L'Emilia è una regione della mente

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Terra ortogonale. 

L'Emilia-Romagna non dovrebbe essere così difficile da capire. Tutte le regioni (eccetto le isole) sono astrazioni, e l'E-R più di altre; un assortimento di territori che hanno in comune la bizzarria di una conformazione ortogonale, così peculiare in Italia. Quasi al centro di una penisola di golfi e seni e montagne e colline e valli intorte e ricurve, l'Emilia è tutt'un'altra Italia possibile: larga e orizzontale in una penisola stretta e verticale. Ancora prima che i Romani la incasellassero con la centuriazione, fiumi e crinali sembravano assecondare un'idea del territorio euclidea, razionale, che è una contraddizione nei termini, ma anche un progetto interessante. L'E-R peraltro non ha nulla di così bizzarro; diciamo che è tutto il resto dell'Italia a non somigliarle e così le capita suo malgrado di essere la regione alla rovescio - quella dove l'Alto sta a sud e la Bassa a nord, e i comunisti governano da 70 anni, come succede soltanto nelle fiabe di Berlusconi e a Modena e Reggio.

L'egemonia di un partito che sin da Togliatti aveva di comunista poco più del nome ci ha resi appena un po' diversi - diversi in un modo molto più sottile di quello che si immagina oltre il Po e sotto l'Appennino. Non siamo tutti stati "comunisti", neanche nell'accezione molto vaga in cui lo si era da noi. Nemmeno tutti figli di comunisti; a più della metà degli emiliani viventi non è capitato. Ma anche chi non ha mai lavorato per la ditta e si è sempre tenuto lontano dalle feste dell'unità, non poteva mandar giù i tormentoni dell'anticomunismo che altrove hanno invece funzionato così bene. Il PCI non ci ha mai dato da mangiare dei bambini; eppure siamo ingrassati anche noi, e più di altri (e anche noi da un certo punto in poi abbiamo cominciato a dare il benessere per scontato). Le chiese non sono diventate fienili; questi ultimi piuttosto sono diventati abitazioni, polisportive, biblioteche, centri culturali. Essere anticomunista in Emilia era possibilissimo, ma significava misurarsi contro il sindaco della propria cittadina, non contro Stalin: era molto spesso una sfida più difficile perché il PCI credeva più nella buona amministrazione che allo stalinismo, e finché funzionò riuscì a selezionare una classe dirigente di buona qualità - anche e soprattutto nei centri piccoli e medi.

Mezzo secolo di esercizio del potere avrebbe stroncato Pericle, figuriamoci il PCI. Ma anche questo è un carattere peculiare dell'esperienza emiliana. Non è una regione difficile da capire, ma non puoi leggerla, per esempio, con l'autobiografia della nazione che oggi va per la maggiore forte oggi, quella di Piccolo e dei suoi "Tutti". Il comunista da salotto che si affeziona al partito come alla squadra sfigata che vince poco ma quando nessuno se l'aspetta, ecco, questo magari era il PCI ovunque: ma in Emilia no. Da noi il PCI era già Bundesrepublik, un grosso e grasso ingranaggio che macinava giovani virgulti dal ginnasio non per risputarli intellettuali disincantati, ma burocrati noiosi e inossidabili, poco necessari a Roma ma imbattibili nel loro elemento. Il cursus honorum culminava nel Municipio di nascita o di adozione: due mandati da sindaco senza sgarrare, e poi un posto tranquillo in una municipalizzata o al limite nel consiglio provinciale. I nostri comunisti non avevano diversità da marcare o coltivare: li vedevi a cena con gli imprenditori e col vescovo. Non cercavano sconfitte dietro le quali nascondersi: in effetti non perdevano mai, non era previsto.

Poi cos'è successo.

Potrebbe anche non essere stato il muro di Berlino; nell'89, perlomeno, il sistema non registrò particolari squassoni: se fu l'inizio della fine fu un inizio molto lento. Ancora: se non è difficile capire l'imbarazzo di molti comunisti italiani nell'89 (soprattutto dopo il massacro di piazza Tienanmen), e apprezzare il coraggio di Occhetto, bisogna mettersi nei panni di quei particolari italiani che a Bologna, ad esempio, sostenevano il sindaco Imbeni: il muro poteva anche non essere più un muro, e l'URSS squagliarsi in una Comunità di Stati Indipendenti: ma Imbeni restava Imbeni, che c'entrava il muro di Berlino con Imbeni, siamo seri. Siamo pratici. Un mio muretto personale crollò al tempo del suo successore, Walter Vitali. Non saprei dire se sia stato un buono o cattivo sindaco: ma con lui era improvvisamente svanito un timore riverenziale che più che con la politica aveva a che fare con le dinamiche famigliari. Vitali era più giovane di mio padre, forse è tutto qui.

Quel che si è registrato, un po' dopo l'89, non è il crollo di questa o quella ideologia, ma un mancato passaggio di competenze tra due generazioni di amministratori. O forse siamo cresciuti noi e guardandoci attorno abbiamo visto per la prima volta una quantità imbarazzante di mezze pippe arrivate al Municipio o alla Provincia o alla Regione non si sa bene per quale congiunzione d'astri o scambio di favori. La persistenza in regione di Vasco Errani per più di due mandati - contro il buon senso e a un certo punto anche contro la legge - testimonia la difficoltà di una classe dirigente che fino a un certo punto ha saputo trovare e formare i migliori sulla piazza (Errani incluso), e dopo di lui, niente. Il diluvio.

Forse perché era troppo avvinghiata ai poteri che aveva coltivato per mezzo secolo; forse perché l'Italia stava cambiando più velocemente e i vecchi ingranaggi del partito non funzionavano più. Giravano ancora, producevano ancora quadri e amministratori; ma davano spesso l'impressione di girare a vuoto, scaricando sul territorio più detriti che leader.

La soluzione più logica era l'alternanza, ma chi ci ha provato non può in coscienza dirsi soddisfatto. Parma è stata la prima a provare il centrodestra: neanche dieci anni e si è ritrovata la giunta sotto inchiesta e il commissario prefettizio. Il caso di Bologna forse è più deprimente perché dimostra come neanche una sconfitta elettorale riesca a rigenerare un partito. Gli attuali notabili emiliani sono personaggi particolarmente opachi che nemmeno Renzi riesce a far luccicare. Il loro renzismo, peraltro, è sincero; com'era sincero il loro bersanismo, e il veltronismo, e il dalemismo e il togliattismo. È gente pratica, indossa i leader come le cravatte.

Domenica si vota e sono terrorizzati. Hanno paura che la gente non lo sappia. Non che non voti per loro; che non lo sappia. Certo loro non sarebbero stati in grado di far notizia, neanche se ci si fossero provati: hanno dovuto invitare Renzi ai comizi, come se non avesse niente di meglio da fare. La loro mancanza di carisma non sarebbe un dramma, se soltanto fossero buoni amministratori. Ma li conosciamo anche da quel punto di vista: sappiamo quel che hanno fatto fin qui e soprattutto quello che non sanno fare. Nel frattempo il territorio sprofonda, per una serie di abusi e negligenze che loro stessi hanno commesso o visto commettere dai predecessori. Non sono davvero un granché, ma i loro avversari sono talmente pittoreschi che nessuno si può augurare di ritrovarseli nel palazzo della Regione per cinque anni. Il M5S emiliano è quello che ha perso l'occasione più ghiotta di mandare affanculo il suo leader e diventare qualcosa di serio; la Lega, in quanto pallida e velleitaria imitazione di quella al di là del Po, mi pare la peggior Lega possibile.

Queste strane di novembre sono forse un anticipo di come saranno d'ora in poi tutte le elezioni: scarsa affluenza, scarsa attenzione, una scelta secca tra un centrosinistra discutibile e avversari semplicemente impresentabili. La scelta sarà quasi obbligata, ma se stavolta mi riservo di pensarci su non è a causa di Renzi. Renzi, nella crisi emilianoromagnola, c'entra poco o niente. Non è né merito né colpa di Renzi se il centrosinistra si è inceppato in una posizione di potere, dove non riesce quasi più a produrre buona politica, ma nemmeno a consentire ai concorrenti di evolversi e proporre alternative serie. È un problema di inerzia, di povertà di visione, forse di scarso coraggio. Non se ne esce di certo con un voto di protesta; ma in un qualche modo se ne dovrà uscire prima o poi.

L'Emilia mi è sempre sembrata più una regione della mente che della Repubblica: un luogo tranquillo, plasmato da un tetragono buon senso, dove nulla di terribile potrebbe mai accadere; e in generale tutti gli eventi straordinari dovrebbero avere la cortesia di avvisare per tempo. Alla prova dei fatti non è mai andata così. Ormai tutto è possibile ovunque; e come andranno stavolta le elezioni non lo sa davvero nessuno. Potrebbe essere l'occasione per tagliare un cordone ombelicale. Il problema è che forbici pulite in giro non se ne vedono, nessuno ha imparato a sterilizzarle.
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