’ Farsetti.



“Ma la questione non può essere sbrigativamente liquidata con l’arresto di qualche corrotto cui addossare tutte le colpe - ha commentato il portavoce del Laboratorio Morion -. E’ il sistema della concessionaria unica che va cambiato. Da anni diciamo che nel Veneto la mafia si chiama Consorzio Venezia Nuova, da anni diciamo che questi signori ora finito agli arresti hanno scippato la città di fiumi di denaro che dovevano servire alla tutela dell’ambiente, della città ed a realizzare case per i residenti costretti all’esilio in terraferma. Soldi che sono finiti non solo a pagare stipendi milionari a gente come Chisso, Galan e ai loro accoliti, ma anche a devastare la laguna”.
Il ventilato scavo dei canali come il Contorta e il Vittorio Emanuele per dare acqua alle Grandi Navi, lo ha spiegato il consigliere Beppe Caccia portando l’adesione della lista In Comune alla manifestazione di sabato, combaciano perfettamente con questo sistema corrotto in quanto, essendo opere di “salvaguardia” rientrano nelle competenze uniche e indiscutibili del Consorzio. Altri 300, 350 milioni di euro che andrebbero ad aggiungersi al bottino già intascato e spartito. “La mostruosità giuridica della concessione unica - ha commentato il consigliere - ha generato una piovra, che ha allungato i suoi tentacoli sulle amministrazioni statali a tutti i livelli,dal Magistrato alle Acque alla Regione del Veneto dalla Corte dei Conti allo stesso Comune. Un generalizzato sistema di corruzione, condiviso dalle principali imprese di costruzioni del Consorzio, con l'unico obiettivo di imporre ad ogni costo la realizzazione di grandi opere. Ieri il Mose, domani lo scavo dei canali per le Grandi Navi. Sempre le stesse imprese, sempre la stessa procedura. Ma, al di là delle individuali responsabilità che la Magistratura sta accertando, sono i tentacoli e la testa di questa piovra che devono essere tagliati. Cancelliamo il regime della concessione unica e il grumo di interessi che si è consolidato intorno al Consorzio e alle imprese a lui collegate”.
Che le indagini vengano estese dalle tangenti agli illeciti procedurali, è quanto ha chiesto Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia, ai magistrati. “Nella lista dei 32 inquisiti manca qualche nome che ci saremmo aspettati. Magari questi signori faranno parte dei famosi 100 indagati su cui la magistratura ha mantenuto riserbo. Vedremo. Certo che molti dei nomi che abbiamo già letto sono anche dietro le presunte ‘soluzioni’ al problema della Grandi Navi. Non vorremmo dover assistere ad un film che abbiamo già visto e che a Venezia è costato fin troppo caro”.
Ambiente Venezia ha annunciato di volersi costituire parte civile al processo per le tangenti del Mose. Sempre per Ambiente Venezia, Cristiano Gasparetto ha ricordato come il Mose abbia un padrino (Silvio Berlusconi) e un padre (Romano Prodi). Due personaggi che solo qualche distratto commentatore politico potrebbe leggere come antagonisti in quanto rappresentano entrambi quei poteri forti che hanno avviato la mercificazione ambientale dell’intero Paese sotto il cemento delle Grandi Opere a tutto vantaggio di speculatori e mafiosi.
E così, in una città ancora sotto shock per la retata in stile “Gli anni ruggenti di Al Capone”, il comitato No Grandi Navi ha lanciato l’ultimo appello alla mobilitazione. Appuntamento sabato alle 13 a piazzale Roma. Sarà una manifestazione pacifica e colorata. Al di là delle preoccupazione del sindaco Giorgio Orsoni che proprio il giorno prima di essere arrestato ha dichiarato che “non saranno tollerate illegalità”. Al di là di quanto si augurano le compagnie di crociera che anche oggi hanno comperato intere pagine di giornali locali per scrivere “Ci risiamo. No alla violenza” sopra a una foto in cui gli attivisti si riparano dalle manganellate dietro a paperelle di gomma.
Concludiamo con una simpatica osservazione di Armando Danella: “Passando per il mercato sentivo tutta la gente sprecare indignazione e urlare che al tempo dei Dogi ai ladri tagliavano le mani (cosa peraltro non vera.ndr). Beh, ho cercato di dire a tutti, perché invece di stare solo a lamentarvi non venite sabato in piazza a dirlo assieme a noi?”

La magistratura arresta Chisso e Orsoni. Gli ambientalisti fanno volare gli aquiloni e si preparano alla mobilitazione di sabato

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Ogni tanto ne mettono dentro qualcuno. Dopo l’arresto dell'ex amministratore delegato della Mantovani, Giorgio Baita, è stato come assistere a quel gioco delle mattonelle dove la caduta di una si tira dietro tutte le altre. Nelle ultime settimane abbiamo visto in manette o inquisiti potentissimi ex ministri come Corrado Clini e Altero Matteoli. Le ultime mattonelle sono cadute tutte nel Veneto ed a Venezia, in particolare. La Procura di Venezia ha arrestato oggi l’assessore regionale alle Infrastrutture, Renato Chisso, e il sindaco Giorgio Orsoni. L’accusa è sempre la stessa: corruzione, concussione e riciclaggio nell'ambito degli appalti per il Mose. Anche l’ex Governatore Giancarlo Galan, si legge in un comunicato Ansa, avrebbe seguito la stessa sorte se non fosse che lo status di parlamentare ne ha per ora impedito l’arresto.
Alzi la mano chi ne è sorpreso. Ancora un bel po’ di anni fa avevo scritto sul compianto settimanale Carta che prima o poi la magistratura avrebbe fatto chiarezza sul sistema di tangenti e corruzione che quel disastro ambientale chiamato Mose non poteva non portare con sé. Non poteva perché un’opera costosissima, devastante ed inutile come questa doveva essere autorizzata solo da dei delinquenti. La magistratura avrebbe fatto chiarezza sì, ma soltanto quanto sarebbe stato troppo tardi per rimediare. I soliti lunghi tempi della giustizia italiana? Può darsi. Resta il fatto che vedere i magistrati che all’epoca denunciavano gli ambientalisti che occupavamo i cantieri per denunciare quel malaffare che ora loro stessi denunciano, ci lascia l’amaro in bocca più che altro.



I meno sorpresi alla fin fine siamo sempre noi che con questa gente ci abbiamo poco o niente a che fare e che combattiamo le nostre battaglie per i diritti e per l’ambiente in altri modi e in altri fronti. Come, ad esempio, insegnare ai bambini a far volare gli aquiloni mentre spieghiamo ai loro genitori perché le Grandi Navi sono incompatibili con quello che rimane della nostra povera laguna. Proprio come gli attivisti del comitato No Grandi Navi che si preparano alla manifestazione di sabato, hanno fatto ieri in campo Santa Margherita.
Degli arresti eccellenti, alla fin fine, ce ne importa poco, perché sappiamo bene - e lo abbiamo visto all’epoca di Tangentopoli - che non sarà mai la magistratura e tanto meno le manette a risolverci i problemi o ad aprirci la strada verso quella democrazia partecipata e dal basso che sogniamo. Continuiamo quindi nelle nostre lotte, senza smobilitare e senza sorprenderci più di tanto per quanto accade nei piani alti.
Chisso? Galan? Implicati nello scandalo del Mose? Ma va?! E Orsoni? Il nostro sindaco - e potenzialmente già ex sindaco - me lo ricordo ai tempi in cui Gianfranco Bettin aveva osato sfidarlo nelle primarie. Mentre l’arcipelago ambientalista si arabbattava con 4 soldi in croce, lui prendeva i finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova. Tutto pulito, diceva lui. Un motivo ci sarà, dicevamo noi. Un motivo c’era, valuta oggi la magistratura.
Attenzione però. Fra qualche ora uscirà un comunicato del Consorzio che ci spiegherà che il Mose non centra nulla con tutto questo. Ci diranno che l’opera in sé è buona e che - lo sapete come vanno le cose in Italia, no? - il problema sta tutto nei politici corrotti che ne hanno gestito gli appalti. Più o meno quello che ti raccontano per l’Expo e che, prima o poi, salterà fuori per la Tav o per la Mestre Orte o tutte le altre Grandi Opere che stanno maciullando l’Italia. E’ una bugia. E’ il sistema stesso della Grande Opera calata dall’alto in deroga a tutte le leggi e le valutazioni ambientali che comporta il malaffare. Perché il malaffare, la corruzione, la tangente, il dirottare soldi dal pubblico al privato, la mercificazione dell’ambiente, l’avallo di una economia a gestione mafiosa è il vero ed unico scopo della Grande Opera.
E proprio sotto questa visuale le Grandi Navi sono Grandi Opere in tutto e per tutto. Così come le presunte “soluzioni” al problema delle Grandi Navi, mi riferisco allo scavo del Contorta o del Vittorio Emanuele, sono in tutto e per tutto Grandi Opere. Scavi che hanno già ottenuto un parere negativo della commissione Via e che, se non è un sistema mafioso questo..., ci è stato tenuto segreto alla faccia di tutte le norme di trasparenza.
Per questo, Eco Magazine rilancia con convinzione l’appello alla mobilitazione di sabato. Nella prossima settimana si riunirà il Comitatone, (pure se non qualche membro di meno). Troviamoci tutti a piazzale Roma alle ore 13. #tuttigiùperterra. E’ il momento giusto per far capire a tutti che Venezia a quelle Grandi, brutte e devastanti Navi preferisce far volare gli aquiloni.

Referendum sul parco. Un rischio ma anche una grande opportunità

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A scanso di intoppi burocratici, a dicembre saremo chiamati ad esprimerci nel referendum consultivo sulla delibera che istituisce il parco. Un rischio? Sicuramente. E non ci riferiamo solo ad una maggioranza di contrari, ma anche a una percentuale troppo bassa di non votanti, oppure ad uno “scollamento” tra isolani schierati in massa per il No e veneziani tutti favorevoli.
Perché allora l’amministrazione comunale, su pressione dell’assessore Gianfranco Bettin, ha accettato il confronto referendario quando avrebbe avuto i numeri in aula per respingere la richiesta dell’opposizione?
La risposta sta tutta sull’idea di parco per la quale ci siamo battuti.
Innanzitutto, per come è nato e per come si è sviluppato – oltre che per il particolarissimo sistema che vuole tutelare e che è un melting pot più unico che raro di natura e di interventi umani, di acqua dolce e di acqua salata, di cultura e di storie, di terra e di mare – il nostro parco deve necessariamente nascere da un processo costitutivo allargato e partecipato. Mettiamocelo bene in testa che senza Burano e i suoi abitanti non c’è parco. Certo, i pareri di biologi, archeologi, storici, ingegneri idraulici sono importanti, ma questo parco deve essere anche il parco della gente che ci vive e che, nella laguna, trova sostentamento. Bisogna parlare, discutere, litigare, ascoltare, far partecipare tutti gli attori che quotidianamente recitano sul palcoscenico lagunare. Dai cacciatori ai pescatori, dagli operatori del turismo a chi lavora nei cantieri tradizionali, sino a chi nelle isole semplicemente ci dimora.
Questo passo è un sine qua non. Gianfranco Bettin lo ha compreso bene e proprio per questo ha accettato la sfida del referendum. Superata la rozza bagarre scatenata in aula consiliare da Lega e Fratelli d’Italia, forti dell’appoggio di un piccolo gruppo di irriducibili cacciatori, adesso è il momento anche per gli oppositori di riflettere e di proporre qualche ragione migliore se vogliono costruire una seria piattaforma contraria al parco. Proposte che, ci si augura, faranno crescere il livello del dibattito, contribuendo ad innescare quel processo partecipativo che, lo abbiano già sottolineato, è indispensabile per fare da volano al progetto.



Lo ha ribadito ancora l’assessore Bettin che ieri pomeriggio ha partecipato ad una riunione al museo di Storia Naturale indetta da Giannandrea Mencini, Vas, e  Gigi Lazzaro, Legambiente, con i firmatari dell’appello per il parco, sottoscritto anche da Eco Magazine. Appello che ha avuto il merito, proprio nel momento più caldo del dibattito consiliare, quando la discussione democratica aveva lasciato spazio a minacce, vandalismi e scritte offensive, di ricordare che c’era una Venezia, viva e ambientalista che era favorevole al parco e non aveva paura di farlo sapere.
“Col referendum potremo tornare a parlare di cose concrete – ha spiegato l’ambientalista – e non perderemo più tempo a rispondere su fantasmi e vaneggiamenti. Potremo confrontarci sull’idea che abbiamo di laguna e di come vogliamo tutelarla. Perché, dietro quello sparuto e chiassoso gruppetto di pochi cacciatori estremisti, c’è una potente e trasversale lobby che non vuole il parco per le stesse ed opposte ragioni per cui noi lo vogliamo. Se salta la nostre idea di tutela ambientale infatti, passa un percorso diverso di sfruttamento e di, passatemi il termine, showbusinessazione della laguna”.
E qui si innesta il secondo motivo per cui il referendum sarà anche una grande opportunità. A maggio a Venezia si voterà per le amministrative. Il referendum di dicembre sarà una occasione per ricompattare quello schieramento civico e ambientalista che tra mille difficoltà e disordini interni ha saputo dare vita ad operazioni come quella di Poveglia, la battaglia contro le Grandi Navi (a proposito, sabato 7 alle 13 tutti a piazzale Roma!) e realizzare il parco. Insomma, il referendum potrà essere uno strumento utile per disegnare insieme una più ampia idea di città. Abbastanza vicino alla scadenza elettorale per non perdere lo slancio, ma anche sufficientemente lontano per non farci intrappolare da logiche di liste e di alleanze.
Per l’intanto, e questa è un concetto condiviso da tutta l’assemblea, Venezia è salita sul treno giusto. Certo, è solo un parco di interesse locale, ma in questo modo, e per la prima volta, il nostro consiglio comunale che è anche l’organo più vicino ai cittadini, può dire la sua sulla laguna delle mille altre competenze. Certo, è solo il parco della laguna nord e lascia “scoperta” la parte sud di un unico sistema morfologico che non è scomponibile, ma è solo un primo passo e nulla vieta domani di estendere le stesse tutele/opportunità anche alla parte meridionale. Certo, il parco non può imporre vincoli ma può impuntarsi per far rispettare quelli che ci sono, e che oggi sono puntualmente disattesi.
Insomma, come ha ripetuto più volte Bettin, il rischio inerente al parco è solo quello di non riuscire a cogliere tutte le opportunità che esso comporta. E per non perdere queste opportunità è bene ricordarci sin da subito che abbiamo un referendum da vincere e poco tempo da perdere.

Adriatico a rischio trivelle. Seibezzi: “Serve una direttiva europea che ne vieti l’uso”

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Sembra l’inizio di uno di quei film catastrofici dove gli scienziati avvertono i militari di non fare una cosa, i militari puntualmente la fanno e poi son tutti effettoni speciali su effettoni speciali in 3D che riempiono lo schermo.
Soltanto che stavolta rischiamo di vederli dal vivo, e senza bisogno di occhialini 3D, gli effettoni speciali!
Stiamo parlando della balzana proposta di trivellare l’Adriatico a poche miglia dalle nostre coste in cerca di petrolio. Una idea rischiosissima e già bocciata dal mondo scientifico ma che di tanto in tanto qualche politico rispolvera per presentarla come il “deus ex machina” che ci risolverà la crisi economica.
L’ultimo è stato Romano Prodi che ha voluto ricordarci come stiamo navigando sopra un “mare di petrolio” inutilizzato e sprecato. Mare che, ha sostenuto in un editoriale apparso sul Messaggero, potrebbe regalarci perlomeno 22 milioni di tonnellate di idrocarburi in sei anni. Mare che, sempre secondo il mortadellone, se non lo estraiamo noi lo farà di sicuro la Croazia.
Due considerazioni assolutamente inconsistenti, oltre che balorde. Intanto, 22 milioni di tonnellate di idrocarburi in sei anni non sono niente. L’Italia ha consumato solo lo scorso anno quasi 65 milioni di tonnellate. Ma anche a voler prescindere dalla quantità, è oramai chiaro come il sole che il futuro sta tutto nelle energie rinnovabili e che quell’economia basata sullo sfruttamento di risorse inquinanti e a termine che il Professore ama tanto (e che poi è quella che ha causato la crisi) oramai se ne è andata a farsi benedire e non sarà quel poco petrolio che si trova nell’Adriatico a salvarla.



In quanto alla Croazia, il ragionamento fatto sopra vale pure per lei. Le trivellazioni sono una scommessa perduta tanto per noi quanto per i nostri dirimpettai adriatici. E val la pena anche di sottolineare che il rischio ambientali non comporta nessun beneficio pubblico in quando il petrolio appartiene agli italiani e ai croati sino a che sta sotto terra. Una volta estratto sarà di proprietà della multinazionale che ne godrà i ricavi lasciando a italiani e croati tutte le spese e gli svantaggi che ne derivano.
Svantaggi che andranno a colpire due settori: la pesca e in particolare il turismo che per un Paese come il nostro è l’unico volano economico sicuro su cui contare. Lo stesso presidente della Regione Marche, Gian Mario Spacca, lo ha sottolineato: “Non è solo una questione di sicurezza fisico-tecnica ma anche una valutazione economica. Se in Adriatico si decide di fare grandi investimenti turistici è chiaro che il territorio verrebbe penalizzato da una intensa attività perforatrice”.
Senza considerare che i rischi fisico-tecnici di cui parla Spacca raggiungono un livello tale da rendere assurdo qualsiasi tentativo di valutazione economica. Quando “costa”, a parer vostro, la città di Venezia? Proprio il capoluogo veneto sarebbe infatti uno dei luoghi più a rischio se venisse realizzata l’attività estrattiva.
Il primo rischio è la subsidenza. Il secondo è lo sversamento.
“Qualsiasi trivellazione e conseguente prelievo di idrocarburi dai fondali del Mare Adriatico rischia di provocare conseguenze irreparabili per le aree costiere, che verrebbero colpite dal fenomeno della subsidenza (ovvero l’abbassamento dei livelli dei suoli), come provato per effetto degli emungimenti realizzati nel corso della seconda metà del Novecento - ha spiegato Camilla Seibezzi, consigliera comunale a Venezia per la lista In Comune e candidata al parlamento europeo con la lista Tsipras -; tale fenomeno comporterebbe danni gravissimi per la nostra città, già esposta alla crescita del livello medio del mare per effetto dei cambiamenti climatici”.
Seibezzi e il suo collega Beppe Caccia hanno proposto un ordine del giorno al consiglio comunale per impegnare il sindaco Giorgio Orsoni a farsi promotore di un’iniziativa politico-istituzionale su scala europea, dal momento che la Croazia è, a tutti gli effetti, uno Stato membro dell’Unione. Lo scopo è quello di ottenere l’adozione di una direttiva comunitaria col divieto per qualsiasi forma di trivellazione, anche esplorativa, ed estrazione di idrocarburi dai fondali del mare Adriatico. Una direttiva che, al contrario, ne tuteli il patrimonio naturale e ambientale, ne valorizzi le attività tradizionali quali la pesca e il turismo, sostenibili e di qualità, e promuova in quest’area del Mediterraneo il ricorso coordinato a fonti energetiche pulite e rinnovabili.
Ma oltre alla subsidenza, vi è anche un secondo grave pericolo dovuto alla particolare formazione dell’Adriatico che è fondamentalmente un bacino chiuso caratterizzato da un conseguente scarso ricambio delle acque. Se ci aggiungiamo il fondale basso, soprattutto nelle nostre coste, la corrente ed il complesso sistema di faglie dovuto al movimento di subsidenza africana, ne esce un quadro davvero preoccupante. L’Adriatico è una zona sismica. Al largo di Ravenna, proprio in un tratto di mare dove vorrebbero installare le piattaforme, sono stati registrati negli ultimi due anni decine di terremoti di varia intensità.
Qualora una faglia dovesse riattivarsi, creerebbe inevitabilmente seri danni al sistema di trivellamento con conseguente fuoriuscita di petrolio. Fuoriuscita che il nostro mare non sarebbe in grado di smaltire, provocando ingenti danni ai fondali e alle coste.
Con la complicità delle correnti marine e di marea a pagare le spese sarebbe in particolare la nostra laguna che con la sua particolare morfologia sarebbe un perfetto “bidone aspiratutto” dello sversamento.
E se questo non vi sembra l’inizio di un film catastrofico...

Occupato il campanile di San Marco. Gli attivisti alzano lo striscione No Grandi Navi

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In piazza San Marco i Mori battono mezzogiorno. E’ maggio inoltrato eppure tira ancora vento di scirocco. Le cose non vanno mai come te le aspetti. Il lato più coperto dai forti mulinelli di vento è quello che volge verso la “boca de piazza”, dove si sale al museo Correr. Peccato che le impalcature dei perenni lavori in corso e le recinzioni complichino ulteriormente l’alzata dello striscione, non bastasse il vento. Una impresa non da poco considerando le dimensioni davvero “esagerate” dello striscione: 40 metri per 8. Quasi la metà del campanile! Data una occhiata alle foto per farvene una idea.
Eppure gli attivisti del comitato per la difesa della laguna e contro le Grandi Navi sono riusciti ugualmente da tirarselo su! Un blitz da manuale sotto gli occhi increduli della massa di turisti che da queste parti non manca mai. Turisti che amano Venezia - certo più di tanti “nostrani” che ne apprezzano solo il lato commerciale e di sfruttamento - e che hanno fatto presto a solidarizzare con gli attivisti che spiegavano i motivi della loro protesta in inglese e in francese, oltre che in italiano.
Proprio come quel signore targato Iu Es Ei dalla testa ai piedi che mi ha avvicinato per chiedermi qualche spiegazione in più e mi ha spiegato che “quelle grosse navi che passano qui davanti sono davvero mostruose, oltre che brutte e totalmente avulse dalla città. Da noi una città come Venezia sarebbe difesa dall’esercito e salvaguardata come il parco di Yellowstone”. Ecco... magari l’esercito anche no, ma sulla salvaguardia siamo d’accordo.



E così tra bandiere sventolanti in piazza, l’enorme striscione che ondeggiava al vento e gli attivisti sopra il campanile impegnati a reggerlo ed a lanciare volantini su San Marco, l’impresa si è protratta per una mezz’ora sino a che un colpo maligno di vento ha strappato il telo. Niente paura. Lo striscione è stato adagiato lungo la piazza e li è rimasto sino a quando gli attivisti hanno concluso la loro iniziativa che, ricordiamolo, è solo l’antipasto - lo spritz, diciamo noi che siamo nati in questa strana e magnifica città - di quanto avverrà sabato 7 e domenica 8 giugno, quando la città si mobiliterà per bloccare le Grandi Navi.
Ma per oggi intanto, Venezia ha issato sul suo campanile la sua bandiera più bella!

Trasparenza e mobilitazione. Così Venezia difenderà la sua laguna

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La nostra forza la trasparenza. La nostra arma la mobilitazione.
Ancora una volta i veneziani hanno risposto con forza all’appello del comitato No Grandi Navi partecipando numerosi all’assemblea organizzativa in preparazione della mobilitazione di sabato 7 e domenica 8 giugno, e riempiendo questo pomeriggio la capiente sala San Leonardo.
La discussione ha preso spunto dalle due notizie diffusesi nell’ultima settimana e che sono state ricordate da Marta Canino nel suo discorso d’apertura: il nulla di fatto con il quale si è conclusa l’ultima riunione del Comitatone che dimostra che non è quello il luogo in cui vengono prese le decisioni, considerando che intanto che si discutele Grandi navi continuano a devastare la città, il parere negativo della commissione Via sullo scavo del Contorta. Parere tenuto segreto sino all’ultimo dal Governo.
Proprio la segretezza con la quale i Poteri Forti stanno trattando la questione, non di rado umiliando gli stessi tecnici ministeriali, come ha sottolineato la docente Andreina Zitelli, è un elemento fortemente indicativo della crisi in cui è precipitata la nostra democrazia. O meglio, quel che ne rimane. “Il nostro diritto alla trasparenza è violato di continuo - ha affermato la studiosa - Siamo di fronte a pareri segreti su progetti sconosciuti. A questo punto, è lecito sollevare anche una questione di credibilità oltre che di conflitto di interessi, visto che si sono amministratori con diritto di voto che sono anche presentatori di progetti”.
“Per questo - ha concluso la professoressa Zitelli - invito tutti a diffondere i documenti e i pareri tecnici. Leggiamoli e facciamoli leggere. Documentiamoci e, magari, traduciamoli in inglese per farli leggere a tutte quelle associazioni e quei gruppi che, fuori dall’Italia, hanno a cuore la laguna di Venezia perché la considerano, e a ragione, un patrimonio dell’umanità”.



Trasparenza, quindi. Trasparenza e diffusione delle notizie contro quei poteri che lavorano nell’ombra perché non troverebbero terreno fertile nella democrazia e nella partecipazione.
Il secondo punto è la mobilitazione. Una mobilitazione forte e diffusa. Pacifica ma determinata. Una mobilitazione la cui necessità è stata rimarcata in tutti gli interventi. “Con le Grandi Navi si ripete tutto quel circo di malaffare che circonda le Grandi Opere di cui siamo stati spettatori in tante altre occasioni. Dal Mose al recente Expo. Tra una ventina d’anni verrà a Venezia qualche presidente di Consiglio a chiederci scusa per il Mose. Facciamo in modo che non debba scusarsi anche per i danni provocati dalle Grandi Navi - ha spiegato Armando Danella - Di fronte ad un sistema che premia l’illegalità e viola tutti le convenzioni italiane ed europee di trasparenza, non bastano i richiami alla legalità. Serve una mobilitazione che coinvolga l’intera città”.

Quella stessa mobilitazione che comincerà sin da sabato prossimo, con la partecipazione del comitato No Grandi Navi alla manifestazione che si svolgerà a Roma in difesa dei Beni Comuni. Perché anche la laguna di Venezia è un bene comune. Come già per per l’acqua, si scrive Grandi navi si legge Democrazia.

Stavolta ci siamo: è nato il Parco della Laguna Nord di Venezia

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A mezzanotte e quattro minuti, il Parco della Laguna Nord di Venezia diventa una realtà. C’è voluta una lunga, e tanto paziente, gestazione. Un iter burocratico lungo un anno tra commissioni regionali e comunali, schivando difficoltà dell’ultima ora e saltando bastoni tra le ruote non sempre imputabili all’opposizione, richieste di pareri su pareri mediando tra tutti i tanti, troppi, enti che hanno giurisdizione sulla laguna, da magisteri a ministeri, da sovrintendenze a capitanerie. E ancora, incontri su incontri, discussioni su discussioni con residenti, associazioni di categoria come quelle della pesca, del turismo, della caccia, per far capire loro che il nascente Parco non aggiunge vincoli ma solo opportunità. Dulcis in fundo, tre interminabili sedute di consiglio comunale, sotto i continui insulti di uno sparuto ma agguerrito gruppetto di irriducibili cacciatori, terrorizzati di non poter più sparare a tutti gli uccelli che gli passano davanti al mirino, e dribblando la cinquantina di emendamenti meramente ostruzionistici con i quali il capogruppo di Fratelli d’Italia, Sebastiano Costalonga, ha tentato fino all’ultimo di far inciampare la delibera. Tra l’altro, emendamenti talmente mal fatti che una ventina sono stati respinti perché giudicabili “non votabili” dalla segreteria. Neanche la più becera ostruzione, sanno fare bene. 
C’è voluta un’ultima seduta, quella di ieri, durata oltre 9 ore che ha messo a dura prova la tenuta “psicofisica” della maggioranza, ma alla fine, a notte inoltrata, la delibera numero 22 del 2014 che istituisce il Parco di interesse locale della Laguna Nord di Venezia è stata approvata con 18 voti favorevoli, 9 contrari e un astenuto. 
Soddisfatto l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, che del nascente Parco è stato il più convinto sostenitore, ed il gruppetto di ambientalisti del Vas che hanno tenuto duro sino alla fine nell’area riservata al pubblico per ricordare al consiglio che del Parco non ci sono solo oppositori. 



Oggi, a giochi fatti, viene da chiedersi perché un Parco che ha il compito di tutelare e valorizzare in modo nuovo e sostenibile la parte ancora più riconoscibile nel patrimonio originario naturale e storico della laguna veneziana, abbia sollevato tante proteste e tanti ingiustificati timori, considerando che l’area in questione, circa 16 mila ettari, è già sottoposta a vincoli Zps e la nuova struttura, neppure volendo, ha il potere di aggiungerne di nuovi. 
Volutamente, la minoranza aggressiva e irriducibile di cacciatori che fa capo all’europarlamentare di Fratelli d’Italia Sergio Berlato e alla destra estrema di Venezia, ha mantenuto un livelo di discussione basso, giocando su toni allarmistici - cosa che d’altra parte è tutta nel loro stile - che non trovano nessuna riscontro nella realtà di quello che, alla fin fine, è un parco di interesse locale; il livello più tutela ambientale disponibile nel nostro Paese, il solo che Regione e Governo ci abbia consentito di istituire. 
Qualcun altro, nell’ombra, ha ancor più alzato il tiro: proiettili in busta e scritte offensive e minacciose all’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, e irruzioni vandaliche nell’isola di San Giacomo in Paludo, tra Murano e Burano, gestita dall’associazione ambientalista Vas. 
Al di là dei cacciatori estremisti, e di chi dà loro corda con li consueto armamentario di spauracchi e panzane seminate apposta per screditare un progetto che invece ha tutte le carte in mano per rigenerare sia l’ambiente e il patrimonio storico e culturale sia l’economia delle comunità della laguna nord, c’è l’impressione che anche altri poteri e interessi abbiano la volontà di impedire che si vigili meglio sulle tutele esistenti, che non vogliano forme rigorose di controllo per poter meglio coltivare affari spesso poco chiari in laguna. Le mani del business affaristico sulla laguna sono sempre disturbate dai controlli, e dunque la presenza di un parco che metterà questi affari sotto gli occhi del mondo è letta come un pugno nello stomaco. “E’ evidente che c’è chi pretende di continuare a fare quello che vuole in laguna, infischiandosene di regole e tutele, e che vede nel Parco un ostacolo ai propri interessi - ha commentato Gianfranco Bettin -. Ma desso che i Parco è stato istituito non si può più tornare indietro e il Comune, che è anche l’ente amministrativio più vicino ai cittadini, ha uno strumento in più per tutelare la nostra laguna”. Uno strumento che adesso dobbiamo imparare ad utilizzare in tutte le sue grandi potenzialità.

Un appello per il Parco della Laguna

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Ci siamo. Domani in consiglio comunale torna di scena il parco della laguna nord. E stavolta dovrebbe essere la volta buona. I consiglieri veneziani dovranno rispondere Sì o No alla delibera istituente il parco e così tenacemente propugnata dall’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin. Martedì scorso ci è toccato assistere a vergognose sceneggiate, sino alla caduta del numero legale, da parte di alcuni consiglieri di Fratelli d’Italia e di un gruppuscolo di cacciatori estremisti che continuano a far  finta di non sapere che il parco comunale non avrebbe neppure la possibilità di intervenire sull’attività venatoria. Sceneggiate che altro non sono che lo specchio istituzionale delle vergognose scritte apparse sui muri delle isole veneziane con tanto di insulti e minacce di morte rivolte all’ambientalista.
“C’è chi pretende di fare quello che vuole in laguna – ha risposto l’assessore all’Ambiente – infischiandosene di regole e tutele, e che vede nel Parco un ostacolo ai propri interessi. Parco che, peraltro, non introduce nuovi vincoli, ma è evidente che porterebbe maggiori controlli”.
A sostegno del parco si è schierato l’intero arcipelago ambientalista veneziano. Gianandrea Mencini, vicepresidente nazionale Vas e Gigi Lazzaro, presidente Legambiente Veneto, hanno lanciato un appello al quale abbiamo aderito anche noi di Eco Magazine.  Lo riportiamo qui sotto, augurandoci che la voce della ragione e i valori di chi vuole tutelare l’ambiente possano, questa volta almeno, mettere a tacere chi grida solo minacce di morte.



APPELLO  FINALE PER IL PARCO DELLA LAGUNA NORD
Lunedì 14 aprile il Consiglio Comunale ha nuovamente rimandato a martedì 6 maggio il voto relativo alla delibera presentata dall’assessore all’ambiente del Comune di Venezia Gianfranco Bettin per l’istituzione del parco regionale di interesse locale della Laguna Nord di Venezia. Dopo quasi quarant’anni di discussioni, il nostro Comune ha la grande possibilità di istituire un parco in una delle aree umide più belle del mondo.
Un lungo lavoro istituzionale, quello del parco regionale di interesse locale, iniziato nel 2002 e proseguito negli anni successivi dall’amministrazione comunale e in particolar modo dall’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin.
Un parco che noi ambientalisti abbiamo sempre pensato non solo come fonte di vincoli e di divieti – per questi aspetti basterebbe ampliare o semplicemente continuare ad applicare le normative vigenti – ma soprattutto come momento di rilancio socio-economico e ambientale dell’intera area della laguna nord a beneficio di tutto il tessuto cittadino.
L’ambiente lagunare, riconosciuto dall’Unesco “patrimonio mondiale dell’umanità” in legame indissolubile con la Città, è uno straordinario patrimonio collettivo e costituisce una parte rilevante dell’identità veneziana, della sua storia e memoria, oltre che una potenzialità unica di valorizzazione economica (l’ecoturismo nei Parchi rappresenta circa il 16% delle presenze turistiche complessive del nostro Paese).
La Laguna di Venezia è la memoria e il futuro del nostro territorio, perciò la sua tutela non può rimanere un mero concetto. Siamo convinti oggi come lo eravamo più di dieci anni or sono, quando iniziò il percorso partecipativo attorno all’idea di Parco, che la sua nascita sia sempre più necessaria a tutelare ciò che è un “Bene Comune” secondo principi di equità, trasparenza e legalità che sconfiggano all’origine le azioni speculative portatrici di interessi localisti e miopi, e garantendo partecipazione e nascita di attività imprenditoriali legate alle nuove ed innovative forme di green economy che fioriscono in altre parti del Paese, ma non ancora a Venezia.
Anche il presidente americano Obama, durante l’Earth day 2009 ha dichiarato “La scelta a cui siamo chiamati non è tra salvare l’ambiente o l’economia ma tra prosperità o declino”. Chi continua a contrapporsi ed evita di confrontarsi con il cambiamento in corso è dunque figlio di quella “vecchia economia” che ha già devastato il territorio Nazionale e Regionale e non si rende conto dei benefici derivanti da nuovi modelli economici (solo in Europa il 17% circa degli attuali posti di lavoro è più o meno collegato alle risorse ecosistemiche) e tantomeno di quanto grave sia la perdita di biodiversità, che nel Pianeta avanza a ritmi sconcertanti con il 60% degli ecosistemi terrestri ormai degradato.
Un Parco pertanto che valorizza i prodotti tradizionali e locali, che rilancia il turismo sostenibile, consapevole e attento alle identità del luogo ed allo stesso tempo in grado di proteggere l’immenso valore ecologico della laguna, tutelandone la sua vasta biodiversità sinonimo di ricchezza, di varietà, della coesistenza di svariate forme di vita, tutte utili e selezionate nel corso dei millenni.
Un Parco della natura e dell’uomo in un territorio unico, dove la sua ineguagliabile bellezza come la sua fragilità, derivano proprio dalla sua costante antropizzazione.
Ciò di cui siamo convinti dunque è che l’istituzione del Parco potrà garantire sviluppo, con la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini. Vogliamo un Parco non solo strumento di conservazione della natura, ma organismo moderno di gestione integrata e sostenibile del territorio in grado di creare opportunità economiche.
Infine, vogliamo la nascita del Parco come avvio di un percorso che unisca le comunità locali e non divida e che ci veda tutti insieme, cittadini, associazioni, operatori turistici e del commercio ed imprenditori, a lavorare per  dare un futuro durevole e sostenibile a questo straordinario ambiente naturale e culturale. La sinergia di associazioni, imprenditori della green economy ed amministratori è fondamentale. Tutti i portatori d’interesse devono agire di concerto per offrire un valore aggiunto, mettendo insieme competenze e risorse per offrire alla città, ai suoi abitanti, una Venezia sempre più sostenibile.
Desiderare la conclusione del percorso e la nascita del Parco regionale di interesse locale della Laguna Nord non deve essere prerogativa degli ambientalisti ma desiderio e obiettivo di una Città intera, che decide di pianificare assieme il suo futuro.
Un voto favorevole alla delibera del Comune di Venezia di istituzione del parco regionale di interesse locale può regalarci questa bellissima e fondamentale possibilità. È urgente quindi che i rappresentanti dei cittadini in Consiglio Comunale agiscano per interessi collettivi e non particolari.

Venezia si prepara alla mobilitazione. “Il 7 e l’8 giugno bloccheremo le Grandi Navi”

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Mobilitazione. Questa è la risposta che la città darà alla pressione che le lobby crocieristiche stanno esercitando sul Governo per riaprire la laguna alle Grandi Navi. Una mobilitazione su tutti i fronti. Questo è quanto ha deciso l’assemblea dei comitati cittadini riunitisi ieri a San Sebastiano. Volantinaggi, coinvolgimento di associazioni e personalità italiane e internazionali che già si sono dimostrate sensibili al problema, incontri informativi come quello che si svolgerà il 28 aprile a Ca’ Loredan per illustrare i risultati di una indagine condotta da scienziati d’oltralpe sulla quantità di polveri e di Pm 10 messa in atmosfera dei Grattacieli Galleggianti. Oppure la simulazione del passaggio delle mega navi che sarà realizzata nella fontana di piazza Ferretto, a Mestre, il 2 giugno.
Una mobilitazione fantasiosa e di lunga durata che si concluderà sabato e domenica 7 e 8 giugno con il blocco totale delle crociere.
“Dall'incontro di San Leonardo la situazione anziché migliorare è peggiorata - ha spiegato Tommaso Cacciari portavoce del Laboratorio Morion -. Dobbiamo tentare in tutti i modi di tenere alta l'attenzione sul tema e coinvolgere il maggior numero possibile di persone. A Roma la lobby del Porto ha premuto sul Governo per un'accelerazione a favore della Marittima, da mantenere come punto d'arrivo, lasciando in pista solo il Contorta Sant'Angelo e la tangenziale dietro la Giudecca. Non possiamo accettare i soprusi della politica di palazzo”.



Sarà quindi una mobilitazione generale che, non a caso, andrà a cadere proprio in un fine settimana delicato in cui a Venezia si apre la Biennale Architettura e si svolge la Vogalonga.
Mentre la città si prepara a mettere in campo fantasia e determinazione per difendere la sua laguna, l’amministrazione comunale prosegue la strada diplomatica. Se da un lato, l’assemblea ha applaudito il tentativo del sindaco Giorgio Orsoni di rivolgersi direttamente al premier Matteo Renzi con una lettera, dall’altro ha invitato, per bocca del consigliere comunale Beppe Caccia, “chi, dal senato alle istituzioni comunali, la pensa come noi a scendere come noi in piazza a giugno".
La partita Grandi Navi Contorta si gioca tutta nelle prossime settimane. Su un punto fondamentale le tante voci che hanno preso parte all’assemblea di San Sebastiano si sono dichiarate concordi: mobilitiamoci tutti perché la laguna non può essere trasformata in un braccio di mare aperto.

La Città Metropolitana dice No alla Romea Commerciale

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"Non a casa mia. Spostiamola di qua o di là, ma non a casa mia”. Non la vuole proprio nessuno la nuova Romea Commerciale. Pressoché tutti i Comuni del Miranese e della Riviere hanno votato, uno dopo l’altro, ordini del giorno in cui si chiede di spostare l’incombente asse autostradale più a nord o più a sud o in qualsiasi altra parte ma “non a casa mia”. Le motivazioni sono le stesse che gli ambientalisti sostengono sin dalla presentazione di questa ennesima Grande Opera.
Grande Opera non solo inutile ai fini della circolazione (basterebbe potenziare e mettere in sicurezza i, tracciato già esistente) ma addirittura definita senza mezzi termini dal sindaco di Mira, Alvise Maniero, "violenta e devastante per il territorio".
Sindaci ed ambientalisti quindi, uniti nella lotta come non capitava di vedere da troppo tempo. Perché, come abbiano scritto in apertura, questo nuovo mostro di cemento mangia soldi e divora ambiente, non lo vuole proprio nessuno. A parte ovviamente, il potente e trasversale partito delle Grandi Opere, che in questo caso, è trainato da una cordata di imprese e banche da Gefip di proprietà dell’europarlamentare, ex Udc ora Ncd, Vito Bonsignore: nome ben noto sin dai tempi delle inchieste di Tangentopoli.




Dopo i Comuni dell’entroterra, adesso tocca anche a Venezia esprimersi in difesa del suo territorio grazie ad un odg, un ordine del giorno, proposto dai consiglieri della lista In Comune Camilla, Seibezzi e Beppe Caccia, ed elaborato in collaborazione con i comitati Stop Orme e Opzione Zero. Il testo, ricalca quanto già presentato da Mattia Donadel del comitato Opzione Zero, e votato dal consiglio comunale di Mira.

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ispetto agli analoghi documenti approvati dai Comuni dell’entroterra, questo veneziano propone un paio di novità che val la pena sottolineare. Prima di tutto, si presenta, forse per la prima volta, come un documento di “area metropolitana”. Non la singola posizione di un Comune ma una piattaforma condivisa da un territorio assai più ampio. In secondo luogo, l’odg scritto da Seibezzi e Caccia fa piazza pulita delle possibili alternative cui accennavamo. I problema, sostengono i consiglieri, non sta nel disegnare un percorso o una uscita alternativa al progetto, ma di bocciare l’intero progetto.
“Non abbiamo bisogno di una ulteriore autostrada - ha commentato Beppe Caccia - e neppure di farsi devastare dall'ennesima Grande Opera. L'attuale traffico non giustifica affatto la realizzazione di un'autostrada, mentre i drammatici problemi di sicurezza della Romea richiedono che siano realizzati immediatamente quegli interventi di messa in sicurezza che salverebbero decine di vite umane”. Caccia lancia un appello ai sindaci a lavorare insieme. “A questo -ha spiegato - serve la città metropolitana: non a scaricare il barile al comune vicino, ma insieme a far pesare la propria forza a difesa del territorio di tutti".
Camilla Seibezzi, che è anche candidata al parlamento europeo con la lista Tsipras, fa notare come "il progetto non sia nemmeno riconosciuto come strategico tra i grandi corridoi infrastrutturali dell'Unione Europea, anzi fin dal 2011 la Commissione Europea chiede di rafforzare il corridoio ferroviario dal Baltico all'Adriatico, per trasferire quote crescenti del trasporto merci dalla gomma alla rotaia. Il sospetto che abbiamo è che il nostro governo stia spingendo per la realizzazione di quest’opera per fare un favore alla cordata di imprese presieduta da Vito Bonsignore".

L’Italia tradisce Kyoto. I dati Ispra testimoniano che siamo fuori dal Protocollo

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Fuori da Kyoto. Erano in pochi, nel nostro Paese, a nutrire ancora illusioni sul raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal Protocollo di Kyoto che abbiamo sottoscritto nel 1997, ma in attesa dei dati definitivi, sperare era ancora lecito. Adesso però non ci sono più scusanti. Le statistiche diffuse dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) non ci lasciano scampo. E va sottolineato che i dati del 2012 sono particolarmente significativi perché concludono l’intera serie storica delle emissioni dal 1990 al 2012. Quello trascorso infatti è l’ultimo anno del primo periodo del Protocollo di Kyoto che spaziava dal 2008 al 2012, appunto. L’Italia si era impegnata a a ridurre in questi cinque anni le emissioni medie di gas serra del 6,5% rispetto ai valori registrati nel 1990 ma nei fatti non è andata oltre il 4,6%. Un fallimento, figlio di una politica economica che non ha mai realmente puntato sulle energie alternative e ha continuato a ripercorrere gli errori di una economia basata su cemento e Grandi Opere, giustificata con lo spauracchio di una crisi per combattere la quale ogni strategia di “sviluppo” diventava lecita.



I dati diffusi dall’Ispra in un incontro con la stampa svoltosi ieri a Roma non sono ancora ufficiali perché bisognerà attendere che questi vengano validati dall’Unfccc, il tavolo dell’Onu dedicato al cambiamento climatico. C’è ancora la possibilità che questi possano subire delle piccole modifiche in positivo non appena verranno considerate alcune statistiche peculiari del settore forestale italiano dove i parametri ambientali sono positivi, ma si tratta, al massimo, dello spostamento di qualche 0,1 percentuale che non modificherà il totale fallimento italiano. Resteremo comunque in debito di 16,9 milioni di tonnellate di Co2 che, come prevede il Protocollo, saremo costretti ad “acquistare” sul mercato delle emissioni. Un vero e proprio “debito economico” che il Governo sarà obbligato a riportane del Documento di Economia e Finanza (Def) e che può essere monetizzato all’incirca ad un euro a tonnellate. Come dire, che dovremo mettere a bilancio almeno 17 milioni di euro per acquistare crediti a quelle nazioni che - loro! - gli obiettivi che si sono prefissati sono riusciti a raggiungerli.

Quello che davvero nessuna economia potrà pagare invece, sono gli irreversibili disastri che saranno provocati in tutto il pianeta da un Climate Change oramai avviato e di cui, adesso, nessuno più dubita.
Quelli li lasciamo tutti in eredità alle future generazioni.

La banda del “buco” colpisce ancora. Fermiamo la Tav in gronda

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L’annuncio viene da Milano. Al termine di un incontro col sindaco Giuliano Pisapia e il presidente di Sea Handlinig, Pietro Modiano, il ministro alle Infrastrutture, Maurizio Lupi ha ufficializzato la volontà sue e del Governo di collegare tre grandi aeroporti internazionali alle linee Alta Velocità. Sotto il mirino ci sono gli scali di Malpensa, Fiumicino e anche Tessera. «Il Governo - ha assicurato il ministro - ha chiesto venerdì a Rfi di presentare progetti e costi. Sarebbe in contraddizione un grande piano di rilancio del sistema aeroportuale italiano se non integrato dall'Alta velocità».
In altre parole, per quando riguarda Venezia, torna a camminare lo “zombie” di un progetto che gli ambientalisti credevano (speravano) oramai morto e sepolto. Quello demenziale di una fermata dell'Alta Velocità a pochissimi chilometri dalle stazioni di Mestre e di Venezia oggi raggiungibili in dieci minuti di autobus. Progetto che comporterebbe lo scavo di un tunnel, in parte in un'area densamente urbanizzata, in parte lungo la gronda lagunare alterando il delicatissimo equilibrio idrogeologico, in parte nel pieno delle aree archeologiche di Altino. Un miliardo di euro di spesa per un flusso di passeggeri contenuto e già efficacemente collegato alla stazione di Mestre.



“I Lupi affamati di grandi opere e dei grandi affari a spese dei cittadini che ne sono il necessario corollario, perdono il pelo ma non il vizio - ha commentato Beppe Caccia, consigliere comunale della lista In Comune - Questo tentativo del ministro di portare la l'Alta Velocità ferroviaria all'aeroporto Marco Polo per la gioia del presidente Save, Enrico Marchi, dovrà trovare nel nostro territorio ogni genere di barricate, da parte delle popolazioni interessate così come da parte dell'amministrazione comunale”.
La stessa RfiSpA, società della holding Ferrovie dello Stato, e il commissario governativo alla Tav, Bortolo Mainardi, ha spiegato il consigliere, hanno sonoramente bocciato il progetto di una nuova linea in gronda, sulla base di rigorose valutazioni tecniche, rilanciando il tema del potenziamento tecnologico dell'attuale collegamento Mestre-Trieste.
“Piuttosto - continua Caccia - c’è un'opera la cui realizzazione è necessaria e urgente: la bretella ferroviaria tra Dese e l'aeroporto, che consentirebbe di integrare il Marco Polo nel sistema ferroviario metropolitano regionale così da permettere a migliaia di passeggeri di raggiungere agevolmente lo scalo”. Purtroppo tale progetto costa “solo” 200 milioni di euro. Peraltro già disponibili e immediatamente cantierabili.
“Troppo pochi - conclude amaramente Caccia - per alimentare, a spese dei cittadini, il perverso meccanismo affaristico collegato alle Grandi Opere infrastrutturali”.

Il Parco della Laguna di Venezia è una realtà. Quasi…

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Finalmente ci siamo. O meglio, finalmente ci siamo... “quasi”. Bisognerà attendere lunedì prossimo, giorno della convocazione del consiglio comunale di Venezia per assistere alla discussione e, ci si augura, all’approvazione della delibera che istituisce il parco della laguna di Venezia. Mal che vada, se la discussione andasse per le lunghe (l’opposizione ha dichiarato guerra e d’altra parte è questo il suo mestiere), toccherà attendere un’altra settimana. Ma il traguardo oramai è vicino. Tanto è vero che l’assessore Gianfranco Bettin, che del progetto è stato anima e mente, ha voluto anticipare la presentazione del nascente parco in un incontro svoltosi questa mattina al Salone Nautico che si sta svolgendo a San Giuliano. Con lui, il responsabile dell’Osservatorio della Laguna, Marco Favaro, che è la struttura comunale che si è presa la poco digeribile briga di dipanare l’iter burocratico, tra corsi e ricorsi di richieste, specifiche, pareri, discussioni, aggiustamenti nelle aule di Municipalità, Comune, Provincia e Regione. Ce n’era da perdere la testa. La sola richiesta di un parere aggiuntivo, tra l’altro non vincolabile alla Regione, che l’assessore Pierantonio Belcaro si è inventato all’ultimo momento, ha fatto perdere almeno tre mesi di lavoro. Ma stavolta ci siamo sul serio e le scartoffie sono tutte a posto. La laguna nord (che poi è tutto quanto rimane dell’antica laguna dei dogi, considerato che scavi e cemento hanno trasfornato la barte meridionale in un braccio di mare aperto) diventerà finalmente un parco.


Si chiude quindi una storia quarantennale, che potremmo far risalire al Fronte per la difesa della laguna di Venezia di Indro Montanelli. Una storia che ha visto momenti quanto meno pittoreschi come quelli rievocati durante l’incontro di questa mattina da Paolo Cacciari, che da onorevole presentò assieme a Luana Zanella un dimenticato pdl per un parco regionale, e che ha raccontato come all’epoca, durante gli incontri di presentazione del progetto a Burano, i cacciatori erano usi aizzargli contro i cani. Altri tempi? Mica tanto! Le ultime proteste anti parco che in certe frange hanno, per dirla con Bettin “travalicato i limiti della buona educazione” dimostrano che la questione è sempre bollente, in particolare nelle isole. Un impasse che superare è costato lavoro, interminabili discussioni, tolleranza e tanta tanta pazienza. “Ma adesso la maggioranza dei residenti è d’accordo col nostro progetto - ha commentato l’assessore -. Anche le categorie come quelle della pesca e del turismo si sono dette favorevoli. Ho già dichiarato che sono favorevole a sottoporre la questione ad un referendum. Chi teme che il parco comporti un regime troppo vincolistico sbaglia bersaglio. I vincoli di tutela già ci sono e non sarebbe neppure in nostro potere aggiungerne altri. Chi teme un ulteriore carrozzone burocratico sbaglia ugualmente. Oggi in laguna nord ci sono tanti vincoli ma non ci sono le opportunità collegate. Il parco serve proprio a potenziare questo aspetto e a salvaguardare non solo al natura ma anche la residenzialità, il lavoro, le attività tradizionali. In un ambiente fortemente antropizzato come la nostra laguna, non potremmo pensare ad un parco tradizionale ma piuttosto a un parco culturale e ambientale allo stesso tempo”.
“Il vero rischio - continua l’ambientalista - è non cogliere le potenzialità che il parco ci offrirà”. Mettere a disposizione gli strumenti adatti a questo scopo, sarà compito del Piano Ambientale che costituirà l’anima stessa del nascente parco e che vedrà la luce entro un anno dall’approvazione della delibera. “Sarà un percorso - ha assicurato Marco Favaro - trasparente e partecipato che godrà dei contributi di tutti gli attori in gioco: amministrazioni, residenti, categorie economiche...”
Il parco della laguna sarà naturalmente solo un parco di interesse locale (come dire “comunale”). Nella hit parade delle aree protette si colloca quindi all’ultimo posto in quanto vincoli di tutela. Ma proprio questa debolezza sarà la sua forza. “Nel ginepraio di competenze che si sommano in laguna, il parco non ne aggiungerà di nuove - ha assicurato Bettin -. I vincoli già ci sono, pure se non sempre vengono rispettati. Piuttosto, il compito del nuovo istituto sarà, oltre a quello di farli rispettare, soprattutto trasformate i vincoli passivi del tipo ‘non si può fare’ in vincoli attivi offrendo nuove possibilità di lavoro e attingendo a nuove forme di finanziamento”.
A lunedì quindi. Per scrivere l’ultimo articolo sulla “storia del famoso parco che non c’è”, per citare il libro di Giannandrea Mencini. E cominciare a scrivere - finalmente - del parco della Laguna di Venezia.

Riapre la stagione crocieristica, la Preziosa fa “stumpft” e Venezia si prepara alla mobilitazione

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Ci avevano raccontato che era impossibile. Avevano tentato di farci credere che un incidente in laguna fosse una eventualità “scientificamente” impossibile (senza considerare che qualsiasi fisico vi può confermare che “scientificamente” sta solo a significare “abbastanza probabile”). Avevano sostenuto che i nostri timori erano allarmismi di profani, di persone digiune della perfezione tecnica raggiunta dagli attuali sistemi computerizzati di navigazione. Che gli incidenti del Giglio e del porto di Genova non significano nulla perché in laguna i livelli di sicurezza sono elevati al massimo grado. Che lo “struscio” a Riva degli Schiavoni, quel giorno in cui i passanti terrorizzati hanno visto la Grande Nave che pareva voler salire sulla fondamenta, era una sorta di illusione ottica.
Ce ne hanno raccontate, di balle!
Ed ecco che, proprio nel viaggio inaugurale della stagione crocieristica, quello che ha riaperto il Bacino di San Marco alle Grandi navi, la Preziosa ha fatto “stumpft”!
Ieri alle 8,15 di mattina, una nave della Msc Crociere in ormeggio, la Preziosa, ha pesantemente sbattuto contro il “finger” – come viene chiamato il corridoio di imbarco dei passeggeri – ricavandone uno sfregio mica da ridere sul mascone di dritta. Eppure, tutte le famose condizioni di sicurezza previste dalle normative erano state rispettate: “Nonostante i due rimorchiatori e la presenza del pilota a bordo – si legge nella Nuova Venezia – la Preziosa è sembrata allargare la poppa e di conseguenza stringere troppo la prua verso la banchina. Il pilota ha dato il ‘macchine indietro’, ma anche questa manovra non è stata sufficiente a evitare che la parte di fiancata più vicina alla prua urtasse uno dei corridoi mobili d’imbarco”.



La Preziosa è una delle ammiraglie della Msc Crociere. Quella stessa Msc Crociere che, ci teniamo a sottolineare, sempre in questi è stata oggetto di una operazione della polizia brasiliana. In un blitz condotto in una sua nave ormeggiata nel porto di Salvador di Bahia, gli agenti hanno liberato undici persone «impiegate in condizioni analoghe agli schiavi», come hanno reso noto le forze dell’ordine. Viene da chiedersi se quando i sostenitori delle Grandi Navi invocano la necessità di difendere il posto di lavoro intendono qualcosa del genere.
A scanso di equivoci, diciamo subito che lo “stumpft” della preziosa nave non ci fa affatto piacere, pure se non fa altro che confermare ciò che Eco Magazine e i comitati per la difesa di Venezia hanno sempre sostenuto. Non ci fa piacere perché noi questi grattacieli galleggianti in manovra sotto il Campanile non li vorremmo neppure se fossero sicurissimi al – e dico una bestialità scientifica – cento per cento. Non ce li vogliamo per un sacco di buoni motivi. Non ultimo, la quantità di inquinamento che inevitabilmente spargono nella nostra laguna e nei nostri polmoni. Vedere confermati i nostri peggiori timori di profani “ignoranti della perfezione tecnica raggiunta dagli attuali sistemi computerizzati di navigazione” ci fa solo preoccupare di più e, naturalmente, ci spinge a gridare ancora più forte: “Fuori questi mostri dalla laguna di Venezia”.
Guarda caso, il giorno di riapertura del Bacino alle Grandi Navi era pure a ridosso della Domenica Ecologica, che a Venezia significa tirare fuori i remi e lasciare in cavana il fuoribordo. Iniziativa lodevolissima, per carità, ma che certo ti lascia un po’ l’amaro in bocca quanto a te tocca spingere sullo scalmo mentre la Msc fa andare le sue navi, che sono un tantino più grandi e più inquinanti della tua “topa”, su e giù per il canal della Giudecca. A Ca’ Farsetti, a far la passerella con i giornalisti, c’era pure il ministro per l’Ambiente, Gianluca Galletti, che si è beccato l’inevitabile contestazione dei comitati. In un breve colloquio con i cittadini che gli hanno ricordato i rischi per la città e la devastazione per la laguna che questi obbrobriosi Grand Hotel galleggianti comportano, il ministro ha ribadito la volontà di “portare fuori le Grandi Navi dalla laguna trovando una soluzione che non danneggi l’economia”.
Soluzione che, dal nostro punto di vista, non può che essere quella di tenere questi alveari il più lontano possibile dalla nostra città. E, siccome abbiamo imparato che senza lotta sociale nessuno ci regala niente – tantomeno un Governo, sia esso di destra o di sinistra – i comitati hanno rilanciato la mobilitazione. L’incidente della Preziosa ha spazzato via due mesi di incessanti propagande e di inqualificabili piagnistei che le compagnie di crociera hanno portato avanti su tutti i media, dalle televisioni locali alle pagine pubblicitarie acquistate sui giornali. E questo è senz’altro un punto a nostro vantaggio.
Domani, lunedì 14 aprile, è stata indetta un’assemblea cittadina a S. Leonardo alle 16.30 per preparare le prossime mobilitazioni.
Di seguito, in chiusura, riporto col copia e incolla il comunicato stampa lanciato dal Comitato No Grandi navi.


Gli dei puniscono la superbia degli uomini, e così stamane [ieri 5 aprile] la Msc Preziosa ha deragliato dai binari di Paolo Costa e di Sandro Trevisanato andando a sbattere contro la banchina della Marittima nonostante due rimorchiatori, il pilota a bordo, le tecnologie ultramoderne che la guidano.
Non c’è che dire, una bella riapertura per la stagione croceristica!
È ovvio per chiunque che in qualsiasi attività umana l’incidente è sempre dietro l’angolo, ma non per i paladini del crocerismo che hanno sempre fatto come il cieco che non vuol vedere o il sordo che non vuol sentire, negando qualsivoglia problema e riducendolo a “fastidio estetico”, come a suon di libri o di paginate di giornali a pagamento hanno cercato di dire l’Autorità Portuale e la Venezia Terminal Passeggeri.
La grande contro-informazione e mobilitazione che abbiamo costruito in questi due anni ha fatto si che centinaia e centinaia di persone si siano opposte al passaggio delle grandi navi in laguna (con i propri cervelli, cuori e corpi) facendo capire al mondo intero l’importanza e la legittimità della nostra battaglia. Battaglia che il mondo ha mostrato di appoggiare e condividere.
Non ci spaventano le ammende che ci sono state inflitte travisando il significato della protesta sociale e colpendola con provvedimenti amministrativi. Siamo giustamente preoccupati per gli immensi problemi, per i gravi rischi connessi al crocerismo e per i pochi vantaggi che ne trae la città. E oggi gridiamo di nuovo basta, basta basta!!!!
Diffidiamo il Governo e la Regione dall’imboccare scorciatoie inaccettabili per fare presto, con la scusa dell’incidente. Bisogna si intervenire presto, ma operare alla luce del sole. La strada è solo una: nessun ricorso alla legge obiettivo, un vero e serio confronto tra i progetti e gli scenari in campo, un dibattito trasparente e partecipato che abbia al primo posto l’interesse pubblico.
Se si terranno in conto tutti i problemi legati al crocierismo tra cui la crescita del livello del mare e i limiti alla portualità che comporterà il Mose alle bocche di porto, la soluzione che unisce la salvaguardia del lavoro e la tutela dell’ambiente è una sola:
le grandi navi incompatibili devono stare fuori dalla laguna.
Quello che è successo oggi ci dice che la lotta è aperta più che mai e ci spinge a proporre un’assemblea cittadina nei prossimi giorni, per chiamare a raccolta la cittadinanza tutta.

Porto Tolle: condannati gli ex amministratori di Enel per disastro colposo

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A Porto Tolle ci fu un disastro ambientale colposo. Per anni, nonostante le denunce degli ambientalisti e dei comitati cittadini, la centrale che funzionò prima a zolfo e gasolio e poi, dal ’95, a orimulsion, avvelenò l’aria danneggiando il delicato ambiente del Delta del Po e causando gravi patologie alla popolazione e, in particolare, all’infanzia. Lo ha stabilito il tribunale di Rovigo che ha condannato ieri in primo grado gli ex vertici di Enel, Franco Tatò e Paolo Scaroni, attuale amministratore delegato di Eni, a tre anni di reclusione con interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Inoltre, Enel è stata condannata a pagare una penale di 3,6 milioni di euro. Assolto l’attuale amministratore di Enel, Fulvio Conti, assolto per mancanza di elementi oggettivi.
Una sentenza controcorrente per un Paese come il nostro dove i reati ambientali non trovano mai troppo seguito nelle aule di giustizia, in particolare quando sui banchi degli imputati siedono potenti manager pubblici. Questa volta invece, grazie alla perseveranza di associazioni come Legambiente, Green Peace, Italia Nostra e Wwf che si sono costituite parte civile, è arrivata una condanna dura che sposa in pieno le tesi degli ambientalisti.



Esterrefatti per una sentenza che incrina la loro “teutonica fiducia sulla Giustizia” si sono detti i due ex amministratori delegati di Enel che annunciano ricorsi e controricorsi. “La centrale Enel di Porto Tolle ha sempre rispettato gli standard in vigore anche all’epoca dei fatti ha sostenuto l’avvocato difensore di Scaroni, Alberto Moro Visconti, - I reati contestati non sussistono, peraltro sono così risalenti nel tempo che, se ci fossero stati, oggi avrebbero dovuto essere dichiarati prescritti”. Traduzione: quel giorno non c’ero e se c’ero dormivo.
Tutto da vedere se la condanna peserà sulla riconferma di Paolo Scaroni al vertice di Eni. Il premier Matteo Renzi non si è ancora pronunciato a riguardo pur se ha sostenuto la necessità di rispettare le sentenze della magistratura.
Comunque vada per la carriera manageriale di Scaroni, questa rimane una sentenza storica che per la prima volta stabilisce un nesso tra le emissioni di una centrale e l'aumento di patologie nella popolazione locale.
Una sentenza che seppellisce definitivamente i progetti di Enel di riconvertire a carbone, la fonte energetica più inquinante per l’ambiente e dannosa per la salute, la centrale di Porto Tolle.
Una riconversione che, si legge in una nota diffusa dalle associazioni ambientaliste, “non risponde ad alcuna necessità energetica del Paese, non ha fondamento in termini di strategia industriale e consegnerebbe il Polesine a un modello di sviluppo già dimostratosi perdente e dannoso”. Un progetto che, qualche settimana fa, era stato bocciato pure dalla commissione Via del ministero per l’Ambiente.
Ancora una volta, agli ambientalisti resta la magra soddisfazione di poter dire, trent’anni dopo, “visto che avevamo ragione noi?” e l'ancor più magra considerazione che c'è voluta la magistratura per dimostrarlo.

La Francia vieta il mais Ogm. L’Italia no e va verso la deregulation

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Casomai qualcuno non lo avesse capito, è tutta questione di volontà politica. La Francia lo ha fatto. Invocando la nota “clausola di salvaguardia”, che consente ai Governi di impedire la commercializzazione di tutto ciò di cui non sia stata scientificamente garantita la salubrità, i nostri cugini d’Oltralpe hanno vietato la semina di mais geneticamente modificato nel suo territorio. L’Italia no. In compenso stiamo creandoci sopra una spettacolare confusione amministrativa che pare fatta apposta per spianare il campo alle culture Ogm.
Intanto, nell’anticipo di primavera che stiamo vivendo, il tempo della semina si sta avvicinando. L’imprenditore (non ci sembra giusto definirlo “agricoltore”) friulano Giorgio Fidenato che lo scorso anno in barba alla normativa ha coltivato il mais modificato Mon 810, si appresta a far il bis e non solo. Il suo ricorso al Tar del Lazio che sarà discusso il prossimo 10 aprile, ha buone possibilità di fare piazza pulita del pasticciato decreto ministeriale che lo scorso anno riuscì a bloccare, sia pure all’ultimo momento, la semina del mais Ogm in Italia dopo che la Commissione Europea gli aveva spalancato le porte.
Cosa succederà se il Tar del Lazio, che in questo caso è competente per tutto il Paese, concederà la sospensiva del divieto? Secondo la normativa, spetta alle Regioni stabilire i criteri di coesistenza tra una cultura geneticamente modificata e una tradizionale. Tali criteri, se pensati per difendere le normali coltivazioni dalla contaminazione, potrebbero essere talmente vincolanti da proibire, di fatto, la semina Ogm. Ebbene, allo stato attuale solo la Regione Friuli Venezia Giulia si è dotata di una tale normativa. Col risultato paradossale che, se il Tar accogliesse il ricorso del Fidenato, costui potrebbe seminare mais Ogm in tutte le Regioni tranne che nella sua! C’è da dire comunque che l’imprenditore ha già fatto sapere che Tar o non Tar, Regione o non Regione, lui il suo Mon 810 continuerà ugualmente a coltivarselo. Anche continuando a pagare tutte le multe che gli venissero appioppate.



Ma, Friuli a parte, tutte le altre Regioni d’Italia - che non hanno avuto il loro Giorgio Fidenato - sono ancora all’anno zero! In poche parole, si rischia a primavera di assistere ad una deregulation totale dove tutti seminano quello che vogliono e dove vogliono, anche a due passi dei campi coltivati a biologico e che, di conseguenza, perderanno così il diritto alla certificazione.
Un terremoto mica da poco per l’agricoltura italiana!
Certo, come scrivevamo in apertura, è tutta questione di volontà politica. L’Italia potrebbe copiare paro paro la Francia dove, in attesa che la legge contro la coltivazione degli Ogm compia il suo iter parlamentare, il Ministero ha impugnato la sopra citata “clausola di salvaguardia” adducendo i tanti studi scientifici che testimoniano il pesante impatto ambientale che il Mon 810 ha sull’ambiente e sulla salute dei consumatori. In questo senso, si è espresso anche il parlamento italiano lo scorso anno votando una dichiarazioni di intenti. Adesso spetta, o forse dovremmo scrivere “spetterebbe”, al nuovo Governo recepirla. Sempre che ci sia la sopracitata volontà politica di farlo. Perché il tempo della semina è sempre più vicino.

Tutto da rifare. Il Tar riapre il bacino di San Marco alle Grandi Navi

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Uno a uno. Palla al centro e partita ancora tutta da giocare. Il Tar del Veneto ha accolto il ricorso presentato da Venezia Terminal Crociere (Vtp) e ha sospeso l’ordinanza della Capitaneria di porto che vietava, a partire dal prossimo anno, l’ingresso per le bocche del Lido alle navi superiori alle 96 mila tonnellate di stazza.
In poche parole, il tribunale amministrativo ha riaperto il palcoscenico del bacino di San Marco alla Grandi Navi sul quale il Governo, grazia anche alla grande mobilitazione popolare dei veneziani, aveva chiuso il sipario. Come se non bastasse il Tar, ha sospeso anche la riduzione del 12,5% del traffico crocieristico davanti alla Piazza.
C’è da dire che ben difficilmente la sospensiva - valida, ricordiamolo, solo in attesa dell’udienza di merito che è prevista per metà giugno - avrà ricadute immediate. Intanto perché il limite delle 96 mila tonnellate sarebbe decorso dal 2015, poi perché la riduzione del traffico è già stata cautelativamente programmata nell’offerta turistica e le compagnie di navigazione non riusciranno ad inserire di punto in bianco altre crociere, perlomeno nel calendario di primavera. Non a caso, i giornali di queste ultime settimane sono zeppe di articoli in cui i padroni delle società che gestiscono le Grandi Navi piangono il morto e la miseria incombente.
Resta comunque la preoccupazione di una sentenza che sposa in pieno la causa delle compagnie di navigazione sostenendo che le limitazioni al traffico "devono essere subordinate alla disponibilità di praticabili vie di navigazione alternative a quelle vietate". Come dire: cari signori, prima di vietare qualcosa, preparate le alternativa. Poco importa che la laguna non ce la faccia più a sostenere l’insostenibile.
Ancora una volta, insomma, l’economia vince sull’ambiente. Esattamente quel principio che ha causato la cosiddetta “crisi economica” e che i No Grandi Navi hanno provato a ribaltare buttandosi in acqua.



La sentenza del Tar ha ottenuto l’ovvio plauso dell’autorità portuale che ne sta facendo un cavallo di troia per spingere sul suo vero obbiettivo: lo scavo del canal Contorta. “La decisione del Tar - si legge in un suo comunicato - non può, né deve, assolutamente distrarci, o peggio fermarci, dal voler trovare e realizzare entro il 2016 la via d’acqua alternativa per raggiungere la Marittima e ovviare al passaggio davanti San Marco. Il Governo, anche su suggerimento del Senato, si è dato 120 giorni di tempo per valutare il Contorta Sant'Angelo o la sua alternativa.  Se la decisione verrà presa entro questi termini, e non abbiamo motivo di dubitarne, la sentenza odierna verrà nei fatti positivamente superata dalla soluzione che metterà insieme la salvaguardia di San Marco e quella dell'eccellenza crocieristica veneziana”. Per Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale, questa è la sola strada per salvare capra e cavoli, ovvero evitare di devastare la “zona nobile” di Venezia, il bacino di San Marco, e salvaguardare (più che l’occupazione) gli interessi economici delle grandi compagnie. Peccato che a pagare sia la capra che i cavoli sarebbe la nostra povera laguna che verrebbe devastata dall’ennesima Grande Opera. E sempre ammesso che si possa ancora parlare di “laguna” a proposito di una zona che tra Mose, barene di cemento ed escavazioni varie oramai è diventata un braccio di mare aperto.
Alla soddisfazione di Costa, si somma quella della Confindustria, contentissima che l’economia, o meglio una “certa economia”, sia ancora la prima preoccupazione di giudici osservanti e Governi obbedienti. "La decisione del Tar di accogliere la richiesta di sospensiva alle limitazioni -ha dichiarato Matteo Zoppas, il presidente - è un primo segnale positivo del fatto che i fattori economici e occupazionali siano diventati parte integrante di ogni valutazione”.
Meno soddisfatto della sentenza, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che ha diffuso il seguente comunicato. “Sapevamo che l’ordinanza della Capitaneria di Porto fosse illegittima, tanto è vero che anche il Comune di Venezia ha proposto un ricorso avverso lo stesso atto, e ci aspettavamo quindi un pronunciamento di questo genere. Siamo fiduciosi che la volontà del Governo sarà rispettata, e con questa il suo impegno affinché le navi non compatibili siano allontanate dal Bacino di San Marco. Auspico che questo impegno e questa volontà - che sono anche quelle della Città e del mondo intero che ci guarda - siano ribaditi ponendo rimedio, ove necessario, ai vizi rilevati dal giudice amministrativo, al fine di raggiungere l’obiettivo ampiamente condiviso anche a livello internazionale. È ferma intenzione del Comune di Venezia tutelare la Città e la sua Laguna con determinazione. Non siamo disponibili a delegare a nessuno la difesa degli interessi primari dei cittadini. Così come riteniamo che gli organi dello Stato non possano delegare ai propri concessionari l’attuazione di politiche condivise a livello di governo nazionale, e debbano adempiere puntualmente alla volontà espressa all’unanimità dal Senato della Repubblica". Niente paura, vi faccio subito la traduzione: “Che la famosa ordinanza fosse fatta da cani (e vien da chiedersi se apposta o no) lo sapevo pure che che non per niente sono avvocato. Quale sia la volontà del Governo a proposito di questa faccenda non sono riuscito a intuirlo neppure alla lontana però sappiamo tutti che Venezia è sotto gli occhi del mondo e di figure barbine sulla sua salvaguardia ne abbiamo già fatte pure troppe. Onde per cui, prima di combinare altri pasticci per favorire le grandi  compagnie, sarebbe opportuno che chi comanda ascoltasse pure me e il Comune di Venezia che è l’organo più vicino ai cittadini. Che poi, anche al di là della mia personale opinione sulla questione,  sono i soli davvero interessati al futuro di Venezia e che, se non lo avete ancora capito, non vogliono vedersi devastare quel che resta della loro città che quei grattacieli galleggianti”.
Non ha bisogno di traduzioni ma anzi si piglia il primo premio per il comunicato più chiaro e conciso dell’anno, il “cinguettio” su twitter del comitato No Grandi Navi: “Tutti pronti alla mobilitazione?”
E va bene. Vado in soffitta a tirar giù le pinne!

Grandi Opere, Grandi Truffe. Attivisti in azione al casello: L’unica Grande Opera che vogliamo è casa e reddito per tutti

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"Potete passare anche domani verso le 15,30?" La domanda, neanche troppo disinteressata di un camionista, che ieri pomeriggio ha superato la gogna del casello Mestre senza sborsare un centesimo, è emblematica dell’entusiasmo con il quale è stata accolta l’iniziativa messa in atto venerdì dagli attivisti degli spazi sociali e del comitato Opzione Zero. Ugualmente emblematici, sia pure un tantino più prosaici, i tanti “bracci ad ombrello” con i quali alcuni automobilisti hanno omaggiato gli uffici della società di gestione mentre passavano sotto le cellule oscurate del pass e sotto i grandi cartelloni azzurri dove la scritta “Carte di credito” era stata coperta con la parola “gratis”. Se è vero che il braccio ad ombrello non è il massimo dell’eleganza è anche vero che la Concessioni Autostradale Venete non si sbatte per farsi amare dagli automobilisti. In fondo, stiamo parlando di una società partecipata che ha stipulato una convenzione con la quale si è impegnata a restituire all’Anas un miliardo nel corso di 23 anni di gestione. Siccome non ce la fanno - per il semplice motivo che, dopo aver devastato mezza provincia con passanti e tangenziali con la scusa di risolvere il problema del traffico, gli automobilisti piuttosto che pagare certe cifre che non hanno uguali in Europa preferisco il traffico e le vecchie strade - hanno pensato bene di aumentare le tariffe del 300 per cento. Salvo poi, generosamente, concedere qualche spicciolo di sconto. Come se non bastasse, si sono pure indebitati con la Cassa Depositi e Prestiti e la banca Europea degli Investimenti. Nome, quest’ultimo, che ho trovato come “generoso finanziatore” delle peggiori devastazioni ambientali e sociali, in tutti i Paesi del mondo in cui ho avuto la fortuna di viaggiare. E vi assicuro che non sono pochi!


Il braccio ad ombrello, insomma, non sarà elegante ma certo comprensibile. Come comprensibili e sono state le tante richieste di “venite anche domani, per favore?” Ma l’azione degli ambientalisti aveva solo lo scopo di far riflettere gli automobilisti e la cittadinanza per far capire che non è con le Grandi Opere che si risolvono i problemi ma, al contrario, queste sono solo strumenti per devastare e mercificare il territorio convergendo denaro pubblico nelle tasche di pochi privati.
Concetto questo ribadito anche nelle tre interviste realizzate durante l’iniziativa di ieri al casello di Mestre che vi proponiamo qui sotto.

Grandi Navi. Le Compagnie preparano la controffensiva di primavera. Chi ha a cuore Venezia ne discuta oggi per non farsi trovare impreparato domani

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La grande partecipazione all’incontro a San Leonardo “Contorta. Unica alternativa?” organizzato da Ambiente Venezia lunedì 20 gennaio, ha dimostrato, casomai ce ne fosse bisogno, che i veneziani sono ancora sensibili ai temi che riguardano la salvaguardia della loro laguna. Oggi, grazie ad una mobilitazione che non ha avuto precedenti nella storia della nostra città e ad un coraggioso tuffo in mare di un gruppo di attivisti che continuano ancora a vedersi bersagliare da multe e sanzioni, le grandi navi sono state buttate fuori dal Bacino di San Marco ma la questione è tutt’altro che risolta.
Tre consiglieri comunali, Beppe Caccia, Camilla Seibezzi e Sebastiano Bonzio, hanno appena denunciato in un incontro con la stampa, vedi il mio l’articolo su Eco Magazine, che l’assessore Ugo Bergamo ha stipulato un accordo con l’autorità portuale ben diverso da quello che era stato proposto dal consiglio e che riapre alle Grandi navi la possibilità di rioccupare la Marittima. E’ vero che in Senato, grazie ad una mozione presentata da Felice Casson, il Governo si è impegnato ad evitare la temuta scorciatoia della legge Obiettivo che avrebbe bypassato tutte le valutazioni ambientali e ha promesso di discutere sulle possibili alternative senza forzature. Ma è anche vero che, come temevamo, le compagnie di navigazione non hanno nessuna intenzione di giocarsela lealmente e stanno già battendo i media e le televisioni come cassa di risonanza per denunciare le presunte ricadute occupazionali che si riverserebbero sul porto con le porte della laguna chiuse.



Inutile nascondercelo. Siamo di fronte al grande rischio che una vittoria possa trasformarsi in una sconfitta. Tra qualche mese tutto potrebbe tornare come prima. Anzi peggio. Tutto come prima ma con una “grande opera” in più a devastare la nostra povera laguna: lo scavo del canal Contorta. Canale che permetterebbe alle Grandi Navi, gettate fuori dalla porta di rientrare dalla finestra. Col risultato che a Venezia rimarrebbe lo stesso inquinamento di prima con, in più, un’altra cementificazione di cui non se ne sentiva di sicuro la mancanza.

Ora, è chiaro come il sole che, a Venezia, lo scavo del Contorta non lo vuole nessuno. Non lo vogliono gli ambientalisti, non lo vogliono i veneziani. Non lo vuole l’amministrazione comunale. Il sindaco Giorgio Orsoni è stato chiaro in proposito. Non lo vogliono i deputati che hanno aderito alla sopracitata mozione lanciata dal senatore Felice Casson. Non lo vogliono nemmeno i portuali pro Grandi Navi che hanno osservato, non senza qualche ragione, che se gli ambientalisti non avessero sollevato tanto casino Venezia non rischierebbe di ritrovarsi tra qualche mese col problema di prima e con un scavo in più.

Ma allora chi è che vuole scavare il Contorta? Lo vuole, è presto detto, il partito delle Grandi Opere. Quel grande e trasversale partito senza tessere che continua a macinare ambiente (e diritti) per ricavare reddito per pochi, in nome di una economia che ha causato la crisi e della crisi ha fatto una giustificazione per qualsiasi scempio.
Perché, proprio sull’onda delle crisi, ci scommettiamo?, marcerà assieme ai primi tepori della primavera e al conseguente riaprirsi della stagione delle crociere, la controffensiva della compagnie di Crociere. Denunceranno la perdita di clienti, invocheranno la necessità di ridurre stipendi e personale, pregheranno il Governo di sostenere l’occupazione con misure straordinarie, piangeranno sulle famiglie ridotte in miseria, ragioneranno sul senso di colpire, in piena crisi, uno dei pochi settori in crescita, prometteranno di sistemare filtri sui loro puzzolenti camini per ridurre gli inquinanti, giureranno sulla sicurezza dei loro sistemi di navigazione.

E noi allora cosa risponderemo? Noi che ci siamo buttati in acqua, che ci siamo presi le multe, che abbiamo manifestato in tutti i modi possibili, che abbiamo organizzato assemblee, che ci siamo documentati e che abbiamo scritto decine di articoli. Noi che sappiamo che la crisi, la povertà, le devastazioni ambientali, l’inquinamento, non sono imputabile alle nostre idee ma proprio di chi ragiona come ragionano loro, sui binari di una economia di rapina. Noi, cosa risponderemo allora?

In rete sta maturando un grande dibattito a proposito. Le risposte che sono state date sono tante. C’è chi propone Marghera come terminal (ma le Grandi Navi continuerebbero a passare per la laguna, attraverso il canale dei Petroli, ed inoltre c’è il problema delle petroliere in transito), chi preferisce un porto off shore al di là delle dighe del Mose (roba da farsi togliere il saluto dagli amici ambientalisti del Cavallino). C’è chi sostiene che le Grandi Navi debbono traslocare a Trieste (ma questo comporterebbe sul serio un problema occupazionale per tanti lavoratori del porto ed inoltre nessuno ha chiesto l’opinione dei triestini) oppure chi pensa che la costruzione delle Grandi Navi, figlie di un concetto “sviluppista” dell’economia, non dovrebbe neppure essere autorizzata (ma neanche la guerra in Siria o lo Stato di Israele, se è per questo). Poi ci sono quelli che affermano che non spetta a noi trovare le soluzioni. Tutto ci va bene, purché le Grandi navi se ne stiano al largo dalla laguna (ma quante battaglie abbiamo perso per essere saliti solo sulle barricate del No a tutti i costi?)
Ed intanto che l’arcipelago, variegato e qualche volta anche astioso, degli ambientalisti discute a che santo votarsi, quelli del partito delle Grandi Opere non se ne stanno con le mani in mano. Pianificano in stanza chiuse e in uffici paralleli a quelli istituzionali. Poi brigano per velocizzare le pratiche, per bypassare i (pochi) vincoli di tutela ambientale che abbiamo. Loro non si fanno tutte le nostre paturnie. Non ragionano come noi e se ne fregano delle conseguenze a lungo termine. Hanno uno scopo solo: scavare subito, cementare, “mettere in moto l’economia”, devastare, fare reddito veloce col collaudato sistema che le spese ce le mette lo Stato e i guadagni se li pigliano loro.

Che fare, quindi? La proposta che lancio è di usare Eco Magazine come una piattaforma di confronto per schiarirci le idee. Ho pensato ad una griglia di domande da porre ad esperti, politici, intellettuali, ambientalisti... a quanti abbiano qualcosa di intelligente da dire in merito al problema. Un modo come un altro per ragionarci su e contribuire ad un dibattito serio.
Cominceremo a breve a pubblicare le prime interviste. C’è spazio per tutti (è il bello del web giornalismo!) e anche per i commenti che abiliteremo in calce all’articolo.
Perché, se non ci schiariamo le idee tra di noi adesso e ci diamo una bella svegliata, a Primavera ci sveglieranno loro. E non sarà un risveglio piacevole.

Pendolari vs Regione. Quando prendere il treno diventa una battaglia

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Una litania di disservizi, un rosario di inefficienze, una via crucis di inettitudini. I pendolari di tutto il Veneto si sono dati appuntamento ieri mattina a San Leonardo per benedire Trenitalia. E mettiamo subito in chiaro che lo spazio qui non basta per elencare tutte le denunce dei convenuti. Denunce che spaziavano da treni soppressi in orari di lavoro, linee mal servite o non servite del tutto, biglietterie inesistenti, vagoni che fanno entrare non solo il gelo ma anche la neve (chi scrive ha dovuto viaggiare qualche tempo fa dentro una carrozza con l’ombrello aperto), orari impossibili, motrici che si fermano se piove appena un po’ più del dovuto, treni stipati in una maniera tale da sfidare il principio dell’impenetrabilità dei corpi solidi...
Inutile entrare nel dettaglio di queste faccende che l’assessore regionale alla Mobilità, Renato Chisso, ha definito la “rivoluzione dei trasporti del Veneto”, perché chiunque abbia tentato la sorte di prendere un treno sa di cosa stiamo parlando.



Vediamo piuttosto di buttarla sul positivo. Perché di positivo c’è che i tanti comitati di pendolari sparpagliati in tutta la Regione si sono finalmente trovati insieme per mettere a punto una piattaforma di richieste comune. “Cerchiamo di uscire dalla logica del proprio giardino - ha spiegato in apertura Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto - per capire che il problema non sta nel ottenere un treno in più sulla propria linea ma di ripensare in termini di servizio tutta la mobilità pubblica”. L’associazione del cigno verde si è fatta promotrice di questa iniziativa che potremmo scherzosamente chiamare “Pendolari di tutto il Veneto, unitevi”. Andrea Ragona, responsabile per il trasporto pubblico, spiega come l’incontro di questa mattina sia nato dopo un anno di lavoro con i tanti comitati regionali stufi di venire singolarmente “presi in giro dalla Regione Veneto”.
Il problema, spiega il portavoce di Legambiente, si è creato con l’istituzione dell’orario cadenzato che Chisso, come abbiamo scritto in apertura, ha definito la “rivoluzione del trasporto regionale”. Ricordiamo che per “orario cadenzato” si intende un orario in cui (come avviene per i vaporetti e i bus) le partenze avvengono sempre a minuti fissi di ogni ora. Il problema sta nel fatto che mentre di vaporetti ce n’è uno ogni dieci minuti, di treni uno ogni due ore se butta bene. In poche parole, con la scusa della “rivoluzione”, sono state fatte scomparire linee intere di treni per pendolari.
“Non si può fare la rivoluzione dei trasporti senza investire soldi - ha commentato Ragona -. La Regione Veneto cui spetta la gestione del nostro sistema di trasporto è quella che ci investe meno: lo 0,3 per cento del proprio bilancio contro l‘1,2 della Lombardia o il 2 per cento della provincia autonoma di Bolzano. Chiaro che senza investimenti il settore è penalizzato e a pagarne le spese sono gli utenti più frequenti: i pendolari”. Col risultato, come ha spiegato al microfono un incazzatissimo pendolare, che “per andare a lavorare siamo costretti a prendere l’auto”.
In conclusione dell’incontro, è stata predisposta una piattaforma comune in cui si chiede alla nostra “rivoluzionaria” Giunta regionale di facilitare l’intermodalità, aumentare il numeri di treni pendolari e, soprattutto, di investire più risorse sui trasporti pubblici, magari dirottandoci qualcuno di quei miliardi che così generosamente spende e spande per le autostrade e le Grandi Opere.
Per ultimo, segnaliamo la pagina di Facebook dedicata ai disastri di Trenitalia, “Pendolaria Veneto”. Per gente che ama il genere horror.

L’accordo “truffa” di San Basilio. Caccia: “Un inaudito ed inaccettabile regalo al Porto”

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Sulla questione delle “grandi navi” si va avanti come i gamberi: un passo avanti a Roma, un passo indietro a Venezia. Proprio nel giorno in cui il fronte ambientalista accoglie con sollievo l’approvazione a larga maggioranza in Senato della mozione presentata da Felice Casson che impegna il Governo a confrontare in tempi certi e con pari dignità tutte le ipotesi alternative al transito dei mostri del mare in Laguna, compresa la loro definitiva estromissione, smentendo clamorosamente il ministro Lupi che voleva il via libera allo scavo del canale Contorta con la scorciatoia della Legge Obiettivo, arriva la doccia fredda dell’accordo di programma per la connessione del tram a San Basilio tra il Comune e l’Autorità Portuale.
Che la rete tramviaria dovesse avere come capolinea l’area attualmente occupata dalle attività portuali, è cosa risaputa. Nel gennaio 2013 il Consiglio comunale aveva approvato in questa prospettiva una bozza di accordo che contemplava, come la città chiede da vent’anni e come da dieci anni prevede la pianificazione urbanistica del Comune di Venezia, che la zona di San Basilio fosse gradualmente restituita dal Porto, sdemanializzata e integrata nel tessuto urbano del popoloso quartiere di Santa Marta, sviluppando le attività universitarie e completando la passeggiata delle Zattere.



Il testo dell’accordo, trattato direttamente dall’assessore Ugo Bergamo (UDC) con l’Autorità Portuale e reso pubblico oggi, si rivela invece, per dirlo con le parole del consigliere della lista In Comune Beppe Caccia, come “un inaudito regalo al Porto. In pratica, si consente all’Autorità Portuale di confermare tutta l’area di San Basilio come terminal marittimo, di ampliare le strutture già esistenti, per far spazio alle grandi navi anche lungo il canale della Giudecca. Con un regalino da 8 milioni di euro.”
Caccia ha incontrato la stampa a Ca’ Farsetti assieme ai colleghi Camilla Seibezzi (lista In Comune) e Sebastiano Bonzio (Rifondazione). Tre consiglieri, come ha notato Bonzio, che sono “sufficienti a far mancare la maggioranza necessaria a far passare in Consiglio comunale un tale accordo.” Un accordo che farebbe ritornare indietro Venezia di una decina di anni, quando cominciarono le trattative per cercare di restituire alla città l’area portuale di San Basilio e la riva che corre lungo il canale della Scomenzera.
In quest’ottica, con la delibera del 14 gennaio 2013, il Consiglio comunale prevedeva, tra le altre cose, anche la costruzione di un parcheggio multipiano su uno dei moli della Marittima, con almeno il 30% dei posti auto destinato ai veneziani, nella prospettiva di definire l’uso dell’area sulla base dell’art. 35bis del PAT (Piano di assetto del territorio) che definisce l’obiettivo dell’estromissione dalla Laguna delle navi di dimensioni “incompatibili”.
All’assessore alla Mobilità Bergamo era stato dato l’incarico di trattare con l’Autorità Portuale e stabilire il testo definitivo dell’accordo di programma. Il problema sta tutto qua. L’accordo che Bergamo ha firmato a nome del Comune, hanno spiegato Bonzio, Seibezzi e Caccia carte alla mano, dice tutt’altro! Il parcheggio sarà a raso e riservato, in pratica, a forze dell’ordine, dipendenti del porto e turisti. Le stesse destinazioni d’uso degli edifici, già magazzini, che ospitano le aule didattiche delle università Ca’ Foscari Iuav vengono riclassificate come “attività portuali”. E il Porto vuole mantenere il controllo di tutte le banchine per far posto alle grandi navi, quanto queste non trovano spazio sufficiente per ormeggiare nel solo bacino della Marittima. Viene inoltre cancellato il contributo che il Porto dovrebbe versare al Comune per le opere accessorie, ma l’accordo impegna anzi proprio l’Amministrazione comunale a pagare 8 milioni di euro di canoni per il transito del tram in area portuale.
“Approvare questo accordo - conclude Beppe Caccia – significherebbe una resa alla lobby delle crociere: altro che tram, questo è un cavallo di Troia per lasciare per sempre le grandi navi tra Marittima e San Basilio. Il sindaco e gli altri consiglieri di maggioranza abbiano ben chiaro che, quando arriverà in aula per l’approvazione, noi non lo faremo passare. A qualsiasi costo.”

Condannato attivista. Aveva pulito una discarica in un parco naturale “patrimoniio dell’umanità”

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Cinque giorni di galera per aver ripulito un parco da una discarica abusiva! Avete presente il principio “Chi inquina, paga”? Beh, ad un attivista del comitato in difesa della valle del Mis è accaduto il contrario. Due mesi dopo l’iniziativa che ha visto un centinaio di attivisti entrare e ripulire l’ex cantere della ditta Eva Valsabbia, ridotto oramai ad una vera e propria discarica aperta sotto il bel cielo delle Dolomiti, è arrivato un decreto penale di condanna disposto dal Giudice per le Indagini Preliminari Vincenzo Sgubbi che prevede l’arresto per una durata di cinque giorni corrispondente alla pena pecuniaria di 1.360 euro. Una vicenda che ha dell’incredibile. La stessa Corte di Cassazione ha definito quel cantiere illegittimo in quanto, sorge su terreni che si sono dimostrati legati ad uso civico e che la ditta ha acquistato senza i relativi permessi edilizi. Terreni, quindi, inalienabili ma che sono stati ugualmente per costruire una centrale idroelettrica, opera tra l’altro vietata all’interno di un Parco Nazionale. Un parco che, tra le altre cose, è stato anche dichiarto dall’Unesco “Patrimonio mondiale dell’Umanità”.


Eppure, nonnostante la sentenza della cassazione che dà ragione agli ambientalisti, l’area non è ancora stata bonificata: la spazzatura rimane abbandonato lungo le aree del cantiere in balia degli agenti atmosferici col rischio che il materiale possa disperdersi nell’ambiente.
L’iniziativa degli attivisti aveva proprio lo scopo di sollecitare le autorità ad accelerare la procedura di ripristino dei luoghi. Teniano anche presente che esiste il rischio che dalla commissione ambiente del Senato arrivi qualche Legge in deroga” (escamotage per la quale il nostro Paese è tristemete famoso in tutta Europa) che modifichi la legge quadro sulle Aree Protette, mercificandole e consentendo, se non addiruttura incentivando, la realizzazione di centrali idroelettriche. E ci va bene che il nucleare lo abbiamo respinto con un referendum altrimenti…
Fatto sta l’operazione di bonifica non è piaciuta alla magistratura che, notizia recente, ha provveduto ad incriminare un attivista.
Immediata la solidarietà del comitato Bene Comune di Belluno che ha ribadito la corresponsabilità collettiva. Come dire: se ne incrimitate uno, dovete incriminarci tutti.
“Paradossalmente, - leggiamo in una nota diffusa dal comitato - i primi a pagare rispetto a questa vicenda non sono coloro che hanno contribuito, con violenza, a deturpare irrimediabilmente una parte di quella valle unica al mondo, ma coloro che hanno e stanno lottando per difenderla. Ma continueremo questa battaglia contro gli speculatori dell’acqua e tutte le sue forme di privatizzazione con sempre maggiore determinazione, consapevoli delle nostre ragioni e forti di un ampio consenso che accompagna il nostro percorso”.
L’Europa intanto non sta a guardare. La Commissione Europea, a seguito del ricorso degli ambientalisti che hanno denunciato l’iper-sfruttamento idroelettrico delle valli bellunesi, ha ufficialmente richiesto chiarimenti alle autorità italiane sui loro iter procedurali quantomeno “originali”.

Porto Tolle, vittoria degli ambientalisti. I periti del tribunale chiedono all’Enel 3,6 miliardi di euro di risarcimento

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Abbiamo vinto. Non ci capita spesso di vincere, diciamocelo pure, ma stavolta abbiamo proprio vinto. L’Enel, sulla sua centrale a carbone “pulito” nel cuore del parco del Delta, ci può anche mettere una pietra sopra. E, oltre alla pietra, dovrà anche mettere una mano in tasca per tirare fuori il portafoglio, se il tribunale confermerà la perizia dei tecnici del’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che hanno quantificato in 3 miliardi e 600 milioni i risarcimenti per danni ambientali e sanitari causati da questo suo impianto di Porto Tolle.
La perizia è stata richiesta dal Tribunale di Rovigo che ha messo a processo il colosso energetico con l’accusa di disastro ambientale. L’enorme importo risarcitorio che non ha precedenti in Italia e che, per la prima volta si attiene al principio “chi inquina, paga”, è stato calcolato quantificando in 2,6 miliardi per la mortalità in eccesso e nel rimanente miliardo i danni ecologico per mancata ambientalizzazione. Le emissioni di anidride solforosa rilasciate dalla centrale di Porto Tolle, che da sola copriva un decimo di tutte le emissioni italiane, sono state ritenute una causa scatenate di danni all’apparato respiratorio e di malattie anche mortali dei residenti nelle vicinanze, in particolare dei bambini. Per quanto riguarda la mancata ambientalizzazione, l’Enel è accusata di non aver mai provveduto a modernizzare i vetusti impianti di combustione a olio per ricondurre le emissioni entro i limiti stabiliti dalle normative anti inquinamento, sforando le prescrizioni contente nel decreto ministeriale del 12 luglio del ’90 grazie a deroghe e scappatoie.



La sentenza di questo processo che è stato chiamato dalla stampa “Enel bis” è prevista per il prossimo marzo. Secondo il legale di tante associazioni ambientaliste che si sono costituite parte civile, Matteo Ceruti, il caso potrebbe creare un importante precedente per tanti altri procedimenti ambientali pendenti nel territorio italiano che riguardano riconversioni e ambientalizzazione mai avvenuti, così come per il risarcimento delle vittime dei disastri ecologici.
“Chi inquina, paga” insomma, non sarà più solo una utopia.
E la sconfitta per l’Enel non arriva solo dal tribunale. Il Ministero ha confermato che le osservazioni depositate dagli ambientalisti in merito alla incompatibilità del progetto di conversione a carbone con le norme comunitarie che tutelano il Delta del Po, sono state ritenute valide. Sui siti della rete Natura 2000 come è appunto il Delta del Po non ci sono alternative all'ipotesi di “minor impatto” ambientale per quanto viene là realizzato. E “minor impatto”, nel caso di una centrale, significa solo metano. Non certo, l’ossimoro preferito dei dirigenti Enel: “carbone pulito”!
“Se l’Enel vorrà riaprire a carbone la centrale di Porto Tolle - ha dichiarato Eddi Boschetti, presidente provinciale del Wwf di Rovigo - dovrà ripartire da zero, presentando un progetto completamente diverso da quello che prevedeva l’uso del carbone”. Come dire che per i prossimi vent’anni possiamo stare tranquilli: la centrale di Porto Tolle non inquinerà più né il parco del Delta, né la nostra salute. “A conti fatti, potremmo anche ringraziare l’Enel - continua l’ambientalista - che non ascoltò mai i nostri moniti. Se ci avesse dato retta avremmo da anni a che fare con una centrale a turbogas che di impatti ne avrebbe comportati comunque più di una centrale spenta definitivamente”.
Un grazie sincero invece a quanti - associazioni, movimenti e cittadini - si sono mobilitati, rischiando anche denunce e ritorsioni, per difendere il Delta. Non fosse stato per loro, ora avremmo nel bel mezzo di un parco naturale, un mostruoso impianto che brucia carbone.
“Resta sullo sfondo - conclude Boschetti - la triste constatazione che senza la lotta serrata di associazioni e comitati a livello tecnico e legale, le norme vigenti non avrebbero avuto nessun altro difensore. Comune, Provincia, Regione, persino vari ministri di colore politico diverso in tutti questi anni non si sono mai avventurati oltre la dichiarazione populista, guardandosi bene dall'entrare nel merito delle elementari violazioni di legge che erano evidenti fin dall'inizio”.
Come diceva Che Guevara, quello che non facciamo da noi, nessuno lo farà per noi.
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