Mo an's'pol gnanc piò fér an gir, adésa?
09-09-2011, 19:36alta Italia, ciclismo, come diventare leghisti, ho una teoriaPermalink![]() |
Oddio, mi piace pure il logo |
Io Ferrero lo stimavo anche un po', quando faceva politica; poi è diventato il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e l'ho perso di vista. Ecco, l'altro giorno ha scritto a Napolitano per denunciare l'incostituzionalità del Giro di Padania. Cioè, seriamente: nella Costituzione secondo Ferrero ci dev'essere un codicillo da qualche parte che proibisce alcune competizioni ciclistiche associate ad alcune espressioni geografiche. E' anche vero che è un periodaccio da un punto di vista mediatico: non sta succedendo niente, i mercati vanno bene, la gente è soddisfatta del governo, e così un segretario di Rifondazione per farsi un po' di visibilità è costretto a crearsi dei casi un po' così. D'altro canto dove la trovi, un'altra manifestazione sportiva che riesci a disturbare anche con squadracce, pardon, con collettivi di poche decine di persone? Basta che ti piazzi in mezzo a una strada e qualcuno prima o poi casca e si fa male! E in tv ci vai garantito! Ci va anche Renzo Bossi, contestualmente, a lamentarsi dei cattivoni, ma probabilmente è un effetto collaterale sopportabile, se sei il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e vedi vulnus costituzionali nelle gare in bici.
Allora io ho scritto che il Giro di Padania non è affatto incostituzionale, che la Padania esiste e che disturbare i ciclisti mentre fanno il loro lavoro non è bello, e l'ho scritto sull'Unità (H1t#90). Si commenta di là.
Io - sia chiaro - i leghisti non li sopporto. Non li sopporto quando promettono mari e monti e federalismi, e non ottengono niente, e fanno finta di niente. Non li sopporto quando si inventano lì per lì obiettivi di scorta, contentini da mostrare agli elettori che evidentemente prendono per fessi: i ministeri a Monza, ma per favore. Non li sopporto se fanno i barricaderi, quando la verità è che non sono mai riusciti nemmeno a organizzare una marcia sul Po come si deve. Non li sopporto quando minacciano di tirar fuori i fucili: ma ce li mostrassero davvero 'sti fucili un giorno o l'altro, poi ridiamo. Non li sopporto quando cercano di cavalcare l'ondata antislamica facendo i cattolici, e dieci anni fa si sposavano col rito celtico. Non li sopporto quando promettono di risolvere il problema dei barconi prendendoli a cannonate, e questa promessa criminale è forse l'unica che hanno mantenuto. Non sopporto un ministro che lascia un paio di motovedette a pattugliare un braccio di mare che pullula di profughi: si chiama concorso in strage. Non li sopporto quando succhiano soldi dallo Stato per riempire edifici pubblici di Soli delle Alpi, o per piantare quei ridicoli cartelli coi nomi dei comuni in dialetto, e io pago. Non li sopporto per centinaia di altri motivi che in questo pezzo non ci stanno.
Ma se decidono di organizzare una gara ciclistica, e se la pagano loro, con gli sponsor e tutto quanto, beh, io non capisco cosa ci sia da eccepire. Anzi. Se da qui in poi Renzo Bossi e famiglia si limitassero a organizzare soltanto gare ciclistiche, tornei di calcio tra nazioni inesistenti, paraolimpiadi, concorsi di bellezza, sabba nei boschi, io francamente sarei molto contento e sollevato, magari andrei anche a sentirmi qualche concerto di cornamuse al festival di cultura celtica. Purché non succhino altri soldi al pubblico erario, come quando presero i miei soldi per pagare i figuranti rumeni di quel Barbarossa che persino la Rai di Mazza ha pena a programmare.
Siamo in un periodo difficile, e lo sappiamo. Crisi economica, governo delegittimato eccetera. In mezzo a tutto questo è successo che Ferrero, segretario di ciò che resta del Partito della Rifondazione Comunista, abbia sentito l'urgenza di denunciare a Napolitano l'incostituzionalità del Giro di Padania. Come se i padri costituzionali avessero perso tempo a inserire nella Carta una tabella con le manifestazioni sportive ammissibili e quelle che invece proprio no. Secondo Ferrero il Giro sarebbe incostituzionale perché costituirebbe un atto di propaganda politica, e nella Costituzione di Ferrero (che deve avere parecchie pagine in più della mia) fare propaganda politica organizzando una gara in bicicletta è pro-i-bi-to. Invece mandare i propri attivisti a disturbare le gare altrui è ok.
Del resto è così facile. Il ciclismo è sempre stato lo sport con meno barriere tra concorrenti e pubblico. Bastano poche squadre di disturbatori per mandare all'ospedale un ciclista, o un tifoso o un carabiniere, e far parlare di sé i telegiornali. Minima spesa, massima resa. Certo, con la stessa logica bisognerebbe denunciare anche l'incostituzionalità del Giro delle Fiandre, o della Freccia Vallone, o del Giro dei Paesi Baschi, e chissà di quante altre competizioni associate a entità geografiche non nazionali. Tempo al tempo, per adesso è fondamentale che Ferrero possa ribadire che “la Padania non esiste”. Buffo, l'anno scorso in questi giorni lo diceva Gianfranco Fini. E nella sua bocca suonava lievemente autoritario, il classico tic dell'uomo d'ordine che nega l'evidenza quando non si adatta al suo sistema. È davvero triste che Ferrero ripeta la stessa cosa.
Che senso ha dire che la Padania "non esiste"? Le nazioni sono concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che qualche leader afferma che “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi. Proprio perché è una parola potenzialmente pericolosa, bisogna guardarsi dal farne un tabù. L'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. La Padania esiste, è sempre esistita: è un comodo sinonimo del più tradizionale Val Padana. La usava Gianni Brera quarant'anni fa, senza nessuna velleità separatista; la usò nel 1975 Guido Fanti, presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, per proporre un coordinamento tra le regioni intorno al Po. Hanno cominciato a usarla i leghisti, relativamente tardi, e probabilmente si deve a loro lo slittamento dell'accento (prima si pronunciava Padanìa, ma forse non era gradita la rima con Albanìa o Romanìa).
La Padanìa è un'espressione geografica: è una valle sconsolatamente piatta, circondata da due catene montuose tra le più alte d'Europa. Se si eccettua la brevissima parentesi napoleonica, non è mai stata una nazione unitaria. È una delle macroregioni di cui è composta l'Italia: esiste tanto quanto il Mezzogiorno. Vi si può senz'altro disputare un giro in bicicletta, così come si corre ogni anno il giro di Lombardia o il Giro di Sicilia senza che la Corte Costituzionale abbia nulla da eccepire. Con buona pace di Ferrero e compagni, a cui in questi giorni argomenti più seri non dovrebbero mancare. Grazie comunque, perché spaccandogli il giochino (uno dei pochi innocui che avevano a portata di mano), mi avete ricordato un'altra cosa che non sopporto dei leghisti: il vittimismo. http://leonardo.blogspot.com
Comments
15-02-2004, 22:45autocritiche, ciclismo, coccodrilli, drogarsiPermalink
Sabato sera ero via. Non ho visto i tg ed ero triste. Non per quel motivo. In effetti, per nessun motivo al mondo.
Ero nel piazzale di un albergo qualunque e pensavo alla mia vita, a quanti errori ho fatto, a quanti ancora dovrò farne, e per quanti anni ancora dovrò sopportare la compagnia del me stesso che mi odia e mi rimprovera di tutto. Ma per nessun motivo al mondo, così, in generale.
È tristezza: a volte va, a volta viene. In fondo noi ne sappiamo ancora poco. Forse un giorno si scoprirà che è una qualità dell’aria, una micropolvere che arriva dritta dal golfo di Guinea fin dentro i nostri tessuti neuronali. Il giorno che lo sapremo, tutto sarà molto più facile. Per tv faranno le previsioni della tristezza, dopo le minime e le massime e prima delle estrazioni del lotto; e chi vorrà sentirsi triste verrà apposta in qualche albergo sul lungomare, dove la brezza è buona.
Sul lungomare, domenica mattina, ho visto due ciclisti allenarsi, in quelle tutte variopinte e aderenti, molto anninovanta. E per un attimo ho pensato: Che buffi.
Ma subito dopo ho pensato. Una volta non la pensavo così. Da quand’è che non vado più in bicicletta? E da quand’è che non guardo nemmeno un giro in tv? Sono anni ormai.
Poi mi sono ricordato cosa era successo veramente, e subito ho voluto cambiar pensiero, perché aveva a che vedere con una persona, a cui mi ero affezionato, e a cui di colpo non ho voluto più credere. Ma non era facile pensare ad altro, perché ero ancora triste e cercavo a tutti i costi di sentirmi colpevole di qualcosa.
Sentirsi colpevoli, sapete, è una gran consolazione. Le cose succedono continuamente, più o meno a caso: è difficile fare previsioni (che non siano brutte previsioni). Ma di fronte a tanto caos, almeno poter dire: “È colpa mia. Sono stato io. È dipeso anche da me”. Ti fa sentire meno inutile.
Lui era l’Eterno Perdente, uno dei tanti. Il ciclismo moderno è uno sport strano, che io non sono ancora riuscito a capire: gareggiano assieme arrampicatore e velocisti. L’arrampicatore è un tipo brutto, secco e goffo, compie straordinarie imprese, contro tutti, contro il gruppo, contro sé stesso: suda litri di sudore, sbava, impreca, la gente lo adora: e perde sempre. Il velocista è un tipo perfettino, luccicante nella tuta aderente, che si fa la sua cronometro senza guardare in faccia a nessuno, la gente lo detesta, e vince sempre. Tanto che a un certo punto uno si chiede: ma perché? Perché LeMond deve sempre battere Chiappucci? Non potrebbero togliere le crono e mettere più salite? Tanto la gente ama gli arrampicatori, non i velocisti. O no? Non ho mai incontrato nessuno che tifasse per LeMond, o Ullrich, o gente così. Ma forse ho incontrato troppe poche persone. O non sarà che in fondo gli arrampicatori ci piacciono così: Eterni Perdenti? Sudano, sanguinano, e quando cadono, è sempre ingloriosamente: ma quando vincono, ci fanno sperare solo per qualche settimana. Poi la delusione. Poi si ricomincia.
Finché un giorno io non ne ho potuto più, di vederlo perdere: e con me tanti altri. Non ne potevamo più di quel calvario, quelle salite assassine, e poi gli incidenti, i ricoveri, i recuperi. Lui aveva diritto di vincere: per sé stesso e per noi. E lo abbiamo fatto vincere. Non sarebbe stato possibile, ma abbiamo barato. O lo abbiamo lasciato barare, il che è lo stesso.
È stato un giorno di primavera del 1998: all’ultima tappa importante lui era alla pari con un velocista, un russo o un tedesco, uno di quelli che quando vincono il Giro è come se non lo vincesse nessuno. L’ultima tappa, naturalmente, era una Crono. Lui non poteva vincerla. Fisicamente, non sarebbe stato in grado di farlo. Ma io, ma noi, abbiamo desiderato così tanto che lo facesse. E lui l’ha fatto. Ha vinto una Crono nell’ultimo giorno del Giro. Ha battuto i velocisti nel loro campo, lui che velocista non era mai stato. Lo ha fatto per sé stesso e – soprattutto – per noi. Ci ha ingannato. Ma siamo stati così felici di farci ingannare.
Allora, vedi: se lui ha cominciato (o ha continuato) a drogarsi, è stata anche colpa nostra. È stata anche colpa mia. Io sapevo che non poteva vincere pulitamente, ma gli ho detto: “Vai, vai”. È dipeso anche da me. L’ho visto vincere e ho fatto finta che fosse tutto regolare.
Ma quando poi l’hanno beccato, io non ho più voluto saperne niente di lui. Drogato. Imbroglione. Vergogna. Ci hai rovinato il Giro. Ci hai rovinato il ricordo della tua vittoria. Ci hai rovinato la festa. Vattene.
Pensavo a queste cose, domenica sul lungomare, e intanto i due ciclisti a passo uomo parlottavano tra loro, e io dopo un po’ ho cambiato pensiero. Ma mi ero sentito colpevole di qualcosa, e stavo già meglio.
Così sono arrivato all’edicola.

Ero nel piazzale di un albergo qualunque e pensavo alla mia vita, a quanti errori ho fatto, a quanti ancora dovrò farne, e per quanti anni ancora dovrò sopportare la compagnia del me stesso che mi odia e mi rimprovera di tutto. Ma per nessun motivo al mondo, così, in generale.
È tristezza: a volte va, a volta viene. In fondo noi ne sappiamo ancora poco. Forse un giorno si scoprirà che è una qualità dell’aria, una micropolvere che arriva dritta dal golfo di Guinea fin dentro i nostri tessuti neuronali. Il giorno che lo sapremo, tutto sarà molto più facile. Per tv faranno le previsioni della tristezza, dopo le minime e le massime e prima delle estrazioni del lotto; e chi vorrà sentirsi triste verrà apposta in qualche albergo sul lungomare, dove la brezza è buona.
Sul lungomare, domenica mattina, ho visto due ciclisti allenarsi, in quelle tutte variopinte e aderenti, molto anninovanta. E per un attimo ho pensato: Che buffi.
Ma subito dopo ho pensato. Una volta non la pensavo così. Da quand’è che non vado più in bicicletta? E da quand’è che non guardo nemmeno un giro in tv? Sono anni ormai.
Poi mi sono ricordato cosa era successo veramente, e subito ho voluto cambiar pensiero, perché aveva a che vedere con una persona, a cui mi ero affezionato, e a cui di colpo non ho voluto più credere. Ma non era facile pensare ad altro, perché ero ancora triste e cercavo a tutti i costi di sentirmi colpevole di qualcosa.
Sentirsi colpevoli, sapete, è una gran consolazione. Le cose succedono continuamente, più o meno a caso: è difficile fare previsioni (che non siano brutte previsioni). Ma di fronte a tanto caos, almeno poter dire: “È colpa mia. Sono stato io. È dipeso anche da me”. Ti fa sentire meno inutile.
Lui era l’Eterno Perdente, uno dei tanti. Il ciclismo moderno è uno sport strano, che io non sono ancora riuscito a capire: gareggiano assieme arrampicatore e velocisti. L’arrampicatore è un tipo brutto, secco e goffo, compie straordinarie imprese, contro tutti, contro il gruppo, contro sé stesso: suda litri di sudore, sbava, impreca, la gente lo adora: e perde sempre. Il velocista è un tipo perfettino, luccicante nella tuta aderente, che si fa la sua cronometro senza guardare in faccia a nessuno, la gente lo detesta, e vince sempre. Tanto che a un certo punto uno si chiede: ma perché? Perché LeMond deve sempre battere Chiappucci? Non potrebbero togliere le crono e mettere più salite? Tanto la gente ama gli arrampicatori, non i velocisti. O no? Non ho mai incontrato nessuno che tifasse per LeMond, o Ullrich, o gente così. Ma forse ho incontrato troppe poche persone. O non sarà che in fondo gli arrampicatori ci piacciono così: Eterni Perdenti? Sudano, sanguinano, e quando cadono, è sempre ingloriosamente: ma quando vincono, ci fanno sperare solo per qualche settimana. Poi la delusione. Poi si ricomincia.
Finché un giorno io non ne ho potuto più, di vederlo perdere: e con me tanti altri. Non ne potevamo più di quel calvario, quelle salite assassine, e poi gli incidenti, i ricoveri, i recuperi. Lui aveva diritto di vincere: per sé stesso e per noi. E lo abbiamo fatto vincere. Non sarebbe stato possibile, ma abbiamo barato. O lo abbiamo lasciato barare, il che è lo stesso.
È stato un giorno di primavera del 1998: all’ultima tappa importante lui era alla pari con un velocista, un russo o un tedesco, uno di quelli che quando vincono il Giro è come se non lo vincesse nessuno. L’ultima tappa, naturalmente, era una Crono. Lui non poteva vincerla. Fisicamente, non sarebbe stato in grado di farlo. Ma io, ma noi, abbiamo desiderato così tanto che lo facesse. E lui l’ha fatto. Ha vinto una Crono nell’ultimo giorno del Giro. Ha battuto i velocisti nel loro campo, lui che velocista non era mai stato. Lo ha fatto per sé stesso e – soprattutto – per noi. Ci ha ingannato. Ma siamo stati così felici di farci ingannare.
Allora, vedi: se lui ha cominciato (o ha continuato) a drogarsi, è stata anche colpa nostra. È stata anche colpa mia. Io sapevo che non poteva vincere pulitamente, ma gli ho detto: “Vai, vai”. È dipeso anche da me. L’ho visto vincere e ho fatto finta che fosse tutto regolare.
Ma quando poi l’hanno beccato, io non ho più voluto saperne niente di lui. Drogato. Imbroglione. Vergogna. Ci hai rovinato il Giro. Ci hai rovinato il ricordo della tua vittoria. Ci hai rovinato la festa. Vattene.
Pensavo a queste cose, domenica sul lungomare, e intanto i due ciclisti a passo uomo parlottavano tra loro, e io dopo un po’ ho cambiato pensiero. Ma mi ero sentito colpevole di qualcosa, e stavo già meglio.
Così sono arrivato all’edicola.