Cronache dalla Via della Seta: alle porte d’Oriente

Prosegue il racconto del viaggio della Gengis Khar sulle pagine del sito dei nostri amici di NoBorders Magazine. La seconda puntata del nostro Silk Road Race lo potete leggere collegandovi al seguente link: Alle porte d'Oriente.
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Nelle steppe del Kazakistan

Siccome non c'è wifi nel deserto del Kazakistan, ecco in un solo post, il resoconto delle ultime tre giornate di cammello!

Una notte nella steppa


Credevamo di avercela quasi fatta. Ed invece quello sterrato, proprio quando mancavano meno di 80 chilometri alla città di Aral, ci ha messo col sedere per terra. Sia pure a malincuore, abbiamo dovuto dire addio alla comodità di un letto d’albergo per montare alla bell’e meglio un accampamento nella steppa. Era notte inoltrata e la nostra Ford rischiava di insabbiarsi o di finire in una delle tante ed improvvise buche che sono una costante dei sentieri kasaki. La giornata non era cominciata bene, ad Aqtobe. Tanto per cambiare, abbiamo dovuto cercare un altro gommista. Le ruote anteriori se ne erano andate un’altra volta e quelle posteriori erano ben intenzionate a seguirle. Così, grazie ancora alla disponibilità della gente che ci accompagna sempre volentieri, siamo andati in un’altra officina. Stavolta abbiamo cambiato tutte e quattro le ruote. I gommisti, gentilissimi, hanno perso la mattinata a sistemarci la convergenza e cercare di risolvere il problema dello sterzo che causa (crediamo) lo spropositato consumo delle gomme. Alla fine dei lavori, il gommista - informato sulla nostra destinazione - ci ha donato un portafortuna kasako: una specie di braccialetto di pelle. Come per dire “io quello che potevo l’ho fatto. Per il resto... vi auguro tanta fortuna”. Così combinati abbiamo girato la “prua” della Gengis in direzione del deserto kasako. Un inferno di caldo, sabbia e vento. Pure i cammelli che abbiamo incrociato per strada sembravano stupiti di vederci là. In questo Paese più grande dell’intera Europa, le città - la cui forma delle case sembrano ricordare le yurte, le tende dei nomadi, e rimpiangere i tempi in cui cavalcavano liberi per la steppa - sono isole in un oceano di deserto. Le distanze qui si misurano tra i 500, i 600 o più chilometri di niente.
Davvero, non ce l’abbiamo fatta a raggiungere Aral. Ci siamo consumati gli occhi nel cercare di vederne le luci, in fondo quell’orizzonte che si scuriva sempre di più. Niente. Neppure un miraggio. E avanti non si può più andare. Per fortuna abbiamo le tende. Adesso cerchiamo un posto adatto e andiamo ad accamparci nella steppa. Qui non c’è rete neppure per il telefono cellulare. Posterò questo scritto non appena raggiungeremo un internet point.


Una volta c’era un lago

Alle sei siamo già in piedi. In mezzo al deserto kasako, il sole pare sorgere prima che nel resto del mondo (quello civile). Per fortuna ho il mio caffè zapatista - quello che l’associazione Ya Basta importa direttamente dai liberi caracoles del Chiapas - che ci tira un po’ su di morale! Montiamo immediatamente sulla Gengis. Con la velocità cui ci tocca procedere, bisogna spicciarsi se vogliamo arrivare a Dushanbe non troppo oltre la fine del rally! La prima tappa è Aral, la città sul lago che non c’è più. Qui un piano di “sviluppo economico” sovietico ha causato uno dei più grandi disastri ecologici dell’umanità. I fiumi che portavano l’acqua al lago sono stati deviati per permettere l’irrigazione di piantagioni di cotone. Un investimento assurdo, fallito dopo poche decine di anni. Ma il risultato di questo tragico tentativo di cambiare l’ecosistema ad esclusivo vantaggio di un capitalismo di Stato per niente dissimile da quell’economia predatoria che detta legge a casa nostra, sono ora sotto i nostri occhi. Aral è una città fantasma. Una città di case abbandonate e di strade devastate dall’incuria. Nella grande piazza dove un tempo brulicava il mercato del pesce più grande di tutte le Russie, oggi ci sono solo due banchetti con poche casse di pesce agonizzante. La ferrovia sulla quale sbuffavano le locomotive che trainavano lunghi convogli di merci, oggi è un binario morto.
L’economia del disastro ha ammazzato una intera città e i suoi abitanti che un tempo vivevano solo di pesca. Inutile cercare traccia del lago. I grandi moli sono affondati nella sabbia. Le grandi gru che un tempo tiravano a secco i pescherecci per il rimessaggio ora guardano il nulla.
Lasciamo Aral con un nodo in gola. Cercheremo di raggiungere - tra un insabbiamento e l’altro - Qyizylorda e magari dormire in un albergo. Ipotesi che non ci dispiace affatto. La steppa sarà anche romantica ma una notte ci basta e ci avanza.
Ma è solo una pia illusione. Ancora, a 120 chilometri dalla nostra meta, poco dopo essere passati per la base da dove Yuri Gagarin fu lanciato per il suo fantastico viaggio attorno alla Terra, ci dobbiamo arrendere alla steppa. Stavolta però una speranza di dormire in un posto civile ce l’abbiamo ancora. Qui vicino si trova un piccolo villaggio chiamato - tenetevi forte! - III Internacional (in spagnolo!). Lo raggiungiamo speranzosi non certo di un albergo ma contando sull’ospitalità kasaka. E questa non ci delude. Dopo aver spiegato a gesti la nostra situazione, un gentilissimo signore si fa accompagnare a casa sua. Ne esce sorridendo e con un paio di chiavi in mano. Ci fa segno di seguirlo che ci porta in un posto dove possiamo sistemarci per la notte. Non riusciamo a credere alla nostra fortuna. Ma è un’altra illusione. Arriva sgommando la macchina della polizia locale e ne esce uno sbirro con il manganello in mano e e un muso da incazzato di mestiere. Documenti, patenti e libretto della macchina. E’ tutto in regola ma lo stesso non ci vuole nel suo villaggio. La zona è vietata agli stranieri, ci fa capire. Il gentile signore che ci voleva offrire ospitalità cerca di prendere le nostre difese ma si vede che ha paura dello sbirro. Non c’è nulla da fare. Mister Gentilezza ci ordina di seguirlo e ci scorta fuori da villaggio. Ci fa fermare proprio sotto il cartello con scritto “III Internacional”. Qyzylorda, ci fa segno, è in quella direzione. Andate. In quella direzione ci sono 120 chilometri di sabbia e sterrato. Che speranza abbiamo di raggiungere la città di notte fonda? Gli chiedo se sa cosa significhi l’acronimo Acab. Non lo sa. Ci rimettiamo in marcia sperando che il signore gentile non abbia spiacevoli conseguenze per aver avuto la balzana idea di aiutare dei viaggiatori persi in mezzo al deserto.
(Una osservazione. Siamo stati ufficialmente cacciati dalla Terza Internazionale! Dobbiamo dare una lettura politica a tutto questo?)
Fatto sta che anche oggi si dorme nella steppa. Piantiamo il campo assieme ad alcuni camionisti e a diversi milioni di zanzare affamate del nostro sangue. Siamo a digiuno dalla mattina ma nessuno ha voglia di mettere su la pignatta per un risotto liofilizzato d’emergenza. Proviamo a dormire perlomeno un po’. E’ dura, dura.


Il grande mausoleo di Kozha Akhmed Yasaui

Ancora, alle sei della mattina siamo già in macchina. Ancora scendiamo verso sud, verso il confine con l’Uzbekistan, cercando di tirarci fuori da questo deserto dove anche i cammelli hanno le gobbe sgonfie dalla sete. Raggiunta e superata Qyzylorda, dopo aver pagato 20 dollari di multa/tangente ad un paio di sbirri secondo i quali viaggiavamo con i fari spenti, facciamo rotta per Turkistan dove si trova il più grande mausoleo del Kasakistan e poi, finalmente, uscire dal deserto e pernottare nella città di Shynkent, dove la guida dice solo di non arrivarci in questa stagione se non si vuole finire divorati vivi da orde di sanguinare zanzare. Andiamo bene!
Il mausoleo dedicato a Kozha Akhmed Yasaui è una imponente costruzione circondata da alte mura che domina tutta la città. Facciamo sosta per sgranchire un po’ le gambe e per fare rifornimento di acqua e benzina. Sempre secondo la nostra guida, l’edificio è un luogo di culto e di pellegrinaggio. Non ne dà l’impressione, a dire il vero. Sì e no ci sarà una decina di fedeli in tutto e la maggioranza sembra di provenienza più turca (dove il santo è molto venerato) che locale. L’impressione che mi hanno dato i kasaki non è esattamente quella di gente molto dedita alla religione. Siamo in ramadan ma non ce ne accorgiamo nemmeno. I pochi muezzin che cantano nelle ore della preghiera lo fanno nell’indifferenza generale e la birra scorre a fiumi a tutte le ore del giorno. Non mi stupirei se, in quelle loro case loro case di fango che sembrano tende, la gente del kasakistan conservasse ancora le reliquie di quei dei guerrieri che adoravano ai tempi in cui cavalcavano dietro i Khan dell’Orda d’Oro.
Raggiungiamo Shymkent che non è neppure tanto tardi nonostante il fuso orario ci abbia portato avanti di un’altra ora. Stavolta si dorme in un letto vero, grazie a dio.
Ci attende però una sorpresa alla reception dell’albergo. Il nostro visto di ingresso, ci informano, è scaduto ieri. Dobbiamo andare alla polizia a farcelo prorogare. Siccome sabato e pure domani, domenica, gli uffici sono chiusi siamo ufficialmente... “clandestini”, per dirla con i media italiani! Evviva, evviva! In Kasakistan, invece, dove i giornalisti sono più civili, meno venduti e sempre attenti alla verità dei fatti, preferiscono il termine “irregolari”. Quasi quasi mi fermo a lavorare qui...
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Variazioni sul tema del deserto


Un'altra giornata dura, sulla via della Seta. E dire che doveva essere la tappa più tranquilla del nostro tour kasako! Da Oral a Aqtobe, dal nord al sud del Paese, 487 chilometri di strada che due motociclisti bolognesi, conosciuti per pura sorte nel nostro stesso albergo, ci hanno descritto come "abbastanza buona". Ed invece "abbastanza buoni" erano solo i primi 350 chilometri, prima che una deviazione per lavori in corso ci spedisse su uno sterrato degno di un cammello. Non c'è stato verso di rientrare su una carreggiata sino a pochi chilometri da Aqtobe. Ci è toccato marciare su una media di 20 o 30 chilometri l'ora. Nei tratti più tosti, toccava scendere tutti per alleggerire l'auto e marciare a piedi sotto un sole battente e un vento che pareva un phon acceso sulla tacca "massima potenza". Per buona sorte, dopo la prima esperienza, avevamo fatto una provvista d'acqua da farci navigare una portaerei. Purtroppo, senza un frigo e nemmeno una borsa termica, l'acqua si è scaldata talmente che ci si poteva fare il tè. Ma andava bene lo stesso. Quando la sete e la polvere ti bruciano la gola, non si guarda tanto per il sottile. Certo che non ho mai bevuto tanta acqua calda come in questo rally!

Un altro problema, che ci eravamo illusi di aver risolto ieri, continuano ad essere le ruote anteriori. L'asfalto ce le divora e lo sterrato le fa scoppiare. Continuano ad emettere un fischio continuo e il battistrada si consuma come se per ogni chilometro ne facesse mille. Anche oggi abbiamo dovuto fermarci per cambiare una ruota bucata e sostituire entrambi gli pneumatici con quelli di scorta che sembrano, per adesso, in condizioni migliori. Certo che così non si va avanti. Che faremo domani quando ci aspettano 1600 chilometri di deserto su una strada "davvero brutta", secondo la definizione degli amici motociclisti? Se non vedrete il nostro solito post serale, cari amici, sappiate che ci siamo accampati in mezzo alla steppa!
Oggi comunque ci siamo sistemati su una camerata di un albergo di Aqtobe dove siamo arrivati a notte fatta. Aqtobe è una cittadina che le guide descrivono come assolutamente insignificante dal punto di vista turistico. Sul genere "se siete capitati sin qui, vuol dire che vi siete persi. Tornate indietro". Sono davvero pochi gli stranieri mai giunti sin qui e destiamo la curiosità della gente. Qui nessuno parla inglese ma tutti ci avvicinano sorridendo e ci fanno lunghi discorsi di cui non capiamo una sola parola. Molti vogliono farsi fotografare accanto a noi. Accanto a questi pazzi che hanno attraversato l'Europa, la Russia e il deserto kazako per arrivare sino alla loro città.





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La lieta favola della bella Gengis e del valente meccanico cosacco


C'era una volta una bella auto di nome Gengis Khan che sognava di raggiungere il reame di Dushanbe. Ma la strada era lunga ed irta di difficoltà. Prima si ruppero le due ruote anteriori, poi la marmitta. Infine anche lo sterzo se ne andò per i fattacci suoi. Per la povera Gengis sembrava la fine della pista, quand'ecco che un cavaliere incontrato per la via accompagnò la bella Gengis in un maniero dove un mago della meccanica la rimise a nuovo, con un incantesimo e qualche colpo di martello magico. Così la bella Gengis poté riprendere il suo cammino più pimpante che mai.
Una favola a lieto fine insomma. Anche se, ve lo confesso, per un attimo abbiamo temuto di dover chiudere a Atyrau il nostro rally. Stamattina, appena messa in moto, ci siamo accorti che lo sterzo era partito del tutto. Praticamente la macchina se ne andava dove voleva ad ogni accelerazione, ad ogni frenata o ad ogni buca (che qui non mancano mai). Per fortuna, siamo stati subito circondati dalla solidarietà della gente kazaka. E' bastato chiedere in perfetto dialetto romagnolo (se non conosci la lingua del luogo tanto vale che parli la tua) dove potevamo trovare un meccanico, che un signore è salito sulla sua auto e ci ha accompagnato di persona. Nell'officina, tutti i meccanici si sono subito messi a nostra disposizione informandosi anche di chi eravamo e di dove volevamo andare. Per l'auto c'era poco da fare. "Un problema gravissimo e tre problemi molto molto gravissimi". Le probabilità di raggiungere Dushanbe, in queste condizioni, ci ha detto, non erano più del 20%. Per comunicare con noi, il capo officina ha telefonato ad un amico che masticava un po' di inglese e passandoci il telefono a tre, ci ha spiegato la situazione. Servivano 4 pezzi di ricambio più o meno originali. (Più meno che più...) Qui è intervenuto un cliente venuto a cambiare una ruota che ci ha fatto capire che conosceva un riparatore che poteva procurarci i pezzi. Quindi ha chiamato per telefono un ragazzino che è arrivato di corsa venti minuti dopo, solo per accompagnarci in questo negozio e spiegare al padrone cosa ci serviva. Con i pezzi in mano, siamo ritornati nell'officina e, batti batti, lima lima, la Gengis si è rimessa in moto. Lo sterzo adesso funziona egregiamente. Giri a destra e la macchina va a destra, giri a sinistra e la macchina va a sinistra. Che volevamo di più dalla vita?

Oramai si erano fatte le 13,30. Fermarci ancora ad Atyrau o partire immediatamente correndo il rischio di doverci accampare nella steppa? Ovviamente partiamo. Ma non verso est. Su consiglio dei meccanici prendiamo la strada per Oral, a nord del Paese. La carreggiata è migliore ma dovremmo riuscire a fare i 500 chilometri di deserto che ci separano dalla città prima di sera. Da là, domani mattina, cominceremo a scendere verso i confini con l'Uzbekistan. Una lunga deviazione ma che alla fine dei conti dovrebbe farci guadagnare tempo e darci la possibilità di testare le condizioni della nostra Gengis Khar.
Arriviamo ad Oral che è sera. L'auto ha tenuto più che bene e abbiamo potuto tenere una media tra i 90 e i 100 all'ora, attraversamenti di capre e di cammelli permettendo. Una sola pausa per fare amicizia con una venditrice di meloni che ci ha voluto regalare una anguria. E' la seconda volta che ci capita. Ci viene da pensare che qui i cocomeri li regalino sempre. Ma no, non è vero. A quei camionisti, la signora li ha fatti pagare. E' proprio un regalo per noi, stranieri in terra straniera. Per ricambiare, doniamo a lei e a suo figlio una delle nostre magliette. Un regalo che apprezzano moltissimo. Riprendiamo il cammino per Oral sulla spinta dei loro auguri di buon viaggio.






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Sulle strade del Kazakistan


Sulla cartina geografica l’hanno segnata col colore rosso. Il che significa che viene considerata una delle strade migliori del Paese. Parlo di quei fetentissimi 350 chilometri di buche in mezzo al niente che vanno dal confine con la Russia ad Atyrau e che costeggia tutto il mar Caspio senza che peraltro si riesca mai a vederlo, o anche solo ad intuirlo, questo mare che non è un mare. Nei prossimi giorni, ci inoltreremo ancora più ad est, dove gli stessi camionisti kazaki ai quali abbiamo fatto vedere la mappa col nostro percorso, ci hanno messo in guardia con una smorfia significativa. Come per dire che là sì che le strade sono davvero brutte!
Che vi devo dire? Dushanbe è ad est, ad est noi dobbiamo andare e ci andremo. La Gengis continua ad accusare qualche magagna. Dopo la marmitta e le ruote anteriori, se ne sta andando pure lo sterzo. Abbiamo provato ad invertire le ruote e a cambiarne una con la nostra ruota di scorta ma non è servito a niente. Ogni tanto l’auto sbanda pericolosamente. Impossibile superare i 60 km all’ora, in queste condizioni. Domani proveremo a sentire un meccanico. Ma intanto siamo riusciti, anche in queste condizioni, a superare la frontiera russa e ad entrare in Kazakistan. Due ore e mezza di dogana. Neanche male per questi posti. Nelle attese, abbiamo fatto amicizia con un team di ragazzi indiani impegnati nel Mongol Rally, da Londra a Ulan Bator. Tipi tosti. Ci hanno messo in guardia dall’entrare nel Pamir, dove si stanno verificando scontri tra polizia e narcotrafficanti. Scontri che a queste latitudini assumono i contorni di una vera e propria guerra. Noi comunque dovremmo passare a nord della zona a rischio. Vedremo. Un problema alla volta.

Appena dopo la frontiera, davanti a noi si è aperto l’immenso Kazakistan. Spazi sconfinati e liberi a perdita d’occhio dove gli unici esseri viventi sono puledri allo stato brado, mandrie di mucche e soprattutto centinaia di cammelli. Un mondo piatto senza neppure il conforto di un albero per regalarti un po’ d’ombra. Verde all’inizio, ma che si tramuta ben presto in un deserto man mano che procediamo verso est. Il caldo asfissiante (la Gengis è senza aria condizionata) è peggiorato dal vento afoso che, invece di portare refrigerio dai finestrini abbassati, pare un phon acceso che ti toglie il fiato. E’ dura. A parte qualche camionista di passaggio, per chilometri e chilometri non abbiamo incontrato anima viva. Non un distributore, non un posto qualsiasi dove fare rifornimento d’acqua potabile.
Lungo la strada, l’unica traccia di presenze umane, erano i cimiteri. Tanti, enormi, disseminati lungo tutta la strada. Pare incredibile che in un luogo così deserto possa essere morta tanta gente. Ogni tomba è un castello circondato da mura alte come un uomo o anche più. In cima la mezzaluna islamica o qualche bandiera sbiadita dal tempo e dal vento del deserto. L’unica costruzione in muratura che un nomade poteva concepire: quella definitiva.
Arriviamo ad Atyrau che sono le nove di sera. La città, uno delle capitali dell’industria petrolifera mondiale, si fa precedere dalla sua puzza. Depositi di immondizie e discariche di auto arrugginite. Brutti grattacieli, grandi piazze che nella loro struttura sembrano riecheggiare i cimiteri che abbiamo incontrato per la strada. Dal deserto siamo ritornati alla civiltà. Ci chiediamo cosa sia meglio ma non troviamo la risposta.












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Alle porte dell'oriente


Sulle carte geografiche si legge Volgograd, la città sul Volga. Ma l'aria che si respira sui larghi boulevard che si allungano rettilinei a perdita d'occhio, rimane sempre quella di Stalingrado, la città simbolo della resistenza ad oltranza alle truppe naziste. Stelle rosse, enormi statue di Lenin, monumenti ai combattenti dell'Armata Rossa, bassorilievi raffiguranti eroici soldati armati di granate e mitraglie sorgono ad ogni angolo della città. Il tutto in uno stile che qualcuno ha definito "barocco sovietico" e che, non di rado, sconfina nel kitch. L'apoteosi si trova in cima alla collina appena fuori la città, con l'immensa statua raffigurante la Vittoria e la "fiamma eterna" custodita da sodati che marciano al passo dell'oca. In una ambientazione del genere, noi della Gengis Khar non potevamo perdere l'occasione di inscenare una bella rappresentazione dei Mattacchioni Volanti. Stavolta, a fare da santone levitatore attaccato al bastone c'è andato Angelo che, come c'era da aspettarsi, si è divertito un mondo. "Fantastico! Mi sembrava di volare sopra una nuvoletta con tutta la gente che mi guardava stupita. Il difficile era solo non mettersi a ridere". Lo spettacolo si è svolto proprio al centro di Volgograd, davanti all'imbarcadero sul Volga. Il lungofiume non era frequentatissimo ma i fortunati che passavano da quelle parti si sono dimostrati un pubblico meraviglioso e alla fine nella cassettina a forma di Gengis Khar abbiamo trovato più di 700 rubli. Non male per una mezz'ora di spettacolo, eh?

Il ricavato questa volta è stato investito in benzina e nel primo pomeriggio ci siamo rimessi in marcia per Astrakan, la città dove oriente ed occidente si mescolano e che i carovanieri che percorrevano l'antica via della Seta consideravano la porta dell'est. Percorriamo più di quattrocento e trenta chilometri di steppa. Oramai i grandi campi di girasole sono solo un lontano ricordo. Attorno a noi solo un mare di erba bassa e gialla percorso da cavalli bradi, greggi di pecore e mandrie di mucche. La carreggiata d'asfalto tiene solo a tratti e improvvisamente cede in avvallamenti e buche. Le ruote anteriori della Gengis non vanno bene per niente. Domani dovremo pensare a qualcosa. Ma intanto, verso sera, riusciamo ad arrivare ad Astrakan. La steppa ha ceduto il passo a quell'acquitrino che è il delta del Volga. Siamo ad un passo dal mar Caspio, ci viene da pensare. Lo vedremo domani. Dopo che avremo varcato la frontiera col Kazakistan.


Piccola nota al margine. Siccome oramai la wi fi ce l'hanno solo i grand hotel (che noi non frequentiamo per una questione di immagine) per accedere alle rete e al blog ci tocca fare così: avvicinarci all'entrata principale dell'albergo con la Gengis, craccare la pass, postare in fretta, quindi sgommare via prima che i guardiani ci prendano a sassate. Che si deve fare...











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Stalingrado


Stavolta è stata dura. Ammettiamolo. Sveglia alle 6 a Mariupol per cercare di arrivare alla frontiera con la Russia il prima possibile. Poi le pratiche di frontiera. Moduli da riempire, code da rispettare, controlli a non finire. Il mio passaporto in particolare, che ha l'aspetto piuttosto vissuto considerato che le pagine bianche oramai non sono più di un paio, ha richiesto da solo una mezz'ora buona di verifiche. Me lo hanno addirittura messo sotto un microscopio per assicurarsi che non fosse falso! E poi le sorprese che non mancano mai. Per la Russia, ci hanno spiegato, ci vuole una speciale assicurazione automobilistica dal costo di cento euro. Trattabili. Alla fine abbiamo patteggiato 60 dollari. Ne usciamo sfatti alle 11,15 (teniamo presente però che in Russia il fuso è avanti di un'ora). A Rostov sul Don facciamo una pausa per mangiare l'anguria che ieri ci era stata regalata. Angurie e cocomeri sono pressoché la sola frutta che si trova nei banchi. Poi la strada per Volgograd, che un tempo era chiamata Stalingrado. Chilometri e chilometri di rettilineo a una sola carreggiata. Se un camion rallenta, da queste parti, lo superano a destra sullo sterrato. L'asfalto sembra migliore rispetto all'Ucraina. Perlomeno non ci tocca fare le gimcana tra le buche. Ma è una illusione pericolosa. A tratti il manto cede in pericolosi avvallamenti. In alcuni punti addirittura le ruote dei veicoli hanno scavato un solco come nelle stradine di campagna. Le ruote anteriori che abbiamo cambiato ieri, come se non bastasse, sono di pessima qualità e presentano una aderenza diversa una dall'altra. Nelle accelerazioni e nelle frenate, la nostra Gengis tende a sbilanciarsi.

Viaggiamo in queste condizioni tra campi di mais e di girasoli talmente grandi che ci si potrebbe appoggiare dentro tutta Venezia, E ci starebbe pure comoda. Man mano che saliamo a nord, le coltivazioni cedono terreno alla steppa selvatica. Non incontriamo villaggi né città per ore. Raggiungiamo Volgograd che è buio. La città ci appare come una lunga fila di luci basse in fondo all'orizzonte sempre più scuro. La sua presenza è annunciata da statue in cemento raffiguranti cannoni, carri armati e soldati dell'armata rossa. Proprio su queste strade, l'esercito nazista dovette battere in ritirata di fronte all'eroica resistenza dei sovietici. Fu una sanguinosa battaglia tanto inutile strategicamente quanto decisiva per le sorti della guerra. Da questo momento in poi, per la croce uncinata, ogni città sarebbe diventata una Stalingrado.
Arriviamo in centro non prima delle 10,30 di sera. Trovare un albergo, in una città che di turisti ne vede assai pochi, non si rivela una impresa facile. Le strade urbane poi, non appena ci si allontana anche di un solo isolato dall'arteria principali, paiono ancora quelle bombardate dai tedeschi. Non c'è neppure illuminazione. Troviamo una mezza topaia e andiamo a dormire che è mezzanotte passata da un pezzo. Ora chiudo il post e, finalmente, vado sotto le coperte anche io. Davvero, è stata una giornata massacrante.
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Cronache dalla Via della Seta: 5 giorni dopo

Dal sito NoBorders. Il nostro primo articolo.

Cominciano ad arrivare le pagine del diario di bordo del nostro Team preferito in viaggio per il Tajikistan. Oggi, 5 giorni dopo la partenza, il primo resoconto:

Mykolaiv, Ucraina – Siamo in viaggio da cinque giorni, oramai. La nostra mitica Ford Escort, a parte qualche brontolio della marmitta, tiene la strada e lo sterrato come dio comanda, l’equipaggio tiene botta alla grande e l’entusiasmo è sempre quello della partenza. Tutte le volte che abbiamo sbagliato strada l’abbiamo anche ritrovata grazie alle mappe e, soprattutto, grazie alla simpatia e alla gentilezza della gente che abbiamo incrociato nel nostro cammino. Non di rado, le difficoltà della lingua (che dall’Ucraina in poi sono diventate anche le difficoltà dell’alfabeto) sono state superate da un semplice gesto della mano. “Seguite la mia macchina” e l’autista, interpellato su quale fosse la strada per Odessa o per Turnu Severin, ci precedeva sino ad indirizzarci nella giusta via. E noi dietro, pensando che quello in cui ci è dato di vivere è un bel mondo a tutte le latitudini. Una opinione messa a dura prova solo dalla frontiere. Quante ne abbiamo attraversate in solo questi primi cinque giorni di viaggio? Tante, troppe. Assai di rado ci siamo imbattuti in doganieri cortesi e disponibili. Con simpatia ricordiamo solo un doganiere croato che, alla vista del grande adesivo NoBorders che colora il cofano della Gengis Khar, si è messo a ridere dicendoci: “No borders… niente confini? E allora passate pure!” Per il resto diciamo solo che tante energie – nostre e loro – potrebbero essere spese meglio e più proficuamente per gli interessi collettivi. Il peggio lo abbiamo toccato alla frontiera tra la Romania e l’Ucraina tra le quali una striscia di non più di dieci metri di terreno è controllata dalla Moldavia e ci ha sistemato ben due dogane, una con la Romania e una con l’Ucraina. E non fanno sconti.
Insomma, chi vuole passare da quel valico, deve mettere in conto perlomeno tre ore di code tra timbri ed inutili scartoffie. E d’ora in avanti mi sa che sarà sempre peggio. Già per entrare in Russia dobbiamo attendere sabato perché questo è il visto che abbiamo ottenuto dall’ambasciata. Così, noi della Gengis siamo stati costretti a rallentare la tabella di marcia e a fermarci più di quanto pensavamo in Ucraina. Poco male. Ne approfittiamo per visitare la costa del mar Nero, tra enormi porti ed immensi cantieri navali. Adesso ci troviamo a Mykolaiv, una grande città che ha il primato di essere la capitale dei matrimoni combinati. Avete presente quelle agenzie alquanto dubbie che ai single italiani promettono di trovare una moglie ucraina disposta a diventare l’angelo del tuo focolare domestico? Beh, sono tutte qua. E c’è da dire che per i matrimoni gli ucraini hanno un amore particolare, considerato che è una delle industrie più fiorenti del Paese che spazia dalle auto di rappresentanza – come le assurde limousine lunghe dieci metri -, alle sale di cerimonia la cui pubblicità si trova su ogni muro, ai musicisti e agli intrattenitori, Chissà se il nostro Mattacchione Volante avrebbe un futuro levitando attaccato ad un bastone durante le cerimonie nuziali? Intanto, questa mattina si è esibito ad Odessa, nella centralissima piazza del teatro dell’Opera. La comprensibile tremarella per la prima uscita internazionale del nostro busker preferito in un tale palcoscenico, è stata subito superata dall’entusiasmo con il quale il pubblico ha salutato lo spettacolo e si è messo in fila per farsi fotografare accanto al nostro Mattacchione. Una esperienza che di sicuro ripeteremo in altre piazze. In fondo, come ha osservato Grazia, è andato tutto benissimo: non ci hanno neppure messo in galera!

Riccardo Bottazzo – Gengis Khar Team
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Meccanici, cocomeri e marmitte


Alle nove di mattina se ne vanno, e in contemporanea, i due pneumatici anteriori. Alle tre del pomeriggio, il tubo della marmitta va a fargli compagnia. Nel mezzo, tutto benone! Ci hanno pure regalato un cocomero! Dovevamo fare davvero pena...
Comunque sino a (quasi) il confine con la Russia ci siamo arrivati. Siamo a Mariupol, sulla costa del mare d'Azov.
La Gengis tiene botta con sacrificio e abnegazione. Cambiati i due pneumatici, completamente consumati nella parte interna grazie all'aiuto di un simpatico team di gommisti che aveva foto e quadri di Lenin su tutti i muri, ci siamo rimessi in marcia con l'obiettivo di avvicinarci il più possibile alla Russia. Il nostro visto infatti ci apre le porte della Santa Madre solo da domani in poi. La strada da Mykolaiv è una infinita striscia di buche da ballarci la rumba costeggiata da oceani di girasoli, tanti che non credevo ce ne fossero così tanti al mondo. Su una di queste buche la marmitta ci ha piantato in asso. Altra ricerca di un meccanico e altra pausa in officina.

Stavolta, non c'era Lenin ma icone della madonna. Il risultato pero è stato lo stesso e la Gengis si è rimessa in moto più pimpante di prima. Intermezzo con cocomero regalatoci da una bella fruttivendola che ha il banchetto lungo la strada. Vai a capire perché, ma quando spieghiamo, con l'aiuto della mappa disegnata sulle nostre magliette, da dove veniamo e dove stiamo andando ci prendono per matti e ci regalano un sacco di cose. Lo confesso: noi ne approfittiamo in maniera indegna...








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Mattacchionate ad Odessa


Oggi poche parole e tante immagini. Il nostro Mattacchione Volante si è esibito nella sua prima performance che ha suscitato entusiasmi a non finire. Nella piazza centrale di Odessa, proprio davanti al teatro dell'opera, Riccardo ha "mattacchionato" come solo lui sa fare tra lo stupore dei tanti passanti che si sono mostrati curiosi e generosi allo stesso tempo, riempiendo il nostro salvadanaio a forma di Gengis Khar di soldini per avere in cambio una "perla di saggezza". Da sottolineare che anche i fotografi ambulanti che girano con animali come falchi, colombe e pavoni per farsi fotografare a pagamento dai turisti, hanno versato il loro obolo per farsi fotografare con Riccardo.

Alla fine il nostro maialino era pieno. L'intero ricavato è stato saggiamente investito in birre, noccioline, patatine, aranciate e gelati al primo autogrill lungo la strada per Mykolaiv. Adesso la Gengis si trova in questa città, nota per essere la capitale dell'industria ucraina del matrimonio. Peccato che Riccardo assicuri che per lievitare come sa fare lui sia indispensabile rimanere scapoli!











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