I tre futuri di Avatar

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Non importa avere l’esercito più potente della galassia, con le armi più distruttive dell’universo, se nella cabina di comando c’è ancora un uomo. Al culmine della tua potenza di fuoco, sarà proprio l’uomo a tradirti. Non importa avere l’industria dei sogni più ricca e pervasiva del mondo: alla fine tutta la tua potenza di fuoco ti si rivolgerà contro, se in cabina di regia avrai commesso l’imprudenza di lasciare un canadese affezionato ai sensi di colpa dei conquistatori del Nuovo Mondo. Così avrai speso miliardi di dollari per produrre un film che predica alle masse la bellezza di un impossibile ritorno alla natura e alla comunione con tutti gli esseri viventi. Avatar è una contraddizione in termini, lo hanno già scritto in tanti: un blockbuster industriale che sogna la fine (violenta) dell’industria, perfettamente incarnato nel marine Jack Sully che tradisce il suo colonnello. Qualcuno l’ha anche accusato di essere una mera rivisitazione digitale di storie già raccontate: la vicenda di Pocahontas, e in generale un ripasso delle pagine più buie della Storia americana, dallo sterminio dei nativi americani alla guerra del Vietnam. Ma faremmo un torto a Cameron se non gli volessimo riconoscere un talento visionario che non si è limitato a ricombinare frammenti di passato. In Avatar il futuro c’è, anzi (secondo una mia teoria) ce ne sono almeno tre.

Il primo futuro è quello prospettato all’inizio del film: una razza umana in fuga infinita dalla terra esaurita e intossicata. L’umanità è un parassita tecnologico che brucia e avvelena tutti i mondi su cui mette piede. Questo i Na’vi, le creature blu di Pandora, lo intuiscono: ma forse non ne trarrebbero le dovute conseguenze se non arrivasse tra loro il marine Jack, un vero e proprio anticorpo dell’umanità inoculato nel corpo di un indigeno: è proprio la sua irruenza, sconosciuta ai nativi, a guidare il popolo blu verso la lotta contro l’invasore. E c’è comunque qualcosa di potente in un film che ti spinge a stare dalla parte degli alieni contro gli umani. In un mondo sempre più ossessionato dall’identità, dalla cultura, dalle radici, un film popolare che ti propone di cambiare corpo e di passare dalla parte dell’altro-da-te è qualcosa da salvare.

Il secondo futuro è molto più vicino a noi. Che probabilmente non fuggiremo mai tra le stelle: resteremo su questo pianeta sempre più sporco, cercando di venire a patti coi suoi limiti e coi nostri. Saremo sempre di più e dovremo razionare le risorse. Di fronte a questa deprimente prospettiva, il film di Cameron ci suggerisce una valvola di sfogo: avremo sempre la possibilità di fuggire nei paradisi artificiali della fantasia digitalizzata. È stata sufficiente la riscoperta di una tecnologia tutto sommato ‘vecchia’ come il 3d, per trasformare un’antica abitudine come il cinema in un viaggio psichedelico: non c’è motivo di dubitare che i divertimentifici del futuro insisteranno sempre di più su questa immersione dello spettatore in un mondo nuovo. Dopo gli occhialini verranno i caschi, le tute, le capsule di sospensione. Saremo tutti, nel futuro, condannati come Jack Sully a una vita frustrante e immobile (la sedia a rotelle è una metafora tanto sfacciata quanto azzeccata): ma avremo tutti la possibilità di immergerci, di tanto in tanto, in un universo variopinto e tridimensionale, dove un popolo immaginario ci acclamerà come eroi. Pandora non è un pianeta lontano, Pandora è il futuro della settima arte. A Cameron è mancata l’onestà per girare il ‘vero finale’ del film: Jack Sully riapre gli occhi e si ritrova di nuovo in una capsula umana. Qualcuno apre il portello: è il bigliettaio che lo informa che il film è finito.

Il terzo futuro è una variante estrema del secondo. L’industria dei sogni non è che l’avanguardia dell’industria vera: se Cameron ha potuto immaginare Pandora, qualcuno prima o poi riuscirà a realizzarla. Perché no? Il pianeta pensante che trattiene i pensieri delle creature in fondo cos’è, se non una enorme rete di condivisione delle informazioni? Gli esseri viventi che lo popolano, umanoidi, equini, grifoni, non sono che pezzi di hardware, con tanto di presa di connessione universale. Pandora insomma ha tutta l’aria di essere l’internet 9.0. In fondo, prima o poi anche l’esperienza degli utenti diventerà tridimensionale. A quel punto il mondo virtuale che condividiamo con gli altri utenti prenderà una forma che sarà modellata sui nostri ricordi e sui nostri sogni. Conterrà i nostri sensi di colpa di ex conquistatori pentiti, ma anche il vago misticismo di cui non abbiamo saputo liberarci, la nostalgia per l’equilibrio della natura, e così via. Il risultato non dovrebbe essere molto diverso da Pandora. I Na’vi non vivono su un pianeta lontano, ma sono i nostri avatar del futuro. Un futuro in cui spenderemo qualsiasi cifra per proiettarci in un mondo variopinto e incontaminato (e se per realizzarlo occorrono risorse difficili da reperire, localizzate nei luoghi sacri di un popolo antico e sottosviluppato, chissà se ci faremo qualche scrupolo a mettere in atto le solite pratiche di sterminio. Si fa qualsiasi cosa per i sogni).

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