Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?

Permalink
Arrival (Denis Villeneuve, 2016).

Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.

Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?

Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).

Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato
che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo?
Nel film Amy Adams è la linguista (adorabile), Jeremy Renner lo scienziato (simpatico). Quest'ultimo all'inizio sembra sicuro del fatto suo: gli alieni vogliono comunicare? Spedite una sequenza di Fibonacci, vedrete che ci intenderemo. Dopo due scene si è già ridotto a fare la valletta per la collega. Nel racconto ovviamente la cosa è più complessa. Gli alieni effettivamente mostrano di conoscere gli elementi e qualche altra nozione scientifica di base, ma tutto si ferma lì, finché un giorno non riescono finalmente ad avere una conversazione sul principio di Fermat. La parte del racconto dedicata a questo principio è la più interessante: è anche quella necessaria, perché gli alieni di Chiang sono solo un'ipotesi narrativa, ma il principio di Fermat funziona davvero e stabilisce (grosso modo) che il percorso di un raggio di luce tra due punti è quello che si attraversa nel tempo minore. Da cui la domanda, ingenua e inevitabile: ma come fa la luce a sapere in partenza qual è il percorso che potrà attraversare nel tempo minore? Come può prevedere gli imprevisti di percorso? Forse perché per la luce non esiste un prima e un dopo, una partenza o un arrivo, perlomeno non nel modo in cui lo percepiamo noi umani?

E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.

Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.

Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!) 
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).

Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".

Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
Comments (4)