22. Guerriglia nella jungla, ma sotto un tetto di paglia amore mio

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una canzone sulla fine del mondo, una canzone sull'esistenza di Dio, una canzone sul perduto amore, una canzone su quanto sia tutto vanità]

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1982: Clamori (#52)

Il mondo è piccolo, il mondo è grande, e avrei bisogno di tonnellate di idrogeno. Quante volte di fronte a un verso ci siamo detti: puro Battiato. E quante volte ci sbagliavamo, ad esempio in questo caso l'autore è Henri Thomasson maestro gurdjeffiano di Battiato, sotto il bello pseudonimo di Tommaso Tramonti, più che appropriato dal momento che è di tramonto della civiltà che intende parlare. Nell'Arca di Noè è il paroliere di Clamori è l'Esodo, due 'puri Battiato'. Questo in parte potrebbe essere dovuto agli interventi condotti da FB sul testo originale (che nel caso delle Aquile rappresentano come abbiamo visto una completa riscrittura, per cui l'attribuzione a Fleur Jaeggy è più una dedica che uno scarico di responsabilità), in parte al fatto che lo 'stile Battiato' si presta molto bene a essere imitato (e parodizzato): ma in questo caso anche al fatto che Thomasson e Battiato parlano davvero la stessa lingua, che non è esattamente la nostra. Come l'Esodo, anche Clamori è un'apocalisse, ma il mood è molto diverso: niente più scene di massa, ma una languida devastazione capillare, che ci coinvolge tutti e parte dall'infinitamente piccolo. Siamo infestati di ragnatele, siamo infangati di cifre. I "computers" sono minuscoli, le mosche sono giganti e "sputano dati, dando il totale sui disoccupati". La fine sarà lunga e languida, come il marcire del frutto sull'albero. Clamori prosegue sul ritmo ipnotico e rallentato di Radio Varsavia, sfruttando molto astutamente la dinamica tra il ritmo in sottofondo e strumenti che compaiano e scompaiono all'improvviso, come lampi di luce o clamori, appunto, nel mondo moribondo. L'arca di Noè, che disco incredibile. 

1995: L'esistenza di Dio (testo di Manlio Sgalambro, #205) 

Ecco no guardate: un po' più sotto, qui vedrete esattamente com'è fatto Dio. Verso la fine, L'ombrello e la macchina da cucire comincia a mostrare una certa stanchezza: Battiato finisce le musiche e comincia a prenderle in prestito (qui dalla colonna sonora di Latcho Drom) ma non è completamente colpa sua. Lui aveva sempre inciso dischi compatti e molto brevi: mezz'ora e poco più. Questo non era ritenuto affatto un difetto, fino alla fine degli anni Ottanta, quando il supporto principale diventa il CD che i discografici decidono di apprezzare dell'80%. All'inizio sembrava una scelta dissennata, ma col senno del poi probabilmente sapevano che i supporti digitali avevano gli anni contati e stavano spremendo la vacca finché grassa. Ma Battiato in tutto questo? Battiato di tutto questo poteva anche non essersene accorto – nei primi '90 dà la sensazione di vivere sostanzialmente in un bel mondo di fatti suoi. Ha un suo prodotto, ha un pubblico che lo segue in qualsiasi svolta improvvisa, e continua a incidere dischi di mezz'ora. L'esigenza di rimpolpare un po' il contenuto per far sì che non sembri un furto all'acquirente si fa strada, se si fa strada, solo nel 1995 appunto con L'ombrello, che poi sarà l'ultimo disco in studio per la EMI. Nei dischi successivi Battiato comincerà a usare gli ultimi minuti dei CD per concedersi esperimenti e divagazioni che a volte diventano la cosa più interessante del prodotto. Nell'Ombrello invece prevale una sensazione di allungamento di brodo – prima Battiato declama su base tzigana una poesia di Sgalambro sulla vanità dei teologi che a rileggerla non è nemmeno così male, ma cantandola Battiato non riesce a segnalarne l'ironia. Restano ancora quattro minuti e FB sceglie di riempirli con un brano del Trattato dell'empietà di Sgalambro – salvo che per farlo risuonare più Filosofo li fa recitare a Helena Janeczek in tedesco, la lingua che più spesso nella produzione battiatesca segnala la Pretesa Culturale. No, sul serio, se uno non è fluente in tedesco perché dovrebbe fermarsi ad ascoltare una giaculatoria incomprensibile? La vera esperienza intellettuale è che in qualsiasi momento puoi decidere che tutto questo è insopportabilmente inutile, premere stop e mandare FB e Sgalambro a quel paese. 

2002: Perduto amore (De Lorenzo, Adamo, #77) 

A questo punto sono a un terzo del primo turno, di Fleurs ne ho già ascoltati una dozzina, me ne restano venti, che faccio? Mi gioco Proust? 

Mi gioco Proust. "Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all'istante di ascoltare, ha accolto in sé il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva l'ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l'ideale. Certi arpeggi, una certa "ripresa" han fatto risuonare nell'anima di più di un innamorato o di un sognatore le armonie del paradiso o la voce stessa dell'amata..." Sì, certo, e non c'è bisogno di sottolineare quanto dev'essere stata importante questa canzone nemmeno così insopportabile di Adamo per Battiato, che appena è riuscito a fare un film autobiografico l'ha chiamato proprio Perdutoamor. È triste perciò constatare come la sua Perduto amore sia uno dei fleurs meno riusciti – quello che più esibisce i limiti del procedimento. Dopo essersi salvato per un disco intero dall'effetto karaoke, all'inizio del secondo Battiato ci casca in pieno: cos'è andato storto? È un problema del materiale di partenza? In effetti Perduto amore era una ballata piuttosto convenzionale, già un po' datata quando uscì (era il 1963, ma come a tutti gli italiani all'estero, al belga Salvatore Adamo il mercato chiedeva di interpretare un determinato stereotipo). Colpisce il fatto che Battiato, che nel primo disco ha saputo spogliare qualsiasi canzone della retorica inutile (arrivando a de-barocchizzare le canzoni di De Andrè), qui si lasci tentare dall'opzione opposta e trasformi un banale arpeggio di chitarra in una partitura per archi, appoggiati su una ritmica contemporanea e piuttosto convenzionale – base di karaoke, appunto.    

2007: Io chi sono? (testo di Manlio Sgalambro, #180) 

E siamo qui, ancora vivi, di nuovo qui, da tempo immemorabile. Qui non si impara niente: sempre gli stessi errori, inevitabilmente gli stessi orrori. Parlando d'altro, a voi piace il Qohelet? L'Ecclesiaste, intendo? A me sì, lo considero un capolavoro della letteratura mondiale, e una cosa che mi piace particolarmente del Qohelet è che è breve: dieci paginette di Bibbia. Dal momento che tutto è vanità, perché sprecarne di più? Chiunque l'abbia scritto, ci ha condensato tutto quello che aveva imparato in una vita di esperienze. Battiato per contro aveva questo problema, che ogni due o tre anni un disco doveva pur farlo e quindi le sue meditazioni sulla vacuità del tutto oltre un certo limite possono risultarci ripetitive, proprio perché alla fine se siamo qui e non impariamo niente è fatale che dopo un po' ci parliamo addosso a vuoto (con o senza Sgalambro). Questa sensazione di ridondanza è probabilmente un errore di prospettiva: magari anche il Qohelet all'inizio era una valigia di dodici papiri (mi piace pensare che sia il sequel del Cantico dei Cantici, la ragazza nigra sed formosa nel frattempo ha allattato dodici figli, tre son morti bambini, altri sei in guerra, due non gli rivolgono la parola, tutto è vanità), magari tra mille anni di Franco Battiato non resisteranno che cinque o sei canzoni e se una fosse Io chi sono, non risulterebbe estremamente profonda? Spero che nel caso resista la versione del Vuoto, ancora un po' elettronica, e non quella più disadorna incisa per la raccolta Le nostre anime (2015).

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21. Com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro canzoni scritte da lui: un amore che mi prende piano piano per la mano, una cellula fra i motori, un'alba dentro l'imbrunire, un tempo in alto e pieno di allegria]

1968: È l'amore (#244) 

Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. 

1971: Una cellula (#116)

Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato.


1980: Prospettiva Nevski (#13) 

Prospettiva Nevskij non è sempre stata una delle più famose canzoni di Battiato: all'uscita su Patriots passò quasi inosservata, del resto a un primo ascolto poteva sembrare il pezzo più incongruo del disco, una ballata al pianoforte che al tempo poteva ricordare un Venditti o un Cocciante. Le cose cominciano a cambiare quando Alice la interpretò all'inizio di Gioielli rubati (1985), anche perché nel frattempo la percezione di Battiato stava cambiando: non più un provocatore in megafono ma (almeno a partire da Fisiognomica) un cantautore con un passato da rivendicare. Pochi anni dopo Tommaso Labranca ci regala in Cialtron Hescon quella pagina spietata in cui riconosce la grandezza di Battiato nel suo essere "al tempo stesso cialtrone e non-cialtrone", e come esempio di cialtronismo provinciale analizza con crudeltà proprio il testo di Prospettiva Nevski, definito "uno stornello popolaresco nascosto sotto uno strato di guano culturale". Labranca esagera, finge di non vedere la struttura frammentaria del testo creando una scenetta esilarante in cui tutto quello che Battiato racconta nella canzone succede nello stesso momento. Ma ha il merito di far notare che la Russia di Prospettiva è un mascheramento: "credevamo di essere in Russia e invece siamo nella piazza principale di Ramacca (CT, 9324 ab., 270 m slm)". Dà però per scontato che il mascheramento sia in cattiva fede, ovvero che Battiato voglia davvero spacciarci una Russia contraffatta: forse perché anche lui ormai è abituato ad ascoltarla estrapolata dal contesto di Patriots, un disco in cui i ricordi d'infanzia affiorano in ogni canzone e sono sempre ritagliati, decontestualizzati, mescolati ad altri luoghi comuni letterari o giornalistici. È un gioco che in Prospettiva si continua a giocare, ma forse su un livello più raffinato: siamo in provincia di Catania ma siamo anche in una steppa letteraria: Battiato racconta la sua infanzia ma la arreda con gli oggetti di scena dei romanzi russi che leggeva in quegli anni. Continua a ricordare quei benedetti "saggi ginnici", ma trasfigura l'oggetto del suo desiderio in Vaclav Fomič Nižinskij. Si meraviglia di esser cresciuto e di avere conosciuto compositori importanti come Stockhausen, ma lo trasfigura in Stravinskij. Oppure no, oppure sta raccontando davvero la vita di un personaggio ma non ci ha mai voluto dire chi (Pëtr Dem'janovič Uspenskij? Era russo e a San Pietroburgo fu allievo di Gurdjieff, Henri Thomasson, il maestro guedjieffiano di Battiato, tradusse la sua biografia in italiano). Sia come sia, Labranca non aveva tutti i torti: Battiato a volte è un mix inestricabile di Kitsch e non Kitsch, tale da farci dubitare che il Kitsch si possa del tutto escludere dai manufatti artistici. Prendi proprio Prospettiva Nevski: contiene uno dei più bei versi di Battiato ("com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire") e uno dei più agghiaccianti versi di Battiato ("un giorno sulla prospettiva Nevski per caso vi incontrai Igor Stravinskij": una rima ridicola, un errore di sintassi, un namedropping svergognato). È una canzone molto bella e ci si vergogna ad ascoltarla. Lo stesso Battiato aveva il sospetto di aver fatto una "cazzata": "Scrissi quella canzone tutta di seguito e poi la feci sentire a Giusto Pio: “Ma è bellissima”disse. Io ero scettico, cercavo di convincerlo: “Sicuro? A me sembra una cazzata”. Fui lui a spingermi a inciderla: fosse stato per me sarebbe finita nella spazzatura". 

1993: Sui giardini della preesistenza (#141) 

MALCOM PAGANI: Ha nostalgia di qualcosa?

FRANCO BATTIATO: La nostalgia non è un valore. Se la provassi non avrei scritto una canzone come “Sui giardini della preesistenza”.

Qualcosa non va. Che la nostalgia non sia un valore è un punto di vista coraggioso che mi propongo di fare mio. Ma che Battiato non ne provasse sembra difficile da sostenere. L'autore di Perdutoamor e Stranizza d'amuri e Sequenze e frequenze poteva davvero misconoscere l'importanza che aveva sempre avuto la nostalgia nei suoi procedimenti creativi? E perché invocare contro la nostalgia proprio "una canzone come Sui giardini della preesistenza", che evoca un sentimento di rimpianto per un'età dell'oro a monte della creazione? Chiaro, se sei convinto di essere un'anima immortale, in circolazione da prima dell'universo, il rimpianto per un passato di qualche anno fa deve sembrarti un'emozione piuttosto futile. Ma è quello che ha ispirato a Battiato le sua canzoni migliori e Nei giardini della preesistenza – mi dispiace – non è tra queste. La musica oscilla tra Lied e pop ma non riesce a evadere da una sensazione di già sentito. Forse ciò che rende Caffè de la Paix un disco meno interessante di altri è proprio il tentativo di arrivare a un sublime depurato di ogni nostalgia – ma appunto, se la togli cosa resta? Atlantide, Cartagine, il Terzo Occhio, l'Inviolato, tutta una mitologia personale che è ben più difficile da condividere. 

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Anche #MeToo ha i suoi parassiti (ed è un buon segno)

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Immaginiamo che un ambientalista sia giudicato, da qualche corte in giro per il mondo, colpevole di un atto di ecoterrorismo. A torto o a ragione. Qualcuno scriverebbe che è un trionfo per i nemici dell'ambiente? Secondo me no. Qualcuno magari segnalerebbe il rischio di strumentalizzazione giornalistica – rischiano di far passare tutti gli ambientalisti per ecoterroristi! – ecco, questo avrebbe un senso. Ma i problemi ambientali resterebbero lì, e chiunque li denuncia continuerebbe a farlo. Suppongo. Fin qui è poco più di un esperimento mentale. Ci riprovo con qualcosa che è successo più spesso e più vicino a me. Quando, durante uno dei momenti di massima conflittualità tra governo e sindacati, un commando delle Brigate Rosse uccise Marco Biagi, non fu la fine di nessun movimento dei lavoratori. Avrebbe potuto esserlo? Il rischio che una parte della stampa strumentalizzasse l'accaduto c'era. Ma in linea di massima sapevamo tutti distinguere tra terrorismo e lotta sindacale, tra un movimento pacifico e i violenti che lo parassitavano, e le cose non finirono così. 

Con #MeToo non dovrebbe andare diversamente. Certo, ogni movimento ha una storia a sé. Certo, dipende dalla consapevolezza e dalla saggezza di chi lo manda avanti – il che non rende semplice la vita dei movimenti collettivi e non organizzati. Può darsi che dipenda dal buon senso di chiunque abbia a cuore la questione, e quindi persino dal mio: così dalla mia posizione privilegiata ma in ultima fila alzo il dito per dire che chiunque in questi giorni sta difendendo Amber Heard per partito preso non sta rendendo un buon servizio a #MeeToo. Tutto il contrario. Certo, si può mettere in dubbio la decisione della giuria e insistere sui dettagli dissonanti – è un mondo libero, si può difendere qualsiasi causa anche quando sembra veramente molto persa. Ma sostenere che "la vittoria di Johnny Depp" sia un "trionfo della misoginia" è la classica profezia che si autoavvera, uno slogan che molti misogini sottoscriveranno. 

Negli ultimi anni abbiamo scoperto che per le donne denunciare gli abusi – in particolare quelli domestici – è molto difficile. Ma questo non ha mai significato che le donne non siano capaci di mentire (questa sì sarebbe una conclusione sessista) e che talune donne non lo facciano, per svariati motivi, alcuni dei quali non sono affatto diversi da quelli per cui mentono gli uomini: avidità, sete di vendetta, manie di protagonismo. Il processo ha stabilito che Amber Heard ha mentito per rendere più difficile la vita all'ex marito, e fin qui non c'è veramente nulla che non succeda tutti i giorni a ex coniugi di tutti i sessi. Più interessante è un corollario: Amber Heard ha anche cercato di sfruttare l'ondata di #MeToo: si è presentata come vittima di abusi nel momento in cui questo giovava alla sua carriera. Il movimento non è una vittima del processo: è una parte lesa. E anche in questo non c'è veramente nulla di strano: ogni buona causa attira parassiti, è sempre stato così. I parassiti sono persino un buon segno, significano che il corpo è sano, il momento in cui i topi ci terrorizzano davvero è quando li vediamo abbandonare la nave. 

Io al limite potrei capire un discorso del tipo: ora i misogini si nasconderanno dietro al caso Heard per mettere in dubbio la credibilità delle donne che denunciano i mariti. Da un punto di vista mediatico, la possibilità di una strumentalizzazione è fortissima e necessiterà di un'attenzione quotidiana, ovvero di energie che sarà meglio non sprecare nel tentativo di difendere Amber Heard. Ma da un punto di vista invece giuridico, davvero, come ve la immaginate la scena? Secondo voi una donna che è indecisa se denunciare o no un marito, tra le varie ragioni da soppesare, includerà anche solo per pochi secondi qualche considerazione su com'è andato a finire il caso Heard? Un magistrato, un giudice, una giuria che esamina un singolo caso di violenza domestica, tra le prove e le testimonianze vaglierà anche il precedente Heard? Da qui a sostenere che la giuria avrebbe dovuto lasciar andare la Heard per non danneggiare il movimento il passo è brevissimo. Mi sembra un esempio magnifico di quanto sia importante separare il giudiziario da ogni altro potere. Davanti a un giudice non c'è, non ci dovrebbe essere nessun movimento, ma un singolo caso in cui anche la persona più nobile, per il motivo più nobile, potrebbe avere commesso un reato, e quello deve essere appurato: quel singolo reato. Non so quanto questo sia compatibile col diritto consuetudinario anglosassone, ma insomma io la penso così, grazie per l'attenzione. 

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20. Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio

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[Questa è la Gara delle Canzoni di Battiato, oggi con una tecnica speciale per dissuadere i suicidi, un pezzo sulle campane senza campane, un pezzo di Mogol, un pezzo della Premiata Forneria Marconi (è sempre lo stesso pezzo), un Addio per Giuni Russo]. Si vota qui   

1978: Campane (per soprano, violini e pianoforte) (#221) 


Su Spotify Juke-box non è nemmeno tra gli album, è nascosto nella sezione "singoli ed EP" benché non sia né l'uno né l'altro. È un disco difficile da ascoltare: la cronologia ci incoraggia a considerarlo un canto d'addio alla fase più avanguardista – salvo che, appunto, forse è solo un "episodio", una colonna sonora come ne avrebbe scritte anche in seguito. Certo se si prende come punto di riferimento L'era del cinghiale bianco, risulta quasi inascoltabile. Mentre rispetto all'Egitto prima delle sabbie rappresenta una compromissione, un ritorno a forme musicali che nel 1977-78 sembravano abolite. E c'è questa tensione, avvertibile in ogni pezzo, tra musicalità e dissonanza. Qui per esempio c'è un brano che si intitola Campane, dove non suona nessuna campana ma chi pesta il pianoforte sembra volerle mimare, suonando con insistenza un intervallo fastidioso che non sembra mai esattamente a tempo. Qualche violino in sottofondo sembra decisamente più melodioso e a un certo punto entra una vera orchestra e suona un vero accordo, convenzionale, piacevole: è come se la musica richiamasse a sé Battiato, dai, vieni, smettila di farmi il broncio – ma Battiato è testardo e continua a maltrattare il pianoforte, il ritorno all'ordine è rimandato. Ormai manca poco, comunque.

1995: Breve invito a rinviare il suicidio (testo di Sgalambro, #164)

"Va bene, hai ragione se ti vuoi ammazzare. Vivere è un'offesa che desta indignazione". Di solito io mi immagino un signore su un cornicione. Sta lì a fissare il vuoto, quand'ecco che da una finestra a pochi metri vediamo slanciarsi con un megafono... Manlio Sgalambro. Di tutte le persone che potevano mandare a dissuadere un suicida, per arcani motivi noti solo a Battiato, è stato scelto il filosofo Manlio Sgalambro. Saprà trovare le parole giuste? Miracolosamente stavolta sì: non c'è neanche un parolone, né un Grande Nome citato ad minchiam. Al suo posto troviamo un approccio molto pragmatico al problema: non hai tutti i torti, questa vita è inautentica, ma facciamo così: moriamo insieme ma di morte lenta. E per quanto lo svolgimento ceda un po' al gusto barocco per il paradosso (questa parvenza di vita non merita il suicidio, solo una vita migliore), non mi stupirei che a Sgalambro fosse capitato di applicarla con successo. Sto cominciando a pensare che L'ombrello e la macchina da cucire sia uno dei dischi più pazzi e artigianali di Battiato, fatto veramente in casa con tante idee commercialmente improponibili e due o tre tastiere suonate alla garibaldina.   

2002: Impressioni di settembre (Mussida, Mogol, Pagani, #36)

Quanto verde, tutto intorno e anche più in là. Perché il secondo volume di Fleurs (intitolato travellingwillburyanamente Fleurs 3) non è buono come il primo? Alcune ipotesi.

1. In realtà è buono come il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più, è l'ennesimo album di cover di un artista che abbiamo già capito si diverte a farle (e forse ha capito che è meglio farle quasi tutte in italiano).
2. Le trilogie, o le cominci con in testa un prospetto già chiaro, oppure va a finire che spari tutte le cartucce migliori nel primo episodio. C'è ottima roba in Fleurs 3, ma Adamo non è Endrigo e Leo Ferré – mi spiace per i compagni della mozione Leo Ferré – non è Jacques Brel.
3. Tutte le persone che hanno conosciuto Battiato un po' più direttamente stanno ripetendo una cosa: era un simpaticone, gli piaceva divertirsi, per carità non consideratelo un guru o uno snob. Prendiamo nota, ma può darsi che in certi dischi accada quel che si dice accada nei film: se ci si diverte troppo sul set, gli spettatori si divertiranno meno. Il primo Fleurs rendeva ogni canzone un oggetto prezioso con un'intensità quasi religiosa: era un'operazione che sfidava il Kitsch e lo vinceva. Qui invece prevale un atteggiamento più scanzonato, forse mutuato dal set del Fun Club di Sgalambro: Battiato canta per divertirsi e sta bene, ma non è detto che ci divertiremo noi ad ascoltarlo. Anche nel pezzo forse migliore, Impressioni di settembre, prevale un approccio dissacrante, Battiato decide che il riff più storico del prog italiano è un po' troppo lungo e lo taglia come gli va, gioca d'anticipo, lo stravolge, nel primo volume non l'avrebbe fatto..
4. In realtà era scarso anche il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più.


2008: L'addio (Battiato, Avalli, Di Martino, #93) 

Stavamo bene. Per orgoglio non dovevi lasciarmi andare via, lasciarmi andare via. Ammettiamo pure che il terzo volume di Fleurs sconfini nel pianobarismo: non è forse proprio questo a rendere sublime questa versione dell'Addio? Vecchia canzone scritta con Mino Di Martino (già nei Giganti) per Giuni Russo ai tempi in cui sapeva andare più in alto dei soprani, là dove la voce umana diventa indistinguibile dal trillo dei gabbiani. È passato molto tempo, quei gabbiani non trilleranno mai più, un anziano pianobarista approfitta del momento di stanca di una serata per ritornare sulla vecchia canzone d'addio – la canterebbe sottovoce, se si potesse cantare sottovoce un pezzo del genere. Chi la conosce piangerà, gli altri sbadigliando si avvieranno all'uscita.

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19. Non servono più eccitanti o ideologie

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi sospesa tra una Milano invivibile e una Sicilia assolata, tra Maria Callas ed Emma Bovary]

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1983: Un'altra vita (#29)

Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca; mi innervosiscono i semafori e gli stop. E la sera ritorno con malesseri speciali. Non servono tranquillanti o terapie: ci vuole un'altra vita. Quando l'ascoltammo per la prima volta, verso la fine di quel 1983, probabilmente la scambiammo per una delle tante desolate contemplazioni del male di vivere contemporaneo, un sottogenere a cui il Battiato pop ci aveva abituato sin dall'Era del cinghiale bianco. Non sapevamo che stavolta Battiato faceva sul serio (o faceva più sul serio del solito): che a sfiancarlo non era la contemporaneità in generale ma Milano in particolare, e che stava per andarsene sul serio: "un'altra vita" lo aspettava in Sicilia. Ci sfuggiva un dettaglio che si è chiarito col tempo: Orizzonti perduti non era il solito disco postmoderno e ironico. Era una cosa molto più intima e cantautoriale, con versi di una discorsività commovente (Certe volte anche con te e sai che ti voglio bene mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione: sta parlando a sua madre?) Senonché di solito il cantautore ce lo immaginiamo con una chitarra in braccio o al pianoforte; Battiato invece si appoggia ai synth ma non sono più i complicati synth a valvole degli anni Settanta: sono le tastiere Roland del 1983 e non sono così dissimili da quelle che diversi ascoltatori di Battiato hanno in casa. Si verifica così per la prima volta nella storia della musica italiana il paradosso ben noto ai frequentatori delle scene indipendenti che potremmo definire "della musica da cameretta": tanto più personale quanto è prodotta con strumenti all'apparenza asettici – qui però manovrati con una maestria che lascia ammirati a cinquant'anni di distanza. Da notare che mentre Battiato si stancò quasi subito dell'arrangiamento digitale della Stagione dell'amore, quando riprese Un'altra vita in un un live molto tardo (Inneres Auge, 2009) non trovò praticamente nulla da cambiare. Nel frattempo anche "Dallas e i Ricchi piangono" erano diventati frammenti di modernariato come le mille bolle blu di Cuccurucucù, ma al tempo un inserto così prosaico potava infastidire come le unghie sulla lavagna. Oggi lo trovo un verso bellissimo: "sui divani abbandonati a telecomandi in mano storie di sottofondo: Dallas e I Ricchi Piangono".  


1989: Giubbe rosse (#100) 

Ritornare a sud per seguire il mio destino. È facile prendersela con Manlio Sgalambro, in effetti sembra che l'abbiano messo lì apposta, un catalizzatore di ostilità, un homunculus cresciuto nell'orto mistico di Calasso. Yoko Ono almeno è una donna, milita in due o tre minoranze, Sgalambro un possidente siciliano con l'hobby degli aforismi: si aggira per la discografia battiatesca col cartello Odiatemi e ci conviene farlo, perché altrimenti ci toccherebbe incolpare cose più scomode, ad esempio la Sicilia. Battiato non è più stato lo stesso, da quando è tornato. Battiato ha vissuto a Milano per 25 anni e sono stati 25 anni di lancinanti nostalgie ("ed era come un mal d'Africa"), 25 anni passati a evocare i demoni meridiani – chi meglio di lui ha cantato la transumanza turistica come un'esperienza di annullamento dell'io, chi ci ha fatto sentire di più il sale, lo iodio, mare mare mare voglio annegare, tutti quei dischi smaglianti di Giuni Russo che era più stagionale di Takeshi e Ketra, appena arrivava alla radio tu sentivi l'odore della sabbia e del coppertone. Tutta questa mediterraneità a Battiato saliva spontanea, finché viveva nelle nebbie confortevoli del nord. Poi un giorno ha deciso di tornare al vulcano, e magari è stata una coincidenza: ma poco dopo ha finito le parole. La partenza per Milano, Battiato l'aveva descritta con toni epici in Da oriente a occidente, un esperimento con strumenti medievali dove il suo synth suonava più ancestrale di tutti. Quindici anni dopo, Giubbe rosse (dal live omonimo) è una pagina di diario più eloquente del solito. Le immagini della Sicilia non sono più illuminazioni improvvise, non hanno più i contorni sgranati e i colori smarmellati dei ricordi, sono i sereni autoscatti appena sviluppati da un quarantenne che ci spiega chi è e cosa sta diventando. È ancora una buona canzone, eppure c'è un incanto particolare che è finito, e non tornerà più.

1998: Casta diva (#157)


Divinità dalla suprema voce. Supponiamo che l'arte, la musica in particolare, serva a suscitare emozioni in chi l'ascolta: questo si può ottenere in tanti modi. Una strategia primitiva, naive, può consistere nel descrivere l'emozione che l'artista prova e invitare l'ascoltatore a condividerla: Alcune delle migliori canzoni di Battiato fanno questo (ad es. Stranizza d'ammuri). Un artista più maturo cercherà di evocare l'emozione nell'ascoltatore senza definirla in partenza, allestendo tutti gli stimoli che messi assieme dovrebbero funzionare. Pensate per esempio alle Aquile: Fleur Jaeggy non scrive "commuoviti lettore perché a me è successo guardando camminare un'aquila", ovvero vuole arrivare esattamente lì, ma non esplicita nessuna emozione, sarebbe volgare: dissemina gli indizi, il vento che gonfia le vesti, le cavigliere ortopediche, e se il lettore è un po' attento e ha voglia di mettere insieme i pezzi ce la fa da solo, e alla fine parte dell'emozione è la soddisfazione di chi ha risolto un puzzle.

Il Kitsch è una terza opzione, che procede da un forte senso di insicurezza. L'autore Kitsch non sa come funziona bene questa storia delle emozioni: forse ne prova davanti a determinati manufatti artistici, ma non è sicuro di capire il perché, né si azzarda a smontare i manufatti per cercare di capirne il funzionamento: sa bene di non esserne capace. L'unica cosa di cui è sicuro è, poniamo, che la Callas quando canta lo commuove. Qualcun altro si domanderebbe: cosa rende la Callas più commovente? Potremmo confrontarla con altre soprano e capire. È sempre commovente o soltanto quando canta determinate arie? Il Kitsch-artista queste domande non se le fa perché non ha la fiducia in sé stesso necessaria per trovare risposte. Ha paura che a smontare la Callas poi smetterà di emozionarsi, quindi l'unica opzione possibile è citare la Callas.

Alla fine il Kitsch è la versione postmoderna del naif. Il naif condivide il suo struggimento d'amore dicendo: mi struggo per amore, emozionatevi con me. Il Kitsch-artista dice: la Callas mi spezza il cuore, emozionatevi con me. Il naif tiene un diario in cui esprime tutti i suoi sentimenti; il Kitsch-artista ha un catalogo, un Parnaso, un juke box coi Grandi Protagonisti del Novecento, il Kitsch-artista se non lo troviamo dopo un po' da Fabio Fazio è perché è diventato lui stesso Fabio Fazio. Che poi c'è qualcosa di male nel dichiarare i propri eroi, i propri maestri? Magari qualcuno che si sintonizza in quel momento prende nota, magari uno su cento va davvero ad ascoltare la Callas e alla fine all'emozione primaria ci può pure arrivare. Poi certo, possiamo criticare il Kitsch-artista, deprecare il suo lessico da marchettaro di eventi culturali, il suo debole per il sublime, se tiri fuori la Grecia ovviamente è "la Terra degli Dei", mica ce li avevano degli Dei gli altri popoli antichi, solo i Greci. Però occhio che siamo tutti Kitsch un paio di volte al giorno, se ci facciamo caso.

1998: Emma (testo di Manlio Sgalambro, #228) 



À la fin de Septembre, chargé d’humidité, je m’abandonne à mes pensées. Emma è un raro esempio di "lato B" battiatesco, uscito già in un periodo (1998) in cui l'espressione "lato B" non aveva più senso, mentre oggi i giovani sanno soltanto che è un modo di dire "culo", anche se non saprebbero dire il perché. La canzone esce sul CD singolo Il ballo del potere, col sottotitolo "demo" e in effetti di questo si tratta: del provino di una canzone che in quello stesso anno viene incisa da Patty Pravo. Abbiamo così l'occasione di capire forse come si presentano i provini delle canzoni che Battiato proponeva ai suoi interpreti, e di apprezzare la differenza col risultato finale, che è davvero notevole. FB si cimenta con un testo bilingue, laddove la Pravo preferirà farsi tradurre in italiano i versi in francese (senza che nella traduzione si perda nulla di particolarmente significativo: in certi casi il bilinguismo è solo un vezzo). FB si affida soprattutto alle tastiere, un po' perché è nella fase Gommalacca, un po' perché è il modo più efficace di comunicare le sue idee musicali: le suona con uno stile inconfondibile ma anche la versione di Pravo, molto normalizzata, trattiene in qualche modo lo stile Battiato. Il demo di Emma è interessante e ci fa rimpiangere di non poter ascoltarne altri: sarà esistito un demo di Per Elisa, di Un'estate al mare

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18. Avrete visto anche voi camminare le aquile

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[Questa è la Gara di canzoni di Battiato, anche se oggi per la prima volta si incontrano quattro brani di cui Battiato non ha scritto il testo – o quasi]

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1980: Le aquile (#68)


Il vento gonfiava le mie vesti: di veramente stabile? Non ho mai capito cosa significhi e se significhi qualcosa (però suona bene). Anche in questi giorni ho provato a capire se "stabile" può essere una marca di cavigliere ortopediche e non ho trovato risultati; in compenso ho scoperto finalmente, e mi vergogno del ritardo, che il testo delle Aquile *non* è una poesia di Fleur Jaeggy. Benché il testo le sia ufficialmente attribuito, il brano da cui sarebbe estrapolato è una prosa e somiglia solo vagamente al testo delle Aquile. Lo trovate per esempio qui, è un brano dalle Statue d'acqua. La Jaeggy poi avrebbe concesso a Battiato altri testi (Atlantide, Shackleton), ma a questo punto mi viene il dubbio che anche in questi casi si sia trattato più di un'ispirazione che di un testo pronto a essere messo in musica come li forniva invece Sgalambro (e anche nel suo caso, Battiato qualcosa modificava). Questo attenua la sensazione di snobismo che avevo sempre avvertito nel verso finale: no Battiato, io le aquile camminare non le ho mai viste, dovrei?

Anche dopo questa revisione, la lirica delle Aquile rimane sensibilmente diversa da quelle del resto di Patriots, che sembrano tutte più o meno prodotte da un generatore automatico di testi ironici postmoderni: niente cut and paste qui, niente namedropping: quella che Battiato vuole descrivere (ispirandosi alla Jaeggy) è un'esperienza epifanica, una rivelazione contenuta in un episodio del suo passato. È una corrente sotterranea della sua ispirazione che avevamo visto affiorare per la prima volta con Aries, e che a partire dall'Era del cinghiale bianco può scorrere indisturbata e regalarci alcune delle migliori canzoni del periodo, così come Le aquile è una delle migliori canzoni di Patriots. Il segreto del fascino non è tanto nell'epifania in sé, quanto nello scontro tra il sublime della rivelazione e i dettagli prosaici che la circondano, e che Battiato annota con un gusto crepuscolare (se non già montaliano): le cavigliere ortopediche, le ore in palestra. Musicalmente, è la cavalcata a cui il violino di Giusto Pio si allenava dai tempi di Adieu


1991: Oh Sweet Were the Hours (#196) 

E pur se furtivo, il sole d'autunno / è assai più prezioso del sole di giugno. L'ultima traccia di Come un cammello in una grondaia è un Lied di Beethoven, ma alla fine Lied vuol dire "canzone" e in particolare Oh Sweet Were the Hours è tratta dall'Opera 108, una raccolta di venticinque canzoni scozzesi. Perché oltre alle sinfonie e alle sonate che tutti sappiamo, Beethoven si era anche posto il problema di riscoprire e tramandare le tradizioni musicali popolari, da bravo romantico: i fratelli Grimm raccoglievano le fiabe, lui raccoglieva le canzoni. Duecento scarsi anni dopo, invitato a un festival di musica classica a Fermo, Battiato riprende il mano il Lied e con il coraggio spudorato del neofita ne scrive una nuova orchestrazione (quella di Beethoven era troppo intima, una cosa per pianoforte violino e violoncello, lui voleva più archi). Cosa gli stava dicendo il cervello? Se voleva dimostrare al pubblico di essere un musicista colto, una canzone scozzese su quant'è buono il vino non era la scelta migliore. Ha più senso il contrario: Battiato vuole giustificare a sé stesso il fatto che Gilgamesh non gli sta venendo un granché e alla fine tra la musica colta e le canzoni sta scegliendo queste ultime. Coi Lied del Cammello è come se Battiato spiegasse al suo Superego, lo vedi? Anche Wagner scriveva canzoni, anche Brahms, Beethoven addirittura le scopiazzava agli scozzesi avvinazzati: se le facevano loro, anche noi due possiamo. Da qui in poi i riferimenti alla musica romantica non serviranno più per spiazzare l'ascoltatore (come ai tempi di Per Elisa), ma per garantirgli di trovarsi di fronte a un'esperienza culturale con tutti i crismi. C'è una luce in fondo alla grondaia, ma purtroppo è una lampada Biedermeier. Franco Battiato sta per entrare nella sua fase Kitsch.

1995: Gesualdo da Venosa (#189)

Io, contemporaneo della fine del mondo non vedo il bagliore, né il buio che segue, né lo schianto, né il piagnisteo, ma la verità da miliardi di anni farsi lampo. Sotto gli stucchi Sgalambro non è poi così enigmatico, ovvero se qualcuno non si è fatto un po' di ossa con la vera poesia del '900 può anche spaventarsi ma davvero: qui dopo questa bella introduzione c'è un vero e proprio tropo della letteratura pop postmoderna, la "lista di Isaac": un elenco di manufatti artistici che rendono la vita degna di essere vissuta. Il rischio – se non si possiede la leggerezza del Woody Allen di Manhattan – è quello di apparire dei pretenziosi collezionisti di esperienze estetiche e Sgalambro ci casca in pieno: si parte col Concerto n, 4 in Do minore di Baldassarre Galuppi, si prosegue con Ornithology di Charlie Parker, si finisce con i madrigali di Gesualdo di Venosa, che certo ha ucciso la moglie, ma "cosa / importa?  Scocca la sua nota, dolce come rosa". Questa, se a qualcuno interessa, è l'opinione di Sgalambro su come si debba fruire delle opere d'arte dei femminicidi, un argomento che ci appassiona molto più oggi che nel 1995. Nell'Ombrello e la macchina da cucire Battiato sembra fin troppo contento di scaricare su Sgalambro l'incombenza delle liriche: lui è interessato ad altro, nel suo studio di casa si è rimesso a fare elettronica e (per fortuna) non ha intenzione di trasformare il namedropping di Sgalambro in una vera insalata musicale: niente Galuppi, niente Parker, niente Venosa, la canzone segue il pattern tipico dell'Ombrello, prima entra il solista, poi la sezione ritmica e il coro, e a volte, come in questo caso, il soprano Hiroko Saito aggiunge una coloritura estremo-orientale.


1999: Aria di neve (testo e musica di Sergio Endrigo, #61) 


Noi siamo qui, tra le cose di tutti i giorni, i giorni e i giorni grigi. Aria di neve è una delle canzoni più tristi mai scritte. Il testo descrive il disamoramento con una precisione agghiacciante e delle finezze inconsapevoli: la voce cantante si ammanta di oggettività, rinfaccia alla donna non tanto la sua freddezza ("Tu non ridi, non piangi, non parli più"), ma l'incapacità di prenderne atto ("E non sai dirmi perché"), finché nella seconda strofa si tradisce nel più patetico e maschile dei modi: lui avrebbe già scritto "più di mille canzoni nuove" per gli occhi di lei, peccato che lei non voglia cantarle. Impossibile non solidarizzare con questa poveretta che dovrebbe passare il tempo a cantare canzoni inedite sui suoi occhi. Un rapporto a senso unico, descritto con il lessico della canzone anni '50. Battiato si trova gran parte del lavoro già fatto: l'arrangiamento originale aveva già un andamento liederistico. Per svecchiare il brano è sufficiente attenuare l'accento melodrammatico del cantato. Il risultato fa venire i brividi e non sono di gioia. È pur sempre una canzone su quanto siano ridondanti gli inventori di canzoni.  

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17. Da quando sei andata via non esisto più

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[Questa è La Gara delle canzoni di Battiato, con una delle sfide più combattute fin qui: non solo tra Sesso e Castità, ma tra Sesso, Castità e Cuccurucucù. Chi vincerà?]

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1978: San Marco (#253) 


San Marco è una delle prime collaborazioni di Battiato con Giusto Pio, il lato B di quel pazzo singolo che i due fecero uscire nel 1978 per la Elektra (che in Italia era un'etichetta della Ricordi e forse aveva bisogno di rimpolpare il catalogo), attribuendolo a un fantomatico violinista aspirante popstar che nella copertina aveva le fattezze del figlio di Giusto Pio. Al tempo Battiato era anche l'allievo di Pio, e in San Marco si ha veramente l'impressione di assistere a una lezione: c'è un violinista competente, un pianista volonteroso ma incerto, e qualcuno tiene il tempo battendo il piede. Il testo è declamato da FB al megafono – lo stratagemma che tornerà in Bandiera bianca e che qui ha anche la funzione di dissimularne l'identità, perché Battiato in quel periodo è un brand di musica d'avanguardia, mentre questa roba è un'altra cosa, anche se a distanza è abbastanza difficile capire cosa sia. 
Come esperimento commerciale può lasciare perplessi ma bisogna sempre ricordare che era il 1978: i dischi si vendevano come il pane, più strani erano e più creavano nuove nicchie di mercato. Non v'immaginate la gente che è riuscita a stravendere dischi nel 1978. Se poi vi state domandando, ok, ma che nicchia di mercato si sarebbe dovuta aprire per un progetto musicale basato su un violino vagamente vivaldiano, una base ritmica più contemporanea e un'immagine associata alla Venezia della dolce decadenza settecentesca? ecco, magari non ci buttereste dieci euro in un progetto del genere e bisogna riconoscere che nemmeno Battiato e Pio ci stavano credendo troppo (tant'è che mandarono il figlio di Pio a suonare in tv in playback perché, per sua ammissione, non avrebbe chiesto un soldo), e però stiamo parlando del periodo in cui uno dei pochi artisti italiani a riempire i palazzetti europei era proprio un violinista, Angelo Branduardi; che pochi mesi dopo sarebbe uscito per esempio un pregevole album delle Orme ispirato proprio al Settecento veneziano, Florian, e prodotto da quel Gian Piero Reverberi che negli anni '60 aveva orchestrato i pezzi più barocchi di De André (quelli che molto più tardi Battiato avrebbe ripreso in Fleurs): il quale poi nel 1979, su insistenza del suo discografico che gli chiedeva di riempire una specifica nicchia di mercato, ("qualcosa che sia di facile ascolto ma di classe, dal sapore internazionale ma con un chiaro tocco italiano") cominciò a comporre musica finto-vivaldiana su ritmiche contemporanee, e a venderla con l'etichetta Rondò veneziano. Il primo singolo si chiamava proprio Rondò veneziano e aveva una linea di basso insistita molto simile ad Adieu, il lato A di San Marco; Berlusconi la scelse come sigla d'apertura delle trasmissioni di Canale 5. È senz'altro una coincidenza, ma il lato B di Rondò veneziano si chiamava San Marco, proprio come il lato B di Adieu. I Rondò esistono tuttora, anche se in Italia non vengono più a fare concerti (ma in Mitteleuropa sono ancora molto apprezzati) e hanno venduto qualcosa come trenta milioni di dischi: insomma a cercarla bene la nicchia c'era. Battiato e Pio la sondano quasi per caso, e poi vanno altrove (ma con l'Era del cinghiale bianco torneranno pericolosamente nei dintorni). 


1981: Cuccurucucù (#4)


Il mondo è grigio, il mondo è blu. Cuccurucucù è una delle canzoni più importanti della mia vita, ma questo non è così importante per Cuccurucucù – in effetti ciò che ha reso così centrale Cuccurucucù è la progressiva scoperta che non era stata scritta per me, che non mi riguardava, che era un patchwork di riferimenti che io non conoscevo. Troppo tardi: Cuccurucucù era scritta per gente che conosceva Le mille bolle blu di Mina e Il mare nel cassetto di Milva, canzoni che io avrei ascoltato solo molti anni più tardi associandole comunque indissolubilmente a Cuccurucucù e persino l'ira funesta del pelide Achille, e i profughi afgani in generale, per Battiato erano frammenti di cronaca e memoria scolastica da graffettare assieme in un collage postmoderno, mentre per me sono diventati il paesaggio semantico dove sono cresciuto, per me è Omero che cita Battiato, così come Paul McCartney e Bob Dylan, tutti saccheggiatori del Battiato primordiale. 
Mentre scriveva Cuccurucucù FB non aveva certo in mente me, ascoltatore di nove anni. Stava portando alle estreme conseguenze una poetica del frammento che era cominciata con i frastuoni di Clic e a partire da Patriots si era insinuata nelle canzoni pop solo a livello testuale. Continuando a comporre collage di versi di canzoni, poesie scolastiche, titoli di giornale, Battiato scopre, senza volerlo, il segreto per ipnotizzare i boomer. Cuccurucucù, è difficile capirlo oggi, è una pietra miliare: il 1981 è l'anno in cui i nati negli anni Quaranta cominciano a guardarsi indietro. Quel che vedono è perlopiù un album di foto slabbrate e oggetti desueti (le penne stilografiche, il rasoio elettrico), vecchie canzoni e una nostalgia assurda, che nessun medium ha ancora istituzionalizzato. Cuccurucucù arriva prima di Techetecheté, prima delle musicassette con Trenta Successi degli Anni Sessanta, prima dei gruppi di FB Noi Che Portavamo I Calzoncini Corti, Che Ne Sanno I Duemila e così via, Cuccurucucù è il preciso momento in cui gli anni Sessanta si impietriscono in un monumento in bianco e nero, ed è anche una canzone struggente anni Ottanta con un gioco di corde basse che riesce ancora ad agitarmi il sistema nervoso finché non entrano i Madrigalisti e sul si minore ho voglia di piangere, ma cosa volete saperne voi Duemila. 

2004: Tra sesso e castità (#125) 

Scorrono gli anni, nascosti dal fatto che c'è sempre molto da fare. Questo è un colpo basso, vero? Tra sesso e castità è uno dei brani più forti di Dieci stratagemmi, il disco probabilmente più interessante del tardo Battiato. Ha un testo che se non dice davvero niente di nuovo – il conflitto tra il desiderio e lo spirito, lo struggimento per un perduto amore e la necessità di astrarsi – lo dice proprio bene, con quell'ardimento lessicale che sulle labbra di chiunque altro suonerebbe ridicolo e invece sulle sue è necessario ("chissà perché avrò abdicato") e poi ha quel rivestimento rock che piace a noi giovani (del futuro). Quale bizzarria del destino, quale buco nell'algoritmo manda a sbattere un brano del genere contro un pezzo inaffondabile come Cuccurucucù? Allora, ecco, vi ricordo che l'algoritmo si basa sul ranking, e che quest'ultimo, in mancanza di altri dati, è basato esclusivamente sul numero di ascolti di Spotify. Capita dunque che mentre Cuccurucucù risulti la quarta canzone di Battiato più ascoltata dagli spotiffari (e non sorprende), Tra sesso e castità, che ai tempi dell'uscita ebbe un discreto airplay, si ritrovi alla... centoventicinquesima posizione. Sì, è abbastanza strano. Ingiusto, anche. Probabilmente Tra sesso si è ritrovata esclusa dalla heavy rotation che Spotify programma quando l'utente medio chiede brani a caso di Battiato. (Che c'entri la parola "sesso"? Gli algoritmi a volte sono bacchettoni). Ma in linea di massima il dato conferma una sensazione, ovvero che il tardo Battiato, per quanto celebrato dai media tradizionali e trattato con una certa deferenza persino dalle radio commerciali, alla fine fosse poco ascoltato. Non poco apprezzato: quando usciva con un disco nuovo eravamo tutti contenti e lo trovavamo sempre generalmente in forma. In particolare ammiravamo il coraggio con cui continuava a circondarsi di giovani (qui i padovani FSC) e a giocare con lo stereotipo che si era ritrovato addosso. Era ormai un rito applaudire fino a spellarsi le mani. E rimettersi quasi subito ad ascoltare la Voce del padrone.


2012: Il serpente (#132) 

Il denaro striscia come il serpente nelle città d'occidente. Così si celebra: ma da qualche parte un uomo nuovo sta nascendo. Apriti sesamo è un disco testamentario e soprattutto verso la fine si avverte quanto sia faticoso per FB doverci lasciare almeno una nota di speranza. Il serpente è uno dei brani più intimi dell'album – uno di quelli che FB potrebbe essersi composto e arrangiato in casa. Con voce tremante – e toccante – Battiato racconta una visione che purtroppo, come succede ai predicatori new age, assume colori e forme un po' naif ("Un raggio di luce attraversò un cielo nero e minaccioso andando a illuminare un albero di ciliegio in fiore").  

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16. E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi col Battiato prog più bombastico, col Battiato avanguardista più minimale, col Battiato erotico più spinto, col Battiato interprete più ridondante].

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1973: Areknames  (#41)

Pianeta Terra: le nuove metamorfosi, frontiere della mente. Ami, se mancherà (il testo di Areknames, cantato al contrario, o perlomeno la parte che qualcuno è riuscito a decifrare). Areknames è il riff più bombastico del Battiato '70, il brano che che lo conduce a un bivio: ora che ha domato quella belva che è il VCS3, ora che è in grado di tirarne fuori riff orecchiabili e maestosi, cosa deve fare: diventare la star del prog italiano, la variante locale dei Pink Floyd, o continuare a spiazzare il pubblico sperimentando altre cose? Battiato prenderà la seconda strada senza esitazioni, e Pollution rimane paradossalmente sia il suo disco '70 più accessibile, sia il più datato: Areknames è veramente un brano che doveva avere un effetto potente ai concerti del periodo, ma che oggi soffre molto più di altri l'obsolescenza degli strumenti elettronici. A meno di non far parte di quel tipo di ascoltatore che, scoprendo Pollution almeno 15 anni più tardi, non lo apprezzava proprio a causa di questa obsolescenza, che conferiva ad Areknames, ristampato con tanto fruscio su una musicassetta Ricordi, il fascino dei reperti archeologici (per molto tempo devo aver pensato che fosse il nome di un faraone, e che Battiato stesse cantando in geroglifico o in caldeo).


1977:   (#216)

 è il primo lato di un disco che secondo alcuni si chiama proprio , e secondo altri Battiato, ed è forse il suo disco più... stavo per scrivere difficile, ma è poi così difficile capire un pezzo come ? Un pianista (Antonio Ballista) suona un accordo a intervalli regolari: lo suona così forte che si può dire stia percuotendo il pianoforte (che è anche questo: uno strumento a percussione). Lo suona in modo così metodico e regolare che ben presto quello che diventa più interessante non è il suono della percussione primaria, ma quello del rilascio, ovvero la vibrazione che rimane sui martelletti nel momento in cui Ballista stacca la mano dai tasti. A volte (di rado) cambia il tempo, a volte (di rado) cambia l'accordo. Battiato nelle note di copertina si spiega così: "Apparentemente povero. Quasi completamente formato da un accordo. Volutamente percussivo (non viene mai usato il pedale di destra), divide e sottrae risonanze, con una tecnica di rilascio. Ha bisogno di un ascolto che definirei meta analitico, a favore di una non spazialità atemporale". Quest'ultima cosa rimane un po' ostica, ma  non è un'opera enigmatica. FB non vuole stupirci, non vuole scioccarci, né prendere in giro le nostre attese di ascoltatori. Vuole soltanto far battere dei martelletti e sentire il suono che fanno quando si rilasciano. , se vuol dire qualcosa, probabilmente vuol dire: fine e inizio. Per molto tempo Battiato è andato in giro con un ritaglio di una rivista nel portafogli, un'intervista a Stockhausen in cui il compositore avanguardista faceva il nome di Battiato come di un giovane da tener d'occhio. Poi finalmente lo ha incontrato e qualcosa non è girato per il verso giusto: il maestro d'elezione ha scoperto che l'allievo non sapeva leggere una partitura. Battiato, che fino a quel momento aveva testardamente perseguito una carriera da autodidatta, decide di studiare solfeggio, armonia e composizione perché (gli aveva detto Stockhausen) non avrebbe potuto continuare a fare del "pop" a quarant'anni. In effetti  è il primo vero brano in cui Battiato non suona nulla: ma se l'esecuzione è demandata a Ballista, evidentemente esiste una partitura, una delle prime scritte da Battiato. Il minimalismo di  va incontro a un certo gusto del tempo – FB ha ascoltato Einstein on the Beach di Wilson e Glass alla Biennale del 1976 – ma è anche una scelta obbligata per un compositore che sta ancora imparando a comporre. La sua prima opera è poco più di una riga ritmata su una pagina bianca. 


2002: Come un sigillo (con Alice, testo di Manlio Sgalambro, #169) 

E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio, poi sfioravi il glande e i sensi celebravano il loro splendore. Ok, questo Battiato senza Sgalambro non l'avrebbe fatto: descrivere una sega nel modo più delicato possibile. E allo stesso tempo Sgalambro non sarebbe mai riuscito a rendere credibile la cosa, se a cantarla non fosse stato Battiato con quel timbro nasale e rapito che depura ogni verso dalle sue morbosità – Battiato è l'anti-macho per eccellenza, solo lui poteva essere protagonista di quel famoso aneddoto in cui Loredana Berté in aeroplano gli mostra le tette e lui: "Loredana, ti dirò la verità, sono bellissime", Battiato è libero di celebrare l'erotismo perché ha vinto in sé la concupiscenza, o almeno è riuscito a darci questa impressione. 

L'erotismo letterario poi molto spesso calca la mano, si dà per scontato che il sesso sia un'impresa muscolare e che la scrittura debba trattenere questo sforzo o mimarlo, laddove a volte sono proprio certe esperienze acerbe, e brevi, e delicate, a restare impresse per tutta la vita. Come un sigillo è l'unico brano inedito di Fleurs 3 e serve come trait d'union tra due brani che non si potrebbero immaginare più diversi: Sigillata con un bacio, da cui si riprende il tema del sigillo che però qui Sgalambro ricollega al Cantico dei Cantici di Re Salomone ("mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio") e Beim Schlafengehen, un Lied di Richard Strauss con testo di Herman Hesse. Il che ci autorizza una volta di più a usare per quest'area della produzione di Battiato il termine midcult: è lo stesso Battiato a porsi a metà tra una canzone per teenager su un amorazzo estivo e un Lied di Strauss. La cosa più interessante del brano è l'impasto delle voci di FB e Alice, che qui si dimostrano realmente complementari: a una voce maschile alta risponde una voce femminile bassa (in certi punti veramente Alice è il basso e Battiato il falsetto). Cantano perlopiù all'unisono, creando davanti all'ascoltatore l'illusione dell'ermafrodito platonico che rimpiange l'era in cui Zeus ancora non l'aveva spezzato. 

2008: Era d'estate (Endrigo-Bardotti, #88) 


Quando si arriva al terzo volume dei Fleurs (Fleurs 2) ci si trova sempre più di frequente a scacciare la sensazione che FB stia raschiando il barile dei ricordi: per carità, succede a tutti, e si continua comunque a pescare frammenti intriganti – in questo caso ecco un singolo del 1963 di Sergio Endrigo, musicalmente imbastito su un giro di do e liricamente centrato indovinate un po' su che dramma amoroso? Esatto, l'amore estivo che in autunno ahinoi finisce, non resta che scriverci una canzone, anche se forse qualcuno potrebbe averla già scritta, no? Vabbe' nel dubbio scriviamola anche noi, si saranno detti Endrigo e Bardotti. Battiato (che al tema dell'amore caduco e transumante è evidentemente legato) nel primo Fleurs aveva rispolverato Aria di neve e Te lo leggo negli occhi con esiti miracolosi: non c'è un vero motivo per cui lo stesso trattamento non renda la sua terza cover di Endrigo altrettanto memorabile. Il difetto sta nel materiale di partenza: Era l'estate è una canzone meno interessante, tutto qui. 

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15. L'abisso non mi chiama, sto sul ciglio

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[Benvenuti alla Gara, il più grande torneo di canzoni di Battiato mai disputato e mai disputabile, oggi con Brunelleschi, Rodolfo Graziani, Isidore Ducasse e Paolo Conte. Ma anche con Giusto Pio, Giuni Russo, Manlio Sgalambro e Caterina Caselli].

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1978: Su scale (per voce, coro e due pianoforti) (#233)


Su scale comincia con una cascata di scale pianistiche che ci ricordano due cose: (1) in quel periodo FB stava re-imparando la musica, nel senso che dopo l'incontro con Stockhausen aveva accettato di dover almeno capire come si legge uno spartito, farsi un minimo di cultura convenzionale e (2) Juke-box era nato come una colonna sonora di un film di Brunelleschi, per cui è inevitabile immaginare le "scale" non solo come quelle interminabili impartite agli studenti, ma come quelle delle ciclopiche impalcature di Santa Maria del Fiore, la prima sfida al cielo del Rinascimento. Nella seconda parte entrano le voci, e se quelle in sottofondo tutto sommato sembrano rispettare le convenzioni della musica occidentale, il solista è evidentemente in un altro mondo: si tratta forse del primo tentativo di Battiato di introdurre nella sua musica un tipo di vocalità orientale. 

FB non ha mai smesso di ricordare che Juke-box era da considerarsi una colonna sonora: persino nel suo sito internet, messo on line molti anni dopo, si legge a chiare lettere che l'album era nato per questo motivo. Qualcun altro avrebbe avuto tutto l'interesse a far passare il rifiuto sotto silenzio, ma per Battiato evidentemente l'unico senso dell'album era questo. 


1989: Lettera al governatore della Libia (con Giuni Russo, #105) 

Carico di lussuria si presentò l'autunno di Bengasi. La prima facciata di Giubbe rosse è anche un atlante del mondo battiatesco: al centro la Sicilia (Giubbe Rosse), a nord l'Europa (Alexander Platz), a est la Mesopotamia, al sud l'Africa coloniale che torna in tante canzoni di FB come una Sicilia aumentata, un luogo ambiguo di rimpianti e pulsioni inconfessabili. Sin dai tempi dell'autista dei camion in Abissinia di Aria di rivoluzione, figura evidentemente ispirata al padre, non è mai chiaro cosa voglia fare FB con questo album di ricordi non suoi, ricordi ereditati ai quali forse vorrebbe cambiare il significato. Lettera al governatore sembra il ricordo di una famiglia italiana che si trasferisce in un quartiere coloniale del capoluogo cirenaico aspirando al benessere della classe dominatrice, ma non può impedirsi di vedere la fragilità di tutto l'impianto. La versione di Giuni Russo del 1981 sprizza tuttora la vitalità di quel periodo particolare – la chitarra di Radius, il violino di Giusto Pio – la versione live del 1989 regge il confronto, anche perché la Russo è ancora dietro il microfono e può vocalizzare a piacere. 

1995: L'ombrello e la macchina da cucire (testo di Sgalambro, #152) 

Chiacchiero col vicino, lei non ha finezza: non sa sopportare l'ebbrezza. Sto riascoltando dopo anni L'ombrello e la macchina da cucire e devo dire che è una bella sorpresa, al tempo mi sembrava quasi  inascoltabile e invece le basi elettroniche hanno retto il tempo molto bene: anche l'impasto tipicamente battiatesco coi cori campionati da quell'opera (Il cavaliere dell'intelletto) che non ha mai voluto incidere. La nota dolente sono sempre i testi di Sgalambro, quell'insalata di riferimenti colti di seconda mano che in fondo anche Battiato sapeva fare, salvo che a Battiato riusciva meglio, va' a capire il perché: forse perché era chiaro sin dall'inizio che non faceva sul serio, laddove Sgalambro sembra persuaso che cominciare con una citazione del conte di Lautreamont e finire con Joyce sia una buona idea per realizzare un testo ispirato. E sono quasi tutti riferimenti di seconda mano, ovvero citazioni che sono già state citate da qualcuno e che il lettore midcult sapeva riconoscere anche prima dell'avvento di google: di solito era sufficiente una saltuaria frequentazione degli inserti culturali sui quotidiani. Invece "Che cena infame stasera, che pessimo vino" mi ricorda una frase molto simile che in Boris (il film) veniva usata come esempio di scuola di cattiva scrittura cinematografica – ecco, appunto. Devo capire se Battiato ha registrato anche una versione spagnola del disco perché probabilmente l'ascolterei con meno fastidio (ed è già la seconda volta dopo Piccolo pub che Manlio "filosofo" Sgalambro compare alticcio a un tavolino).


2002: Insieme a te non ci sto più (Conte-Pallavicini, #24) 


Chi se ne va, che male fa? Certe canzoni fanno giri lunghissimi, stancano tutti e non si sentono per anni interi per poi risorgere all'improvviso (e stancare tutti di nuovo). Questo per spiegare come Insieme a te non ci sto più nel 2002 fosse una scelta meno banale di adesso: certo, Nanni Moretti l'aveva già usata per due scene topiche sia in Bianca (dove si sentiva anche Scalo a Grado!) che nella Stanza del figlio, uscito appena un anno prima. Anche Arrivederci amore ciao, il romanzo di Massimo Carlotto, era fresco di stampa; il film omonimo sarebbe uscito solo cinque anni più tardi e solo a quel punto Caterina Caselli avrebbe vinto il David di Donatello per la migliore canzone originale. Quest'ultimo dettaglio non credo potesse impressionare più di tanto Paolo Conte, che però qualche anno dopo confessa a un giornalista che Insieme a te non ci sto più è la canzone di cui va più orgoglioso. Eppure non l'ha mai incisa; qualcuno sostiene di averlo sentito cantarla a un concerto ma non abbiamo prove. In compenso abbiamo una versione di Battiato che nel secondo volume di Fleurs (quello che si chiama Fleurs 3) sembra a volte tentato dall'operare in modo inverso: invece di trasformare ogni canzonaccia in musica da camera, prendere canzoni che sono già considerate classici e snellirle, modernizzarle, immaginarle adatte alla radiofonia contemporanea. È comunque un'operazione condotta con molto garbo e a volte a malapena percettibile (vedi qui le schitarrate di apertura, che ci fanno immaginare una versione molto più rock di quella che poi segue), ma è comunque meno interessante di quello che Battiato aveva tentato col primo volume di Fleurs, anche perché la sua idea di modernità radiofonica non è necessariamente la nostra e l'accenno di Ciao amore ciao ci lascia presagire un mash-up che per fortuna non si realizza. Detto questo, è bello che esista almeno una canzone di Battiato scritta da Paolo Conte (anche l'inverso non sarebbe male, ma è più difficile da immaginare). Dopo di lui l'hanno rifatta un po' tutti ma la sua resta la più ascoltabile – insieme con l'originale, incisa dalla Caselli con quella voce che Conte definiva "da lavandaia", la voce di una che ti lascia con un sorriso a trenta denti e devi anche essere contento che non ti morda. Non ti sto facendo male, vero? No, no, figurati, anzi.     
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14. Io t'ho amato sempre non t'...

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[Questa è la Gara, ovvero una gara di canzoni di Franco Battiato. Oggi in lizza quattro brani tra cui due di Fabrizio De André, uno degli artisti che ha più amato e interpretato].

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1995: Piccolo pub (testo di Manlio Sgalambro, #201)


"Nel '43, ero malato, vidi tutta la mia vita sudato, scorreva finita". Una cosa che tendo a dimenticare è che tra Sgalambro e Battiato c'erano pur sempre 21 anni di differenza, una generazione. Se la cosa si nota meno di quanto si potrebbe è anche perché dei due è spesso l'anziano a parlare più sboccato. È tipico associare Sgalambro a quel lessico barocco che però era un marchio di fabbrica del prodotto-Battiato molto prima che i due s'incontrassero – davvero, Battiato non aveva avuto bisogno di Sgalambro per cantare "codici di geometrie esistenziali" o "lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco". Né la lirica sgalambriana ha mai raggiunto quei livelli: in compenso dopo averlo incontrato Battiato ha incluso nel suo lessico termini come "puttana", oppure in questa canzone si è concesso una divagazione filosofica sulla pisciata nel bagno di un esercizio pubblico. "Birra e urina si scambiano le parti: la latrina è il tuo caveau. Liquido vitale scorre in entrambe". Sembrano veramente i pensieri sciolti di un filosofo alticcio alla terza pinta, che si congeda dagli amici dicendo "ci vedremo domani se la notte non fa il suo colpo stanotte": un po' ridondante ma espressivo – se FB non scegliesse di ripetere il verso tre volte nella canzone, dando una sensazione come di rincoglionimento (la musica però è buona). 


1999: Amore che vieni, amore che vai (De André, #56)



Il primo Fleurs è, tra le altre cose, un prodotto piazzato con un tempismo pauroso; certo, potrebbe anche essere successo per caso, ma è un fatto che le ceneri di Fabrizio De André erano ancora calde e milioni di italiani stavano giusto scoprendo di averlo sempre amato. Si erano messi a chiamarlo per nome, anzi "Faber", come l'amico-fragile che all'improvviso rimpiangevano. Terminava un processo di canonizzazione che era iniziato una decina d'anni prima, dalle Nuvole: perché fino a quel momento De André era sempre riuscito a eludere il passaggio da solito stronzo a venerato maestro. Pochi mesi dopo Battiato sceglie per il suo primo disco di cover due classici del De André più intimista (e meno controverso): giusto in tempo per prenotarne almeno uno per il concerto-tributo che si tiene a Genova il 12 marzo dell'anno successivo. Quando arriva sul palco Battiato insomma dovrebbe trovarsi in discesa: il brano lo conosce, lo ha appena inciso, e il pubblico lo ha già ascoltato nella sua versione: cosa può andare storto? Accade invece che a Battiato, un professionista con decenni di concerti alle spalle, si mozzi il fiato a metà di un verso, in un moto di commozione così spontaneo che il pubblico lo riconosce immediatamente (e applaude). Ed ecco un'altra ipotesi su Fleurs: invecchiando si diventa sentimentali, basta una vecchia canzone per spremerci una lacrima, la gente penserà che la colleghiamo a questo o quell'amore finito ma non è necessariamente così. A volte è la semplice verità del brano, così lucida che taglia: io ti ho amato sempre, non ti ho amato mai. L'amore è pensare per tutta la vita a una persona di cui non sai più niente da anni, a questo punto potresti persino telefonarle, non sarebbe certo molestia volerla sentire una volta in trent'anni ma ti rendi conto che no, in realtà tutto quello che vorresti dire a lei non lo vuoi dire alla lei di adesso, tutto questo amore che provi ha ormai ben poco a che fare con quella lei che risponderebbe al telefono, l'hai amata sempre, non l'hai amata mai, uno poi pensa che mentre piangiamo siamo buoni ma è il contrario, si è sempre soli con le proprie lacrime, è sempre e solo per noi stessi che piangiamo.   

2007: Stati di gioia  (#184)

"Era l'estate del '63, un pomeriggio assolato. Da un juke-box di un bar completamente vuoto: She loves you ye ye ye. Ommmm". È un tratto comune a molti della sua generazione: l'ascolto dei Beatles come uno choc primario, qualcosa che modifica per sempre la percezione. Succede a Bob Dylan (classe 1941) e succede a FB (1945). Il primo era già un folksinger affermato, il secondo un diciottenne che nella vita avrebbe suonato tutt'altro (ma lascia perplessi che i jukebox siciliani fossero già aggiornati alle novità inglesi). Eppure per entrambi – e tanti altri – i Beatles tracciano un solco. Posto che per apprezzare Stati di gioia conviene comunque ascoltare la versione studio del Vuoto, stavolta preferisco mostrare questo video di uno spettatore che è riuscito a inquadrare Battiato da vicino mentre la canta. Non per come la canta – il fiato cominciava a mancargli – ma perché, accidenti, è felice. È una persona che ha scoperto la gioia da ragazzino ed è riuscito a non dimenticarsene, a mettere insieme gli indizi finché non l'ha ritrovata, e quando l'ha ritrovata ha cercato di spiegare a tutti come si fa. Ha a che vedere con la meditazione ma anche con una canzoncina per teen-ager. Io non so nemmeno se mi piaccia, una canzone come Stati di gioia, e in generale sui suoi ultimi dischi sospendo il giudizio, era ancora bravo, ispirato? Era felice, questo importa. Forse a un certo punto non lo ascoltavamo nemmeno più: non importava cosa cantasse, l'importante era vederlo felice, saperlo felice. 


2009: Inverno (#73) 



Ma tu che vai, ma tu rimani. Negli anni Zero FB era diventato, a causa delle sue caratteristiche intrinseche, l'ospite ideale di Fabio Fazio: garantiva con la sua sola presenza uno spessore culturale, un'amabilità pop, e si teneva ancora molto lontano dalle polemiche politiche. A chi se non a lui quindi demandare il decennale della morte del solito Fabrizio De André – assurto nel frattempo all'empireo dei classici della letteratura. Battiato si presta al compito con generosità, confermando che l'unico De André che gli interessa interpretare è quello barocco delle collaborazioni con Gian Piero Reverberi e regalandoci una cover rispettosa ma non banale di un brano quasi dimenticato. Tutti morimmo a stento è un disco dallo strano destino: fu il LP più venduto in Italia nel 1968, probabilmente perché a quel tempo ascoltare pezzi di De André in radio era impossibile; in seguito snobbato anche dal suo autore. Battiato avrebbe potuto portare a casa la serata con la solita Amore che vieni, o La canzone dell'amore perduto: e invece sceglie una canzone che sotto la patina dell'orchestrazione nasconde una natura freddissima e inquietante: dopotutto è una visita a un cimitero, raccontata da un visitatore tentato di restarci. È perfetta per ricordare De André senza concessioni alla retorica, ed è perfetta per la voce ormai tremolante di FB che a quel cimitero si sente sempre più vicino. Una versione studio della sua interpretazione (meno tremolante) viene poi incisa in Inneres Auge

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