Or non vuole uccidere

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Venezia - Ha soltanto 19 anni, Or Ben-David. Un musetto da ragazzina impertinente col piercing al naso e l’mp3 pieno di orrida musica hip hop.
Chi la incontra, e conosce la sua storia, non può fare a meno di chiedersi dove abbia trovato, questo soldo di cacio qui, tutto il coraggio per fare quello che ha fatto. Perché Or è una “shmnistim”, termine ebraico che indica i diplomati alle scuole superiore rifiutano il servizio militare. “Mi hanno chiamata criminale, ebrea rinnegata, traditrice, ingrata e vigliacca perché altri stanno combattendo e morendo anche per la mia libertà. Ma io so che non è un crimine rifiutarsi di uccidere e dire no ad una società che costringe i ragazzi della mia età ad imbracciare le armi e sparare ai palestinesi”. Il suo “no” all’esercito israeliano le è costato caro: gravi minacce a lei e alla sua famiglia, pesanti conseguenze sul proseguo degli studi e sulla ricerca di un lavoro, quattro mesi di carcere militare. Eppure Or ha sempre tenuto duro. Alla fine, le autorità militari l’hanno congedata con un certificato di inidoneità per “gravi disturbi psichici”.

“E’ una prassi usuale. Quando vedono che non riescono a piegarti ti dichiarano pazzo. Poi ti fanno un discorso che potremmo riassumere così: va bene, hai vinto, ti lasciamo a casa, ma tu vedi di stare zitta e la pianti di denunciare quanto succede nell’esercito”.
Cosa che Or non ha mai neppure messo in preventivo di fare! Tanto è vero che appena uscita dalla galera ha accettato l’invito dell’associazione Payday per una giro di conferenze di denuncia in Europa. Or se ne è partita dalla sua Gerusalemme con un biglietto aereo pagato e una ventina di euro in tasca. Ma che non abbia paura di niente, questo oramai l’ha capito pure l’esercito sionista.
Dopo Londra e Bruxelles, Or è venuta in Italia. L’abbiamo incontrata a Venezia, martedì giugno 2010, in occasione di una iniziativa alla scoletta dei Calegheri, ospite dell’assessorato alla pace del Comune di Venezia. Nei prossimi giorni l’attendava un fitto calendario di incontri: dallo Sherwood festival di Padova al Presidio permanente contro la base Dal Molin di Vicenza.
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Or, perché non hai voluto fare il servizio militare?
Perché combattere per la pace è come scopare per la verginità. In Israele anche i bambini che non sanno ancora leggere e scrivere sono bombardati da una propaganda a favore della guerra. I palestinesi sono quelli che ti odiano e che ti vorrebbero cacciare dalla tua casa, ci dicono. Anche la storia viene falsata. La guerra terrorista che ha portato alla nascita dello Stato di Israele e che ha cacciato i palestinesi è spacciata come la gloriosa guerra di indipendenza. Nella scuole soprattutto, siamo di fronte ad un lavaggio del cervello vero e proprio. Pensate che ogni classe ha come insegnante di sostegno una soldatessa che fa continua propaganda per l’esercito, unico baluardo democratico contro il terrorismo arabo. Ogni classe, inoltre, all’ultimo anno di scuola, trascorre una settimana dentro una caserma che viene proposta come una specie di premio di fine corso. Tutto viene presentato come un gran divertimento. E in effetti, quella settimana è solo una goliardata. Niente di più che una gita scolastica dove i ragazzi, lontani da casa e senza obblighi di studio, si sentono autorizzati a fare un po’ di pazzie. I militari ti incoraggiano a sfogarti e tutto viene fatto passare come una festa. Non ti spiegano però che poi la vera vita militare sarà tutta un’altra cosa!

Ci sei andata anche tu?
Scherzi? Io gli ho tirato la manca. Ma l’ho pagata tutta perché la settimana in caserma è obbligatoria. Mi hanno affibbiato una tesina sull’esercito israeliano e mi hanno tolto 10 punti da tutte le materie. Arte e matematica compresi. Mi sono diplomata per il rotto della cuffia. Ho voluto partecipare però al viaggio che le scuole israeliane annualmente organizzano per visitare i campi di sterminio nazisti. Io ho scelto Birkenau, in Polonia, perché ci era stato mio nonno. Quel che ho visto mi ha fatto star male e per tante notti ho avuto gli incubi. Ma anche in questa terribile occasione, dopo la conferenza sull’olocausto, arrivava puntuale l’incontro con le autorità dell’esercito che ti raccontano come sia indispensabile arruolarsi e difendere con le armi la nostra patria perché non succedano più queste orrori. Ma, mi chiedo io, si può giustificare lo sparare ai palestinesi con l’olocausto?

Come hai maturato questa presa di posizione pacifista?
Non è stato un percorso facile perché sin da bambini ci insegnano ad aver paura. Io avevo 12 anni quando è scoppiata la seconda intifada. Sentivo di autobus che saltavano in aria, di manifestanti palestinesi che tiravano pietre ai nostri soldati. Anche tra i miei parenti e i miei amici si sono stati feriti. Io non riuscivo a capire cosa poteva spingere un uomo ad abbandonare il lavoro e a farsi saltare in aria in un bar solo perché era frequentato da ebrei. Ricordo di aver chiesto alla mia maestra perché succedevano questa brutte cose e lei mi rispose che era sempre stato così: i palestinesi odiano gli ebrei e gli ebrei si devono difendere da questo odio. Quando avevo 16 anni ero orgogliosa di essere israeliana ed ero pronta ad arruolarmi per fare il mio dovere e dare il mio contributo alla mia patria e alla nostra libertà. Quando la mia migliore amica che proveniva da una famiglia pacifista, mi disse che lei non avrebbe risposto alla chiamata di leva ricordo che mi arrabbiai moltissimo con lei. La chiamai traditrice ed ingrata. Le dissi esattamente tutte quelle cose che ora dicono a me. Ma un po’ alla volta cominciare a pensare e a pormi delle domande: davvero tutto quello che mi stavano insegnando a scuola corrispondeva alla verità? O piuttosto non erano tutte bugie che mi erano state messe in testa per farmi fare quello che volevano che facessi? Ma la storia si può falsare solo fino ad un certo punto. Le prepotenze e le ingiustizie perpetrate dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi sono talmente tante e talmente evidenti che solo chi non vuole vederle non le vede.

Quindi sei diventata una shmnistim?
Già. Ho spedito una lettera al ministero spiegando loro che non avrei risposto a nessuna chiamata dell’esercito. È cominciata una guerra psicologica. Sono stata convocata dal preside ed agli insegnanti che hanno cercato di farmi cambiare idea. Poi è toccato alle autorità dell’esercito. Tutti a dirmi che facevo una gran stupidaggine e che l’avrei pagata cara e che con me l’avrebbe pagata cara anche la mia famiglia. Ma io ho tenuto duro. Così mi hanno condannato ad una settimana di carcere militare a titolo dimostrativo e poi mi hanno mandata a casa. Era un modo per dirmi: vedi com’è brutta alla galera. Basterebbe accettare fare come tutti gli altri per evitarla. Ma tutte queste esperienze e queste pressioni mi spingevano ancora di più a tenere duro perché in fondo mi dicevano solo che avevo ragione io. Così sono tornata in prigione. Dopo quattro mesi di carcere mi hanno chiamata per un colloquio e mi hanno domandato se avevo cambiato idea e se fossi disponibile a fare il servizio di leva. Ho risposto di no. A questo punto mi hanno congedata con il certificato di inidoneità per gravi disturbi psichici di cui ti dicevo.

Quanti sono gli shmnistim israeliani?
Chi può dirlo? Di certe cose in Israele non si può parlare. E l’esercito di sicuro non rilascia statistiche. Molti rifiutano la leva ma, al contrario di me, fanno di tutto per nasconderlo. Vuoi perché hanno paura di ritorsioni verso di loro o verso le loro famiglie, o vuoi perché a dirlo pubblicamente hai solo svantaggi. Ti ripeto che non è una scelta facile. Isreale è un paese in guerra e non è la stessa cosa che fare l’obiettore in altre parti del mondo.

Come ha vissuto questa scelta la tua famiglia?
Vengo da una famiglia composta per la maggior parte da ebrei mizrachi (sono gli ebrei appartenenti alle comunità provenienti dai paesi arabi.ndr). In qualche modo, i mizrachi si sentono in dovere di dimostrare di essere più ebrei degli ebrei, quasi che avessero qualcosa da farsi perdonare. Sono per la grande maggioranza di destra e i miei non fanno eccezione. Detto questo, sono la mia famiglia e voglio loro bene tanto quanto loro ne vogliono a me. Mi considerano, nella migliore delle ipotesi, una testa calda ma non hanno mai smesso di dimostrarmi il loro affetto anche se non condividono la mia scelta. Mia sorella più piccola, ad esempio, non vede l’ora di fare la soldatessa quasi per rimediare allo sgarro compiuto da me.

Come vivono i giovani questa situazione di guerra continua?
Con rassegnazione. E’ difficile anche cercare il dialogo con i palestinesi. Bisogna considerare anche la barriera della lingua. Gli ebrei vedono i palestinesi solo come un pericolo: sono quelli che ti lasciano la bomba sotto il sedile dell’autobus, quelli sempre pronti ad accoltellarti alle spalle. I palestinesi, d’altro canto, conosce noi ebrei solo come i coloni o come i soldati che gli tirano giù la casa col bulldozer. Prendete Gerusalemme. E’ una città mista ma palestinesi ed ebrei non si incontrano mai, non hanno né luogo né occasioni di incontro.

Neppure nelle scuole?
Ma chi è l’ebreo che manderebbe suo figlio in una scuola dove ci sono anche i palestinesi? E magari a studiare l’arabo? L’incomprensione ha radici profondissime e l’esercito, che in Israele è una vera e propria vacca sacra, ha gioco facile nell’imporre proprio a partire dalle scuole una mentalità di guerra perenne e far fiorire stereotipi e incomprensioni. Anche tra i giovani, l’idea più diffusa, sia da una parte che dall’altra, è che così è sempre stato e così sempre sarà. Palestinesi contro ebrei, ebrei contro palestinesi. Anche all’estero, non si esce da questo luogo comune. Fateci caso, anche da voi, in Italia, si parla di Israele e Palestina come di una partita di calcio, da tifare per una parte o per l’altra. Ma non è così semplice.

Cosa significa fare il servizio militare in Israele?
Fare la guerra e portare altre ingiustizie a gente come i palestinesi che già ne hanno subite troppe. Ma non sono solo loro le vittime dell’esercito. Quello che in Israele non si può dire e che l’esercito non vuole che si sappia è il trattamento cui sono sottoposti i soldati di leva. Le violenze fisiche e psichiche sono quotidiane. In particolare sulle donne. Il reparto fureria, ad esempio, che è sempre femminile, viene chiamato il “reparto materasso”. E non c’è nulla da ridere perché son tutti stupri. Pensa che se ogni donna militare ha diritto ad un aborto gratuito (in Israele l’aborto è libero ma si paga.ndr), una che presta servizio in fureria ne ha due. E la medie per le ragazze in servizio di leva è proprio questa: due aborti in due anni di servizio militare.

Non usano sistemi anticoncezionali?
Ma che bel ragionamento da maschietto! Devi sapere, caro mio, che nessuna ragazza, sia ebrea o araba o di dove vuoi tu, prende la pillola perché mette in preventivo di essere violentata. Lo fa se vuole avere rapporti col suo ragazzo ma ti assicuro che in quello schifo di guerra e in quello schifo di vita, l’amore è l’ultima cosa che ti viene in mente! Il problema vero è che sotto le armi, lo stupro di un superiore o di un commilitone non è neppure considerato un reato. “Son cose che succedono – ti dicono – Ci son passate tutte e ci passerai pure tu”.

Scusa tanto. E i ragazzi di leva?
Capita che vengano stuprati pure loro, pur se con altre conseguenze che per le donne. Il trattamento alla fine dei conti non è molto diverso. Scarafaggi. Sono trattati come scarafaggi. E considera che nella logica dell’esercito deve necessariamente essere così, altrimenti non riuscirebbero a fargli fare tutto quello che fanno ai palestinesi. Più lo incarognisci e più il soldato ti torna buono per la guerra.

Ancora una domanda. Nel tuo giro per l’Europa hai incontrato molte associazioni che propongono il boicottaggio dei prodotti israeliani. Che ne pensi di questa politica?
Che da sola non serve a niente. Anzi, rischia di essere controproducente. Mi spiego meglio. Non sono contraria al boicottaggio se questo serve a smuovere l’opinione pubblica all’estero, ma devi considerare che in Israele viene visto solo come un atteggiamento antisemita che spinge gli ebrei a rinchiudersi ancor di più in se stessi. Ti faccio un esempio. Durante l’ultima intifada, la cantante pop Shakira ha annullato il suo tour in Israele per protestare contro le violenze dell’esercito israeliano nei territori occupati. Ma cosa è passato nei mass media ebraici? Solo la prima parte del discorso: “Shakira ha annullato il suo tour in Israele”. Di conseguenza, Shakira ce l’ha con noi ebrei. Shakira è antisemita. Via tutti i dischi di Shakira dalle nostre rivendite. E’ questo, mi domando, il risultato che si voleva ottenere? Meglio hanno fatto altre rock star che hanno tenuto ugualmente i loro concerti ma prima hanno parlato agli spettatori spiegano loro che non era giusto che i soldati israeliani facessero quello che stavano facendo. Per molti giovani, è stata la prima occasione di sentire una campana diversa da quella che gli suona la scuola o l’esercito. Per il boicottaggio la penso alla stessa maniera. Da solo, se non è supportato da iniziative di contro informazioni capaci di fare breccia nella società, non serve a niente se non a rafforzare il nostro atteggiamento di popolo in continua guerra contro tutti.

Pay Day e il movimento dei “refusing”

“Refusing to Kill is not a Crime”. Rifiutarsi di uccidere non è un crimine. Al contrario, è una scelta etica e coraggiosa perché, come ha scritto Or Ben-David nella lettera che ha inviato alle autorità dell’esercito israeliano per motivare la sua decisione di obiettare al servizio militare, “Rifiutare significa dire no: no alla guerra, no a una società che costringe i giovani a portare armi, a uccidere e a essere uccisi”. Una scelta etica e coraggiosa, dicevamo, perché chi rifiuta di imbracciare il fucile, viene immancabilmente incarcerato, perseguitato e diffamato. Per questo è importante che i refusing non siano lasciati soli e che associazioni, enti, partiti, movimenti e cittadini che si riconoscono nei valori della pace e del disarmo, si schierino a loro sostegno con iniziative che facciano conoscere la loro storia e la loro situazione. Anche una semplice cartolina, può essere determinante. “In tutti quei mesi che ho trascorso in carcere, sottoposto a torture fisiche e psicologiche - ha scritto un refusing curdo che si è rifiutato di prestare servizio militare nell’esercito turco – quello che mi ha dato la forza di tenere duro sono state le lettere di incoraggiamento che mi arrivavano da tutte le parti del mondo. Tante erano scritte in linguaggi incomprensibili ma tutte mi dicevano che al di là di mura c’era della gente che era d’accordo con me e che non mi considerava un traditore e un vigliacco ma un uomo libero che aveva scelto la pace alla guerra”. Sostenere i refusing e le loro scelte, è lo scopo è dell’associazione internazionale Payday (che significa “Giorno di paga”) che sostiene le lotte di tutti i refusing del mondo, dagli shministim israeliani ai militari inglesi e americani che si rifiutano di uccidere in Afghanistan, alla Turchia, alle Filippine, sino all’Honduras e alla Colombia.
Nel sito dell’associazione, www.refusingtokill.net potete leggere le storie di tantissimi “signornò”. Storie che raccontano di come sia stata sofferta ma irrinunciabile la decisione di rifiutarsi di eseguire gli ordini dei loro superiori e di quanto gliela abbiano fatta pagare cara. Storie che nessun esercito vorrebbe mai far ascoltare.
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