In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Ca’ Farsetti: una commissione di inchiesta per far luce sul caso Mantovani
20/03/2013EcoMagazine, In ComuneUna commissione di inchiesta sul caso Mantovani col Comune pronto a costituirsi parte civile. Ca’ Farsetti vuole a tutti costi fare luce sugli intrecci tra la politica e il malaffare portato alla luce dalla recente inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato all’arresto cautelativo del presidente della spa Piergiorgio Baita con l’accusa di “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale”. Intrecci che, di fatto, negli ultimi anni hanno costretto l’amministrazione comunale ad abdicare alla funzione di governo del suo territorio a favore di una lobby affaristica che si era assunta il potere di operare scelte urbanistiche e strategiche.
“Non è nostra intenzione sostituirci alla magistratura - ha puntualizzato il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia - ma vogliamo capire come ha potuto consolidarsi un vero e proprio sistema fondato sul concessionario unico che esercita un ruolo di monopolio delle opere pubbliche della salvaguardia. Un sistema che riguarda non solo Venezia ma anche tutto il Veneto».
La Mantovani spa infatti non è solo la principale azionista del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico del Ministero per le Infrastrutture e del Magistrato alle Acque di Venezia dei lavori per la realizzazione delle opere per la salvaguardia fisica della città di Venezia e della Laguna. La società fatturava ad oltre una ventina tra Enti e Società operanti nel territorio regionale tra cui Veneto Acque e Veneto Strade, oltre a al Consorzio Venezia Nuova, all’Autorità Portuale di Venezia, al Thetis e al Passante di Mestre.
La proposta di istituire una commissione comunale ad hoc dalla durata di 18 mesi prorogabile per raccogliere informazioni utili in prospettiva di costituire il Comune quale parte civile in sede processuale è stata lanciata questa mattina dai consiglieri dei partiti di maggioranza (Pd, Psi, Federazione della Sinistra, Idv, Udc e In Comune,) e dal Movimento 5 Stelle. Di conseguenza la sua approvazione in sede consiliare è da considerarsi pressoché scontata.
“L’impresa di costruzioni Mantovani spa - si legge nella proposta già protocollata - ha assunto negli ultimi anni un ruolo preponderante nella progettazione e costruzione di importanti opere pubbliche previste nel territorio veneziano, promosse da diversi Enti e Istituzioni tra cui la stessa Amministrazione Comunale”. E ancora, va considerato che “risultano di eccezionale gravità gli addebiti contestati dalla Procura della Repubblica di Venezia nell’ambito dell’inchiesta penale ... tra le ipotesi di reato contestate vi è la distrazione dei risorse pubbliche destinate alla realizzazione di opere previste nel territorio comunale e finalizzate invece alla costituzione di ‘fondi neri’, a loro volta utilizzati per alimentare meccanismi corruttivi”. E conclude: “La ricostruzione della Magistratura inquirente mette in luce l’esistenza di una grave e intollerabile situazione di illegalità in grado di condizionare l’intero sistema di realizzazione delle opere pubbliche nel territorio veneziano, a discapito dei più elementari principi di trasparenza, legalità e di effettiva libertà di mercato e concorrenza; è interesse prioritario dell’Amministrazione Comunale e della Città nel suo insieme che sia fatta piena luce sulla vicenda, in primis per quanto attiene ai progetti e alle opere di propria competenza, ma anche e soprattutto relativamente al ruolo svolto nella vita economica e produttiva, politico e amministrativa della Città, da parte delle Imprese e degli Enti a vario titolo coinvolti”.
Niente di più e niente di meno di quanto gli ambientalisti, i movimenti di base ed i comitati cittadini sorti a tutelare il loro territorio hanno sostenuto da tanti anni. Peccato che, anche in questo caso, la condanna politica di un sistema di grandi opere utili solo ad avvantaggiare chi le realizzava, arrivi a rimorchio di una inchiesta della magistratura.
“Non è nostra intenzione sostituirci alla magistratura - ha puntualizzato il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia - ma vogliamo capire come ha potuto consolidarsi un vero e proprio sistema fondato sul concessionario unico che esercita un ruolo di monopolio delle opere pubbliche della salvaguardia. Un sistema che riguarda non solo Venezia ma anche tutto il Veneto».
La Mantovani spa infatti non è solo la principale azionista del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico del Ministero per le Infrastrutture e del Magistrato alle Acque di Venezia dei lavori per la realizzazione delle opere per la salvaguardia fisica della città di Venezia e della Laguna. La società fatturava ad oltre una ventina tra Enti e Società operanti nel territorio regionale tra cui Veneto Acque e Veneto Strade, oltre a al Consorzio Venezia Nuova, all’Autorità Portuale di Venezia, al Thetis e al Passante di Mestre.
La proposta di istituire una commissione comunale ad hoc dalla durata di 18 mesi prorogabile per raccogliere informazioni utili in prospettiva di costituire il Comune quale parte civile in sede processuale è stata lanciata questa mattina dai consiglieri dei partiti di maggioranza (Pd, Psi, Federazione della Sinistra, Idv, Udc e In Comune,) e dal Movimento 5 Stelle. Di conseguenza la sua approvazione in sede consiliare è da considerarsi pressoché scontata.
“L’impresa di costruzioni Mantovani spa - si legge nella proposta già protocollata - ha assunto negli ultimi anni un ruolo preponderante nella progettazione e costruzione di importanti opere pubbliche previste nel territorio veneziano, promosse da diversi Enti e Istituzioni tra cui la stessa Amministrazione Comunale”. E ancora, va considerato che “risultano di eccezionale gravità gli addebiti contestati dalla Procura della Repubblica di Venezia nell’ambito dell’inchiesta penale ... tra le ipotesi di reato contestate vi è la distrazione dei risorse pubbliche destinate alla realizzazione di opere previste nel territorio comunale e finalizzate invece alla costituzione di ‘fondi neri’, a loro volta utilizzati per alimentare meccanismi corruttivi”. E conclude: “La ricostruzione della Magistratura inquirente mette in luce l’esistenza di una grave e intollerabile situazione di illegalità in grado di condizionare l’intero sistema di realizzazione delle opere pubbliche nel territorio veneziano, a discapito dei più elementari principi di trasparenza, legalità e di effettiva libertà di mercato e concorrenza; è interesse prioritario dell’Amministrazione Comunale e della Città nel suo insieme che sia fatta piena luce sulla vicenda, in primis per quanto attiene ai progetti e alle opere di propria competenza, ma anche e soprattutto relativamente al ruolo svolto nella vita economica e produttiva, politico e amministrativa della Città, da parte delle Imprese e degli Enti a vario titolo coinvolti”.
Niente di più e niente di meno di quanto gli ambientalisti, i movimenti di base ed i comitati cittadini sorti a tutelare il loro territorio hanno sostenuto da tanti anni. Peccato che, anche in questo caso, la condanna politica di un sistema di grandi opere utili solo ad avvantaggiare chi le realizzava, arrivi a rimorchio di una inchiesta della magistratura.
I consiglieri della lista In Comune: “Stop alla Romea in attesa del nuovo Governo”
19/03/2013EcoMagazine, In ComuneFermate le ruspe. Fermate tutti i cantieri della Romea Commerciale perlomeno sino a che non ci sarà un nuovo governo. Un nuovo governo, ci si augura, magari capace di prestare più attenzione agli enti locali e ai comitati cittadini che alle lobby del cemento. E’ quanto chiede il consiglio comunale di Venezia tramite un ordine del giorno che ha avuto come primi firmatari Giuseppe Caccia e Camilla Seibezzi, consiglieri della lista In Comune. “Oggi, lunedì 18 marzo, a Roma è prevista una riunione del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, il cosiddetto Cipe - ha spiegato Caccia -. L’ordine dei lavori prevede proprio una discussione in merito all’approvazione del progetto preliminare del nuovo corridoio autostradale Orte-Mestre. Noi riteniamo che un'opera autostradale così imponente, sia dal punto di vista dei costi che dell’impatto ambientale, non può in alcun modo essere considerata come ‘ordinaria amministrazione’, e tantomeno venire annoverata tra gli atti di particolare necessità e urgenza. Il consiglio comunale di Venezia chiede quindi che il Cipe attenda l’insediamento del nuovo Governo prima di procedere oltre. L’attuale Governo, che dopo lo svolgimento delle elezioni politiche è costituzionalmente ancora in carica soltanto per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione e l’approvazione di una nuova autostrada come è la Romea Commerciale non rientra certo tra i suoi compiti”.
Un vero e proprio “colpo di mano” che, perlomeno questa volta, pare sia stato sventato grazie anche alla continua attenzione dei comitati. Fonti regionali garantiscono che il punto relativo alla Romea Commerciale è stato stralciato dall’ordine del giorno in discussione al Cipe e rinviato per l’ennesima volta a data da destinarsi.
Il documento portato in Consiglio da Caccia e Seibezzi ha comunque sottolineato le ragioni che hanno già portato l’amministrazione veneziana, così come tante altre amministrazioni interessate al tracciato della Romea, ad esprimere un parere decisamente contrario a questa ennesima grande opera lanciata nel ben noto Programma delle Infrastrutture Strategiche. Programma che alla fin fine si è rivelato solo come un sistema utile solo a bypassare le tutele ambientali per imporre dall’alto opere inutili, devastanti e sgradite tanto ai residenti quanto alle amministrazioni locali.
L’augurio, come abbiamo già detto, è che il nuovo esecutivo presti più attenzione alla voce dei cittadini e meno alle lobby del cemento.
Un vero e proprio “colpo di mano” che, perlomeno questa volta, pare sia stato sventato grazie anche alla continua attenzione dei comitati. Fonti regionali garantiscono che il punto relativo alla Romea Commerciale è stato stralciato dall’ordine del giorno in discussione al Cipe e rinviato per l’ennesima volta a data da destinarsi.
Il documento portato in Consiglio da Caccia e Seibezzi ha comunque sottolineato le ragioni che hanno già portato l’amministrazione veneziana, così come tante altre amministrazioni interessate al tracciato della Romea, ad esprimere un parere decisamente contrario a questa ennesima grande opera lanciata nel ben noto Programma delle Infrastrutture Strategiche. Programma che alla fin fine si è rivelato solo come un sistema utile solo a bypassare le tutele ambientali per imporre dall’alto opere inutili, devastanti e sgradite tanto ai residenti quanto alle amministrazioni locali.
L’augurio, come abbiamo già detto, è che il nuovo esecutivo presti più attenzione alla voce dei cittadini e meno alle lobby del cemento.
Marghera. Oltre duemila persone in piazza per dire "riprendiamoci la città!"
15/03/2013Global Project
E’ questa qua la Marghera che vogliamo. Una Marghera dove uomini, donne e bambini si sentano “sicuri” di girare per le strade perché sono le loro strade. Le strade che hanno riempito dei loro sogni. Le strade di una città solidale, inclusiva, sostenibile e aperta. Sono queste le uniche strade da percorrere perché non si verifichino più tragedie come quella che ha portato alla morte violenta di Ajdin Isak. Sembra averlo capito anche il sindaco Giorgio Orsoni che rivolto alla gente ha dichiarato: “il nostro esercito siete voi”.
E non è un caso che lo striscione più colorato, lo striscione che apriva la fiaccolata, fosse sorretto proprio dai migranti che hanno aderito in massa alla manifestazione. Un centinaio di loro si è ritrovato negli spazi del centro sociale Rivolta nel pomeriggio per preparare il cartello e avviarsi all’iniziativa assieme ai ragazzi della scuola Liberalaparola.
“Marghera viva - si leggeva nello striscione - libera e antirazzista”. Perché la violenza più pericolosa, quella che genera tante altre prevaricazioni, è quella dettata dalla paura razzista. Una città viva e libera è anche una città antirazzista ed accogliente.
Questa è la bella lezione che è arrivata da Marghera. E viene da chiedersi in quante altre città d’Italia, un episodio odioso che ha avuto come vittima un cittadino migrante avrebbe ottenuto una risposta così civile ed efficace. Una bella lezione quindi che è anche il segnale di una città che sta maturando.
Laguna nord: un passo decisivo verso il parco
9/03/2013EcoMagazine, In Comune, Parcolagunanord
Sarà, burocraticamente parlando, un “parco regionale di interesse locale”. Il Comune infatti, ha spiegato l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, non ha competenze per istituire un parco regionale e tantomeno per uno nazionale. Questa era l’unica forma possibile. “In un ambiente in cui, per fortuna, ci sono già molti vincoli - ha commentato Bettin - non era in nostro potere e neppure nel nostro interesse imporne di altri. Il parco, come lo intendiamo noi, sarà uno strumento per valorizzare le straordinarie possibilità di un ambiente unico al mondo, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche da quello storico, culturale ed artistico”.
La storia del parco viene da lontano, da quando in casa ambientalista si cominciò a pensare ad una forma di tutela adatta a salvaguardare non solo l’ambiente lagunare ma anche la gente che ancora, tra mille difficoltà oggettive, continua ostinatamente a vivere “in” quell’ambiente e “di” quell’ambiente, con mestieri e tradizioni che non hanno uguali in nessun posto della terra. Non è stato un percorso agevole.
“Purtroppo in Italia le cose vanno così - spiega Bettin -. In tutto il mondo la costituzione di un parco si saluta festeggiando, da noi invece ci si preoccupa”. Per vincere le resistenze e rispondere ai dubbi di categorie tradizionalmente poco inclini ai cambiamenti, l’assessorato ha messo in moto un meccanismo partecipato che ha pazientemente riunito attorno ad un unico tavolo tutti i soggetti interessati, dai commercianti agli albergatori, dai residenti ai pescatori, dagli artigiani agli ambientalisti. Il risultato è questa delibera istitutiva che conclude l’iter istitutivo cominciato nel 2004 con una variante al piano regolatore regionale.
I confini del parco saranno pressapoco quelli disegnati in quell’anno e che comprendono praticamente l’intera laguna nord. Sedicimila ettari complessivi che rappresentano più o meno un terzo dell’intera laguna. Perché la laguna nord? Perché è l’ultima laguna che ci è ancora rimasta. A sud, da Venezia a Chioggia, quella che un tempo era la laguna viva dei dogi tutelata da una severa legge della Serenissima che prevedeva l’affido ai “remi di galera” per chiunque si fosse azzardato ad attentare alla sua incolumità, oggi non esiste più. Grandi opere inutili, fallimentari e dissennate l’hanno ridotta ad un braccio di mare aperto, battuto dalle onde ed invaso dalle maree dell’Alto Adriatico.
Niente vicoli ulteriori, abbiamo detto, per il nostro parco. Ma allora, hanno chiesto i giornalisti durate la conferenza stampa di presentazione, venerdì a mezzogiorno a Ca’ Farsetti, cosa potrà fare questa nuova istituzione per tutelare un territorio dove ci sono oltre trenta diversi enti competenti e che, se da un lato ad un residente risulta praticamente impossibile mettere le controfinestre a casa sua, dall’altro si autorizza, ad esempio, la costruzione di barene artificiali dove non ce ne sono mai state.
“Il parco serve proprio a semplificare le fin troppo normative esistenti - ha risposto Bettin -. Uno dei suoi scopi istitutivi è proprio quello di aiutare chi, coraggiosamente, vive in laguna a districarsi tra i vicoli burocratici, tutelando anche la residenzialità favorendo il prosieguo dei mestieri tradizionali come la cantieristica e la pesca, e incentivando un turismo intelligente e sostenibile”. E conclude l’ambientalista: “Le barene in cemento? Sono opere sulle quali il Comune, sino ad oggi, non ha potuto dire una parola perché sono di competenza di altri enti. Col parco le cose cambieranno. Potremo finalmente intervenire. Ci troveremo, discuteremo, se necessario ci scontreremo anche. Difendere Venezia significa difendere la sua laguna. Perché Venezia è la sua laguna”.
Tangenti sotto il cemento
2/03/2013Global Project
Con l’imprenditore, la cui difesa è già stata assunta dall’avvocato e senatore Piero Longo, il legale di Berlusconi, è stata arrestata anche Claudia Minutillo, ora amministratore delegato di Adria Infrastrutture, ma più conosciuta con l’appellativo di “Dogaressa” all’epoca in cui era la segretaria particolare di Giancarlo Galan e fungeva da perno di collegamento tra il Governatore Veneto e tutta la mandria di cementificatori e palazzinari che gli scodinzolava attorno. In manette anche un presunto console onorario di San Marino, William Ambrogio Colombelli - un “poveraccio” che al fisco dichiarava di guadagnare 12 mila euro all’anno e fatturava per 10 milioni di euro alla volta -, e Nicolò Buson direttore finanziario della Mantovani.
Quella Mantovani spa che a Venezia si legge Mose. Ma non solo. L’impero di cemento costruito da Baita comprende anche l’appalto principale per la realizzazione del prossimo Expo di Milano ma la fetta di torta più grossa era quella che la società si era ritagliata nel Veneto. Potremmo pure dire che nella nostra Regione, la Mantovani si è mangiata tutta la torta! Un vero e proprio asso pigliattutto a Rubamazzetto. Dall’ospedale all’Angelo al percorso del tram di Mestre, dagli interventi di difesa della laguna al passante di Mestre, dalla viabilità della base statunitense Dal Molin alle autostrade. Difficile trovare una devastazione ambientale dove non ci sia dietro lo zampino della Mantovani spa.
Secondo gli inquirenti, l’associazione a delinquere messa in piedi da Baita & C ruotava attorno ad una società con sede legale a San Marino verso la quale venivano emesse fatture false - accertati sempre secondo la guardia di finanza perlomeno 10 milioni di euro - i cui importi venivano in seguito prelevati in contati per essere restituiti all’imprenditore e alla “dogaressa” Minutillo. Frode fiscale quindi. Ma non solo. La domanda che bisogna porsi è: come venivano utilizzati questi fondi neri?
Proprio qualche mese fa, Beppe Caccia, consigliere comunale di Venezia per la lista In Comune, aveva rivolto un appello a Piergiorgio Baita per sollecitarlo a fare chiarezza e ad illustrare pubblicamente, i conti del Consorzio Venezia Nuova e del suo azionista di maggioranza, la Mantovani. Anche in virtù della non irrilevante considerazione che ciò che maneggiano questi signori non sono soldi loro ma risorse pubbliche!
Come c’era da aspettarsi, l’appello di Caccia è stato completamente ignorato dall’imprenditore e, allo stato delle cose, si capisce pure il perché. “Dal 1984, da quando cioè è partito il progetto del Mose, quasi trent’anni or sono - ha dichiarato Beppe Caccia in un suo commento pubblicato sul sito dell’associazione In Comune - della marea di danaro che è andata e che va spesa per quel progetto, solo una parte va a finanziare le opere, mentre una gran parte va a finanziare qualcos’altro”.
Cosa sarò mai “qualcos’altro”? Vediamo come saranno spesi gli ultimi 1.250 milioni di euro stanziati per il Mose dal Governo Monti nell'ultimo scorcio (sconcio) di legislatura. “Innanzi tutto una quota del 12% va a pagare non i lavori o la loro progettazione, ma l’attività di management del Consorzio Venezia Nuova: ciò significa che questa attività verrà finanziata nei prossimi quattro anni con 250 milioni di euro, oltre sessanta milioni all’anno. Chiunque abbia una qualche competenza in materia sa che si tratta di cifre assurde e del tutto spropositate. Mettendo l’occhio nei bilanci passati si vede poi che questa cifra aumenta considerevolmente attraverso attività affidate dal Consorzio ad altri soggetti e rimborsate con cifre molto superiori a quanto effettivamente speso. Si può dunque pensare che i 250 milioni lieviteranno almeno fino a 300”.
“I 950 milioni restanti verranno spesi per i lavori. Ma come? Attraverso l’affidamento diretto alle imprese del Consorzio tra cui le indagate Mantovani SpA e le sue controllate come Palomar e senza gara di appalto. Anche pensando che la forte etica di quelle imprese non le induca a gonfiare le voci di costo (basterebbe informarsi in proposito presso i costruttori veneziani), qualora si facessero delle gare, come avviene in tutto il mondo civile, si otterrebbero dei ribassi medi sui lavori di circa il 30%. Ciò significa che se si facessero delle gare si risparmierebbero 285 milioni di euro, pur lasciando alle imprese la legittima remunerazione del proprio lavoro. Ripeto, questo sarebbe il risparmio minimo a fronte di conti ineccepibili da parte delle imprese. Per la precisione, in questa cifra ci sono anche costi di progettazione, magari fatta in famiglia con incarichi, sempre senza gare, dati da moglie a marito o da padre a figlio, ma non è questo il punto”.
Continua l’ambientalista: “Dunque, dei 1.250 milioni dati dallo Stato circa il 50%, cioè circa 600 milioni di euro non vanno a pagare le opere, ma vanno a un ristretto numero di persone che realizzano così assieme a degli impressionanti superprofitti, degli inspiegabili consensi e degli inspiegabili silenzi da decenni a questa parte. Ristretto numero di persone tra le quali va annoverata la rete dei “collaudatori”, che dovrebbero essere i controllori di ultima istanza, i quali si distribuiscono parcelle principesche e alla cui testa c’era fino a poco fa il noto Balducci”.
Per farla breve tutta l’operazione che ruota attorno al Mose rappresenta il più colossale e impressionante trasferimento di danaro dal pubblico al privato che si sia visto in Italia. Quando l’opera sarà finita (sempre che venga mai finita perché chi la realizza ha interesse ad allungare continuamente i tempi e ad aumentare continuamente i costi) della cifra spesa, solo poco più della metà sarà stato effettivamente speso nelle opere di salvaguardia.
E il resto? “Tutto ciò, che produce gravi distorsioni dell’etica e (a qualcuno potrebbe interessare) del mercato, e che viene pagato, come si dice oggi, ‘mettendo le mani nelle tasche degli italiani’, avviene in nome di Venezia - spiega Caccia -. Con il pretesto della salvezza della città che tutto il mondo vuole e che tutto copre è stata attivata una macchina per mangiare soldi che non si ferma di fronte a nulla”. E conclude: “Vogliamo la verità. Vogliamo sapere a cosa sono serviti questi fondi neri. Se sono state pagate tangenti, chi si è lasciato corrompere e perché”.
Da sempre, le associazioni ambientaliste e non solo oro, hanno sostenuto che le grandi opere come il Mose non servono a salvaguardare l’ambiente, anzi. Piuttosto queste operazioni sono strutturate per deviare finanziamenti pubblici verso colossi privati che li utilizzano non soltanto per cementificare il territorio ma anche per corrompere ed influenzare la politica, dirottandola dal cittadino e bypassando le amministrazioni locali verso ristretti gruppi di potere non di rado malavitoso.
Non è incredibile, riteniamo, che l’arresto di Baita & C sia avvenuto dopo lo tsunami elettorale che ha scompaginato gli equilibri politici. Non è neppure incredibile che il leader del centro destra, Silvio Berlusconi, abbia dichiarato in piena campagna elettorale che le tangenti sono una pratica necessaria per far girare l’economia. Quello che ci risulta davvero incredibile è che 7 milioni 332 mila e 972 italiani lo abbiano pure votato.
Ma questo punto, gli ambientalisti non possono più farsi bastare la soddisfazione di poter dire, ancora una volta, "visto che avevamo ragione noi?". Conclude Beppe Caccia "Ci auguriamo che questa sia la volta buona per fare pulizia e per liberare una volta per tutte Venezia e il Veneto da questo sistema malavitoso di intreccio tra politica ed affari".
Caso Abu Omar. La Corte d’appello condanna i vertici del Sismi
13/02/2013Global Project
Comunque la si pensi, è innegabile che il potere politico abbia giocato tutte le sue carte per impedire che si giungesse a questa sentenza di condanna. Proprio durante il dibattimento, anche il governo Monti, così come prima aveva fatto quello di centrodestra (Berlusconi) e quello di centrosinistra (Prodi), aveva esplicitamente ribadito la piena copertura del segreto di Stato sull’intera vicenda. Inoltre, a pochi giorni dalla sentenza, la presidenza del Consiglio dei Ministri ha sollevato un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nel tentativo di invalidare la sentenza della Cassazione che ha chiesto alla corte d’Appello di procedere con questo processo “bis” nei confronti di Pollari e dei suoi sottoposti.
Una mossa che non ha ottenuto gli effetti sperati, tanto è vero che la Corte si è ben guardata dal sospendere il dibattimento in attesa della decisione della Consulta ed anzi ha proceduto con la sentenza, accogliendo le richieste dell’accusa. Pollari è stato giudicato colpevole e condannato a 10 anni (il sostituto procuratore generale Piero De Petris ne aveva chiesto 12), 9 anni per Marco Mancini, all’epoca numero due del Sismi, e 6 anni gli agenti Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra, e Luciano Di Gregori.
Vicenda chiusa? Non ancora. Gli avvocati della difesa hanno già annunciato il ricorso alla Cassazione. Il legale di Marco Mancini, Luigi Panella, ha sollevato dubbi sulla legittimità della sentenza sostenendo che in questo processo "sono stati utilizzati atti coperti da segreto". Il che, va detto, contraddice quanto afferma Pollari, secondo cui i giudici non avrebbero utilizzato il segreto di Stato in quanto questo proverebbe l’innocenza degli imputati.
L’ex capo del Sismi comunque è assai esplicito nel ribadire la sua fiducia nella Cassazione. “E' una questione di civiltà giuridica - afferma - A cosa serve parlare di rapporti leali tra poteri dello Stato se poi sono soltanto mere enunciazioni di principio? La democrazia si esercita con i fatti e con la sincerità”.
Democrazia, appunto. Questa è la parola con la quale Nicolò Pollari giustifica il sequestro e le torture inflitte, prima nella base di Aviano e poi in Egitto, ad un cittadino egiziano perseguitato dal Governo di Mubarak ed al quale il nostro Paese aveva concesso l’asilo politico. Una persona sulla quale gravavano solo dei “sospetti”, peraltro mai confermati, di essere in contatto con cellule terroriste. Il “caso Abu Omar” non è stato altro che un rapimento in piena regola autorizzato dal governo Bush a pochi giorni dall’invasione dell’Iraq e compiuto da un commando di agenti della Cia - tutti condannati in via definitiva dalla corte di Cassazione - nel nostro territorio. Uno schiaffo alla nostra dignità democratica e alla nostra sovranità nazionale. Uno schiaffo al quale ben tre Governi non hanno saputo rispondere in altro modo che apponendo il segreto di Stato.
Il giro del mondo in ottanta piani
12/02/2013Frontiere News
Sto parlando di un grattacielo. Anzi “del” Grattacielo. E’ così infatti che a Ferrara, senza sforzare troppo la fantasia, chiamano il loro unico edificio che si stacca altissimo verso il cielo del capoluogo emiliano. Il Grattacielo. Ma fate attenzione: il termine va connotato con una forte enfasi negativa. Come se parlassimo di una favela di Rio de Janeiro o di uno slum di Città del Capo. Se - coraggiosamente - vi azzardate a salirne le scale, scordatevi la Ferrara dell’Ariosto e del Tasso. Qui siamo in un altro mondo. Anzi, in tanti altri mondi: quello di Khayyam, poeta e matematico allo stesso tempo, dei grandi “mari che non navigammo” di Hikmet o dell’esilio e dello spaesamento post coloniale dell’africano Achebe. Se fate lo sforzo di rinunciare all’ascensore, vi sembrerà davvero di viaggiare per terre esotiche respirando i persistenti odori di spezie che invadono i corridoi, ammirando le decorazioni che ornano gli stipiti delle porte. E non dimenticate di buttare un occhio sui campanelli per leggervi i nomi di famiglie le cui origini spaziano della Romania alla Nigeria, dal Marocco al Kazakistan, dalla Cina al Venezuela. Sui pianerottoli incontrerete persone che vi salutano con accenti e lingue diverse, augurandovi una buona giornata e le benedizioni dei tanti dei del vasto Creato.
Eppure, per i ferraresi, il Grattacielo è solo una anticamera dell’inferno dantesco. Luogo di pianti e stridor di denti. Una baraccopoli tutta in altezza di parlate, di riti e di razze strane. Fucine di spaccio, violenza e prostituzione. Inesplorabili territori di degrado sia fisico che morale dove si dice, si racconta e qualche volta anche si scrive che succeda di tutto anche se, alla luce dei fatti... non vi è successo mai niente!
Il Grattacielo di Ferrara è così una perfetta metafora di come in Italia vengono presentate le problematiche legate alla migrazione. Tanta paura da manipolare senza fatti concreti con i quali giustificarla. Ma si sa che il terreno più fertile per far crescere le paure è proprio quello della disinformazione!
Anche il nome della struttura, a ben vedere, è tutt’altro che corrispondete alla realtà. I grattacieli infatti sono due, simmetrici e alti cento metri per una ventina di piani, connessi da un paio di blocchi abitativi di due e tre piani. Ci troviamo a ridosso della stazione ferroviaria di Ferrara che, nell’elegante città emiliana, si infila proprio dentro il centro storico. Quartieri tradizionalmente riservate all’alta e ricca borghesia. Il Grattacielo infatti fu costruito, verso la fine degli anni ’50, sulle ali di una delle prime speculazioni edilizie ai bei (?) tempi del cosiddetto “boom economico”, quando gli economisti facevano credere alla gente che le risorse di questa nostra terra fossero inesauribili. Quei moderni appartamenti che facevano tanto “made in Usa” , costruiti per guardare la nobile città degli Estensi dall’alto in basso, erano destinati ai figli della cosiddetta “Ferrara bene” oppure a mero investimento immobiliare.
Fatto sta che quando il grattacielo fu inaugurato, nei primi anni ’60, quasi tutti gli appartamenti erano già stati venduti ma, per la maggior parte, a persone che non avevano mai avuto l’intenzione di trasferirsi là. Tutto sommato, vivere al ventesimo piano farà anche tanto “Stelle&striscie” ma mal si adatta alle abitudini tutte emiliane dei ferraresi, più propensi ai cappellacci di zucca che al Mac Donald.
Il Grattacielo cominciò a vivere solo in seguito alla prima ondata migratoria, alla fine degli anni ’70, quando giunsero nel capoluogo emiliano, e in particolare nella sua provincia, centinaia di migranti in cerca di lavoro e di dignità. In pochi anni, il Grattacielo si riempì di persone provenienti dal Africa settentrionale, dal vicino e dal lontano Oriente, dall’est europea e anche dal sud Italia. Persone che avevano in comune solo il fatto di essere povere e talmente disperate da dover sottostare alle dure regole del mercato nero degli affitti e rassegnarsi a convivere in dieci, quindici, per appartamento. Secondo i dati che mi sono stati forniti dal progetto “Ferrara città solidale e sicura”, di cui parlerò più avanti, il Grattacielo arrivò a dare ospitalità fino a 35 etnie diverse contemporaneamente (adesso se ne trovano “solo” 22).
La diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati contribuì a creare un clima di ostilità e di pregiudizio nei confronti dell’edificio che si avviava lungo un inesorabile degrado. Le cronache di quegli anni registrano varie perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che portarono a qualche arresto per spaccio. Nell’immaginario cittadino, il Grattacielo divenne così il Bronx di Ferrara. Pochi giornalisti ebbero il coraggio e l’onestà intellettuale di sottolineare che, tanto il mercato dei fitti in nero quanto quello della droga che affliggevano il Grattacielo, erano in mano a dei rispettabilissimi italiani.
Le cose non migliorarono con l’arrivo della Bossi Fini, nel 2002, quando anche i giornali di sinistra cominciarono ad utilizzare quotidianamente termini che io non posso che riportare tra virgolette perché essenzialmente scorretti come “clandestini” e altre parole sporche, per citare il bel libro di Lorenzo Guadagnucci.
Da questo momento in poi, la triste fama che si era creata attorno al Grattacielo cominciò ad incupirsi sempre di più anche se, nei fatti, non si trova un solo episodio di cronaca nera riguardo ai residenti della struttura, se non i sopra menzionati arresti per spaccio e un paio di scazzottate senza pesanti conseguenze avvenute peraltro nelle vicinanze della struttura. Vorrei vedere di quanti caseggiati in Italia, anche meno popolati, si potrebbe scrivere altrettanto nel corso di trent’anni di storia.
La svolta definitiva avvenne nel 2007, quando cominciarono ad arrivare le famiglie per i ricongiungimenti. Il Grattacielo, per così dire, si “normalizzò” arricchendosi di colorati giochi di bimbi sparsi sui pianerottoli e di donne, velate e non, che portavano su per le scale borse di spese.
La povertà arrivata in seguito alla crisi ha colpito duro su queste scale. Non tutti i migranti che oggi ci abitano sono in grado di sostenere le pesanti spese di condominio che prevedono lo stipendio del portiere, la manutenzione dell’ascensore e il riscaldamento centralizzato. L’intervento del Comune e il cambio dell’agenzia che gestiva il condominio hanno temporaneamente permesso ai residenti di affrontare i rigori invernali con i termosifoni accesi ma hanno anche evidenziato uno scoperto di oltre 300 mila euro.
“La vita si è fatta dura per tante famiglie del Grattacielo che, sino a poco fa, potevano contare su una rendita sufficiente a vivere, a pagare le spese condominiali e, in qualche caso, anche il mutuo della casa - mi spiega Roberta, una bella ragazza che lavora al sopracitato progetto -. Molti hanno perso il lavoro e oggi sono alla disperazione. Mi auguro che il Comune sappia trovare una soluzione. Adesso, ad esempio, stanno lavorando per separare i contatori del gas e decentralizzare l’impianto termico per abbassare le spese. Ma quello che mi preme sottolineare è che, oggi come nel passato, episodi davvero violenti non ne sono mai capitati. Eppure, se lo fai notare ad un ferrarese, lo vedrai sgranare gli occhi e blaterare che aveva sentito parlare di omicidi in serie e di stupri collettivi... tutte storie truci che altro non sono che mere leggende urbane. Io ci vengo da anni per lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Ci fosse mai stato qualcuno che mi ha fischiato dietro! Ma come si fa a far cambiare idea alla gente quando neanche i fatti bastano?”
Basta battere la parola “Grattacielo” nel motore di ricerca di uno dei giornali on line di Ferrara per vedere comparire un piccolo museo degli orrori. C’è chi invoca l’intervento dell’esercito, chi propone di abbattere la struttura con tutti quelli che ci sono dentro. Il tutto però è confinato alle solite dichiarazioni xenofobe di esponenti del Carroccio, o nelle lettere al direttore inviate da spaventati quanto ignoranti lettori, per lo più residenti in tutt’altra parte della città.
“Il Comune di Ferrara ha avuto il merito, grazie anche al progetto di cui faccio parte, Città Solidale e Sicura che non a caso ha sede proprio alla base del Grattacielo, di aver governato la situazione impedendo il nascere di una ‘Via Anelli’, come è accaduto a Padova - continua Roberta -. Oggi il Grattacielo è un edificio vivo e ricco di iniziative pubbliche. Negli uffici sistemati al primo piano, accanto a noi, lavorano decine di associazioni. L’unico appunto che vorrei fare agli amministratori è che si continua a dare questi spazi all’associazionismo che opera nel campo dell’emarginazione. In questo modo si alimenta la fama di ‘posto da sfigati’ che ha il Grattacielo. Mi spiego, non ho naturalmente niente contro chi si occupa, che so?, di disagio mentale, ma vorrei vedere alla porta di fianco alla nostra anche la targhetta di qualche associazione che lavora per promuovere la cultura, l’arte o lo sport. Certo, non è facile per nessuno superare certi pregiudizi. E’ capitato che alcune associazioni inizialmente abbiano rifiutato questi spazi, ma poi, quando ci sono entrati, non se ne sono più andate”.
Ma i pregiudizi sono duri a morire ed i fatti non bastano ad ammazzarli. “Qualche tempo fa - mi racconta Loris, un altro operatore del progetto - tutto il quartiere attorno al Grattacielo, stazione compresa, è stata invasa da legioni di scarafaggi. Grossi, neri e schifosetti... li trovavi dappertutto. Il problema è stato facilmente superato con una buona disinfestazione ma non ti dico quello che ci è toccato leggere nei giornali! Tutti accusavano i migranti di aver portato queste blatte dall’Africa. Poi uno studio scientifico spiegò che era una specie endemica della pianura padana! Ma l’immaginazione popolare continua ancora adesso a collegare l’invasione degli scarafaggi ai migranti del Grattacielo. Cosa vuoi che ti dica? Neanche fosse stata una invasione di zebre...”
Si Hungría pierde la libertad también Europa pierde la libertad
28/01/2013desinformemonos
El primer paso fue el cambio del nombre del Estado, que de “República Húngara” fue modificado por uno más nacionalista: “Hungría”. Para Orbán, evidentemente el término “Hungría”, que se deletrea de pie y con la mano sobre el corazón, es más que suficiente. Cosas como “democracia” o “república” son adjetivos de importancia secundaria con respecto al orgullo nacionalista. Orgullo que hace que cualquier manifestación de protesta sea etiquetada, y por consiguiente duramente reprimida, como antipatriótica. Tampoco la oposición bromea en el Congreso de Budapest. Si dejamos a lado el 7.5 por ciento obtenido por los Verdes, los únicos que intentan defender lo que queda de los derechos civiles – una resistencia desesperada que pagan diariamente con detenciones, golpes y persecuciones – hay que registrar el éxito conseguido por el partido Jonbbik (que subió del 2 por ciento en 2006 al 16.7 por ciento en las últimas elecciones) que no esconde sino que magnifica su inspiración a la ideología nazista. Es tan cierto que su líder, Gabor Vona de 31 años de edad, recientemente propuso una ley dirigida a registrar a todos los ciudadanos de origen judío. Una medida justificada, naturalmente, con la finalidad de garantizar “su seguridad”. Discursos ya escuchados y que dan escalofríos en la espalda. Imposible no pensar en cuando Primo Levi escribía: “Inútil creer en ello, pasó, y volverá a pasar”. Los neonazis de Jobbik, en efecto, tienen la función de sostener desde fuera el gobierno de Viktor Orbán, empujándolo cada vez más a la derecha. Los efectos ya se pueden ver. Todos los periódicos de la oposición y también los que simplemente rechazaron tener un papel de meros repetidores de comunicados del régimen cerraron actividades. El histórico Nepszava publicó su última edición insertando una sola frase traducida en las 23 lenguas europeas: “la libertad de prensa en Hungría se acabó”. Una desesperada petición de ayuda a la comunidad internacional que fue deliberadamente ignorada.
El aire que sopla en la que hasta hace poco tiempo era la República Húngara nos lo explicaron claramente los músicos de jazz del espléndido Szoke Szabolc Quartet, que hacen giras en Europa para dar a conocer tanto su música como la situación húngara. Una situación que encuentra muy pocos espacios en nuestros medios, tradicionalmente poco atentos a los que sucede más allá de los Alpes, incluso en países como Hungría que está a menos de tres horas de la frontera italiana.
“Y es una vergüenza porque las formaciones de extrema derecha mantienen contactos muy estrechos entre sí”, explica en el taller Morion, de Venecia, el domingo 20 de enero, Gabor Juhàsz, guitarrista de la banda. “Sabemos que hace poco de tiempo varios autobuses llenos de nazistas húngaros llegaron justo a su región para participar en un concierto organizado por el Frente Skinhead. La cosa que más me sorprende es que todo fue realizado a la luz del día. La policía se conformó con controlar que los medios estuviesen estacionados en los lugares asignados, mientras que desde la tarima se lanzaban himnos a la violencia, al odio racial y a Hitler. ¿Pero su Constitución no prohíbe acaso la propaganda de la ideología fascista?”, cuestionó el músico al auditorio italiano.
Juhasz, entrevistado por Vilma Mazza de Globalproject, contó acerca de las persecuciones a las que son sometidos los músicos y, más en general, los escritores y los artistas y todas las personas que hacen cultura en Hungría. “Museos, fundaciones, teatros fueron cerrados o asignados a siervos del régimen que los usan sólo para fines propagandísticos. La música, sin embargo, no tiene confines y un artista ama siempre la libertad porque sabe que sin libertad no se puede ni tocar ni producir cultura. Nosotros, además, somos músicos de jazz que es una forma musical mestiza y transnacional por su propia naturaleza. Éste es el motivo por el cual debemos tocar en el exterior. Al régimen le gustan más los himnos nacionales y detesta una música como la nuestra, que básicamente quiere decir libertad e interculturalidad”.
No sólo es la cultura la que sufre la degeneración fascista en Hungría. Con la nueva Constitución, el poder judiciario fue puesto bajo el control directo del Ejecutivo, en menosprecio de esa división de los poderes que está en los cimientos de las repúblicas modernas (no es una casualidad, entonces, que, como dijimos, el gobierno renunció a la palabra “república” frente a “Hungría”). La persecución racial afectó sobre todo a los rom (gitanos) que fueron todos registrados como pertenecientes a una etnia “no húngara” y que para trabajar tienen como única alternativa la de entrar a un programa de “trabajos socialmente útiles”. Por un salario de hambre, son desplazados y concentrados en campos de trabajo bajo la vigilancia de policías armados. La diferencia con un campo de concentración nazista no es tanta, finalmente. Por ahora. Otro punto fuerte del programa electoral de Orbán era hacer publicidad a los bancos bajo el eslogan de que el dinero de los húngaros es de los húngaros. Como imaginarán, se trataba sólo de un patético intento de corte populista.
Hacer tontos a los bancos no es tan fácil como poner en un gueto a los rom o registrar a los judíos. Bastó una pestañeada del Banco Mundial para abortar todo el proyecto ignominiosamente. También en Hungría, como en Italia y en el resto del mundo, se podrán igualmente golpear los derechos de los trabajadores, pero cuidado con tocar el capital. Ésta es una elección que obtuvo el favor inmediato del gobierno chino. El secretario de industria de Beijing, el “camarada” Miao Wei, recientemente declaró que su país invertirá fuertes sumas de dinero en el “desarrollo económico” de Hungría, ya que, afirmo textualmente, en este país, único en Europa, la mano de obra cuesta poco y los trabajadores – ¡Qué buenos son! – no exigen casi derechos. ¡Viva el comunismo y la libertad!
Esto es lo que pasa en Hungría. Un país que, como para Bosnia, se encuentra a dos pasos de Italia, pero en la opinión común construida por nuestro mass media, parece ubicado en otro y lejano continente. Empero no debería ser difícil darse cuenta de que en este mundo globalizado lo que acontece detrás de la puerta de nuestra casa es como si pasara en nuestra misma casa. Y no sólo por una imprescindible cuestión de justicia universal que, como nos dijo un hombre llamado Ernesto Che Guevara, debería empujarnos a sentir cualquier prepotencia ejercida en cualquier lado del mundo como si hubiera sido hecho en contra de nosotros. El problema es también que cada ataque a los derechos fundamentales que se dé en cualquier país del mundo se traslada, tarde o temprano, a un ataque parecido contra nuestros propios derechos fundamentales. No podemos ilusionarnos más con que se puede vivir libres en un mundo de esclavos. “Si Hungría pierde la libertad – concluye Vilma Mazza – también Europa pierde la libertad”.
Profughi libici in corteo per la dignità e la libertà
24/01/2013Global Project
L’accordo stipulato tra la Caritas e la Prefettura di Venezia, che non ha neppure preso in considerazione la proposta della Rete Tuttiidirittiumani e di altre associazioni cittadine che si erano offerte di occuparsi dell’accoglienza a titolo gratuito, ha fissato il contributo statale in 46 euro al giorno a profugo. Una cifra che al mese fa all’incirca lo stipendio medio di un professore. Mille trecento e rotti euro netti al mese che in tanti, qui, se li sognano di notte. Dove sono finiti quei soldi? hanno chiesto i migranti. Possibile che la Caritas non debba neppure produrre una rendicontazione su come è stato speso questo denaro pubblico? Anche se la convenzione - chissà come mai - non lo prevede, fare chiarezza sulle spese dovrebbe essere ugualmente un obbligo per una mera questione di trasparenza.
“Siamo persone e non siamo valigie - spiega un migrante -. Ci hanno tenuto parcheggiati per troppo tempo. Tra noi ci sono anche donne con bambini. Questa che ci è stata data non è accoglienza. Non possiamo andare avanti a permessi di soggiorno che scadono ogni due o tre mesi. E dove andremo dopo il 28 senza un soldo in tasca, senza prospettive e senza documenti? Vogliamo sapere quale sarà il nostro futuro. Ne abbiamo il diritto”.
Tra le donne fuggite dalla guerra in Libia c’è una battagliera Blessing. Potremmo definirla una doppia profuga, considerato che era giunta a Tripoli per fuggire alla guerra che insanguinava il suo Paese d’origine. Blessing ha due bambini. Il secondo ha pochi mesi ed è nato in Italia eppure, per i motivi che sappiamo tutti, non può considerarsi italiano. Il bambino più grande ha sette anni e non può andare a scuola. “Mi hanno detto che non posso iscriverlo a scuola - spiega - e che devo attendere che la mia posizione venga definita. Ma che colpa ne ha mio figlio? E cosa aspettano a dirci cosa faranno di noi? Questa che loro chiamano accoglienza ha ottenuto solo di tenerci segregato dal resto della società. Non abbiamo neppure avuto la possibilità di cercarci un lavoro e di intessere relazioni sociali. Questa non è giustizia. Io voglio un futuro per me e per i miei bambini. Voglio dignità”.
Quella stessa dignità che reclamavano tutti gli striscioni che i circa 250 profughi dalla Libia - migranti di guerra provenienti da tanti Paesi come il Mali, la Nigeria, il Sudan - hanno portato per le calli di Venezia sino alla prefettura dove sono stati accolti da uno schieramento di poliziotti e di celerini francamente eccessivo per una manifestazione che certamente non si poteva definire a rischio di violenza. La tensione è comunque calata quando il prefetto ha accettato di ricevere una delegazione dei profughi.
“Abbiamo assistito all’ennesima gestione emergenziale e ad un meccanismo forzato che ha prima costretto che ha prima costretto tutti i migranti provenienti dalla Libia a chiedere asilo politico per poi ricevere nella stragrande maggioranza dei casi un diniego - si legge nel documento diffuso dalla Rete Tuttidirittiumani -. Infine è stato loro concesso con colpevole ritardo (cioè solo adesso) un permesso umanitario in concomitanza con la scadenza del programma di accoglienza. Alla base di questo c’è stata una gestione che ha assunto in molti casi la forma di un vero e proprio business costruito sulle spalle dei migranti (così come dimostrato da diverse inchieste) con un'enorme discrepanza tra le grosse cifre investite - 46 euro al giorno a persona - e la bassissima qualità e disorganizzazione del sistema di accoglienza”.
Più o meno quello che, in un linguaggio meno forbito ma più diretto, ha scritto un profugo sul suo cartello: “Dove sono finiti questi soldi?”
Studenti in campo per dire no all'omofobia
24/01/2013Global Project
La mobilitazione degli studenti medi di Venezia nasce in risposta al caso sollevato dal professore di religione del liceo marco Foscarini Enrico Pavanello che in una sua lezione tenuta in una classe di studenti di seconda superiore ha equiparato l’omosessualità alla pedofilia, sostenendo inoltre che essere gay è una scelta malata che un preparato psicologo può risolvere. Il docente in questione non è nuovo a queste prese di posizioni. Lo scorso anno infatti era riuscito ad ottenere dal preside il permesso di organizzare all’interno dell’istituto (e stiamo parlando di una scuola pubblica) una mostra contro l’aborto.
La lezione sul tema “gay = pedofilo” del Pavanello è comunque finita dritta nei media locali, sollevando il proverbiale vespaio di polemiche cui lo stesso Pavanello ha cercato di smorzare sostenendo che altro non si trattava che di uno “spunto di riflessione”. Inevitabile, spunto o no, la dura presa di posizione delle associazione per i diritti dei gay e, di contrasto, la pronta difesa del patriarcato di Venezia che ha ribadito piena fiducia nel suo docente, considerato “una ottima persona”.
Al di la della facile ironia sul fatto che le alte gerarchie della chiesa non perdano mai l’occasione di evidenziare il pericolo della pedofilia ma sempre in casa d’altri, resta il fatto che il vero problema non sta tanto nella presa di posizione omofoba di uno sconosciuto professore di religione, sia pure sostenuta nell’ambito di una lezione svolta in una scuola pubblica, quanto nel fatto che questi, alla fin fine, non fa che ribadire quando ogni giorno affermi il papa Ratzinger, che è tutt’altro che uno sconosciuto professore di religione.