Dubbi dello spettatore occidentale

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Lo spettatore occidentale è perplesso. Le emozioni lo tradiscono, la razionalità non lo aiuta, anche la memoria a volte gli è d'impiccio. È chiaro che questa non è la solita guerra in un teatro lontano: stavolta è diverso, è tutto molto più vicino e su una scala più grande. Questo lo spettatore occidentale lo capisce, ma si ricorda anche di esserselo sentito dire tante altre volte. La guerra fa paura, è uno spettacolo ipnotico e osceno ma soprattutto surreale: un giorno una città esiste, un mese dopo è rasa al suolo, gli abitanti scappati o schiacciati per motivi che tutti cominciano a considerare logici e inevitabili, ma lo spettatore occidentale no. Qualcosa non va, qualcosa dovrebbe essere fatto per evitare tutto questo, qualcuno dovrebbe saperlo, qualcuno dovrebbe dircelo e non lo fa. Lo spettatore odia la guerra, ma soprattutto odia sentirsi fregato: d'altro canto è uno spettatore, che altro può fare a parte sedersi, guardare e lasciarsi fregare. 


Lo spettatore occidentale si domanda se non sia in parte colpa sua (e dell'Occidente in generale). È una reazione tipica, prevedibile: mette insieme quasi tutto quello che l'Occidente ha prodotto: c'è dentro Kant e Marx e Freud, per restare agli strati più superficiali: più sotto una coltre spessa di senso di colpa coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo è colpa nostra) che dovrebbe occultarci il sottostante senso di superiorità coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo l'abbiamo cominciata noi); più in profondo si intravedono ancora Cristo e Aristotele. Scoppia una guerra da qualche parte: possibile che non l'abbiamo causata noi, coi nostri peccati di pensiero, parola, opera, omissione; semplicemente esistendo in un'oggettiva condizione di privilegio? Un dittatore ordina l'invasione di un Paese confinante, certo, sembra tutto abbastanza chiaro, ma guardiamoci dentro: non l'avremo provocato in qualche modo? Dopo averlo magari illuso, coccolato – quanti errori abbiamo fatto nei suoi confronti, e ora non dovremmo far finta di non vederli, dovremmo raccontarci che è perfido per natura?

Nella sua forma più immediata e inconsapevole, questa reazione si chiama razionalizzazione: che bel paradosso. Significa che ogni cosa assurda, guerra compresa, dev'essere rimasticata fino a prendere una forma ragionevole: ma anche che ogni cosa che apparentemente non dipende da Me, per quanto immensa e indescrivibile, dev'essere infilata in un imbuto lunghissimo che prima o poi ne distilli almeno una goccia che il mio individuale senso di colpa possa assorbire. Putin bombarda Kiev, e io gli sto comprando il gas per il mio scaldabagno: sono un mostro. Ma non basta, sto persino vendendo armi all'Ucraina: non abbastanza perché respingano i russi, ma abbastanza perché la guerra si protragga fino alla trasformazione di un popoloso Paese europeo in un altro Afganistan. È la cosa giusta da fare?, si domanda lo spettatore occidentale: come se davvero qualcuno gli avesse chiesto un parere o addirittura un permesso per comprare gas e vendere armi. Razionalizzare è anche un modo per illudersi di non essere uno spettatore: non in mio nome, dice. Se davvero vivo nel mondo libero (grazie alla Nato), perché non dovrei essere libero di criticare le scelte della Nato? Se davvero ho la libertà di dire che due più due fa quattro, perché non posso usarla per dire che un tiranno paranoico in difficoltà, più una valigetta nucleare, nel medio lungo periodo causano una catastrofe? Difendere l'Ucraina è una bella cosa: trasformarla in una steppa di rovine già sembra meno bello; farlo nella speranza che Putin ne venga travolto non sarà l'ennesima fantasia americana di regime change, una di quelle cose che provano a fare da vent'anni e il risultato è sempre peggiore della situazione di partenza?


La risposta potrebbe anche essere "no": ma lo spettatore occidentale queste domande vorrebbe almeno continuare a porsele. È un po' il senso di vivere in occidente piuttosto che altrove: dovrebbe esserci spazio per il dubbio, un minimo di margine per chiamarsi fuori (la libertà implica una coscienza, la coscienza richiede di essere lavata). Ma ecco, pare non ci sia un modo di farlo senza passare per fessi o essere additati come collaborazionisti. Bisognerebbe essere molto bravi ed equilibrati e questo è un altro problema, che a quanto pare nessuno più lo è. Chi prova a mostrarsi dubbioso nei talk si trasforma ovviamente in una macchietta, un Goldstein da esibire a intervalli regolari quando scoccano i due minuti d'odio. Chi si lascia intervistare dai giornali italiani (giornali che anche in tempi più semplici non hanno mai avuto rispetto per i virgolettati) cade nei più vieti trabocchetti retorici. Non aiuta certo il prosperare sui social di putiniani ruspanti, un po' volontari un po' alla giornata, tutti rigorosamente fuori dal coro anche quando dicono tutti in simultanea le stesse cose. 

Intanto, a un clic di distanza, gli atlantisti si scatenano, ormai sono alla caccia all'uomo. Vent'anni di frustrazioni, di armi di distruzione di massa che non si trovavano e democrazie malamente esportate, finalmente possono liberarsi in una scossa di energia che rianimerebbe il cadavere di Joseph McCarthy, anzi forse lo ha rianimato. Una tabella ritagliata da un articolo pubblicato su Limes è sufficiente per denunciare il putinismo della redazione tutta; una bandiera disegnata a rovescio, in prima pagina sul Corriere, è quanto basta per dichiarare l'ANPI intelligente col nemico. Questo è più grottesco del domandarsi se Putin non l'abbiamo provocato noi, ma ormai passa in fanfara, come cosa naturale: dopo due anni di pandemia non siamo più abituati a tollerare opinioni diverse dalle nostre. Bisognerebbe ricordarsi che le opinioni non ci mandano in terapia intensiva – non in questo caso, almeno. E che tutto questo setacciare i feed dei nostri avversari preferiti alla ricerca di affermazioni da ritagliare ed esibire in quanto imbarazzanti, tutta questa corsa al dossieraggio, ecco, non salverà la vita a un solo sfollato ucraino: non è un modo per aiutare a liberarli; al massimo per liberare noi stessi da qualcosa che ormai non sappiamo nemmeno più cos'è. Potrebbe essere il dubbio, appunto: bisogna farlo emergere, lasciare che si incarni in un pagliaccio televisivo, e poi condannarlo in effige. Lo spettatore occidentale ricorda vagamente di un tempo in cui le cose non funzionavano così, in cui manifestare i propri dubbi era una pratica apprezzata, indizio di apertura mentale, disponibilità al dialogo, capacità di riconoscere i propri errori. E tante volte si esagerava, si cercava di dialogare con gente in malafede e si insisteva a cercare i propri errori negli errori evidentemente altrui. Ma a quanto pare da qui in poi succederà sempre meno, anche in occidente. 

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