I gorilla del Congo

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Provincia di Kivu, Repubblica Democratica del Congo - Le prime due ore di marcia non sono neppure impossibili. Il sentiero sale dolcemente lungo un declivio verde brillante costellato da radi arbusti.
Sullo sfondo, l’imponente presenza del vulcano Karisimbi si innalza con i suoi 4500 metri nell’azzurro terso del cielo. Dietro il massiccio, le alte montagne congolesi si addolciranno sino ad aprirsi nelle lunghe valli coltivate a tè e a caffè del Rwanda, il Paese delle Mille Colline. Ma questo possiamo solo immaginarcelo. La linea dell’orizzonte è impenetrabile per la fitta foschia generata dalla calda umidità della foresta pluviale. Non c’era da aspettarsi altro, dalle montagne delle Nebbie. Come se non bastasse, siamo nel bel mezzo della stagione delle piogge. Per tutta la notte, sono cascati dal cielo veri torrenti d’acqua. Il sole equatoriale che ora ci scalda non è riuscito, in queste poche ore, a mitigare la furia degli acquazzoni. Il folto manto d’erba cede improvvisamente al nostro passaggio e, ogni dieci passi, finiamo con una gamba nell’acqua sino al ginocchio. Ma questi sono inconvenienti da mettere in conto, per chi vuole vedere i gorilla dalla schiena argentata.
I grandi primati descritti da Dian Fossey messi in pericolo di estinzione per la follia dell’uomo: deforestazione, cambiamenti climatici e bracconaggio. Siamo arrivati sino a qua dopo aver fatto tappa a Kisoro, capoluogo dell’omonimo distretto dell’Uganda. Una anonima cittadina che sorge sotto le pendici del vulcano Mufumbiro. L’unico interesse di Kisoro è la prossimità della frontiera con il Congo e la riserva naturale di Virunga. La guerra civile che continua ad insanguinare le provincie orientali dell’ex Zaire, oggi repubblica democratica del Congo, per il controllo dei ricchi giacimenti di coltan, rende sconsigliabile arrivare al Virunga da Kinshasa. Molto meno rischioso giungerci dall’Uganda e attraversare la frontiera che corre tra i laghi Edward e Kivu. Dalla stessa Kisoro, non è difficile contattare i ranger congolesi del Virunga Park e trovare una guida disposta ad accompagnarti nella foresta. Il Congo è un paese in guerra, anche se non sono le armi ma la malnutrizione e la mancanza di cure sanitarie a causare la maggior parte dei 38 mila decessi al mese dal 2006 ad oggi stimati dalle associazioni per i diritti umani. Le regioni ad est del Paese sono comunque attraversata da milizie paramilitari legati alle mafie del coltan che non fanno prigionieri. Come se non bastasse sono all’opera anche numerose bande di bracconieri che cacciano i rinoceronti per i corni, gli elefanti per le zanne e, trofei ancora più pregiati, i gorilla. Dalle loro mani, tagliate ed imbalsamate, si ricavano preziosi portacenere da smerciare di contrabbando nei mercati orientali e statunitensi. “Da dieci anni a questa parte – ha raccontato il ranger che mi ha fatto da guida – i bracconieri hanno ucciso oltre 140 miei commilitoni. In media viene ucciso un ranger al mese. Per questo viaggiamo armati. Incontrarli nella foresta significa difendersi o morire. E per questo dobbiamo sorvegliare giorno e notte gli ultimi gruppi di gorilla rimasti nel nostro parco”. All’appuntamento con i ranger, arriviamo dopo un’ora e mezza di terrificanti ed incessanti sobbalzi su uno sterrato dove le grosse buche sono più una regola che un’eccezione, percorso appesi alle sbarre di uno scassato furgone dell’esercito congolese. Il mezzo militare si ferma in mezzo ad un mare di campi coltivati a cacao, cotone, e canna da zucchero. Da qui in avanti si può procedere solo a piedi. Ed è un sollievo, dopo quella sorta di pista da motocross. Come abbiano detto in apertura, il cammino all’inizio non appare difficile. I grandi campi coltivati lasciano presto spazio ad una umida piana erbosa costellata di acquitrini i e pozzanghere che non sempre è possibile evitare. Ci vogliono due ore buone per arrivare al muro della foresta. Sì, un muro. La giungla comincia improvvisamente, alle pendici delle montagne dellaLuna. Il confine è netto tra due mondi distinti: uno aperto e soleggiato, l’altro chiuso e buio. Il manto erboso si spegne davanti ad una muraglia verde e fitta, appena nascosta da una umida nebbiolina che si ostina a resistere sotto il cocente sole d’Africa. Non ci sono sentieri, nella foresta. Si entra a colpi di machete e ti basta mettere la testa dentro per rimpiangere il cielo che hai lasciato fuori. Si procede lentamente, scavalcando tronchi putrescenti e chinando la testa sotto improvvisate gallerie di foglie, liane, rami. Se piove, là sotto, non te ne accorgi nemmeno. Ad ogni passo i piedi pesano sempre di più e devi strapparli alle piante che li trattengono e ti fanno inciampare. Le caviglie sprofondano nei tanti strati di vegetali che marciscono per terra. Pare di camminare su altalene e materassi molli. Ti viene da pensare che se anche ti cade la batteria della reflex, ce la lasci là, perché trovarla sarebbe una impresa impossibile, sprofondato come sei sino alle caviglie in quello stagno di verde putrescente. L’umidità ti avvolge dappertutto. Manca il fiato e i pungenti odori della foresta ti prendono allo stomaco. L’espressione “inferno verde” si colora di significato. E poi ci sono gli innumerevoli insetti, enormi millepiedi, ragni, zanzare, zecche, cavalletti, scarafaggi, vermi, termiti… una enciclopedia naturale dove nessuna voce manca. Le formiche in particolare sono terribili. Salgono dall’apertura dei pantaloni e i loro morsi ti lasciano il segno per due giorni. Prima di inoltrarci nella foresta, avevamo chiuso colletti, polsini e bottoni delle camicie. Avevamo infilato i pantaloni dentro le calze, rinforzando il tutto con generosi giri di nastro adesivo per pacchi. Tutte precauzioni necessarie ma che non ci hanno comunque risparmiato da contatti indesiderati. Per fortuna, ci spiega il ranger, il gruppo di gorilla che stiamo cercando, non dovrebbe essersi addentrato molto nella foresta. Solo un paio di giorni prima, li hanno visti scendere a valle per rubare la frutta ai contadini. Col nostro passo, entro un’ora al massimo dovremmo trovarli. Sono in tutto 18 esemplari tra cui alcuni neonati. Il capo branco è un grosso gorilla dalla schiena argentata che, ci assicura, “abbastanza raramente attacca i visitatori”. Nel caso, basta chinarsi in posizione fetale ed evitare di guardarlo negli occhi in modo da fargli capire che non intendiamo sfidarlo o mettere in dubbio la sua supremazia. In tutto il parco di Virunga sono rimasti solo 4 gruppi di gorilla. Gli altri sono stati tutti sterminati dai bracconieri. Questo gruppo si chiama “mapu”, che significa “nasoni”, e sono i diretti discendenti dei gorilla descritti da Dian Fossey nel suo celebre libro “Gorilla nella nebbia”. La prima traccia della loro presenza la troviamo, come ci aveva garantito l’amico ranger, proprio dopo un’ora circa di cammino nella foresta. E’ una piazzola di erba ben calpestata che i grossi primati hanno usato per dormire la note precedente. Tra i mille odori della giungla spicca una sfumatura dolciastra e selvatica. Ci siamo. Dieci minuti dopo, il rumore di un tronco che si schianta ci fa capire che i “nasoni” sono vicini. Il primo esemplare che incrociamo è una femmina che allatta un piccolo. Spaparanzata in mezzo al verde non si cura di noi e continua a divorare interi rami di foglie. Riusciamo ad avvicinarci sino ad un paio di metri. E’ tranquilla e pare occuparsi solo al suo pasto. L’incontro ci ha talmente emozionato che non ci siamo neppure accorti di essere finiti in mezzo al branco. I mapu dalla schiena argentata sono tutti intorno a noi. Salgono sugli alberi sino a piegarli con il loro peso. Poi saltano a terra liberando il tronco che ondeggia come una frusta. Si rotolano per terra pigri e non smettono un istante di mangiare grandi foglie. Solo i cuccioli trascurano il pranzo per interessarsi ai visitatori e ci regalano uno spettacolo improvvisato saltando con agilità, nonostante la mole, di ramo in ramo, attorno a noi. Sono incuriositi e, proprio come farebbe un cucciolo d’uomo, si dannano l’anima per farsi notare da questi strani esseri spelacchiati arrivati da chissà dove: si spintonano, si saltano sulle spalle, fingono di cadere, urlano e sberciano nella nostra direzione come per invitarci ad unirci ai loro giochi. Tacciono solo quando un secco rumore di rami schiantati sovrasta tutti gli stridii della foresta. Il capo branco ha deciso di scendere dal suo albero e di mettere fine alla cagnara. Con la sua enorme stazza si fa largo tra il verde nella mia direzione. A quattro metri dal mio obiettivo si siede tra le piante come su un trono, scrutandomi con uno sguardo indecifrabile. Quindi comincia a… petare come neanche in una caserma. E’ lui, il maschio dominante, e me lo vuole far capire in tutti i modi. I giovani e le femmine si sono allontanati tutti. Improvvisamente, l’imponente gorilla decide di darmi un’ulteriore dimostrazione della sua potenza. Si alza sulle zampe posteriori in tutta la sua enormità e si batte il petto a mani aperte, lanciando minacciose grida di sfida. Una scena vista in tanti film di Tarzan, ma dal vivo, ve lo assicuro, fa tutta un’altra impressione! In un batter d’occhio, mi chino a terra, prono. Non ho nessuna voglia di mettermi a discutere di democrazia con quella montagna di carne. Il capo branco pare soddisfatto del mio gesto e si lascia cadere nel suo trono verde senza più degnarmi di uno sguardo. Queste strane scimmie senza pelo talmente imbranate da non riuscire neppure muoversi nella foresta, deve aver giudicato, non possono certo mettere in pericolo la mia supremazia. Ritornando a valle, tra inevitabili ruzzoloni e dolorosi scorticamenti, non posso fare a meno di pensare a quanto quei giganteschi gorilla, tanto forti quanto vulnerabili, siano simili a noi, animali umani.
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