24-09-2003, 01:231968Permalink
Il problema non è se il ’68 sia stato importante o no. Il ’68 è stato importante. Ma c’è un modo di ricordarlo che non è più storia e non è nemmeno più nostalgia: è puro automatismo, sa di Alzheimer. Perché Bertolucci esprime il desiderio di tirare un sampietrino in conferenza stampa? Che gli hanno fatto i giornalisti? E loro, i giornalisti, perché applaudono? Cosa c’è di così poetico nel sampietrino in sé, da desiderare di tirarlo e da desiderare di riceverlo? Perché persone perfettamente integrate nello star-system (e dico: beati loro) sentono il bisogno di montare il teatrino della ribellione? Fischiateli almeno, i ribelli vogliono i fischi. E invece no, applausi.
Pasolini e l’alzheimer collettivo
Lo stesso automatismo, lo stessa coazione a ripetere riporta invariabilmente Pier Paolo Pasolini in prima pagina a ogni scontro tra poliziotto o manifestante o ultrà. Pasolini ha scritto migliaia di pagine, ma rischia di passare alla storia per una sola lunga orazione pubblicata su Nuovi Argomenti e poi sull’Espresso nel maggio 1968, ristampata poi in un libro relativamente poco conosciuto, Empirismo eretico. Per cui è lecito chiedersi in quanti l’abbiano riletta per intero, prima di ritirarla in ballo in occasione dei fatti di Avellino. Forse nessuno. Del resto ci ricordiamo tutti bene quel che diceva, no? O no?
In occasione degli scontri di Valle Giulia, Pasolini chiamò gli studenti contestatori “figli di papà”. Può darsi che sia stato il primo a dirlo, e a dirlo piuttosto brutalmente: non era certo il primo ad averlo pensato. A loro contrapponeva i poliziotti, “figli di poveri”, poveri essi stessi, (“e poi, guardateli come li vestono: come pagliacci / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / fureria e popolo”). Era una provocazione che coglieva nel segno: vorrà dire qualcosa il fatto che tutti se la ricordino quasi a memoria. Nel dibattito che ne seguiva, Pasolini confermava: “Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di dominarlo. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro sé stessa. […] sono dei borghesi, dei figli di papà rimasti tali e quali i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti”.
Da parole come queste scopriamo quello che dovremmo sapere già, e cioè che Pasolini era un marxista: un marxista eretico, senz’altro, ma (parole sue, di due anni prima) “nient’affatto disposto a credere che il marxismo sia finito”. P. non ha niente in contrario con la lotta di classe: salvo che per lui Valle Giulia non è lotta di classe, ma semplice teatrino allestito dalla borghesia. Scrivendo il suo "vi odio" Pasolini non dava voce tanto alla famosa maggioranza silenziosa, quanto piuttosto ai vecchi militanti comunisti, non necessariamente eretici come lui. Un ortodosso come Marchais, in Francia, non avrebbe potuto spiegarsi meglio: “in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l’impresa di papà e sfruttare i lavoratori”. Come a dire che per prevedere il famoso riflusso non serviva nemmeno un’intelligenza troppo acuta.
Andiamo a vedere cosa faceva Pasolini nel ’68, oltre a spernacchiare gli studenti (era uno che non stava fermo un attimo): presentando Teorema a Venezia, ha l’occasione di aderire alle proteste contro lo statuto della Biennale, che risaliva all’epoca fascista. Il film viene subito sequestrato per oscenità. Nello stesso anno viene messa in scena una sua tragedia, Orgia, mentre lui lavora a un nuovo film, Porcile, la storia di due personaggi che vengono divorati dai maiali, dove i maiali rappresentano “i fascisti”. Questo è il Pasolini che viene ricordato per aver difeso i poliziotti di Valle Giulia. Forse c’è qualcosa che non va nella nostra memoria collettiva.
Trentacinque anni dopo, che senso si vorrebbe dare alle sue parole?
Che un borghese non ha il diritto di pestare un proletario, mentre invece un proletario qualche diritto ce l’ha, specie se in divisa? Ma chi sono i proletari, adesso? Che i poliziotti non siano pagati abbastanza per i rischi che corrono, è un fatto. Però via, il tempo della “stoffa ruvida che puzza di rancio” è finito da un pezzo. Chi è stato a Genova si ricorderà di Robocop, che sfilava davanti ai blocchi con una tenuta a metà tra Rambo e il paninaro: certo che non sono tutti così, ma il proletariato è una scusa che non regge più. Certo non regge per le Diaz, o per Bolzaneto.
Quanto agli ultras di Napoli che hanno bastonato un vicequestore di sessant’anni, non so se ci sia qualcosa di più abissalmente lontano tra loro e gli studenti di Valle Giulia. Figli di papà? Borghesi? A sentirli un po’ parlare sembrano più simili a quei sottoproletari fascistoidi che Pasolini tanto amava – pochissimo ricambiato. Ma non è un po' fuorviante il voler contare i soldi in tasca a chi ha in mano un bastone? Si può essere sottoproletari in bomber o ray-ban? Neoproletariato, lo chiama Labranca. Siccome comunque non siamo marxisti, perlomeno non lo siamo a tempo pieno, potremmo semplicemente evitare di tirare in ballo la lotta di classe (che secondo me esiste, ma non si pratica in passamontagna, bensì in giacca e cravatta). Per me la discriminante non è la classe di appartenenza, ma il bastone. Chi ha il bastone in mano vuole far male a qualcuno: bisognerebbe fermarlo. È un poliziotto? È un ultrà? Vive in affitto o ha la seconda casa al mare? Non mi interessa. Come facciamo a fermarlo se lui ha un bastone e noi no? Questo sì che è un problema. Io non ho soluzioni, a parte quella, contingente, di darmela a gambe quando li vedo arrivare.
E mentre me la batto mi chiedo: ma cosa c’entra Pasolini? Perché continuate a parlarne? Per inerzia. In un primo momento si doveva dimostrare di saperla lunga su Genova, semplicemente perché si era reduci da qualche tumulto di piazza di trent’anni prima. Tutti ansiosi di mostrare quanto hanno imparato la lezione. E va bene. Ma poi qualcosa si è bloccato, come una placca nel nostro tessuto cerebrale collettivo: da Genova in poi Pasolini si è trasformato in un ritornello querulo da cantare in occasione di ogni tafferuglio: tanto che se domani una rivolta di Suore Orsoline fosse domata nel sangue dalle Guardie Svizzere, ad alcuni non parrebbe vero di poter ripetere quel che disse Pasolini a Valle Giulia.
Quel Pasolini che, ogni tanto giova ricordarlo, è stato ucciso. Da un proletario, o forse no. Ma è stato ucciso: questo è il problema. Di solito i pezzi di questo tipo finiscono sempre con una coda: “se oggi fosse tra noi…”. Ve la risparmio: Pasolini oggi non è tra noi, Pasolini è morto. E la morte non è nel non esser più compresi, ma nel non esserci proprio più, nel non poter dire più niente. Pochi hanno descritto la sua epoca con tanta lucidità e tanta sfacciataggine. Merita di essere letto e studiato, non ripetuto a memoria. Una pessima memoria, tra l’altro.
Pasolini e l’alzheimer collettivo
Lo stesso automatismo, lo stessa coazione a ripetere riporta invariabilmente Pier Paolo Pasolini in prima pagina a ogni scontro tra poliziotto o manifestante o ultrà. Pasolini ha scritto migliaia di pagine, ma rischia di passare alla storia per una sola lunga orazione pubblicata su Nuovi Argomenti e poi sull’Espresso nel maggio 1968, ristampata poi in un libro relativamente poco conosciuto, Empirismo eretico. Per cui è lecito chiedersi in quanti l’abbiano riletta per intero, prima di ritirarla in ballo in occasione dei fatti di Avellino. Forse nessuno. Del resto ci ricordiamo tutti bene quel che diceva, no? O no?
In occasione degli scontri di Valle Giulia, Pasolini chiamò gli studenti contestatori “figli di papà”. Può darsi che sia stato il primo a dirlo, e a dirlo piuttosto brutalmente: non era certo il primo ad averlo pensato. A loro contrapponeva i poliziotti, “figli di poveri”, poveri essi stessi, (“e poi, guardateli come li vestono: come pagliacci / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio / fureria e popolo”). Era una provocazione che coglieva nel segno: vorrà dire qualcosa il fatto che tutti se la ricordino quasi a memoria. Nel dibattito che ne seguiva, Pasolini confermava: “Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di dominarlo. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro sé stessa. […] sono dei borghesi, dei figli di papà rimasti tali e quali i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti”.
Da parole come queste scopriamo quello che dovremmo sapere già, e cioè che Pasolini era un marxista: un marxista eretico, senz’altro, ma (parole sue, di due anni prima) “nient’affatto disposto a credere che il marxismo sia finito”. P. non ha niente in contrario con la lotta di classe: salvo che per lui Valle Giulia non è lotta di classe, ma semplice teatrino allestito dalla borghesia. Scrivendo il suo "vi odio" Pasolini non dava voce tanto alla famosa maggioranza silenziosa, quanto piuttosto ai vecchi militanti comunisti, non necessariamente eretici come lui. Un ortodosso come Marchais, in Francia, non avrebbe potuto spiegarsi meglio: “in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l’impresa di papà e sfruttare i lavoratori”. Come a dire che per prevedere il famoso riflusso non serviva nemmeno un’intelligenza troppo acuta.
Andiamo a vedere cosa faceva Pasolini nel ’68, oltre a spernacchiare gli studenti (era uno che non stava fermo un attimo): presentando Teorema a Venezia, ha l’occasione di aderire alle proteste contro lo statuto della Biennale, che risaliva all’epoca fascista. Il film viene subito sequestrato per oscenità. Nello stesso anno viene messa in scena una sua tragedia, Orgia, mentre lui lavora a un nuovo film, Porcile, la storia di due personaggi che vengono divorati dai maiali, dove i maiali rappresentano “i fascisti”. Questo è il Pasolini che viene ricordato per aver difeso i poliziotti di Valle Giulia. Forse c’è qualcosa che non va nella nostra memoria collettiva.
Trentacinque anni dopo, che senso si vorrebbe dare alle sue parole?
Che un borghese non ha il diritto di pestare un proletario, mentre invece un proletario qualche diritto ce l’ha, specie se in divisa? Ma chi sono i proletari, adesso? Che i poliziotti non siano pagati abbastanza per i rischi che corrono, è un fatto. Però via, il tempo della “stoffa ruvida che puzza di rancio” è finito da un pezzo. Chi è stato a Genova si ricorderà di Robocop, che sfilava davanti ai blocchi con una tenuta a metà tra Rambo e il paninaro: certo che non sono tutti così, ma il proletariato è una scusa che non regge più. Certo non regge per le Diaz, o per Bolzaneto.
Quanto agli ultras di Napoli che hanno bastonato un vicequestore di sessant’anni, non so se ci sia qualcosa di più abissalmente lontano tra loro e gli studenti di Valle Giulia. Figli di papà? Borghesi? A sentirli un po’ parlare sembrano più simili a quei sottoproletari fascistoidi che Pasolini tanto amava – pochissimo ricambiato. Ma non è un po' fuorviante il voler contare i soldi in tasca a chi ha in mano un bastone? Si può essere sottoproletari in bomber o ray-ban? Neoproletariato, lo chiama Labranca. Siccome comunque non siamo marxisti, perlomeno non lo siamo a tempo pieno, potremmo semplicemente evitare di tirare in ballo la lotta di classe (che secondo me esiste, ma non si pratica in passamontagna, bensì in giacca e cravatta). Per me la discriminante non è la classe di appartenenza, ma il bastone. Chi ha il bastone in mano vuole far male a qualcuno: bisognerebbe fermarlo. È un poliziotto? È un ultrà? Vive in affitto o ha la seconda casa al mare? Non mi interessa. Come facciamo a fermarlo se lui ha un bastone e noi no? Questo sì che è un problema. Io non ho soluzioni, a parte quella, contingente, di darmela a gambe quando li vedo arrivare.
E mentre me la batto mi chiedo: ma cosa c’entra Pasolini? Perché continuate a parlarne? Per inerzia. In un primo momento si doveva dimostrare di saperla lunga su Genova, semplicemente perché si era reduci da qualche tumulto di piazza di trent’anni prima. Tutti ansiosi di mostrare quanto hanno imparato la lezione. E va bene. Ma poi qualcosa si è bloccato, come una placca nel nostro tessuto cerebrale collettivo: da Genova in poi Pasolini si è trasformato in un ritornello querulo da cantare in occasione di ogni tafferuglio: tanto che se domani una rivolta di Suore Orsoline fosse domata nel sangue dalle Guardie Svizzere, ad alcuni non parrebbe vero di poter ripetere quel che disse Pasolini a Valle Giulia.
Quel Pasolini che, ogni tanto giova ricordarlo, è stato ucciso. Da un proletario, o forse no. Ma è stato ucciso: questo è il problema. Di solito i pezzi di questo tipo finiscono sempre con una coda: “se oggi fosse tra noi…”. Ve la risparmio: Pasolini oggi non è tra noi, Pasolini è morto. E la morte non è nel non esser più compresi, ma nel non esserci proprio più, nel non poter dire più niente. Pochi hanno descritto la sua epoca con tanta lucidità e tanta sfacciataggine. Merita di essere letto e studiato, non ripetuto a memoria. Una pessima memoria, tra l’altro.
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