Il ritorno alla terra, poema drammatico

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(Tra gli spunti ce n'è uno - Fiume 1920 - recuperato in una vecchia cartella di cui mi ero assolutamente dimenticato, buttato lì come tanti altri per far mucchio, e che invece risulta fin qui uno dei più votati. Sono un po' in pensiero perché anche se è una vicenda che ho studiato (meno di quanto meriterebbe), ormai non ne so più niente. E siccome per ora non ho niente di più da offrire, incollo un pezzo preso dal libro più venduto e meno antologizzato di F.T. Marinetti, Come si seducono le donne. È un testi del '16, dettato in trincea, che anche in edizione censurata spopolava tra gli ufficiali al fronte. Gente che sotto l'artiglieria si ripromette di tornare a casa con cicatrici non troppo sfiguranti e sdraiare nobildonne grazie ai futuristici consigli di FTM. Lo incollo qui per dare un po' l'idea del tono, della situazione. Cinque anni dopo FTM è a Fiume che continua a inseguire gonnelle senza requie).

Durante i tre anni che precedettero la conflagrazione generale, Parigi, che aveva riassunto e perfezionato in sé tutte le eleganze, tutte le raffinatezze, tutti i cerebralismi e tutte le esasperazioni erotiche, volle realmente spaccarsi l’enorme fronte luminosa contro la muraglia dell’impossibile.

Tutti i divertimenti, tutte le bizzarrie, tutti i capricci, tutti gli spettacoli realizzati, esauriti, vuotati. La mania letteraria femminile che aveva succeduto alla mania del bridge, giunse a delle forme snobistiche assolutamente pazzesche e cretine. Durante un pomeriggio in un salone politico consideratissimo fui costretto ad ascoltare venti declamatrici diverse.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Una dama sessantenne leggeva una Notte di De Musset. Occhialetto tremante fra i nodi delle vecchie dita. Primavera stonata di una toilette rosalilla sul corporuderoattaccapanniombrello. Lingua stanca e bavosa fra i versi roventi. Disattenzione di tutti i cappelli piumati che bisbigliavano i loro affari senza preoccuparsi della declamatrice. Poi, un barbone biondo, pettinatissimo, in stiffelius, notaio o direttore di banca, cadenzava per dieci minuti degli alessandrini col gesto sempre eguale di un seminatore. Poi una signorina svenevole, piena di smorfie cinesi, parlava con una voce da passero, di una volontà che faceva rima con carità. Compassione generale. Nessuno ascoltava. Dalle tre fino alle otto e mezzo di sera. Ogni tanto interruzione: – bello! magnifico! interessante! Piccoli battiti febbrili dei ventagli richiusi contro gli anelli delle mani ridipinte. Mormorio di compiacimento falso. Gorgoglio di voci. Trotto di cretinerie banalissime. E si riprendeva: a non ascoltare.

Nella sala dei rinfreschi si sfogava un frastuono sincero di voci, di piatti e di appetiti. Tutti infatti, poeti, poetesse, bohémiens ripuliti, giornalisti, artiste, signore, attrici avevano fame di sandwiches, pasticcini, gelati e cioccolata dopo quel fiume nauseante di insipidità, e specialmente dopo le lunghe strade parigine affollatissime che avevano dovuto attraversare a piedi, in tram, in luccicantissime limousines; tra mille scossoni, sotto l’impulso del tempo che li spronava a fare ad ogni costo il più assoluto niente. Ritmo affannoso. I petti femminili smaniosi di trovarsi sempre nel punto di Parigi più alla moda, nel salotto più in vista, allo spettacolo più eccezionale. Tutte le bassezze per un invito!...

Ogni signora ha il suo giorno di ricevimento con qualche cosa di speciale. Lotta feroce dei diversi giorni della settimana! Il martedì della marchesa C pompa pneumaticamente i due terzi della curiosità parigina, ma è minacciato dal martedì della contessa D, e specialmente da quello della giovane e bellissima letterata Y, che lavora accanitamente ad accumulare quadri cubisti, poeti, futuristi, ballerini russi, giocolieri sudanesi e lancia su Parigi delle reti d’inviti nelle quali tutti i pesci vogliono assolutamente rilucere di un guizzante piacere cretino.

Io ero un numero ricercatissimo. Non si poteva vivere senza i miei versi liberi all’automobile da corsa, che spaccavano tonando l’atmosfera morfinizzata di quegli ambienti. Per curiosità psicologica e mediante un veloce automobile io riempivo di energia futurista quattro o cinque salotti alla moda in un solo pomeriggio. Conobbi così la signora Julie de Mercourt che incontravo dappertutto.

Biondissima, fragile, pallidissima, un ninnolo febbrile con dei subitanei languori nella voce e negli occhi come se si fosse tuffata nell’acqua calda di un ricordo erotico. La desiderai acutamente e l’inseguii. Le nostre velocità e le nostre onnipresenze erano parallele. Un giorno in un ascensore, presa di subitanea confidenza, mi parlò di malattia cardiaca e mi fece premere colla mano un piccolo seno bianchissimo scosso da un cuore troppo disordinato. Moglie di un architetto illustre che non conobbi mai, era smaniosa d’essere nominata in tutte le note mondane dei giornali, ma aveva evidentemente un’altra mania che io volli esplorare.

Fu felice di presentarmi nella casa di un industriale miliardario, nell’occasione di una festa che doveva sorpassare tutto ciò che si era inventato di più favolosamente strano e piccante. Tutte le limousines aristocratiche scoppianti di luccicori, fuga sferica di riflessi, esplosione molle di stoffe rosa neve fra i cristalli, ebano, lacca rossa, turchesi, tenerissimi gialli, ottone dei fanali, gridio schizzante di strilloni sull’asfalto pieno di raggi veloci: Kru-breee-breee breee, Krubree-bree.

Entriamo insieme. Vasto cortile quadrato. Tre pareti drappeggiate di bianco e verde; quella di fondo, evidentemente di un’altra casa e di un altro proprietario, trasudava di curiosi a tutte le finestre. Crescente polifonia di voci. Tutti i profumi corrotti dagli odori di troppi corpi femminili. Ambizione, irritazione di quattrocento cappelli, piume, garze, veli in rissa per emergere. Naufragio di gesti nudi. Palpitazione di gabbiani femminili fra una schiuma di ventagli. Caldo crescente. Interno di enorme conchiglia marina invasa metà dal sole di agosto. Non c’era più posto, ma la gente continuava ad entrare. Compenetrazione di gomiti nei fianchi. Barbe rosse, dorate, quadrate, a pizzo sfioravano globi di seni colorati come cirri al tramonto. Lunghi capelli grigiastri di vecchio decadente fra le scapole feroci di una scheletrita pianista bandeaux neri con una bocca forata dal rosso. Miscela di fiati. Ansare. Sarà molto interessante! Eccezionale! Il ritorno alla terra, poema drammatico... Non c’è palcoscenico! Una cosa assolutamente nuova! La divina Lettecot Livy sarà nuda! O quasi! Vestita di foglie!... I versi sono suoi! Nel centro vi sarà della terra, della vera terra!

La folla era infatti disposta, assiepatissima, tutta in cerchio, come in un’arena. Silenzio! Silenzio! A stento inoculati, la mia amica ed io formavamo una fusione unica. Lo spettacolo incominciava. Non si vedeva nulla. Dei pezzi di versi schizzavano fuori dal brusio che non poteva cessare data la ressa. Ad un tratto, fra il fogliame umano, vidi la celebre Livy rizzarsi tutta verde, e spargere intorno a sé col grasso braccio nudo, della terra nera. Poi, riempirsene la bocca. E finalmente gridare con irruenza drammaticissima: «Bisogna mangiare la terra! Nutrirsi, nutrirsi, nutrirsi di terra!... per non morire!»

Intanto una finestra si apriva al primo piano davanti a noi ed apparve una vasta portinaia francese una di quelle tipiche portinaie che presero tanta parte nelle battaglie tra inquilini Dreyfusisti e inquilini anti-Dreyfusisti. Aveva sotto l’ascella una lunga scopa, le larghe mani aperte sul ventre e ridendo a crepapelle, disse nel silenzio generale: Ah questa è grossa! Manicomio! Manicomio!... Tutti risero ma meno di me perché ero forse il solo a sentire la necessità urgente della conflagrazione generale. La mia amica mi guardò negli occhi, comprese e disse: «avete ragione di trovare tutto questo idiota... Dopo questo spettacolo non c’è altro che il diluvio».

Due voci flebili e smorfiose mi ronzavano nelle orecchie da dieci minuti. Scambio di parole tenere che rivelavano dei semi-contatti erotici simili a quelli che mi univano alla mia amica. Mi voltai e vidi un signore panciuto sessantenne che stringeva col braccio destro amorosamente un giovanetto oscenamente effeminato, guance a pastello, labbra enfiate di vecchia prostituta, occhi azzurri sciupati malaticci e paurosi sotto dei bellissimi capelli biondi.

Alla mia destra una notissima scrittrice, liquefatta da trenta anni di thè letterari, vasto seno-prua balordamente fasciato di velluto granata, oscillante alberatura di cappello estremoriente. Vicino sotto e sovente nascosta da lei una troppo fragile pupattola bionda (crema oro sorrisi di vetri fini) diceva a un banchiere biblico, calvo, che uncinava le donne (velieri o canotti) col naso arrugginito:

— Oh! io trovo che il denaro è un potente afrodisiaco. Il denaro è la più grande prova d’amore che un uomo può darci...

Era probabilmente fedele a quel suo palmipede bancario che le offriva con 100,000 franchi di toilette all’anno la delizia di vincere e di umiliare tutte le sue amiche. Preferiva indubbiamente un palpeggio di stoffe e una rivista di mannequins ad un ardente corpo a corpo col più seducente amante del cuore. Il banchiere rideva viscidamente di tanto in tanto offrendo ad ogni sorriso due lunghi denti d’oro al suo labbro inferiore ogni volta deluso.

Se tutto ciò ti seduce, almeno più di La prima volta si fa davanti a tuttinon ti resta che mettere Mi piace su facebook, o esprimervi nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
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