Il ritorno dell'uomo che insisteva a stroncare i Beatles

Permalink
29 agosto 1966 - I Beatles terminano il loro tour americano con una data al Candlestick Park di San Francisco. Nemmeno loro lo sanno, ma è il loro penultimo concerto. L'ultimo si terrà tre anni dopo, su un tetto di Londra, ma nessuno lo ricorda davvero volentieri. Nemmeno il nostro beniamino, Sir Perceval R. Deafon, Esq., celebre per aver salutato tutti i loro dischi con abominevoli stroncature che oggi terminiamo di pubblicare (le prime sono qui). Ci tengo comunque a far presente che a me invece i Beatles piacciono. 


Abbey Road (Apple Music, 1969)

Quando l'anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell'album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l'agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall'inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento - il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione - il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure - è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po' di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l'unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.

La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c'è anche l'ora dell'eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c'è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l'irritante Maxwell's Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All'eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa - l'uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient'altro che "I want you so bad it's driving me mad" per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.

E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall'ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell'originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d'aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c'è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock'n'roll scatenava l'isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio - impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà - dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l'agonia è finita.
Comments (7)