Condannato attivista. Aveva pulito una discarica in un parco naturale “patrimoniio dell’umanità”

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Cinque giorni di galera per aver ripulito un parco da una discarica abusiva! Avete presente il principio “Chi inquina, paga”? Beh, ad un attivista del comitato in difesa della valle del Mis è accaduto il contrario. Due mesi dopo l’iniziativa che ha visto un centinaio di attivisti entrare e ripulire l’ex cantere della ditta Eva Valsabbia, ridotto oramai ad una vera e propria discarica aperta sotto il bel cielo delle Dolomiti, è arrivato un decreto penale di condanna disposto dal Giudice per le Indagini Preliminari Vincenzo Sgubbi che prevede l’arresto per una durata di cinque giorni corrispondente alla pena pecuniaria di 1.360 euro. Una vicenda che ha dell’incredibile. La stessa Corte di Cassazione ha definito quel cantiere illegittimo in quanto, sorge su terreni che si sono dimostrati legati ad uso civico e che la ditta ha acquistato senza i relativi permessi edilizi. Terreni, quindi, inalienabili ma che sono stati ugualmente per costruire una centrale idroelettrica, opera tra l’altro vietata all’interno di un Parco Nazionale. Un parco che, tra le altre cose, è stato anche dichiarto dall’Unesco “Patrimonio mondiale dell’Umanità”.


Eppure, nonnostante la sentenza della cassazione che dà ragione agli ambientalisti, l’area non è ancora stata bonificata: la spazzatura rimane abbandonato lungo le aree del cantiere in balia degli agenti atmosferici col rischio che il materiale possa disperdersi nell’ambiente.
L’iniziativa degli attivisti aveva proprio lo scopo di sollecitare le autorità ad accelerare la procedura di ripristino dei luoghi. Teniano anche presente che esiste il rischio che dalla commissione ambiente del Senato arrivi qualche Legge in deroga” (escamotage per la quale il nostro Paese è tristemete famoso in tutta Europa) che modifichi la legge quadro sulle Aree Protette, mercificandole e consentendo, se non addiruttura incentivando, la realizzazione di centrali idroelettriche. E ci va bene che il nucleare lo abbiamo respinto con un referendum altrimenti…
Fatto sta l’operazione di bonifica non è piaciuta alla magistratura che, notizia recente, ha provveduto ad incriminare un attivista.
Immediata la solidarietà del comitato Bene Comune di Belluno che ha ribadito la corresponsabilità collettiva. Come dire: se ne incrimitate uno, dovete incriminarci tutti.
“Paradossalmente, - leggiamo in una nota diffusa dal comitato - i primi a pagare rispetto a questa vicenda non sono coloro che hanno contribuito, con violenza, a deturpare irrimediabilmente una parte di quella valle unica al mondo, ma coloro che hanno e stanno lottando per difenderla. Ma continueremo questa battaglia contro gli speculatori dell’acqua e tutte le sue forme di privatizzazione con sempre maggiore determinazione, consapevoli delle nostre ragioni e forti di un ampio consenso che accompagna il nostro percorso”.
L’Europa intanto non sta a guardare. La Commissione Europea, a seguito del ricorso degli ambientalisti che hanno denunciato l’iper-sfruttamento idroelettrico delle valli bellunesi, ha ufficialmente richiesto chiarimenti alle autorità italiane sui loro iter procedurali quantomeno “originali”.

Porto Tolle, vittoria degli ambientalisti. I periti del tribunale chiedono all’Enel 3,6 miliardi di euro di risarcimento

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Abbiamo vinto. Non ci capita spesso di vincere, diciamocelo pure, ma stavolta abbiamo proprio vinto. L’Enel, sulla sua centrale a carbone “pulito” nel cuore del parco del Delta, ci può anche mettere una pietra sopra. E, oltre alla pietra, dovrà anche mettere una mano in tasca per tirare fuori il portafoglio, se il tribunale confermerà la perizia dei tecnici del’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che hanno quantificato in 3 miliardi e 600 milioni i risarcimenti per danni ambientali e sanitari causati da questo suo impianto di Porto Tolle.
La perizia è stata richiesta dal Tribunale di Rovigo che ha messo a processo il colosso energetico con l’accusa di disastro ambientale. L’enorme importo risarcitorio che non ha precedenti in Italia e che, per la prima volta si attiene al principio “chi inquina, paga”, è stato calcolato quantificando in 2,6 miliardi per la mortalità in eccesso e nel rimanente miliardo i danni ecologico per mancata ambientalizzazione. Le emissioni di anidride solforosa rilasciate dalla centrale di Porto Tolle, che da sola copriva un decimo di tutte le emissioni italiane, sono state ritenute una causa scatenate di danni all’apparato respiratorio e di malattie anche mortali dei residenti nelle vicinanze, in particolare dei bambini. Per quanto riguarda la mancata ambientalizzazione, l’Enel è accusata di non aver mai provveduto a modernizzare i vetusti impianti di combustione a olio per ricondurre le emissioni entro i limiti stabiliti dalle normative anti inquinamento, sforando le prescrizioni contente nel decreto ministeriale del 12 luglio del ’90 grazie a deroghe e scappatoie.



La sentenza di questo processo che è stato chiamato dalla stampa “Enel bis” è prevista per il prossimo marzo. Secondo il legale di tante associazioni ambientaliste che si sono costituite parte civile, Matteo Ceruti, il caso potrebbe creare un importante precedente per tanti altri procedimenti ambientali pendenti nel territorio italiano che riguardano riconversioni e ambientalizzazione mai avvenuti, così come per il risarcimento delle vittime dei disastri ecologici.
“Chi inquina, paga” insomma, non sarà più solo una utopia.
E la sconfitta per l’Enel non arriva solo dal tribunale. Il Ministero ha confermato che le osservazioni depositate dagli ambientalisti in merito alla incompatibilità del progetto di conversione a carbone con le norme comunitarie che tutelano il Delta del Po, sono state ritenute valide. Sui siti della rete Natura 2000 come è appunto il Delta del Po non ci sono alternative all'ipotesi di “minor impatto” ambientale per quanto viene là realizzato. E “minor impatto”, nel caso di una centrale, significa solo metano. Non certo, l’ossimoro preferito dei dirigenti Enel: “carbone pulito”!
“Se l’Enel vorrà riaprire a carbone la centrale di Porto Tolle - ha dichiarato Eddi Boschetti, presidente provinciale del Wwf di Rovigo - dovrà ripartire da zero, presentando un progetto completamente diverso da quello che prevedeva l’uso del carbone”. Come dire che per i prossimi vent’anni possiamo stare tranquilli: la centrale di Porto Tolle non inquinerà più né il parco del Delta, né la nostra salute. “A conti fatti, potremmo anche ringraziare l’Enel - continua l’ambientalista - che non ascoltò mai i nostri moniti. Se ci avesse dato retta avremmo da anni a che fare con una centrale a turbogas che di impatti ne avrebbe comportati comunque più di una centrale spenta definitivamente”.
Un grazie sincero invece a quanti - associazioni, movimenti e cittadini - si sono mobilitati, rischiando anche denunce e ritorsioni, per difendere il Delta. Non fosse stato per loro, ora avremmo nel bel mezzo di un parco naturale, un mostruoso impianto che brucia carbone.
“Resta sullo sfondo - conclude Boschetti - la triste constatazione che senza la lotta serrata di associazioni e comitati a livello tecnico e legale, le norme vigenti non avrebbero avuto nessun altro difensore. Comune, Provincia, Regione, persino vari ministri di colore politico diverso in tutti questi anni non si sono mai avventurati oltre la dichiarazione populista, guardandosi bene dall'entrare nel merito delle elementari violazioni di legge che erano evidenti fin dall'inizio”.
Come diceva Che Guevara, quello che non facciamo da noi, nessuno lo farà per noi.

Rilanciare il “30 novembre. Comitati da tutto il Veneto in assemblea a Padova

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Tanti cuori per un solo obiettivo: rilanciare in positivo quello che oramai è stato chiamato “movimento del 30 novembre” e trovare una strada condivisa per imprimere una sterzata ambientalista ad un governo regionale che, anche nelle ultime scelte politiche in tema di viabilità, si riconferma più che mai legato a vecchi schemi di sfruttamento e mercificazione del territorio e dei beni comuni.
L’incontro dei comitati - il primo dopo la manifestazione di fine novembre - si è svolto sabato pomeriggio, nella sede patavina dei Beati Costruttori di Pace. Più di un centinaio i presenti, in rappresentanza del variegato arcipelago ambientalista e movimentista del Veneto. La prima parte dei lavori è stata dedicata ad una valutazione a freddo dell’iniziativa del 30. Valutazione considerata per lo più positiva da tutti. Superata la fase delle polemiche sulla gestione del corteo, è apparso chiaro che il percorso che si vuole intraprendere dovrà essere sì condiviso nei fini, ma rispettare le specificità di ogni singola associazione, i suoi tempi, il suo linguaggio e il suo stare in piazza. Piuttosto il, continuiamo a chiamarlo così , “movimento del 30 novembre” dovrà mostrarsi il più possibile inclusivo, allargando i temi ambientali a quelli del lavoro, considerando che alla fin fine, diritti e ambiente sono due facce della stessa medaglia che un certo tipo di “sviluppo” vorrebbe macinare per ricavare reddito. O meglio. quella famosa “rendita” che, come ha osservato l’architetta Luisa Calimani, portavoce di Città Amica, sta alla base di questo capitalismo predatorio che ha inventato parole come “austerity” e concetti come “crisi”.



E, a proposito di concetti, tanto per ribadirne uno che troppo spesso cercano di farci dimenticare - intendo “la lotta paga” - riportiamo una osservazione di Beppe Caccia. “La manifestazione del 30 ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito politico temi che erano nella nostra piattaforma di lotta. Pensiamo solo al problema dei pedaggi autostradali di cui ora si fa un gran discorrere. Sono convinto che sia anche merito delle nostre mobilitazioni se ora due miti che ci erano stati inculcati come quello che il project financing non ci costa nulla e che le autostrade risolvono il nodo della viabilità, hanno mostrato tutta la loro inconsistenza”.
Archiviato quindi il bilancio positivo dell’iniziativa di novembre, resta da decidere quali strumenti utilizzare per buttare ancora una volta il cuore al di là della barricata. Per Oscar Mencini, che ha auspicato uno “svecchiamento” del sindacato sui temi ambientali, non è mai troppo tardi, ha sottolineato la necessità di “diffondere saperi e conoscenze, incrociando saperi sociali con conoscenze scientifiche” allo scopo di allargare la base critica. “E’ importante includere ma anche evitare di radicalizzare lo scontro” ha sostenuto. Una strada interessante, pur se non pare abbia suscitato grandi applausi in sala, è stata quella per così dire “istituzionale” avanzata dall’urbanista Carlo Giacomini che ha proposto ad usare ancora l’arma del referendum regionale e della proposta di legge di iniziativa popolare su tutti i temi sui quali si battono i comitati, dalle cave agli inceneritori, dalla tutela delle acque a quella de paesaggio. Se è vero che tutti quelli che erano in sala possono chiamarsi a buon diritto “figli” della grande battaglia referendaria per l’acqua pubblica, è anche vero che questa strada giuridica a livello regionale potrebbe rivelarsi tecnicamente impervia, costosa e difficile da percorrere. Per ottenere inoltre risultati quantomeno incerti. (Chi scrive ricorda ancora un paio di legge di iniziativa popolare personalmente depositate 4 o 5 anni fa di cui e che sono ancora ad ammuffire in qualche armadio di palazzo Ferro Fine, sempre che l’acqua alta non se li sia ancora mangiati).
Ma il vero punto dolente di tutta la discussione di sabato è stato il rapporto tra movimenti e partiti che è come parlare di thè col latte: c’è chi non riesce a berlo senza e chi si sente venire la pelle d’oca al solo pensiero di mescolarli. Detto subito che nessuno in sala è schizzato di matto al punto di proporre di costituire un altro partito di sinistra e neppure una sorta di “comitato dei comitati”, il problema di come affrontare le prossime amministrative c’è ed è inutile nascondercelo. Cristiano Gasparetto di Ambiente Venezia, ha messo in guardia l’assemblea dal “continuare a votare gli stessi sindaci e assessori che ci hanno preso in giro e che sono causa del disastro” proponendo di costituirsi in “una lista di partecipazione”. Proposta che non ha sollevato grandi entusiasmi in sala. Gli ha risposto Mattia Donadel di Opzione Zero, ricordandogli che “oramai le decisioni non vengono più prese nei luoghi istituzionali” e che “la questione qui non è sostituire un assessore ma un intero sistema di sfruttamento dei ben comuni”.
Chiudiamo restando sul concreto con la proposta operativa avanzata da Beppe Caccia che sarà, immaginiamo, uno degli argomenti che verranno affrontati nelle prossime assemblee. In sostanza, Caccia ha proposto di organizzare una “due o tre giorni” di lotta e di informazione, che ogni comitato dovrebbe gestire nel proprio territorio con le modalità e i linguaggi che più gli sono consueti: dai gazebi al volantinaggio, dai blocchi ai sit in. Rispettando quindi specificità e sensibilità di ogni associazione. Lo scopo è quello di informare la cittadinanza nelle zone “calde” con l’accortezza di legare sempre e comunque la questione locale ad un più ampio discorso globale. Perché, se c’è una cosa che la manifestazione del 30 novembre ha insegnato a tutti è che la sindrome di Ninby è perdente e si può vincere solo se cominciamo a pensare più in grande dei nostri avversari.

La Europa de abajo busca reescribir los derechos de los migrantes

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Italia. Nadie ha olvidado aquel 3 de octubre de 2013. A pocas millas de la playa de Lampedusa, Italia, se ahogaron 368 personas. Hombres, mujeres y niños que huyeron de guerras, hambre y violencias. Todos eran refugiados de norte de África: Eritrea, Ghana e Somalia, en particular, pero también de Etiopía y Túnez. Salieron dos días antes desde el puerto libio de Misurata, en un pesquero de unos 20 metros de ancho. Estaban sólo a media milla marítima de la costa de la isla italiana, cuando un incendio en el barco -encendido probablemente para pedir ayuda a la Guardia Costera-, causó la más grande tragedia marítima del Mediterráneo desde el fin de la Segunda Guerra Mundial: 368 muertos y unos 20 desaparecidos cuya suerte todavía hay que aclarar.
Al enorme luto, el Estado italiano respondió con la vergüenza de demandar los 155 sobrevivientes, entre los cuales hay 41 menores, acusándolos de haber entrado ilegalmente en Italia, de acuerdo con las actuales leyes de inmigración. Además, no se realizó ni una sola investigación sobre los eventuales retrasos en la ayuda a los náufragos.



Aquel 3 de octubre 2013, frente a la playa de Lampedusa encontraron la muerte en el mar hombres, mujeres y niños. Se trata de migrantes en fuga que sólo buscaban un futuro, pero que encontraron una frontera. Es la frontera de guerra de una Europa militarizada que, aún después de esta tragedia, sigue invirtiendo miles de millones de euros en políticas de exclusión forzada en Lampedusa, en Melilla, con el muro de Evros y los patrullajes de la agencia Frontex; hasta invadir la soberanía de Estados terceros, exteriorizando hasta el corazón del desierto libio sus dispositivos de control.
Las fronteras sirven para dividir y nunca “pesan” sólo a una parte. También quien nació en la que puede parecer la parte “correcta” es diariamente humillado por una política cada vez más lejana de aquella idea de democracia directa y participativa que está en la base de nuestra Constitución. La marginación de grupos cada día más amplios de nuevos pobres, así como la mercantilización de los derechos laborales y de ciudadanía golpean a los migrantes en fuga, así como a quien trae en su bolsillo un pasaporte europeo en plena vigencia.
Esta no es la Europa que queremos. Este no es el futuro que soñamos. Por eso surgió la convocatoria lanzada por Melting Pot para realizar, como se lee en su sitio web, “un pacto constituyente entre muchos y diversos, un camino colectivo, un espacio común en el que cada uno tendrá la responsabilidad de preservar, cada quien con sus prácticas y sus modos, una ocasión para empezar a entender colectivamente cómo construir una geografía del cambio que vaya más allá de los confines impuestos por Europa, para transformar este manifiesto en realidad”.
Centenares son las asociaciones, italianas pero también de países de Europa y norte de África, que ya se adhirieron a la iniciativa. La cita será en Lampedusa, y se extenderá del viernes 31 de enero del 2014 al domingo 2 de febrero. El objetivo es escribir la Carta de Lampedusa y “contraponer a este estado de cosas un otro derecho, escrito desde abajo. Un derecho a la vida que ponga en el primer lugar a las personas, su dignidad, sus deseos y sus esperanzas, un derecho que ni una institución hoy logra garantizar, un derecho que hay que defender y conquistar, un derecho de todos y para todos”.
Asociaciones, movimientos y ciudadanos – la lista de quienes se adhirieron es verdaderamente muy larga como para reproducirse – están trabajando en esta iniciativa incluso desde el día después de la tragedia. Para que el proyecto se mueva en los carriles de la democracia y la participación, se usará una plataforma wiki que permite que todos puedan participar en la redacción de los documentos finales. Además, ya se realizaron varios encuentros, muchos de ellos en por conferencias web.
No hay ninguna pretensión, subrayan los organizadores, de imponer a Europa un rápido cambio de dirección sobre política migratoria. La cita de Lampedusa hay que entenderla como una ocasión de “volcar los lenguajes y los institutos impuestos por las políticas del confín” y poner las bases de un “manifiesto colectivo, un nuevo derecho que nace desde abajo”.
Un punto de salida, pues. Un trampolín para volver a escribir la geografía de Europa. Y con ella, el mapa de nuestros derechos, que son derechos de todos.

A Lampedusa per riscrivere la geografia dei diritti

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Nessuno se l’è dimenticato, quel 3 ottobre. A poche miglia dalla spiaggia di Lampedusa affogavano 368 persone. Uomini, donne e bambini in fuga da guerre, fame e violenze. Uomini, donne e bambini che cercavano solo un futuro e che hanno trovato una frontiera. La frontiera di guerra di una Europa militarizzata che, anche dopo la tragedia, continua ad investire miliardi di euro in politiche di esclusione forzata a Lampedusa come a Melilla, con il muro di Evros, i pattugliamenti di Frontex, fino ad invadere la stessa sovranità di Stati terzi, esternalizzando sino al cuore del deserto libico i suoi dispositivi di controllo.
Le frontiere servono a dividere e non “pesano” mai solo da una parte. Anche chi è nato dalla parte “giusta” del confine viene giornalmente umiliato da una politica oramai sempre più lontana da quell’idea di democrazia diretta e partecipata che stava alla base della nostra Costituzione. L’esclusione di categorie sempre più ampie di nuovi poveri, la mercificazione dei diritti del lavoro e della cittadinanza colpiscono i migranti in fuga come colpiscono chi in tasca ha un passaporto europeo in piena regola.
Non è questa l’Europa che vogliamo. Non è questo il futuro che sogniamo.



Ed è qui che nasce l’appello lanciato da Melting Pot a realizzare insieme, come leggiamo nel sito meltingpot.org, “un patto costituente tra molti e diversi, un processo collettivo, uno spazio comune che sarà responsabilità di ognuno preservare, ciascuno con le sue pratiche e le sue modalità, un’occasione per iniziare a capire collettivamente come costruire una geografia del cambiamento che vada oltre i confini imposti dall’Europa per trasformare questo manifesto in realtà”.
Sono centinaia le associazioni, italiane ma anche del resto d’Europa e dal nord Africa, che hanno già aderito all’iniziativa. Ci troveremo tutti insieme a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per scrivere quella che è stata chiamata la Carta di Lampedusa e “contrapporre a questo stato di cose un altro diritto, scritto dal basso. Un diritto alla vita che metta al primo posto le persone, la loro dignità, i loro desideri e le loro speranze, un diritto che nessuna istituzione oggi riesce a garantire, un diritto da difendere e conquistare, un diritto di tutti e per tutti”.
A questa iniziativa, associazioni, movimenti, cittadini - la lista di chi ha aderito è davvero troppo lunga per essere riportata ed inoltre è in continuo aggiornamento, ma la potete trovare facilmente nel sito di Melting Pot come nelle pagine di tutte le realtà che si sono mobilitando - stanno già lavorando sin dal giorno dopo la tragedia. Per mantenere il progetto nei binari della democrazia e della partecipazione, è stata usata una piattaforma wiki che permette a tutti di contribuire alla stesura dei documenti finali. Inoltre, sono già stati svolti svariati incontri, molti dei quali in web conference. Segnaliamo solo il prossimo appuntamento che si svolgerà materialmente a Palermo, mercoledì 18 a Diaria Didattica, via Venezia, alle ore 19.
Anche il programma della “tre giorni” di Lampedusa è in fase di definizione. Per ulteriori informazioni vi invito a raggiungerci sulla pagina Facebook “La Carta di Lampedusa”.
Nessuna pretesa, sottolineano gli organizzatori, di imporre all’Europa un repentino cambiamento di rotta sulla politica migratoria,. L’appuntamento di Lampedusa deve essere inteso come un’occasione di “ribaltare i linguaggi e gli istituti imposti dalle politiche del confine” e gettare le basi di un “manifesto collettivo, un nuovo diritto che nasce dal basso”.
Un punto di partenza, dunque. Un trampolino per riscrivere insieme la “geografia” dell’Europa. E con essa la mappa dei nostri diritti che sono i diritti di tutti.

In fondo alla speranza

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La storia inizia là dove finisce. Sotto l’albero di albicocco dove, quel 3 luglio del ’95, Alex Langer decise di farla finita. “I pesi - scriverà nell’ultima lettera - mi sono diventati davvero insostenibili”. Proprio le lettere sono le vere protagoniste del racconto a fumetti - o, per dirla all’americana, graphic novel - scritto da Jacopo Frey e disegnato da Nicola Gobbi, intitolato “In fondo alla speranza” per l’editore Comma 22. Quelle lettere che l’ambientalista e fondatore dei verdi italiani trasportava nelle sua borsa in luoghi devastati dalla guerra. Lettere di profughi, di assediati, di combattenti, di morti, di assassini, di gente in fuga. Lettere alle quali Langer continuava ad affidare la speranza di un dialogo impossibile.


In tutto il volume, Frey e Gobbi non fanno nessun accenno alla guerra dei Balcani anche se possiamo dare per scontato che la storia che si dipana attorno a questo personaggio metà reale e metà immaginato di Alex Langer si svolga proprio tra Sarajevo, riconoscibile dal tunnel attraverso il quale i suoi cittadini riuscivano a superare le linee serbo bosniache, e i villaggi in macerie della Bosnia Erzegovina. “In fondo alla speranza” non è una biografia e nemmeno prova ad esserlo. Gli autori si sono avvicinati ad Alex Langer e all’ultima tragica stagione della sua vita, con ammirabile rispetto e delicatezza. Non a caso il sottotitolo del libro è “Ipotesi su Alex Langer”. Attraverso la lettura dei suoi scritti e i racconti e le testimonianze di quanti hanno conosciuto Langer, i due giovani fumettisti esordienti - che con quest’opera si sono meritati il premio Komikazen per il fumetto di realtà - ci hanno i restituito un Alex Langer credibile, sia pure inserito in una vicenda di fantasia. Un Alex Langer che porta nella sua sacca, sempre più pesante, pacchi di lettere e sulle sue spalle i dubbi e le incomprensioni di un arcipelago pacifista in cui si riconosceva ma del quale riconosceva anche i limiti, adagiato su una sorta di “tifo sportivo” se non addirittura di colpevole neutralità, incapace di proporre concrete soluzioni alla guerra.
Il montaggio cinematografico delle tavole a fumetti e i tratti realistici della matita di Nicola Gobbi (tutto avrei detto meno che questo autore è un esordiente!) lasciano spazio, man mano che la storia scorre, alle irreali e drammatiche visioni di morte del protagonista, e ci regalano una atmosfera autunnale e pesante dove sembra che la neve debba cadere da un momento all’altro. Ma invece della neve, nelle ultime tavole del racconto, vedremo cadere solo le lettere che Alex portava nella sua sacca. Sino a quell’ultima tragica ed inevitabile lettera con destinatario “Alex Langer” che ancora mancava all’appello. “Non siate tristi e continuate in ciò che è giusto”.
La storia inizia là dove finisce. Sotto l’albero di albicocco, a pochi passi da un pozzo. Chiusa l’ultima pagina, il lettore rimane là a fissare commosso il vuoto, ed a domandarsi se, nel fondo di quel pozzo, si possa trovare ancora una speranza.

Da Mestre ad Orte. Tre giorni in bici con Opzione Zero per dire No all'autostrada

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Da Mestre ad Orte, per dire No al cemento.
In bicicletta con Opzione Zero
giovedì 5 dicembre
Domani si parte. Di buon’ora e in bicicletta. Leggeri d’animo e di bagaglio. Proprio come si conviene a dei veri viaggiatori.
Si parte per ricordare a tutti che non è la strada che fa il viaggio ma chi la percorre e come la percorre. E la strada che abbiamo scelto di percorrere è una strada che, nelle intenzioni del Governo, domani non ci sarà più. Una strada in “pericolo di estinzione” come tante specie animali gli ambientalisti stanno difendendo a denti stretti. I paesaggi, i sentieri, i corsi d’acqua, i paesi che incontreremo infatti sono minacciati dal cemento e da una politica di “sviluppo” che devasta e macina i beni di tutti in nome del profitto di pochi. Tutto questo è la nuova autostrada Mestre Orte. Una brutta storia cominciata 12 anni fa, pensata apposta per essere inserita nell’elenco dei famigerati “interventi strategici” previsti dalla legge Obiettivo appena varata dal governo Berlusconi, e quindi affidata ai soliti noti “amici degli amici” per la spartizione.



All’inizio, la Grande Opera contro la quale si era immediatamente schierato l’intero arcipelago ambientalista italiano, si era arenata per totale mancanza di copertura economica (una decina i miliardi previsti). Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo che il Governo Letta - il Governo del “fare” - ci risolve la questione e il Cipe approva l’opera. I finanziamenti che non ci sono per le scuole, per la sanità, per la ricerca o per la cultura, vengono qui recuperati a vantaggio del costruttore/politico Vito Bonsignore con la formula del Project Financing e dell’abbuono sulle tasse valido per una ventina di anni. Questo infatti è il periodo ritenuto sufficiente e necessario per completare la Grande e devastante Opera. E nel frattempo? La vagonata di miliardi sarà volentieri anticipata dalle banche. Tanto, a coprire gli interessi, ci penseranno le casse statali. Inutile che stia qui a spiegarvi dalle tasche di chi preleveranno i soldi le casse statali.
Una spesa, tra interessi e interessi sugli interessi, praticamente infinita in cambio di una strada inutile se non a cementificare da nord a sud mezzo Paese.
“L’autostrada Mestre Orte sarà lunga 396 chilometri, attraverserà cinque Regioni distruggendo territori, campagne e ambienti di pregio come la Riviera del Brenta, il Delta del Po, le Valli di Comacchio, intere vallate dell’Appennino; incalcolabili i danni in termini di consumo di suolo, aumento di frane e alluvioni, inquinamento atmosferico“ spiega Mattia Donadel, presidente dello storico comitato della Riviera del Brenta Opzione Zero che sin dall’inizio si batte contro il progetto. “Consideriamo anche che, anche a voler prescindere dall’impatto ambientale, è contestabile anche l’utilità dell’opera, considerato che il progetto non prevede la messa in sicurezza della statale Romea e che i flussi di traffico sulla SS 309 e sulla E-45 non giustificano la realizzazione di una infrastruttura da oltre 10 miliardi di euro!”
Ed è per ricordare tutto questo che gli ambientalisti di Opzione Zero e degli altri comitati che hanno aderito all’iniziativa - molti dei quali ci attendono lungo il percorso - raggiungeranno Orte in bicicletta, toccando simbolicamente tutti i 48 Comuni che rischiano di essere sventrati dalla super strada.
Ecomagazine li accompagnerà lungo tutta la strada per documentare la loro avventura con reportage giornalieri.
Domani mattina quindi tutti i bicicletta, leggeri d’animo e di bagaglio. Si parte dal municipio di Mestre alle 7 di mattina perché a gente come noi il freddo non fa paura. E nemmeno i 396 chilometri da pedalare da un Appennino all’altro. Quello che davvero ci spaventa, questo sì, è quella grigia e triste colata di cemento che non finiremo più di pagare in denaro, salute e ambiente.


Da Mestre a Cesena in bici per la prima tappa della carovana di Opzione Zero.
Tra comitati in lotta e lagune che non meritano il cemento

venerdì 6 dicembre
Cesena - Alle 5 della mattina puoi vedere lastre di ghiaccio galleggiare nelle acque scure dei canali di Venezia. In laguna è ancora buio e tira un freddo polare. Mestre non è di meno. La partenza è per le sette della mattina dalla piazzola davanti al municipio ma è meglio arrivare una mezz’ora prima per la conferenza stampa e le foto di rito. Mentre la città si illumina sotto un pallido sole che non scalda per niente, i ciclisti arrivano alla spicciolata. Gigi di Legambiente è il primo ad arrivare sopra una assurda bici ultra pieghevole con due ruote che sembrano quelle di un triciclo. Ci seguirà soltanto per una decina di chilometri. Gli altri che arrivano dalla Riviera sono più attrezzati. Il gruppo più consistente è quello al seguito di Opzione Zero, lo storico comitato della Riviera del Brenta che ha lanciato questa pazza biciclettata da Mestre ad Orte (quasi 400 chilometri in tre giorni!) per denunciare lo scempio ambientale legato alla costruzione dell’autostrada, una ennesima Grande Opera inutile e devastante. C’è anche un camper a sostegno e penso a quanto sono fortunato a dovermici sedere dentro per tutta la strada con la scusa di dover fare da ufficio stampa. Si parte alle 7 in punto con la benedizione e il sostegno, tutto morale, di Beppe Caccia, consigliere comunale della lista In Comune e unico politico venuto sino a Mestre a quell’ora infame per impartirci la sua paterna benedizione. “La battaglia dei comitati contro la realizzazione di questa autostrada in project financing è anche una battaglia di Venezia perché l’opera porterebbe altro traffico e ancora più inquinamento su tutto il nodo di Mestre”.
I ciclisti in partenza dietro a Mattia Donadel, presidente di Opzione Zero oltre che provetto ciclista, sono una mezza dozzina. Ma per tutto il percorso se ne aggiungeranno altri. Una staffetta continua e spontanea. Si comincia già a Marghera, dove un attivista dei No Grandi Navi, si accoda al gruppo e ci segue per vari chilometri sventolando la bandiera del suo (nostro) comitato. “Questa biciclettata serve anche a questo - ha commentato Mattia (senza smettere di pedalare) -: farci capire che le tante lotte dei tanti comitati sono parte della stessa battaglia”. Concetto che ritorna su ogni paese che incontriamo. Oriago, Mira, San Bruson, Campagna Lupia, Codevigo... in ogni piazza troviamo decine di cittadini che ci attendono pronti a darci sostegno con focacce, panini e bevande calde. Ci consegnano anche bottiglie di vino fatto in casa, birre artigianali, ceste natalizie con panettoni, cioccolate e torroni. Non siamo ancora arrivati a Cavazere che il nostro camper condotto da Fabrizio è più pieno della slitta di Babbo Natale. Ma non è solo la cittadinanza attiva ad attenderci. A Mira, a Codevigo, a Comacchio, a Campagna Lupia anche sindaci e assessori ci accolgono per denunciare l’assurdità dell’opera, così come la scarsa considerazione in cui, nelle sedi decisionali, vengono tenuti i pareri delle amministrazioni locali.
Il camper viaggia lento dietro ai ciclisti seguendo il corso tortuoso di canali ghiacciati, superando lagune dove svernano tante specie di uccelli e attraversando grandi campi agricoli coperti di brina sulla quale i raggi solari accendono brevi arcobaleni. Terre di incomparabile bellezza che minacciano di essere devastata da una assurda colata di cemento. Comprensibile la preoccupazione dei tanti comitati ambientalisti che incontriamo a Comacchio per l’inquinamento e la deturpazione che l’autostrada Orte Mestre causerebbe in quelle valli tutelate purtroppo, spiegano, solo a parole.
Arriviamo in Romagna che sono le 4 del pomeriggio. Il sole invernale ha già dato quello che poteva dare e sulla nostra strada si allungano le ombre della notte. Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia ed occorre fare presto. Il gelo comincia a pestare sul serio. Qualche ciclista chiede asilo e sale sul camper. I chilometri oramai sono più di cento e le gambe non sono sempre sufficientemente allenate. Da Ravenna e poi da Cesena, gruppetti di ambientalisti ci vengono incontro sulla strada. Alcuni in auto, altri in bici. La carovana aumenta di numero. Onore al merito: Mattia e Marino saranno gli unici due a portare a termine, dalla partenza all’arrivo, questa prima tappa di oltre 210 chilometri. Roba da giro d’Italia. E con la media non sottovalutabile di 25 - 30 chilometri all’ora. L’ultimo traguardo della giornata è la piazza di Cesena. Mattia ha ancora fiato per rispondere alle domande di un paio di giornalisti locali. Ammirevole! Sono le nove della sera. I compagni romagnoli ci hanno preparato una cena annaffiata da Sangiovese (che altro, se no?) Ci spiegano che fanno parte del Comitato Difesa Sociale e che si occupano più che altro degli sfratti. “Qui a Cesena - mi racconta Alessandro - almeno 200 famiglie all’anno finiscono sulla strada e l’amministrazione non vuole investire sulle case popolari”. Scambiamo qualche idea e mi chiedono notizie sulla nascente esperienza veneta dell’Agenzia Sociale per la Casa. Ecco a cosa serve la biciclettata, mi viene da pensare. Forse le idee girano più velocemente dietro ad un bicchiere di Sangiovese che su Facebook e Twitter. Poi, finalmente, vanno tutti a nanna mentre io mi attardo ancora un po’ a scrivere sul camper. Mezzanotte è passata da un pezzo.

Da Mestre a Cesena in bici per la seconda tappa della carovana di Opzione Zero.
Pedalando in Umbria, tra strade franate, opere incomplete e devastazioni programmate

sabato 7 dicembre
Ponte San Giovanni, Perugia - Stavolta ci va di lusso. Sveglia “solo” alle sei di mattina. Si parte ancora col buio. I chilometri da macinare sono tanti anche quest’oggi per i nostri ciclo attivisti: non meno di 180. Sempre ammesso che imbrocchiamo tutte le strade perché noi siamo gente che viaggia ancora con la carta in mano chiedendo indicazioni alle persone che incrociamo. Fuori, la colonnina del termometro segna meno 3 gradi. E’ tutto gelato. I nostri ciclisti inforcano le selle e cominciano a pedalare di buona voglia anche per scaldarsi. Lasciamo Cesena e la Romagna per inerpicarci sull’Appennino. Nelle nostre tabelle di marcia, i paesi umbri sono costellati di punti interrogativi. Conosciamo le altezze ma non conosciamo quanti dislivelli sia necessario affrontare per raggiungerli.
Alle 10,30 siamo a Bagno di Romagna che ci accoglie con la neve ai bordi delle strade e il pungente odore sulfureo delle sue terme. Pausa pranzo a Pieve Santo Stefano, la “città del diario”, la cui biblioteca dal ’84 raccoglie i quaderni, le epistole e i memoriali di chiunque desideri affidarglieli. Qui veniamo raggiunti da una coppia di attivisti in auto che si riveleranno utilissimi per la logistica della spedizione, precedendo i nostri ciclisti nei centri abitati per volantinare, consegnare l’appello ai sindaci e incontrare le associazioni ambientaliste. Il camper intanto fa da “ammiraglia” al gruppo in bici, seguendolo passo per passo, pronto all’assistenza e all’incoraggiamento. Le salite a tratti sono dure ma riusciamo a toccare tutti i paesi previsti: San Sepolcro, Città di Castello, Umbertide. In tutte le piazze, veniamo accolti da gruppetti di ambientalisti con i quali scambiamo opinioni, indirizzi mail e volantini. Poco fuori Umbertide, in particolare, lungo la strada che porta a Gubbio, incontriamo un folto gruppo di attivisti di Genuino Clandestino con i quali ci intratteniamo per una bicchierata.
Una frana ci costringe a cambiare percorso. “Qui le strade sono in uno stato di manutenzione pessima - ci dirà la sera un attivista umbro di nome Moreno - eppure non spendono un soldo per la messa in sicurezza. Anche i collegamento con le Marche sono difficili perché le strade sono state tutte piantate a metà percorso. Non sarebbe più utile finire queste invece di progettare autostrade che non faranno altro che devastare la montagna e seminare altro traffico?”
Il manto delle strade che collegano i veri paesi sono in effetti pieni di buche e sventrati dalle frane. I ciclisti procedono a fatica e debbono rallentare. Verso le 5 di sera, assieme al buio scende anche una nebbia degna della val Padana. Adesso la partita si fa dura. Abbiamo accumulato un’ora circa di ritardo. Dalle parti di Casa del Diavolo - nome che è tutto un programma - smarriamo la strada. I ciclisti tengono botta ma si capisce che sono provati. Per fortuna ci viene incontro un’auto con dei compagni di Perugia. Ci hanno trovato un rifugio a Ponte San Giovanni e nel centro sociale locale ci aspetta una dozzina di rappresentanti dei vari comitati contro la Orte Mestre. C’è da notare che rispetto ai romagnoli i compagni umbri sono meno festaioli ma molto più organizzativi. Neanche il tempo di festeggiare l’arrivo della “tappa” o di togliersi le tute sudate che siamo già in assemblea. Una mezz’ora d’ora dopo, hanno già stabilito le date dell’incontro che radunerà tutti gli attivisti contro l’autostrada Orte Mestre della Regione per la costituzione di un unico comitato e la successiva conferenza stampa. “L’Umbria sarà la nuova Val di Susa” ci garantisce Moreno. Andiamo a cena con la soddisfazione di aver acceso una miccia.

Terza e ultima tappa della carovana di Opzione Zero.
Da Mestre ad Orte e non è finita. Tutti pronti per ripartire ancora

domenica 8 dicembre
Orte - Ultima tappa. Se tutto andrà bene, taglieremo l’ultimo traguardo nel primo pomeriggio. Da Perugia ad Orte ci saranno un centinaio di chilometri o poco più. Quasi tutti in salita, ma le gambe oramai sono allenate. Si parte ad un ora più tranquilla stavolta, verso le sette della mattina. Perugia e gli Appennini che la circondano sono avvolti da una fitta nebbia. Ed è un peccato perché il paesaggio sul quale viaggiamo deve essere stupendo. La nebbia non ci permette solo di scorgere oltre il primo filare di ulivi che accompagna la strada. Il raccolto di olive è già stato ultimato e sui rami sono rimaste solo le piccole foglie gelate dalla brina invernale. I ciclisti pedalano di buona lena immersi in un ambiente dove si fatica a ritrovare i consueti contorni della realtà.
Solo verso le 10 della mattina riusciamo a scorgere il blu del cielo. Siamo oramai ad Acquasparta, in perfetta tabella di marcia, e pedaliamo verso San Gemini dove sorge la nota fonte termale. L’appuntamento più importante della giornata ci attende a Terni dove arriviamo poco prima di mezzogiorno. Gli ambientalisti ci aspettano nella piazza principale della città dove hanno approntato un banchetto informativo sulla Mostre Orte e ci offrono torte, biscotti e pan pepato, un dolce tipico dell’Umbria.
Ad attenderci c’è anche l’assessore alla cultura, Simone Guerra, di Sel, che si complimenta per la nostra impresa e concorda sul devastante impatto nel territorio, e in particolare su quello dell’Appennino umbro, che la Orte Mestre porterebbe con sé. “Purtroppo non tutti la pensano come me - spiega -. Molte amministrazioni hanno già votato delibere che aprono la porta a questa ennesima Grande Opera. Noi faremo di tutto per contrastarla ma anche a Terni siamo in giunta con un Pd che non sente ragioni. Vi confesso che è un rapporto questo, che ci va sempre più stretto”.
Lasciamo l’assessore ai suoi problemi e risaliamo in bici e in camper per Orte. L’ultima tappa. I chilometri sulla carta sono pochi ma tutte le strade passano per la E45. Strada poco sicura per le bici. Cerchiamo una alternativa e ci perdiamo alla grande nello sterrato collinare, tra salite a muro e discese rompicollo, consolati solo dall’incomparabile bellezza del paesaggio. Pedala e pedala, arriviamo proprio sopra la città ma troviamo il tratto finale sbarrato da una azienda venatoria. “L’unica strada alternativa alla E45 passa per il paese di Amelia e comporta un giro dell’oca di decine di chilometri ed inoltre tocca zone che non sono interessate dalla Orte Mestre - spiega Mattia Donadel -. Le colline che saranno sventrate e cementificate sono proprio queste su cui siamo saliti”. E’ proprio questo il posto migliore per l’intervista conclusiva ai nostri ciclo attivisti, dietro boschi di ulivi centenari che non meritano di morire sotto una colata di cemento.
“E’ stata una bellissima avventura - conclude Mattia - Abbiamo trovato tanti amministratori e tantissimi comitati ambientalisti che sono contrari a questa inutile autostrada. Tutti si sono detti disposti a intraprendere una battaglia comune perché questo è il solo modo che abbiamo per vincere. Abbiamo trovato anche tante persone che non sapevano nulla di cosa si sta progettando sopra la loro terra e abbiamo dato loro un motivo per informarsi. Sono semi questi che, ne sono sicuro, daranno i loro frutti. Tutti ci hanno chiesto di ripetere la carovana in primavera, per offrire anche a persone non allenatissime la possibilità di partecipare. Ed è quello che faremo. Credeteci... siamo solo all’inizio!”

La raccolta differenziata ha pensionato l’ultimo inceneritore di Venezia. Chiude l’impianto di Fusina

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L’inceneritore di Fusina non serve più. Venezia ha scelto la strada della differenziata. A gennaio chiuderà i battenti l’ultimo impianto di incenerimento dei rifiuti ancora rimasto nel territorio del Comune. Il processo di spegnimento è già stato avviato. Un mese circa il tempo tecnico perché la struttura sia dismessa e resa inutilizzabile. Nessun pericolo occupazionale per i 22 operatori che saranno impiegati in altre mansioni.
Il 2014 vedrà quindi una città già avviata in un ciclo virtuoso dello smaltimento dei rifiuti. L’impianto di Fusina era stato approvato dalla Regione Veneto - nonostante il parere contrario delle associazioni ambientaliste e dello stesso Comune - nei primi anni ’90 ed entrato in funzione del ’98.
“Era la conseguenza, che già allora ritenevamo sbagliata, di una superata concezione del trattamento dei rifiuti - ha spiegato l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin in un incontro con la stampa, questa mattina al municipio di Mestre -. Oggi possiamo affermare che avevamo ragione e che questa vecchia politica è stata superata dalla tecnologia ma soprattutto dalla metodologia”. L’assessora si riferisce alla raccolta differenziata. Venezia infatti - e non è un caso che, sia pure per quanto riguarda i parametri ambientali, la città resti in vetta alle classifiche italiane - ha virato decisamente verso il differenziato, sia nella città lagunare con il porta a porta che nella città di terraferma dove l’introduzione dei cassonetti a chiave ha ottenuto incoraggianti risultati.


“Proprio i cassonetti a calotta che presto porteremo in tutta la città - ha commentato l‘assessore -, si sono rivelati l’arma vincente, responsabilizzando l’utente e dandogli la possibilità di gestire in prima persona il conferimento dei propri rifiuti”. Risultati incoraggianti dicevamo: nei quartieri in cui il sistema dei cassonetti a chiave è andato a regime si sono superate quote di differenziato pari al 70 per cento. Da sottolineare anche il grande lavoro comunicativo svolto da Veritas che ha stampato fogli illustrativi in ben 17 lingue per spiegare a tutti i residenti il funzionamento del sistema.
La differenziata quindi, ha reso obsoleto l’inceneritore. Ma non solo. Quello che non andrà al riciclo, diventerà cdr, ovvero combustibile da rifiuto, e bruciato nella centrale Enel al posto del carbone con un innegabile risparmio di emissioni di anidride carbonica. “Per una amministrazione comunale - conclude Bettin - l’incenerimento dei rifiuti continua ad essere la via più comoda ma anche la più sbagliata. A Venezia, grazie ad una politica sul ciclo dei rifiuti che tiene conto soprattutto dell’ambiente e della salute dei cittadini, siamo riusciti a ridurre il carbone, incentivare la differenziata, bloccare il folle progetto della Regione di realizzare l’Sg31e, adesso, anche a chiudere l’ultimo inceneritore”.
Buone notizia che meritano una festa. Sabato dalle 10 alle 16, davanti all’impianto di Fusina, aperto per l’occasione ai visitatori e alle scolaresche, ci saranno caldarroste e torbolino per tutti. Tutti sono invitati a dare l’ultimo saluto ad un impianto inquinante che oramai appartiene al passato.

Il Veneto in movimento. Ambiente, diritti e democrazia contro le grandi opere

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Come ai tempi del referendum sull’acqua. Con qualcosa in più. La marea che si è riversata a Venezia, questo sabato pomeriggio di un 30 novembre da ricordare, ha ricordato per tanti versi il popolo del referendum vittorioso contro la privatizzazione dell’acqua. Ma, come abbiamo scritto, con qualcosa in più: la consapevolezza che non è solo l’acqua il bene comune da difendere sulle barricate della democrazia e della partecipazione. Beni comuni sono anche la laguna (devastata dalle grandi navi), le montagne (devastate dalle cave), il patrimonio immobiliare delle università e dei Comuni (devastato dalle svendite ai privati e dall’alberghizzazione), i fiumi (devastati dalla mancanza di interventi contro il rischio idrogeologico), il paesaggio (devastato dalla cementificazione), la salute (devastata dall’inquinamento causato da cementifici, carbone e da una politica energetica obsoleta), la cultura (devastata dai tagli alla scuola pubblica), l’ambiente (devastato da grandi opere inutili e dannose come la Tav). Beni comuni da difendere e tutelare al pari dell’acqua sono anche il lavoro, lo studio, la democrazia, i diritti. Ecco perché i comitati, le associazioni, i movimenti del Veneto che hanno aderito alla manifestazione sono stati oltre 160. Ecco perché le calli e le fondamenta di Venezia sono stati invasi da un “fiume in piena” di oltre 1500 persone.
La manifestazione comincia con la consegna dei regali. I tanti comitati presenti ci tenevano di cuore a ringraziare la Regione Veneto per il suo impegno nella tutela dei beni comuni. E così, l’entrata agli uffici regionali sul piazzale della Stazione è stata prima chiusa con le reti prelevate dal cantiere della centrale idroelettrica dalla Valle del Mis e che, in fin dei conti, era roba loro, e poi ricoperta di cemento (regalo dei comitati contro Veneto City), di fanghi (dono delle associazioni contro lo scavo del canale Contorta), di calcinacci e macerie trovate all'interno delle case abbandonate dall'Ater (portati degli occupanti) e tanti altri doni.



Quindi il corteo si è messo in movimento. Tante bandiere, tanti striscioni, tanti cartelli per ricordare le tante battaglie che si stanno combattendo nel territorio, dalle montagne bellunesi alle lagune, in difesa dell’ambiente e dei diritti. Tante battaglie per una sola battaglia. Perché la sola “grande opera” che ci piace è “casa e reddito per tutti”. Perché i soli interventi che vogliamo sul territorio sono quelli mirati a tutelarlo. Tanti striscioni dietro ad un unico grande striscione che ha aperto il corteo: “Salviamo il Veneto”. Lo seguivano movimenti, sindacati, comitati e associazioni i cui tanti nomi non provo neppure a riportare. Il lettore mi perdoni se vado dietro al cuore e ne citerò una sola: Ya Basta. Per alzare le sua bandiere, sono arrivati a Venezia tanti migranti. Molti dei quali donne. Anche loro sono una bene comune da difendere e tutelare contro politiche razziste e segreganti, contro luoghi comuni e discriminazioni giornaliere. In fondo al lungo corteo qualche bandiera di partito (poche per la verità) che pareva interrogarsi sul suo ruolo non soltanto in una manifestazione come questa ma sul suo stesso senso esistenziale in una politica oramai abbruttita da larghe intese e deprimenti talk show televisivi su scandali e processi.
“Tante sensibilità, tante anime e tanti sguardi nuovi che oggi hanno saputo confluire in una visione comune per camminare verso un governo partecipato dei beni comuni che non ammette più deleghe di sorta” così ha poeticamente descritto il corteo Valter Bonan, sceso in laguna dal bellunese con suoi comitati per l’acqua. “Ritengo fondamentale - ha concluso l’ambientalista - aprire nuovi spazi, riconosciuti anche dalle istituzioni, dove i cittadini possano partecipare direttamente al governo dei beni comuni”. Altra voce dal corteo è quella di Gigi Lazzaro, responsabile regionale di Legambiente “Speriamo che questa grande manifestazione sia utile a far cambiare direzione ad un governo regionale tutto improntato sul consumo del suolo e delle risorse naturali. Siamo in crisi ambientale. La dimostrazione di oltre 160 associazioni dimostra che siamo oramai alla frutta. Bisogna cambiare drasticamente direzione. Se chi governa non è in grado di farlo si faccia da parte”.  Francesco Miazzi, Lasciateci Respirare di Monselice, sottolinea “il grande segnale ricompositivo che non si vedeva dai tempi dell’acqua e del nucleare”. “Un momento di partecipazione che non si forse mai visto in Veneto - spiega Miazzi - e che collega in un unico filo le grandi battaglie contro le grandi e devastanti opere con tutte le piccole iniziative di lotta in difesa del territorio sparse nella regione. Ma l’aspetto più interessante è forse quello che coniuga le migliaia di piccole opere utili che potrebbero essere inserite in un programma di riconversione ecologica, con le battaglie per il reddito e il diritto alla casa, rigenerando e potenziando in questo modo il concetto di difesa dell’ambiente”.
Il lungo corteo ha percorso pacificamente Venezia, dalla stazione alla marittima passando per il ponte dell’Accademia. Qualche momento di tensione solo sul ponte Molin che porta alla Marittima da dove salpano le grandi navi. Uno sbarramento della polizia voleva impedire il passaggio al corteo ma la determinazione dei manifestanti li ha convinti ad arretrare ed a consentire agli attivisti No Grandi Navi di appendere alcuni striscioni sulla panchina.
Quindi, mentre sulle città lagunare calavano le ombre della sera invernale, il corteo si è diretto a Santa Margherita per la conclusione dell’iniziativa. Senza dimenticare, negli slogan e nei pensieri, gli amici e i compagni che, in contemporanea, manifestavano a Vicenza contro la presenza di Forza Nuova. Già. Perché anche l’antifascismo che sta alla base della nostra democrazia è un bene comune. Un bene delicato e perennemente in bilico da tutelare e difendere con una attenzione continua e costante.

Crescono le persone in fuga da guerra e carestia. I dati del dossier Immigrazione

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A voler sintetizzare, sono sostanzialmente tre i dati di fatto che emergono dal Dossier Immigrazione. Tre dati di fatto statistici che contraddicono quello che per la maggior parte dei massa media è il “sentire comune“ della popolazione. La percentuale di cittadini migranti in Italia, innanzitutto è inferiore alla media europea. Se il nostro Pese è, per vocazione geografica, uno dei primi ad essere attraversato dal flusso migratorio, la maggior parte degli stranieri preferisce far rotta verso il nord Europa. Secondo punto: i migranti, conti alla mano, danno alle casse statali molto più di quanto ricevono. La politica dell’emergenza inoltre, ha fatto sì che l’Italia spenda in operazioni di controllo e di repressione nei confronti degli irregolari, operazioni non di rado senza efficacia alcuna, molto di più di quanto investa in accoglienza. Terzo e ultimo punto, le discriminazioni sono in crescita. Per un migrante non solo è più difficile trovare casa, lavoro o accedere ai servizi di un cittadino italiano a ma spesso la discriminazione viene dalla stessa pubblica amministrazione che emana bandi e delibere escludenti.


Ma prima di esaminare qualche dato, il rapporto immigrazione 2013 realizzato dall’Unar e dal centro ricerche Idos, presentato ieri in contemporanea in tutti i capoluoghi di provincia italiani, mette in evidenza che nel nostro pianeta pressoché tutti i Paesi sono allo stesso tempo aree di destinazione, origine e transito dei flussi migratori. L’Europa, accoglie il 31,3 per cento dei migranti del mondo stimati sui 232 milioni, ma è anche un continente a forte vocazione migratoria considerato che un 25% dei suoi cittadini si è spostato in altri Paesi, pur se per la maggior parte interni alla comunità. Un dato questo, che va imputato alla presenza della Romania. In totale, nell’Ue, il 6,8 per cento della popolazione è composta da migranti.
Un dato da sottolineare è come sia aumentato il flusso di persone in fuga da guerre e carestie. Più di 23 mila persona al giorno sono costrette ad abbandonare la propria casa. Un dato raddoppiato rispetto a dieci anni fa.
La crisi ha rallentato ma non fermato i flussi. Da 3 milioni nel 2007, in Italia a quasi 4 milioni e 400 mila i residenti stranieri. Nello stesso arco di tempo, la presenza straniera regolare complessiva è passata nel nostro paese da quasi 4 milioni a 5 milioni 186 mila. Questo non solo per l’ingresso di nuovi lavoratori ma per i ricongiungimenti e le nascite.
In quanto alle provenienze, l’hit parade è dominata da europei (50,3 per cento di cui il 27,4 comunitari). Seguono Africa (22,2 per cento), Asia (19,4) e America (8).
Il 61,8 per cento dei migranti ha scelto il nord Italia, il 24,2 il centro.
La crisi economica ha comunque determinato un calo nelle entrate in quanto le quote di ingresso sono state ridotte. I visti sono scesi da 90 mila nel 2011 a 52 mila nel 2012.
I nati in Italia sono stati quasi 80 mila nel 2012 cio si aggiungono 26 mila 700 bimbi nati da coppie miste.
Pur con ritmi più contenuti, gli occupati stranieri sono in progressivo aumento e arrivano ad incidere almeno al 10 per cento sull’occupazione totale. Ciò nonostante il tasso di disoccupazione per i migranti è in crescita e supera di quattro punti percentuali quello degli italiani.
Come dicevamo in apertura, il rapporto costi benefici per le casse statali sta tutto dalla parte dei migranti. Nel 2011 lo Stato ha introitato 13,3 miliardi di euro mentre le uscite sono state di 11,9 miliardi.
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