- il tempo vola

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Tre anni di (piccola) guerra al Terrore

Piangere i propri morti è giustissimo; stupirsene, un po' meno. In Iraq muore molta gente, tutti i giorni (per la maggior parte iracheni): e noi italiani siamo in Iraq da tre anni. Ecco, questo dovrebbe stupirci di più: la nostra piccola guerra compirà tre anni in maggio (e tre anni fa, il primo maggio 2003, Bush proclamò che le ostilità erano cessate).

Tre anni sono tanti per una guerra, anche se piccola. Pensiamo alla nostra di liberazione, che tanto ci fa discutere: per alcuni è la Resistenza antifascista, protocostituzionale; per altri è una guerra civile, madre di tutte le nostre divisioni; in entrambi i casi resta il momento fondante della nostra coscienza di italiani. Ed è durata due anni scarsi: 8/9/1943 – 25/4/1945. Certo due anni devono esser lunghi, coi tedeschi in casa. Nei racconti dei vecchi, e nei film in bianco e nero, sembra una guerra interminabile. Per contro tre anni di italiani in Iraq, non so voi, ma a me sono volati. Saranno le tv a colori (ma ormai di Nassiryia non si vede più niente), saranno i blog. Sarà che l'Italia della Resistenza era un'Italia bambina, e ai bimbi basta un pomeriggio di gloria per costruirsi, anni dopo, il ricordo di mesi e mesi di felicità. Mentre Italia di oggi è vecchia, e ai vecchi il tempo vola. Sono tre anni che siamo a Nassiriya. Abbiamo risolto qualcosa? Quand'è che ce ne andiamo?

Se allarghiamo un po' il campo, dalla casella Iraq allo scacchiere mondiale, ci accorgiamo che l'11 settembre di quest'anno la Guerra al Terrore compie cinque anni. Sono tanti. Per me, una soglia psicologica: cinque anni duravano, di solito, le Guerre Mondiali. Quella al Terrore è a suo modo una Guerra Mondiale – si combatte in Afganistan, Medio Oriente, New York, Madrid, Londra – ma rischia di durare parecchio di più. Del resto ce lo aveva detto lo stesso Bush: "sarà una guerra lunga". Quanti anni ancora, due? Tre? Venti? Ci abitueremo all'idea di una guerra infinita di bassa intensità? Ci siamo già abituati (teniamo sempre conto che in tre anni la campagna in Iraq ha fatto meno morti italiani di un qualsiasi ponte di Pasquetta).

Ci siamo talmente abituati che l'idea non ci impensierisce. Quello che un po' ci spaventa è la prospettiva di un'escalation – la crisi con l'Iran. Ma anche in questo caso, forse ci sfugge la dimensione del problema. Nei discorsi di Bush e compagnia, Ahmadinejad è paragonato spesso a Hitler. Anche se è dura credere a Pierino ogni volta che grida al Führer al Führer, l'accostamento non è del tutto campato in aria. Quello che forse ci sfugge è che si tratta di una stima per difetto: Ahmadinejad è un avversario più temibile di quanto fosse Hitler nel 1940.

Non vi pare? Qualche cifra. Su quanti sudditi ariani poteva contare il folle tiranno tedesco? Cinquanta milioni? [Update: mi segnalano che invece erano settanta]. L'Iran ne fa settanta. Ma i tedeschi, per quanto bene organizzati, potevano contare soltanto su due alleati di rilievo in tutto il mondo, uno dei due neanche troppo affidabile. L'Iran avrebbe dalla sua parte la solidarietà di tutto il mondo sciita, e forse buona parte delle masse islamiche – se si tratta davvero di un conflitto di civiltà, e la civiltà in guerra è l'Islam, parliamo di un miliardo di avversari virtuali. Non sono probabilmente tutti disposti a immolarsi per i loro fratelli, ma sono tanti. Una guerra contro un miliardo di persone non è stata ancora combattuta. È una prima mondiale.

Su un piano Ahmadinejad sembra meno temibile di Hitler: il fattore tempo. Gli esperti dicono che non avrà uranio necessario ad una bomba per dieci anni almeno – Hitler probabilmente c'è andato più vicino. D'altro canto dieci anni passano in un lampo, nella Guerra al Terrore. Non è escluso che gli americani comincino ora a parlarne per abituarci all'idea – il training per rendere accettabile al pubblico l'invasione all'Iraq durò più di un anno, e fu estenuante.

Quello che alla fine stupisce – o perlomeno, dovrebbe stupire – è la sproporzione tra l'entità delle accuse e la mobilitazione. Nel dicembre del 1941 Roosvelt si rese conto definitivamente che l'Asse era una minaccia per il mondo intero e per l'America: tre anni e mezzo dopo Hitler si suicidava, Hiroshima e Nagasaki venivano distrutte. L'undici settembre 2001 Bush si è reso conto della necessità di una guerra mondiale al Terrore; sono passati quattro anni e mezzo, e il Terrore bene o male è ancora in sella. Certo, in Afganistan e in Iraq il regime sta cambiando.

Ma si tratta di un processo maledettamente lento – chi ha tutto questo tempo? E cosa impedisce Bush, Blair (ma persino Berlusconi, che nei giorni migliori si professava loro alleato) da accelerare i tempi? Un motivo per cui la Guerra al Terrore non finisce mai, è che gli angloamericani la combattono (almeno in Iraq) con un quarto del contingente necessario. Per tacere degli italiani e della loro collaborazione omeopatica (per pattugliare un pezzo di strada a Nassiriya tutti i cittadini italiani del mondo sono virtualmente esposti ad attacchi terroristici).

Si obietterà che una mobilitazione più massiccia rischierebbe di affossare le carriere politiche di Bush e Blair. Ma i due sono al culmine della loro carriera, ineleggibili ormai, nel momento in cui dovrebbero preoccuparsi più della loro gloria di statisti che delle preoccupazioni elettorali (proprio come Roosvelt nel 1941). Possibile che nessuno faccia loro notare l'incredibile discrepanza tra i proclami di Guerra al terrore e l'effettiva entità del sacrificio che hanno chiesto ai loro connazionali? Se la minaccia è così grave, se è paragonabile al nazismo, cosa trattiene il Comandante in capo da portare in Medio Oriente tutti gli uomini che servono, ripristinando se necessario la leva militare?

Vien fatto di pensar male. Forse la minaccia non è così grave. Oppure sì, è grave, ma fino a che punto Bush e Blair sono interessati a debellarla davvero? Il Terrore si combatte per sconfiggerlo, o non piuttosto per amministrarlo? Per me è una domanda retorica, da più di tre anni in qua. Ma voi siete liberi di rispondere come preferite.
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