Waorani, il popolo resistente

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Comunità Waorani Tobeta, Orellana, Ecuador - Dayuma era una bambina di cinque o sei anni quando quattro pastori evangelici l’hanno rapita e portata a New York. I primi mesi, Dayuma piangeva tutti i giorni e tutte le notti.
Guardava quell’assurdo orizzonte di cemento e grattacieli sognando l’apparire di suo padre alla testa di tutti i cacciatori waorani con lance e machete, venuti per riportarla nella sua capanna sul grande rio Napo. Col lento trascorrere del tempo, la piccola Dayuma, cominciò ad accettare le premure di quegli strani uomini bianchi che l’avevano rubata alla sua foresta. Un poco alla volta, cominciò ad apprendere il loro linguaggio mentre i pastori annotavano diligentemente tutte le parole della lingua waorani che lei pronunciava e gliene chiedevano il significato. Dayuma raccontava loro la storia di Waengongi, il dio scimmia creatore della foresta e di tutto l’esistente ma che non doveva essere né temuto né adorato.
Narrava dell’ayahuasca e di come questa magica bevanda, con l’aiuto dello sciamano, ti permette di riappacificarti con il tuo Wenae, che sempre è dentro di te anche se qualche volta tace. Raccontava della morte e di come questa non deve essere temuta perché lo spirito che abbiamo nel cervello ascende al cielo e quello che abbiamo nel cuore diventa un giaguaro. Gli uomini bianchi ascoltavano attentamente quello che Dayuma diceva, prendendo appunti e scuotendo le teste. E intanto le parlavano del Cristo crocifisso dalla cattiveria degli uomini e del peccato originale che deve essere mondato dal bettesimo. La insegnavano che il vero dio era uno e uno solo, e non aveva la testa di giaguaro né l’astuzia della scimmia. E lui, Dayuma, era la prescelta da questo dio onnipotente ed infallibile per portare a termine una grande missione: convertire alla vera e unica fede il popolo waorani.
Quando Dayuma ebbe una quindicina di anni, i pastori evangelici le dissero che doveva essere felice perché era arrivato il gran giorno del suo ritorno al popolo waorani e che loro l’avrebbero accompagnata per aiutarla a convertire al cristianesimo l’ultima nazione indigena che ancora rifiutava ogni contatto con la civiltà. Così Dayma fece.
Adesso la sua tribù non esiste più. Con il vangelo arrivarono morte, malattie e una civiltà che non ammetteva confronti e relativismi. Arrivarono le ruspe, le strade, i coloni, i madederos (commercianti di legname pregiato) e poi anche le multinazionali del petrolio che adoravano uno strano dio chiamato ‘sviluppo economico’ che doveva portare ricchezza e benessere per tutti. Gli ultimi discendenti della tribù di Dayuma oggi ciondolano alcolizzati per le baraccopoli di Quito o di El Coca e non sanno più nulla di come, dopo la morte, lo spirito si reincarni nel giaguaro.
Questo accadeva negli anni ’40. Oggi Dayuma è una vivace novantenne che tira avanti bevendo litri di mate alla coca e si intrattiene volentieri con tutti coloro che le chiedono di narrare la sua storia. Solo, chiede di non essere fotografata per un qualcosa che ha a che fare con l’anima. Tira dalla cannuccia e racconta di quella giovane ragazza waorani ritornata alla sua tribù dopo oltre quindi anni di assenza per accorgersi che oramai non poteva più vivere né nella foresta né nelle città degli uomini bianchi. Racconta di uomini bianchi che credeva amici, che le avevano fatto da famiglia solo per usarla ed ingannarla. Racconta di un ritorno tanto sognato e di come con lei arrivarono le sciagure che sterminarono la sua gente.
Ma la storia di Dayuma non finisce qui. Col denaro che le avevano dato gli uomini bianchi, lei ha contribuito a fondare una comuna che oggi porta il suo nome e dove convivono fraternamente indigeni kichwa e campesinos ecuadoriani. E oggi questa comuna, spiega con orgoglio nonna Dayuma,è la più resistente di tutta l’Amazzonia ecuadoriana.
Grazie alla disponibilità del portavoce di Ya Basta! in Ecuador, Eugenio Pappalardo, abbiamo raggiunto la comuna Dayuma, che si trova a un paio d’ore di pick up da Puerto Francisco de Orellana (El Coca, per gli ecuadoriani), capoluogo di una provincia che nuota in un mare di petrolio. Le multinazionali, tra le quali, non dimentichiamo c’è l’italiana Agip, qui fanno il bello e il cattivo tempo. I loro sgherri piantano posti di blocco, chiedono documenti, si informano su chi sei e su dove vai. Non vogliono giornalisti o osservatori internazionali tra i piedi. Non è bello che si venga a sapere in giro per il mondo di quella specie di stupro sistematico cui i petroleros sottopongono quotidianamente il “polmone verde dell’umanità”! Così, ad ogni domanda, Eugenio ed io mentiamo regolarmente e spudoratamente. E pure senza sensi di colpa. La carretera scorre accompagnata da chilometri e chilometri di tubi. Tubi di tutte le misure e di tutte le dimensioni. Con un solo denominatore comune: sono fatiscenti e senza valvole di sicurezza. I petroleros puntano sulla quantità perché la qualità del crudo non è delle migliori e l’Amazzonia non ha rivali su questo fronte. Anche se una perdita inquina un’area grande come il lago di Garda, il profitto complessivo non ne risente. ”Ne risente il colono o l’indigeno che vede morire il bestiame e ammalare i figli e non può farci niente – mi racconta Diocles Zambiano, leader della rete per i diritti umani Angel Shingre -. Lamentarsi o sporgere denuncia è cosa poco intelligente. Arrivano gli sgherri dei petroleros e la polizia a menarti con l’accusa di aver sabotato i tubi”. Angel Shingre è il nome di un campesino che, per l’appunto, si è lamentato una volta di troppo.
Diocles è stato uno promotori del grande “paro” del 2007 che vide l’intera comunità di Dayuma –campesinos e indigeni insieme – bloccare per oltre una settimana la strada che collega El Coca con i pozzi. Gli sgherri stavolta non bastarono a riportare l’ordine. E neppure la polizia. Ci vollero mezzi blindati e 3 mila uomini dei reparti speciali ecuadoriani, espressamente inviati dal compagno presidente Rafael Correa (ma sì! quello che parla tanto di socialismo!). Prima di capitolare la comuna si difese utilizzando lo stesso tritolo con cui i petroleros effettuano la cosiddetta introspezione sismica, esplosioni a varie profondità per verificare la portata del giacimento, e riuscirono a far saltare in aria un paio di autoblindo.
Una targa, posta lo scorso anno all’entrata del municipio di Dayuma, commemora il grande “paro” e la durissima repressione che ne seguì.
“E’ vero, il compagno Correa ha nazionalizzato qualche impresa petrolifera ma le imprese statali si comportano come le multinazionali straniere se non peggio - mi spiega Diocles-. Ha mandato via gli americani dalla base di Manta ma ha chiamato i cinesi… Fa l’amicone con Chavez che è un altro bel tipo che massacra l’ambiente e calpesta i diritti dei popoli indigeni. La verità è che il comunismo è una mierda proprio come il capitalismo perché sotto sotto l’idea di economia insostenibile che perseguono è la stessa”.
Grazie alla junta paroquial (come dire, il consiglio comunale) di Dayuma, riusciamo a raggiungere, ad un solo giorno di viaggio, la comunità waorani Tobeta per parlare col loro “capo di guerra”
Marco (il suo nome spagnolo. Quello waorani proprio non l’ho capito…)
E’ un momento delicato. Due giorni prima (il 12 agosto), alcuni waorani presumibilmente “non contattati” hanno massacrato una intera famiglia di coloni. L’aggressione è avvenuta a pochi chilometri di distanza da Dayuma. Madre, padre, un figlio e una figlia tutti uccisi a colpi di lancia. Gli aggressori sono poi fuggiti nella foresta con il terzo bambino, un bebè di pochi mesi, lasciando otto lance di guerra piantate nel petto della madre.
Marco arriva in tarda serata e ci riceve dopo che abbiamo compiuto tutti i rituali di ospiti: bere la cicia, consegna dei regali (due bottiglioni di coca cola taroccata), presentazione agli anziani e alla sciamana. E’ preoccupato e soddisfatto al tempo stesso. Preoccupato perché teme che il massacro pregiudichi i mai idilliaci rapporti tra coloni e waorani. Soddisfatto perché poche ore, e grazie all’aiuto del suo cane, fa è riuscito a ritrovare il bambino ancora vivo abbandonato in una pozza d’acqua. “Abbiamo battuto la foresta gridando nella nostra lingua che anche noi siamo waorani, che vogliamo solo il bambino rapito e che non vogliamo fare del male a nessuno. Hanno lasciato il bimbo ma non ci hanno risposto. E se non vogliono farsi trovare non c’è niente da fare – racconta Marco – Certo, non posso giustificare il massacro di innocenti che hanno compiuto. Ma dobbiamo tener conto che sono terrorizzati. Vedono morire la foresta attorno a loro, non capiscono quel che succede e non sanno distinguere tra giusti e innocenti, tra petroleros e campesinos. Ma noi waorani Tobeta abbiamo gli occhi per vedere i nostri figli giocare sui tubi di crudo e ammalarsi. E abbiamo ancora la saggezza di ricordare l’epoca non lontana in cui mio padre guidava i nostri cacciatori contro i bianchi. Voi siete ospiti e amici, e potete fermarvi quanto volete, ma in cambio dovete dire al mondo che i waorani non lasceranno morire la foresta che è la loro vita. Siamo un popolo guerriero e siamo pronti a riprendere in mano le lance per cercare quanto meno una morte dignitosa”
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