L'Italia è un blog

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Domenica prossima, dalle 11 alle 13, l'Unità (giornale) festeggia l'Unità (d'Italia) con una grande tavolata di blogger di tutto rispetto. E poi ci sono anch'io! Seguiteci in streaming sul sito dell'Unità, cercheremo di battere il Papa nella sua stessa fascia oraria. Potrete dialogare con noi scrivendo a unisciti@unita.it, o via facebook, o twitter.

Dove il sì suona
Io ho l'impressione che se si raccogliessero tutte le discussioni che si sono fatte, in rete, negli ultimi mesi, sul centocinquantenario dell'Unità, sull'importanza di festeggiarlo oppure no; sull'importanza del Risorgimento, o viceversa sulla sua irrilevanza – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, celebrare Cavour o seppellirlo, e l'Inno, e la Bandiera, eccetera – se si prendessero tutte queste discussioni, e si infilassero nello stesso file, con lo stesso carattere – facciamo un bel Bodoni corpo 10, e poi si premesse il fatidico tasto “Print”, ebbene, avremmo scritto il più grosso libro mai prodotto sul Risorgimento italiano. E anche il più inconcludente, il più illeggibile, il meno necessario. Sono d'accordo. Però vorrei un attimo ragionare sulla quantità. Quanto stiamo scrivendo, sull'Unità d'Italia? Non era mai successo, per un motivo semplice. Siamo in tanti, che scriviamo: non siamo mai stati così tanti. I linguisti hanno un bel da lamentarsi che la qualità del nostro italiano stia peggiorando: hanno ragione. Resta il fatto della quantità: non abbiamo mai scritto così tanto come negli ultimi anni, da quando esiste internet. E su internet esistono siti, forum, chat, social network, e anche blog. Molti di loro hanno scritto qualcosa sull'Unità d'Italia. Magari giusto per ribadire che non valeva la pena di festeggiarne il 150°, che è meglio concentrarsi su altri problemi; che loro più che italiani si sentono europei, o padani, o cittadini del mondo, o napoletani, o interisti. E poi hanno premuto il tasto publish.

E su internet è comparso un altro testo.
In lingua italiana.

"Si scopron le tombe, si levano i morti! I martiri nostri son tutti risorti!" E poi che farebbero, una volta risorti, i nostri martiri? è ragionevole pensare che per prima cosa vorrebbero verificare se ne è valsa la pena. A quel punto potremmo mostrargli l'enorme libro che abbiamo scritto negli ultimi due mesi, sui blog e sui forum e sui social network (e sì, anche nei giornali). Pensate che lo disprezzerebbero? Al contrario, piangerebbero calde lacrime di zombies, per quello che sono riusciti a scatenare. Ce l'hanno fatta, forse non a fare l'Italia, ma a fare l'Italiano. Centocinquant'anni fa la lingua di Dante era l'idioletto di una esigua minoranza di persone – quanto a quelli che sapevano correttamente usarlo per scrivere non erano probabilmente più di qualche migliaio. Oggi scriviamo centinaia di libri al giorno, siamo instancabili. La wikipedia in lingua italiana ha più di 780.000 voci – più di quella in spagnolo castigliano, e lo spagnolo è la lingua ufficiale di una ventina di nazioni, la quarta più parlata nel mondo. L'italiano non è mai stato così brutto, forse, ma nemmeno così vitale. Possiamo anche passare il tempo a litigare sull'unità d'Italia, senza accorgerci che proprio mentre ne litighiamo – in lingua italiana – la stiamo celebrando. Celebriamo l'unità di genti che nel 1861 forse non avevano niente in comune, e che oggi ascoltano le stesse canzoni, guardano gli stessi film doppiati nella stessa lingua, e da qualche anno a questa parte scrivono, indefessi, su internet. Una sterminata produzione letteraria che dovrebbe chiudere qualsiasi dubbio sull'identità. Ci piaccia o no, siamo italiani, da Ventimiglia a Trieste (non un metro più in là).

Questo ha anche un lato oscuro. Internet è una rete che ci consente di condividere le nostre conoscenze con il mondo. Su facebook potremmo dialogare con persone di Paesi stranieri – non ci capita mai. Se siamo esperti di un argomento, potremmo entrare in un forum mondiale dove se ne discute – abbiamo mai pensato seriamente di farlo? E anche i nostri blog, potrebbero servirci per evadere un po' dalla provincia. In dieci anni che ne scrivo uno, mi dev'essere capitato di essere linkato all'estero una volta sola. Da un blog francese. I francesi sono un altro popolo di 60 milioni di persone che vive a poche ore da me, la Provenza mi è molto più familiare del basso Lazio. Ma ai francesi quel che scrivo non è mai interessato, e io non ho mai fatto molto per interessare i francesi. Non è terribilmente provinciale, questo?

Non siamo in generale, noi blog italiani, terribilmente provinciali? Internet poteva servirci a conoscere il mondo, ma il più delle volte ci serve a specchiarci in noi stessi. Ci troviamo gli stessi dibattiti che affliggono la nostra piccola tv italiana, i nostri piccoli quotidiani. Questa lingua, che ci rende stranieri a chi vive a poche ore da noi, sta diventando una prigione. Là fuori ci sono miliardi di persone che progressivamente si stanno accorgendo di vivere nello stesso mondo, con gli stessi problemi. E poi ci siamo noi, il popolo del Sì, una piccola sacca di indigeni autoctoni che continua a discutere animatamente degli anniversari della sua tribù. Da lontano gli altri ci osservano – forse hanno paura a disturbarci, come quelle popolazioni amazzoniche che vanno lasciate così come sono, per preservare una biodiversità, eccetera.

Forse è quello che siamo, una tribù rimasta ai margini del grande discorso globale, con una lingua autoctona che è meglio preservare così com'è. Vitali, ma chiusi in noi stessi. Per saperlo forse basta aspettare fino al 2061, quando festeggeremo il bicentenario. Non ha molta importanza di cosa ci troveremo a parlare per l'occasione – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, di celebrare Cavour o seppellirlo, l'Inno o la Bandiera, eccetera. Ha molta più importanza la lingua che useremo. Sarà ancora il nostro italiano? Sarà una buona notizia? (Se vi va se ne parla domenica).
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