La Thule di ghiaccio e di fuoco che se ne è fottuta di salvare i banchieri

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Ci sono tanti buoni motivi per andare a farsi un giro per l'Islanda. Non parlo solo dei geyser bollenti, dei vulcani dai nomi impossibili, dei gelidi fiordi che si aprono sul circolo polare artico. L'Islanda, e solo l'Islanda, è riuscita a saltare oltre il baratro della crisi che si sta fagocitando l'Europa. Per certi versi, questa isola grande come tre volte la Sardegna e più della Sardegna disabitata, ha concentrato in un tre decenni tutto un ciclo intero di capitalismo. L'Islanda ha vissuto gli anni dello "sviluppo" e del consumismo più spinto, sino a sprofondare nel default dell'insolvilbilità bancaria, prima di tutti gli altri Paesi europei. Uscita dalla seconda guerra mondiale come uno dei Paesi più poveri d'Europa, con una economia che si basava solo sulla pesca, l'Islanda per tanti anni è stata ignorata dalla lunga mano della Troika. Un Paese povero, per i criteri del Pil, ma che aveva comunque un tasso di disoccupazione molto basso (favorito anche dall'esiguità della popolazione. Poco più di 300 mil abitanti) e aveva conquistato un welfare non inferiore a quello degli altri paesi scandinavi.

La festa finì con l'arrivo di un gruppo di finanzieri d'assalto che si facevano chiamare "Nuovi Vikinghi" unendo richiami nazionalistici ad un concetto di... modernità economica che altro non era che quello dei Chicago Boys. Cominciò così un ventennio di tagli allo Stato Sociale, privatizzazioni selvagge, speculazioni finanziarie... o, per dirla più semplice, un ventennio di "sviluppo" - termine che, come noterà il lettore, scrivo sempre virgolettato - che ebbe l'effetto di una feroce sbornia consumistica per la gente di Islanda. Gente che, se è vero che è sempre stata tra le più colte d'Europa ("Meglio senza scarpe che senza libri" recita un proverbio isolano) è anche vero che ha sempre sofferto del complesso del "parente di campagna" rispetto ai lontani vicini di Stati Uniti e Scandinavia.

La sbornia finì sull'inizio del secolo, proprio come sta per finire adesso nel resto d'Europa. Data le ristrette dimensione dell'Isola, con qualche anno di anticipo rispetto alla Grecia.
Dopo il solito carosello di aiuti promessi e non concessi, nel 2007 il Paese finì definitivamente in malora. Ma è proprio a questo punto che per l'Islanda si aprirono nuovi, promettenti scenari.

Tutto comincia con una rivoluzione. Che altro? L'11 ottobre del 2008 un piccolo gruppo di manifestanti, incazzati neri perché il Governo svendeva il Paese e i suoi stessi abitanti, pur di salvare le banche che avevano causato il disastro economico, cominciò ad assediare l'Alþingi, il parlamento islandese, chiedendo le dimissioni di tutti, compresi i vertici della banca nazionale. Man mano si aggiunsero altre persone che piazzarono tende, portavano rifornimenti, tenevano comizi e assemblee, lanciavano uova e teste di pesce (gli ortaggi qui costano l'ira di dio) contro i parlamentari.

Seguirono gli scontri più violenti che si fossero mai visti nell'isola dai tempi dei vikinghi (quelli veri). Va sottolineato che i manifestanti godettero di una bella fortuna. L'Islanda è una delle pochissime nazioni al mondo che non ha un esercito. Verrebbe da scrivere "E che se ne fa di un esercito una nazione con 300 mila abitanti?" Ma qualcuno potrebbe rispondere "E che ce ne facciamo noi, di un esercito, anche se di abitanti ne abbiamo di più?, e quindi non scriviamo niente. Fatto sta che, senza un esercito a presidiare le piazze con i carri armati, gli onorevoli parlamentari sono assai più propensi ad ascoltare i loro elettori, soprattutto quando questi minacciano di venirli a prendere per il collo.

Dopo due mesi di battaglie campali, il Governo, che allora era in mano alla destra, si dimise per fare spazio ad un esecutivo rosso verde che rinegoziò il debito con i Paesi Europei, e in particolare con l'Inghilterra.
Non bastava. Il problema non era quanto pagare e quanto "sconto" ottenere. Il problema era, ed è tutt'ora, se è giusto che un debito contratto da una banca privata debba essere socializzato a tutto il Paese. In altre parole, se è meglio far fallire le banche e far ripartire l'economia da zero, oppure svenarsi per far fronte ai debiti dei banchieri, vendendo tutto quello che c'è da vendere - ambiente e diritti compresi - per tener fede a trattati internazionali che tanto somigliano ad un cappio da impiccato.

Nel marzo 2010, gli islandesi andarono alle urne e scelsero di continuare a vivere. Cosa che gli costò una, francamente ridicola ma significativa, accusa di "Paese terrorista" da parte del premier inglese Gordon Brown e del Governo di Sua Maestà Britannica!
Le pressioni internazionali portarono quindi ad un nuovo referendum cui gli islandesi risposero alla stessa maniera: i debiti dei banchieri, loro, non volevano pagarli! E al diavolo tutti quegli squali della finanza che avevano investito sul default del loro Paese!
E così, la loro economia ha superato una crisi che, come dimostra proprio il caso Islandese, è solo una finzione finanziaria. Un mito imposto dalla corrente religione economica. Proprio come la mitica isola di Thule che tanti commentatori identificano con questa terra di ghiaccio e di fuoco.

Quello che hanno fatto gli islandesi con i loro referendum non è tanto diverso da quello che hanno tentato di fare i greci. La fortuna degli islandesi (oltre a quella di non avere un esercito) è stata quella di non far parte dell'Eurozona. Con una una moneta nazionale, possono ancora dettare i tempi della loro economia. Per i greci, per noi, non è più così. La strada che porta fuori della crisi passa attraverso una ricostruzione dell'Europa intera come organismo politico democratico e non più economico finanziario. Perché, se chiedi alla gente di scegliere tra l'economia delle banche e quella del loro portafogli, nessuno ha dubbi di sorta. Parlano di crisi, di default, di spending review ma la battaglia che dobbiamo combattere è quella per la democrazia.