L'uomo che stroncava i Beatles

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27 agosto 1967 - I Beatles vengono ricevuti dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Nel frattempo il loro manager, Brian Epstein, muore per overdose di carbamazepina. L'evento tragico segna l'inizio della fine per il gruppo (che si scioglierà ufficialmente due anni dopo), almeno a detta di alcuni critici. Tra costoro non manca, come avrete indovinato, Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., il critico che tra il 1963 e il 1970 stroncò tutti i dischi dei Beatles. Proseguiamo la pubblicazione delle sue recensioni (le prime sono qui).

Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967)
Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell'assurdo formato di doppio EP - sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest'anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po' raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l'occasione per abbaiare all'ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po' meno ambizioso. Rimane in chi scrive l'impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock'n'roll (non c'è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell'avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l'unico a poter trarre qualche soddisfazione dall'ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po' avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante - riguardo a quest'ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l'inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle - pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.

The Beatles (Apple Music, 1968)
Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato 'capolavoro' dell'anno scorso, dove la frattura tra l'eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già 'strano' sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre - facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d'ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All'interno c'è un'interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l'una contro l'altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l'incisione di brani dall'alto contenuto di saccarina come Mother's Nature Sun Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I'm so Tired o Happiness Is a Warm Gun. 

Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz'altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody's Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock'n'roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell'accrocchio rumorista di I Am the Walrus? Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C'è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna...) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l'idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l'entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in... niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L'unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient'altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare - ce lo auguriamo - le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua...)
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