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Caro spettatore di reality – ma a chi la vogliamo raccontare?
Cara spettatrice di reality, la stagione è iniziata - e la tregua è finita.
Ricomincia l’eterno dibattito tra me, barbogio critico dei reality, e tu, che ancora non ti sei annoiata, macché, insisti. Dopo tanti anni c’è ancora qualcosa di originale da dirci? Mah, chissà, a scavare forse c’è. Comincio io.

Con una concessione: molte delle cose che credevo sui reality non sono vere. Forse erano vere all’inizio. Ma poi i reality sono cambiati, più delle chiacchiere che ci sono cresciute intorno.
Oggi piacciono soprattutto a signore e ragazzine, ma quando arrivarono in Italia (più o meno era l’11 settembre), la curiosità era spalmata su una fetta di pubblico molto più estesa. Faranno vedere tutto? Ma proprio tutto tutto? Riprese nella doccia, sul serio? E poi, seriamente, cosa succede a una persona chiusa in una stanza per mesi con le telecamere? Insomma, all’inizio avrebbero potuto essere un programma per guardoni. O per sociologi. O per sociologi un po’ guardoni. O per guardoni con velleità sociologiche (quelli che tengono videoporno sull’hard disk perché “stanno facendo una ricerca”).

Col tempo abbiamo iniziato a capire che il reality era qualcosa di diverso, o meglio: col tempo è stato il reality italiano a coagularsi in una forma differente (in Italia: in altri Paesi l’opzione pornosoft è tutt’altro che scartata). Però quando critichiamo i reality, e quando litighiamo con voi che ancora vi ostinate a guardarli, abbiamo tutti ancora in bocca le stesse parole che usavamo nel 2001: noi vi diciamo “guardoni!”, e voi rispondete “macché, non capite che è un esperimento sociologico?”

Cerchiamo almeno di cambiare un po’ le posizioni (come si cambiano le regole dei reality: giusto per quella falsa sensazione di freschezza). Non è vero che siete guardoni, probabilmente non lo siete mai stati: però non è nemmeno vero che i vostri programmi preferiti contengano tutta questa sociologia. Non dico che all’inizio non ci volessero provare. Ai tempi della Bignardi ricordo una volta di aver intravisto davvero uno psicologo in trasmissione (non Meluzzi, uno vero), ma lo cassarono presto, probabilmente perché annoiava. Oggi nessuno osa dichiarare che i concorrenti di un reality siano uno spaccato della società eccetera eccetera: al limite possiamo dire che in una società differenziata e complessa si sono scavati la loro nicchia autoreferenziale (Vip di serie B, aspiranti vip, sconosciuti di area tamarra, ecc.).

Per descrivere questa progressiva emancipazione dei reality dalla realtà possiamo giocare sui titoli. Nel 2001 l’espressione “Grande Fratello” suonava ancora minacciosa: Orwell era stato riesumato per avvertire gli italiani che una trasmissione li avrebbe spiati (anche in bagno, sì, anche in bagno). Al confronto “L’isola dei famosi” è un titolo tranquillizzante: tutto quello che succederà sarà confinato in un’isola, e inflitto a un gruppo sociale ben definito (i “famosi”). In pratica il bacino d’utenza dei reality si è lentamente avvicinato e sovrapposto a quello delle riviste di gossip (sono cose scontate, lo so: ma vi giuro che non lo erano nel 2001).

Quindi, cara spettatrice di reality, prometto di non accusarti più di essere un guardone. Al massimo sei una sciampista pettegola, toh.
Ma non finisce qui. Da qualche anno a questa parte ho anche la sensazione che tu sia una… una terribile bacchettona, ecco. Una moralista. E questa davvero la devo spiegare, perché fino all’altro ieri ancora ti accusavo di spiare nei bagni, e questa cosa i moralisti non la fanno. Come faccio a rivoltare la frittata fino a questo punto?

Vorrei provare a illustrare questo paradosso attraverso un caso umano. Rocco del Grande Fratello. Lo so che non ha il carisma di Taricone o Jonathan. Ma secondo me è stato grazie a lui (o perlomeno attraverso lui) che il reality italiano ha trovato la sua via verso il perbenismo da divano.

Quando il reality cominciò (l’11 settembre), Rocco faticò molto a farsi notare. Gli altri inquilini della casa avevano tutti qualche caratteristica facilmente riconoscibile, lui un po’ meno. Il suo personaggio era ancora in fase di costruzione al momento di uscire – come se da quella casa poi si uscisse veramente. Andava alle serate e la gente lo fischiava. Andava alle serate, si faceva fischiare, firmava autografi e incassava. A un certo punto deve aver capito che quello era il suo mestiere, il suo personaggio: il fischiato.

Ed è andato avanti. Nel lungo tunnel verso l’oblio allestito da Costanzo e co., Rocco ha avuto il tempo di perfezionare il suo personaggio (cito wiki) “fortemente eccentrico, ambiguo (soprattutto a causa del suo abbigliamento) e attaccabrighe”. Mentre ai tempi della Casa Rocco era una persona a tutto tondo, difficile da comprendere e riassumere esattamente come ciascuno di noi, in seguito Rocco ha avuto un po’ di successo in tv trasformandosi in un mostro morale: un personaggio che serve esclusivamente a titillare il moralismo che è in ognuno di noi. All’inizio un gay, per farsi fischiare dagli omofobi: poi un riccastro che sputa alla miseria, eccetera. Non so se sia stata una scelta consapevole, ma di sicuro non è stata una scelta del solo Rocco: è stata la via percorsa da tutto il mondo del reality italiano (Rocco è stato solo il personaggio che l’ha imbroccata prima, o nel modo più smaccato). I reality potevano dire qualcosa dell’Italia in cui viviamo: le possibilità c’erano. Ma in nove casi su dieci hanno preferito fare la caricatura dell’Italia che ci piace di meno.

È una deriva che non interessa solo i reality. Nell’arte di farsi detestare Rocco è rimasto un dilettante, rispetto a professionisti come Corona. Ma guardiamo anche fuori dall’Italia. Da qualche anno in qua, l’avrete notato, sono tornati di moda i personaggi sesso-droga-e-rock’n’roll: Pete Doherty, Kate Moss, eccetera. Una cantante soul è diventata una celebrità internazionale sostanzialmente in virtù dei suoi passaggi in clinica. Poi ci sono quelle sulla ribalta già da un po’, come Britney Spears, che erano emerse ai tempi in cui la parola d’ordine è “se m’impegno sin dalla culla posso riuscire in qualsiasi cosa”, e che per adattarsi all’epoca finiscono in clinica anche loro. La differenza con altre epoche di eccessi è enorme. A fine anni sessanta ci si stonava per rivoluzionare la propria percezione delle cose, alla vigilia della rivoluzione (non era una buona idea, col senno del poi): nel ’77 ci si autodistruggeva per nichilismo… oggi ci si stona per la clinica. Quando sei in clinica la gente può giudicarti per quello che sei, e già che c’è compra i tuoi dischi o i tuoi occhiali. L’ideale a questo punto è entrarne o uscirne a intervalli sempre più frequenti. A questo punto è abbastanza inutile criticare Doherty o la Spears: non fanno che incarnare un’esigenza del pubblico, e lo fanno “col loro corpo” (direbbero le tute bianche), senza recite: ingrassano, dimagriscono, vanno in overdose. Per il ludibrio di migliaia di lettori e spettatori, Paris Hilton è stata in prigione: io mi sono sempre chiesto qual è il tipo di spettatore che ama Paris Hilton. No, Paris Hilton sta al mondo per essere giudicata e disprezzata. Ma da chi?

Più o meno dallo stesso pubblico dei reality. Un pubblico all’apparenza pacifico e disincantato, ma con una sete neanche tanto segreta di lacrime e sangue. Un pubblico che non cerca in tv il documento sociologico, ma il mostro negativo, con il quale consolarsi della propria piccolezza. Un pubblico che giudica, con o senza televoto: un pubblico che passa anche tre ore di dopocena a giudicare degli estranei. Un pubblico che, a parte giudicare, non fa poi molto altro.

Io in questo pubblico non ci voglio entrare. Non si tratta di criticare i reality: i reality esistono per essere criticati. Si tratta proprio di sospendere il giudizio. Può darsi che io abbia una morale, ma non passa necessariamente dal divano del giudice-qualunque. Non ho bisogno di disprezzare un vip caduto in disgrazia per sentirmi una persona buona. Perlomeno, non dovrei.
E tu, spettatrice, sei sicura di averne bisogno?
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