L'uomo che si spogliò per rivestirci

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Citizenfour (Laura Poitras, 2014; Oscar al miglior documentario).


Quando dopo un quarto d'ora di film improvvisamente compare - sulla poltrona di quell'anonima stanza d'albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti - non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un'icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all'inizio nicchia: non vorrebbe attirare l'attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell'enorme significato che quell'enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l'obiettivo su di lui.


Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l'eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l'approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell'anonima stanza d'albergo che è diventata da un momento all'altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall'anonimato viene assunto nell'empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)


Tutto questo succede unicamente perché lui l'ha voluto: e mentre succede Snowden è nervoso, rassegnato, stanco, perplesso, spaventato, euforico. Comunica meglio dei giornalisti che lo intervistano, sembra aver passato la vita al microfono più che davanti a un terminale: quasi più sciolto di Gordon-Levitt che lo interpretava nel film di Oliver Stone. Aveva previsto tutto, tranne forse che gli sospendessero il mutuo sulla casa. Snowden conserva ricordi (idealizzati) di un tempo in cui la Rete era libera davvero, i bambini anonimi dialogavano con gli scienziati e a nessuno veniva in mente di autocensurarsi mentre usava un motore di ricerca. Per regalarci una speranza di riottenere quell'innocenza, quell'anonimato, Snowden deve spogliarsi davanti alla Poitras (la quale invece esclude la sua immagine dal quadro). L'ultima scena, in cui da una ripresa esterna si intravede l'immagine sgranata della sua compagna che lo ha finalmente raggiunto a Mosca, e sta assaggiando la pasta in cucina, è voyerismo puro, temo inconsapevole: Citizenfour, la storia di come la privacy di ognuno di noi sia a rischio, finisce con una ripresa da paparazzo. Citizenfour si rivede a Bra mercoledì 31 maggio in occasione della rassegna Cinema e valori 2017.
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