Terremoti e processi nel Kurdistan turco

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Diyarbakir, Turchia orientale - Che aria tiri in Turchia lo si capisce già all’aeroporto Ataturk di Istanbul.
A farne le spese è l’avvocato romano Augusto Salerni, uno dei legali di Giuristi Democratici, che si era aggregato alla spedizione in terra curda promossa dall’associazione Verso Il Kurdistan. Al controllo del passaporto l’avvocato Salerni viene immediatamente riconosciuto come uno dei legali che al tribunale europeo dei diritti umani aveva perorato la causa del “terrorista” Ocalan. Già “terrorista”. Nella democratica Turchia del premier Erdogan, è obbligatorio tanto per i giornalisti quanto per gli stessi avvocati difensori di Abdullah Ocalan, anteporre sempre al suo nome l’attributo “terrorista”. A chiamarlo solo “signore” si finisce dritti in galera, come è capitato due mesi ad un redattore di un quotidiano d’opposizione. All’ombra di Santa Sofia, a fare il giornalista o l’avvocato si rischia di più che a rapinar banche.
L’avvocato Augusto Salerni ha la buona sorte di tenere in tasca un passaporto italiano e se la cava con una notte di fermo. “Quando abbiamo visto che lo hanno fermato ai controlli - spiega Antonio Olivieri, portavoce di Verso il Kurdistan - abbiamo immediatamente informato il console italiano che ci ha detto di stare tranquilli che ci pensava lui. Un’ora dopo mi ritelefona e mi dice, tutto contento, che è riuscito a sistemare la questione: domani rimandano il nostro avvocato in Italia! Non è esattamente quello che volevamo noi. Proibire l’accesso in in Paese ad un avvocato che non ha commesso alcun reato e che, per di più si recava a monitorare un processo assai discusso come quello avviato contro i sindaci curdi, è un atto proibito dalle normative internazionali e che, per di più, lede i diritti fondamentali dell’uomo”. Il problema sta tutto qua: nei diritti fondamentali dell’uomo che in Turchia, quando va bene, sono riconosciuti solo ai turchi. “A differenza dell’Europa e di altri Stati con ordinamento democratico, - mi ha spiegato Mehmet Emin, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir e uno degli ultimi difensori rimasti ai sindaci imputati. Intendo, uno degli ultimi rimasti ancora a piede libero - la giurisprudenza turca non è finalizzato a garantire principi di giustizia sociale ma a difendere la cosiddetta ‘turchità’ dello Stato. Chi non si allinea, sia esso un sindaco, un deputato, un giornalista o un povero contadino che per semplice ignoranza non sa parlare la lingua turca, viene inesorabilmente perseguitato. Gli avvocati non sono da meno. Solo osare difendere un politico curdo viene letto come un attentato alla turchità. L’arresto di 56 avvocati difensori per un singolo processo, mi riferisco a quello di Diyarbakir, credo sia un record imbattuto in tutti i Paesi del mondo. Vi ricordo che questo è anche il Paese in cui i pubblici dipendenti non possono scioperare perché il loro rapporto con lo Stato deve essere improntato solo su basi etiche”. Mehmet Emin è stato il protagonista di una divertente contestazione in un processo contro i curdi: davanti al pubblico ministero che accusava un imputato di adoperare la lettera W, che esiste nell’alfabeto curdo ma non in quello turco, e di inquinare così la purezza della lingua patria, Emin chiese cortesemente al presidente della Corte, a proposito dell’inquinante lettera W, quale fosse l’indirizzo web del sito del tribunale! Lo scherzo gli costò qualche mese di galera.
Sette anni di carcere invece se li è sorbiti il sindaco Abdullah Demirbas della municipalità Sur di Diyarbakir (l’amministrazione di una città turca è spartita tra varie municipalità. A Diyarbakir, ad esempio, ce ne sono 16) colpevole di aver pubblicato una brochure sui servizi offerti ai cittadini in quattro lingue: turco, armeno, curdo ed inglese. “Due giorni dopo la stampa, venne la polizia ad arrestarmi. E con me portarono dentro tutti gli assessori, anche quei due che non avevano votato la delibera con la quale finanziavamo l’opuscolo. Poi sciolsero d’ufficio il consiglio comunale”. Demirbas si fece i suoi anni di galera e poi si ripresentò alle elezioni ancora col Bdp, il partito Democratico del popolo che, in pratica, è l’ala politica del Pkk. Riconquistò la poltrona di primo cittadino ottenendo una fiducia ancora più ampia col 76% dei votanti. “Governare è dura per gli amministratori curdi perché lo Stato utilizza tutti i sistemi per non passarci una lira e poter dire poi alla gente: vedete a votare il Bdp! Non vi danno nessun servizio. Ed invece i nostri sindaci riescono ad amministrare bene lo stesso con pochissime risorse a disposizione. Come facciamo? Eliminiamo del tutto la corruzione che, nelle amministrazioni del partito di Erdogan assorbono l’80% delle risorse”. Sul groppone Demirbas ha ancora una ventina di processi in corso per un totale di 232 anni di galera. “Sono costi che chi fa politica in Turchia deve mettere in conto preventivo” ti dice con un sorriso.

A un giorno di camionetta da Diyarbakir, raggiungiamo la zona terremotata di Van, la città dei gatti sordi con gli occhi di due diversi colori. Una città che non esiste più. Le due scosse del 23 ottobre e 9 novembre hanno raso al suolo una trentina di villaggi sulle sponde del grande lago e l’intero centro storico di Van. Due terzi della popolazione, tutti coloro che potevano permettersi di andare via, hanno fatto le valigie e abbandonato la regione. Gli altri, quasi 30 mila persone, vivono sotto i tendoni e fanno la fila alle mensa comuni per cercare qualcosa da mangiare. Qualche giorno fa, alla lunga lista dei morti si sono aggiunti due bambine, bruciate vive in una tenda non ignifuga. Tira vento gelido e butta a neve dalla catena del monte Ararat che sovrasta Van. I curdi sono costretti ad accendere fuochi dentro le tende se vogliono cercare di sopravvivere al freddo.
Abbiamo incontrato il sindaco Bekir Kaya in un piccolo prefabbricato montato all’interno di quello che una volta doveva essere il parco cittadino e che ora è una stracciata tendopoli. Anche lui è reduce dalla galera. Dodici anni filati per sospetto terrorismo e subito dopo eletto sindaco con una percentuale che una volta avremmo definito “bulgara”. Nel piccolo studio c’è una stufetta a legna ma è fredda. Sulla sua scrivania un piccolo computer che, spiega, ogni tanto ha pure collegamento in rete. Inutile chiedergli la mail. Il Governo turco gliela ha vietata per “motivi di sicurezza”. Chiedergli come va è una domanda inutile. Gli domandiamo allora se gli aiuti internazionali sono arrivati fin quaggiù. Kaya tira gli occhi. “Noi curdi non possiamo ricevere aiuti perché per lo Stato turco non esistiamo. I finanziamenti arrivati dall’estero per aiutare i terremotati li gestisce il premier Erdogan in persona. Come sono stati usati? Non lo so. Mica posso rivolgermi al prefetto per chiedere informazioni! Sarebbe il modo più spiccio per tornare in carcere. Noi andiamo avanti con quello che ci dà la nostra gente e con quello che ci portano le associazioni che, sfidando il Governo, arrivano sino a qua. Proprio come hanno fatto gli amici di Verso il Kurdistan. Solo grazie a loro sopravviviamo”. Per la strada abbiamo visto due palazzi nuovi in fase di rifinitura. Il cartello diceva che erano realizzati dal Governo turco. “Ah, lei si riferisce a quei due bei palazzoni azzurri davanti al lago? Sono di una ditta privata cui Erdogan ha concesso in esclusiva l’appalto per la ricostruzione. Li hanno ultimati da poco e quei bastardi li hanno subito messi in vendita! Ma li hanno costruiti solo per i finanziamenti statali, eh? Mica sperano davvero di venderli o affittarli! San bene che nessuno di noi che è rimasto può permettersi una spesa simile! Ed infatti, neanche fanno la fatica di cercare un affittuario. Sono e resteranno vuoti”. Un bell’esempio di quello che Naomi Klein ha definito la Shock Economy, quel porcilaio economico che si mette in moto dopo un disastro che, alla fine dei conti, non è mai del tutto naturale.

Anche se il quadro della Turchia che ci siamo fatti sarebbe già sufficiente a rispondere alla fatidica domanda “sotto il profilo imprescindibile del rispetto dei diritti dell’uomo, la Turchia ha le carte in regola per entrare in Europa?”, torniamo ancora a Diyarbakir per seguire una seduta del processo contro i sindaci del Bdp. Per il Governo turco, è il processo al Kck, una sigla con la quale il pubblico ministero ha genericamente chiamato il cosiddetto terrorismo curdo. Qualche dato prima di tutto. Gli imputati in completo isolamento da 32 mesi, celle separate e passeggiata per il cortile ad orari diversi, sono in tutto 151. Tra questi troviamo 12 sindaci, 2 presidenti di provincia e 2 vice sindaci. Ci sono anche due imputati già giudicati estranei ai fatti, arrestati per mero scambio di persona. Alla richiesta della difesa di liberare almeno loro, il tribunale ha risposto: “No, perché si sono difesi in curdo”. Da sottolineare che la giurisprudenza turca riconosce in fase processuale il diritto alla traduzione a tutti ma non ai curdi arrestati per sospetto terrorismo. Come dire che se stupri o ammazzi hai più diritti che se stampi una brochure bilingue.
Dei 56 avvocati difensori dei sindaci curdi finiti in carcere con l’incontestabile accusa di essere avvocati difensori dei sindaci curdi abbiamo già accennato, ecco allora altri dati: il processo Kck è alla 28esima udienza. Il 95% delle accuse agli imputati si basa su mail anonime e su intercettazioni. Un imputato è dentro solo per essere uscito ed entrato più volte dal portone dell’ufficio di un avvocato, ora in carcere, di Ocalan. Il disgraziato abitava sotto lo studio del legale e, come pesante aggravante, era pure curdo.
Bisogna sottolineare che i 151 imputati di Diyarbakir sono solo la classica punta dell’iceberg. Di processi avviati dal tribunale speciale contro i curdi ce ne sono perlomeno un’altra trentina. Questo di Diyarbakir è il più importante perché si svolge proprio nel cuore del Kurdistan turco. Dall’aprile del 2009, data in cui il Pkk ha proclamato una tregua, sono oltre 5 mila i politici curdi arrestati e in attesa di processo. Il dato è dell’ordine degli avvocati di Istanbul. Più precisi nel numero non possiamo essere perché il Governo turco non ama che queste “faccende interne” siano risapute. Gli arresti inoltre, si susseguono tutti i giorni. Praticamente tutto il vertice politico del Bdp è in carcere. Difficile fare politica democratica in queste condizioni. “Lo scopo del processo - ci spiega il sindaco Abdullah Demirbas - è proprio questo: impedire ai curdi di seguire la via democratica e spingerci alla lotta armata per poter dire all’Europa ‘ecco vedete? i curdi sono solo terroristi. Non intendono altre ragioni che l’uso delle armi’. Ed infatti, come possiamo noi spiegare ai giovani che non devono cedere alla violenza? Più di duemila ragazzi negli ultimi due anni sono saliti sulle montagne. E con loro c’è anche mio figlio. E’ quello che il Governo turco vuole da noi. Non è un caso se un guerrigliero catturato col mitra in mano rischia al massimo 6 anni e 8 mesi di carcere mentre nessun imputato del Bdp ha accuse inferiori ai 35 anni. Il Governo ha paura della democrazia, non di una battaglia militare. Ci arrestano perché nel '99 noi curdi abbiamo conquistato 37 municipi, nel 2004 ne abbiamo presi 54 e nel 2009 addirittura 99 municipi. I nostri deputati nel '91 erano 16, nel 2007 22 ed ora, dopo le ultime elezioni, nel 2011, ben 36, anche se, per la maggior parte, carcerati. Questo fa paura ad Erdogan. Ma se ci mettono in galera solo perché siamo curdi, come possiamo continuare a percorrere la strada delle riforme democratiche?”

Un Governo, quello turco, con la galera facile e... silenziosa. Fatti interni dove gli europei non devono ficcare il naso. Il tribunale di Diyarbakir, il giorno della 28esima udienza, martedì 6 dicembre 2011, pare una cittadella fortificata. “Questioni di sicurezza” ci ripetono in continuazione mentre ci proibiscono qualsiasi cosa. Gli stranieri non possono assistere ai processi. Per fortuna, arrivano due neo eletti deputati baschi e una battagliera deputata svedese di discendenza curda del Left Party con operatori tv al seguito che piantano un casino della madonna. Due ore di discussione accesa e in conclusione la polizia consente l’entrata a deputati, avvocati e giornalisti ma solo fino all’esaurimento dei posti riservati al pubblico. Con la tessera dell’abbonamento all’Actv (quella dell’ordine l’ho dimenticata a casa) riesco a passare pure io. Sono uno degli ultimi. Poi la porta si chiude per tutti anche se i posti destinati al pubblico risulteranno riempiti solo a metà. Questioni di sicurezza. Tre o quattro perquisizioni dopo sono in aula. Requisite telecamere, macchine fotografiche, registratori e cellulari. Mi esaminano con sospetto persino il blocco per gli appunti. Gli imputati sono già al loro posto circondati da tre poliziotti ciascuno. Sono solo sei. Agli altri 145 non è concesso difendersi neppure al loro processo. Questioni di sicurezza. Uno di loro prende la parola per rispondere ad una domanda della Corte. Subito il microfono gli viene spento. Ha parlato in curdo. Il presidente del tribunale si incazza e ammicca al pubblico ministero seduto al suo fianco che gli fa cenno che va bene così. Qui le cose funzionano in questo modo. Al pubblico ministero viene anche consentito di entrare in camera di concilio assieme alla giuria. Lo scopo di tutto il baraccone è quello di difendere la turchità dello Stato. La giustizia non c’entra nulla. Prendono la parola gli avvocati difensori, mentre il palco destinato alla stampa turca è completamente vuoto. Dopo le ultime retate di giornalisti che si sono beccati accuse per pene ultra centenarie, a nessuno viene più in mente di fare l’eroe. Chi vuole vivere a lungo sta in redazione e passa la velina. Ma la presenza dei Giuristi Democratici e dei deputati europei ottiene comunque qualcosa. Alla prossima udienza, assicura il giudice, tutti gli imputati potranno assistere in aula al loro processo. Poi tutto viene rinviato al prossimo mese. La detenzione in attesa di giudizio in Turchia può prolungarsi sino a dieci anni. Dieci anni che poi non vengono neppure scontati dalla pena definitiva. Tanto vale prendersela comoda tanto gli imputati non possono andare da nessuna parte. “Una piccola vittoria - commenta Mehmet Emin nella sua veste di avvocato difensore -. Adesso attendiamo la prevedibile reazione della magistratura che colpirà anche noi avvocati. Oramai lo sappiamo bene: quando il procuratore ci convoca, salutiamo i nostri familiari perché non li vedremo più per tanto tempo”.

E questa è la democrazia con la quale il Governo turco chiede di entrare in Europa?
“Il fatto è che al Governo turco non importa più nulla dell’Europa” mi spiega l’avvocato Mahmut Taşçi che col collega Mazlum Dinç, sono gli ultimi due avvocati rimasti al “terrorista” Ocalan. Sino a due giorni fa ve n’era un terzo ma l’hanno ingabbiato giusto ieri e spedito a raggiungere gli altri 36 precedenti. Fare l’avvocato di Ocalan non è un mestiere per tutti. “Oramai il Governo sa bene che la distanza dagli standard europei in tema di diritti è troppo grande per continuare a fare carte false. Inoltre, entrare in Europa in questi tempi di crisi non è più vantaggioso come qualche anno fa. Per questo Erdogan, anche su sollecitazione degli Stati Uniti, si sta politicamente avvicinando ai governi del Medio Oriente. La sua ambizione è quella di rappresentare una terza via per i popoli mussulmani, tra la dittatura militare e il regime islamico. Erdogan aspira a rappresentare la via democratica. Ma se è democrazia questa... l’unica differenza con il regime militare precedente è che prima ammazzavano i curdi per le strade ora li incarcerano e li lasciano morire dietro le sbarre. La stessa differenza tra una morte immediata e una lenta agonia”.
Lei è uno degli ultimi avvocati di Ocalan attualmente detenuto nell’isola prigione di Imrali. Ha qualche notizia del suo assistito? “Da luglio nessuno sa più nulla di Abdullah Ocalan. Gli ho spedito una lettera ma dubito che gli sia stata recapitata. E’ in isolamento completo dal febbraio del 1999, data del suo arresto. Non può ricevere o spedire lettere o mail, leggere i giornali, collegarsi ad internet. Non può neppure scrivere, leggere libri o parlare con qualcuno. All’inizio gli erano concesse due ore di aria al giorno, ora non so. Come vuole che stia Abdullah Ocalan? I miei colleghi avvocati che sono andati a visitarlo sono stati subito dopo incarcerati con l’accusa di far da tramite tra il ‘terrorista’ Ocalan e il Pkk. E comunque, come le ho spiegato, da luglio nessuno sa neppure se è vivo o se è morto. Neanche i suoi familiari. Alle nostre regolari richieste di incontrarlo, ci rispondono con scuse del tipo che il traghetto non funziona o che c’è mare grosso. O più semplicemente tirano in ballo le solite questioni di sicurezza. Ma Ocalan non è un terrorista. Lui voleva solo gettare un ponte tra il popolo curdo e quello turco. E per il Governo, proprio questo è stato il suo crimine”.
Prima di fare ritorno in Italia, la delegazione italiana torna a salutare il sindaco Abdullah Demirbas. Un gruppo di valsusini gli regala una bandiera No Tav in segno di fratellanza tra due popoli che combattono per difendere la loro terra e le loro tradizioni. “Tempo fa abbiamo cercato di far venire Abdullah in val di Susa per un dibattito - mi racconta uno di loro -. Aveva il biglietto e tutti i documenti in regola ma all’aeroporto Ataturk lo hanno fermato per accertamenti sino a che non ha perso il volo. Non c’è niente da fare. La Turchia non vuole che i sindaci curdi raccontino al mondo come si vive e si lotta in Kurdistan”.
Nonostante tutto questo, i curdi continuano a lottare con coraggio e determinazione. Il perché ce lo spiega chiaro proprio Demirbas. “Noi non vogliamo uno Stato curdo. Non vogliamo l’ennesimo Stato nazionalista fondato su principi di razza e di religione che magari dopo finisce per opprime altre sfortunate etnie minoritarie. Noi combattiamo per un modo diverso di vivere. Oggi la Turchia ha una precisa ideologia ufficiale: tutta la Turchia è turca, la lingua della Turchia è solo il turco, la cultura della Turchia è solo quella turca. Altro non può esistere. Noi invece pensiamo che la Turchia sia multiculturale, multilingue e multireligiosa. Noi non siamo turchi ma siamo comunque cittadini turchi e vogliamo una Turchia più democratica, una costituzione più libera, il diritto all'educazione nella propria lingua, l'abolizione del reato di opinione, la libertà di culto, la possibilità di vivere liberamente le differenze. Vogliamo il rispetto dei diritti umani e una partecipazione più diretta del popolo attraverso i consiglio di villaggio per superare il corrotto centralismo dello Stato attuale. Per questo i curdi si battono. Qualche volta con la lotta politica, altre volte con la lotta armata. Ma noi imbracciamo le armi solo quando la lotta politica ci è preclusa. Non amiamo la violenza ma con la violenza rispondiamo alla violenza dello Stato”.
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