falce e martello addio

Permalink
"Ma quanto dolore per quel segno sul muro"

Così come Maometto, in vita sua, non vide né disegnò mai una mezzaluna su un drappo, allo stesso modo Karl Marx non ebbe mai la possibilità di dare un’occhiata al simbolo comunista per antonomasia, l’intreccio di falce e il martello.
Probabilmente l’avrebbe trovato fuori luogo. Una falce, un martello, nel pieno della Seconda Rivoluzione Industriale? Nell’era della fabbrica, dell’ingranaggio, all’alba elettrificata della Catena di Montaggio? Mi piace immaginarlo mentre straccia i bozzetti: non va, non va. Noi siamo comunisti, lottiamo per il possesso dei mezzi di produzione: che senza dubbio non sono più questi qui. Ci vuole qualcosa di più industriale, siamo nell’Ottocento, perdio.

Non è un caso che, dopo una lunga storia separata, la falce e il martello si siano ritrovati per la prima volta intrecciati nella Russia dei Soviet. Non è nemmeno un caso che l’altra patria d’adozione sia stata l’Italia: i due Paesi industrialmente sottosviluppati sui quali Marx non avrebbe mai puntato, e che in un primo tempo erano sembrati terreni più fertili per il verbo di Bakunin. Due frontiere industriali dove a Novecento già avviato era ancora possibile descrivere il lavoro con quei due attrezzi che in Germania, in Inghilterra, erano ormai appannaggio di hobbisti eccentrici: il martello da fabbro, la falce da contadino. E persino in Italia, a dire il vero, i braccianti socialisti con la falce e il martello sulla tessera stavano già lottando intorno alla trebbiatrice. Insomma, il simbolo nasce già vecchio. Ma funziona.

Trasformare gli attrezzi di lavoro in simboli, una bella idea. Si può celebrare il lavoro senza smettere di lavorare? Quella falce non sta falciando, quel martello non inchioda: sono incrociati come le braccia di uno scioperante. È un simbolo ambiguo, e soprattutto è minaccioso. Intrinsecamente minaccioso. La svastica, prima d’incontrare il nazismo, era un semplice simbolo grafico. Poteva rappresentare il ciclo delle stagioni, il sole, e centinaia d’altre cose. Ma la falce e il martello non avevano nemmeno bisogno di essere adottate da Stalin per ispirare una certa soggezione. Una falce alzata fa paura, specie a chi non ne ha mai usata una, e col martello ci siamo tutti schiacciati almeno un dito nella vita. È un simbolo che sa di sangue e sudore, e può piacere anche per questo. Può essere il sangue e il sudore che abbiamo sopportato; oppure il sangue e il sudore che non vogliamo più sopportare; oppure il sangue e il sudore che vi faremo versare, maledetti capitalisti. In ogni caso, è difficile immaginare un simbolo più violento: mi vengono in mente solo la bandiera dei pirati, i cartelli dell’alta tensione e il Kalashnikov sulla bandiera del Mozambico. Ai capitalisti degli anni Venti doveva veramente gelarsi il sangue nelle vene.

Col tempo poi si sa cosa succede: a furia di vedere un simbolo, non ti ricordi più il significato. Inoltre, tutta questa voglia di menar martelli e falci dopo un po’ doveva stemperarsi per forza. Il razionalismo cubo-futurista diede una grossa mano, stilizzando i due arnesi in una cifra astratta, dorata sullo sfondo rosso della bandiera dell’URSS. In Italia Nenni provò a sdrammatizzare appoggiando un libro sullo sfondo. Guttuso invece geometrizzò persino il manico del falcetto, da lì in poi inimpugnabile, e coronato da una stella che lo rendeva curiosamente simile alla mezzaluna islamica. Siccome il pittore era siciliano, la tentazione di ricamare sulla citazione inconscia è irresistibile… ma attenzione, la mezzaluna non era un simbolo islamico ai tempi della dominazione araba della Sicilia: in quel periodo era ancora l’emblema di Bisanzio, adottato forse in onore della dea Artemide. Va a finire che con la scusa di difendere il simbolo del lavoro, stiamo difendendo l’ultima resistenza della dea multipopputa nel nostro inconscio collettivo. Vabbè, scherzo.

Adesso invece sono serio. L’altra mattina il ministro Ferrero, a Omnibus, spiegava che negli ultimi vent’anni i delitti sono dimezzati, mentre gli infortuni sul lavoro si sono mantenuti costanti. A questo punto l’on. Cicchitto lo ha interrotto, accusandolo di fare demagogia.
Demagogia? Ferrero stava semplicemente citando delle cifre. Cicchitto non ha sostenuto che fossero false. Per lui era demagogia semplicemente parlare di cifre. Semplicemente parlare di infortuni del lavoro. È demagogia ricordare che esistono, e che fanno più morti degli immigrati rumeni. È demagogia parlare del lavoro, semplicemente. Gli italiani non sono più un soggetto politico in quanto lavoratori, ma solo in quanto consumatori. Se lavorano, peggio per loro: lo facciano discretamente, senza lamentarsi, e ricordandosi di passare dal centro commerciale prima di rintanarsi nei piccoli bunker domestici. Pensate a come ci ha diviso la vertenza di questi giorni: da una parte un’orda di lavoratori brutti sporchi e cattivi, che blocca l’Italia ai caselli dell’autostrada; dall’altra i poveri consumatori bloccati a casa senza rifornimenti di viveri e benzina. Se siamo arrivati a questo punto, abbiamo clamorosamente perso non soltanto il bandolo del traffico nazionale, ma anche la nostra coscienza di classe.

Il motivo per cui io mi considero malgrado tutto una persona di sinistra, non ha a che fare con la bontà, o con la cultura, o con altre categorie pseudo-veltroniane (che persino il vero Veltroni non merita). Il motivo è semplicemente che io mi ostino a considerarmi per prima cosa un lavoratore, e vorrei continuare a essere un soggetto politico in quanto tale. Per me il discrimine passa di qui: tra i partiti che ti considerano prima di tutto un consumatore da imbonire e quelli che vedono ancora in te un lavoratore da difendere, io scelgo i secondi, e non saprei fare diversamente. In tutte le questioni sulle quali ci accapigliamo, compresa quella in fin dei conti trascurabile di Luttazzi, mi sembra di cogliere in controluce lo stesso problema: c’è chi sta dicendo “non potete licenziare un lavoratore di punto in bianco” e chi dice “ha sbagliato a offendere gli amici del padrone e il padrone può fare ciò che vuole”. Io sto e starò sempre coi primi, perché sono cresciuto con loro e mi trovo bene.
Mentre per molti l’articolo uno della Costituzione è ormai un mantra privo di significato, io credo di aver capito cosa vuol dire fondare una Repubblica sul lavoro, e so che è una frase molto meno rassicurante di quello che appare: significa, come minimo, che chi non lavora non dovrebbe avere voce in capitolo. Se ci pensate, non suona per nulla buono o buonista; piuttosto un po’ rivoluzionario. Più oggi che nel 1946.
Quando pronuncio quell’articolo sento di nuovo, vago ma inconfondibile, quel retrogusto di sangue e sudore, e mi ricordo che per poco il martello non è finito nell’emblema repubblicano: era in uno degli ultimissimi bozzetti. Sarebbe stato un emblema surrealista e vagamente vichingo, il martello alato: ma anche con lo stellone non ci possiamo lamentare. C’è sempre l’ulivo a fianco, che è un impegno di pace, e sotto c’è la ruota dentata, un altro simbolo del lavoro che forse sarebbe più piaciuto a Marx, e regge ancora questi tempi di meccanica di precisione.

Quello che invece non condivido coi miei compagni comunisti e verdi ed ex diessini, con o senza falce e martello, è una speranza solida di migliorare la mia e la loro condizione. È un mio grosso difetto, la disperazione, che mi rende in definitiva la persona mediocre che sono. Per quanto mi sforzi di immaginare, continuo a vedere il mercato del lavoro italiano come una piccola ampollina, che poteva carburare discretamente finché non è stata messa in comunicazione con l’enorme cisterna del lavoro asiatico. È per questo che non riesco a stupirmi se in un’ex fabbrica modello di Torino vedo comparire turni massacranti e scomparire gli estintori: è atroce e allo stesso tempo è normale, ci stiamo cinesizzando e nei tempi lunghi non ci possiamo fare niente. Il giorno in cui l’equilibrio dei vasi comunicanti sarà ripristinato, il livello della qualità delle nostre vite sarà comunque sceso di parecchio. E non tutti potranno contare sulle solite scappatoie: la cultura, l’informatica, l’industria del lusso, il turismo. Forse dobbiamo rassegnarci a vivere in un Paese un po’ più povero, in cui il pane costerà di più, la benzina costerà molto di più, e non tutti i figli degli operai potranno fare gli ingegneri. Allora dovremo raccontare ai nostri figli una favola ben diversa da quella che i nostri padri hanno raccontato a noi. E non saranno molto contenti – i nostri figli, intendo. Del resto lo si vede già, da certe facce in giro.

Se poi ho una speranza al mondo, è proprio quella di sbagliarmi. Il simbolo che preferirei lasciare alle nuove generazioni, malgrado tutto, resta sempre quel famoso Sole dell’Avvenire. Ma la vedo dura, che ci posso fare.
Comments (29)