Lunga vita all'Unità

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(Avevo una teoria). 

Desidero esprimere la mia solidarietà ai redattori dell'Unità, che a quanto pare chiude domani, e in particolare a quelli della redazione on line, che per quattro anni mi hanno lasciato libero di scrivere tante - troppe - cose. Mi dispiace che dopo mesi di sacrifici si ritrovino a pagare per colpe non loro; mi dispiace anche perché credo che in Italia non sia affatto venuto a mancare lo spazio per un prodotto editoriale chiamato "l'Unità". Forse non ha più senso che sia un quotidiano, o che sia di carta; ma il suo pubblico l'Unità ce l'avrebbe, e spero che lo ritrovi in fretta.

In particolare la scelta di chiudere la redazione del sito - se ho capito bene - la trovo abbastanza inspiegabile. Ma probabilmente non sono in grado di parlare dell'Unità con la distanza necessaria, e ci sono troppe cose che non so. Negli ultimi mesi, mentre la situazione si faceva sempre più difficile - e i redattori andavano avanti senza stipendio - avrò sentito ripetere centinaia di volte in giro che un quotidiano dovrebbe "stare sul mercato". Come se in Italia ci fossero quotidiani in grado di starci, su quel mercato; come se il Corriere della Sera, poniamo, stesse sul mercato in virtù delle copie che vende e non degli interessi che rappresenta. Poi naturalmente un mercato esiste, ma è un po' più complesso dei disegnini che vedo tracciati in giro.

Proprio la travagliata storia dell'Unità dovrebbe aiutarci a capire che le cose sono più complicate: da una certa distanza, perlomeno, viene il sospetto che i veri guai siano nati ogni volta che qualche direttore o proprietario visionario provava a starci, nel 'mercato': sin dalle famose e famigerate videocassette e figurine di Veltroni, che all'inizio funzionarono ma a un certo a punto colarono a picco. Un episodio più recente è la gestione Colombo-Padellaro, che è probabilmente il modello che ancora oggi somiglia più all'Unità come la vorrebbero i suoi lettori ed ex lettori. Era un giornale che funzionava, faceva parlare di sé, aveva un'identità forte - però faceva debiti. Più di recente anche la De Gregorio provò a fare qualcosa di diverso e interessante - ma c'erano già i debiti pregressi. Cruciale è stato poi il ruolo di un imprenditore, Renato Soru, che fino a un certo punto aveva interesse a investire sull'Unità, e a un certo punto questo interesse lo perse. Legittimamente: il mercato è fatto così. Ci sono eccezioni interessanti (Il Fatto, il Manifesto) che meriterebbero un discorso a parte, ma temo non siano modelli esportabili: il Fatto ha cavalcato un'onda che potrebbe anche infrangersi; il Manifesto ha lettori eroici disposti a sacrifici che secondo me non è giusto pretendere.

Più in generale, chi parla di "mercato" molto spesso sta solo dando una veloce verniciata liberista alla legge della jungla - jungla peraltro mai visitata dal vivo. Sapete chi è che riesce a stare sul mercato, vendendo soltanto, ehm, 'notizie' e 'opinioni'? Beppe Grillo. Niente carta, redazione minuscola, pochissime spese, tanta pubblicità. Il sito fa grancassa, i libri e i dvd fanno probabilmente il grosso delle entrate - e in questo momento in homepage c'è BRUNO VESPA "ECCITATO" DALLA BOSCHI. Il mercato, se proprio ci tenete, è quello lì. Ma magari non è il posto dove vi piacerebbe discutere. Perché poi il problema è sempre lì: quanto sareste disposti a pagare per avere un luogo, una piattaforma, un sito dove vi piacerebbe discutere in calce a notizie fresche e contributi interessanti? Molto poco. E quindi, a norma di "mercato", un siffatto luogo di discussioni non dovrebbe sussistere. Possibile?

Una volta c'erano i partiti. Erano qualcosa di più di cartelli elettorali. Qualcuno li definiva "intellettuali collettivi". Ci si aspettava da loro qualcosa di un po' più interessante di una lotta per il potere: avrebbero dovuto elaborare progetti, modificare la società. Gli organi di partito erano i luoghi dove elaborare questi progetti. Ci scrivevano intellettuali 'organici' e indipendenti, cercando di dare anche voce alla base dei lettori (nulla rispetto alle procedure di condivisione dal basso a cui oggi siamo abituati su internet). Ci scrivevano funzionari che avevano l'obiettivo di dare la versione dei fatti del partito, sconfinando spesso nella propaganda. Nessuno si aspettava che facessero cassa, così come nessuno si aspetta che la gente paghi il biglietto per ascoltare la versione dei fatti di qualcun altro, o per partecipare a dibattiti e conferenze, o semplicemente per chiacchierare. Non è mai esistito un "mercato" del genere, e giustamente. Solo Beppe Grillo ti fa pagare il biglietto, ma lui è un comico, e magari ti racconta la barzelletta di Vespa "eccitato" dalla Boschi.

Il fatto che questi organi fossero finanziati dai partiti, e che questi partiti a loro volta ottenessero finanziamenti dallo Stato, è oggi visto come uno scandalo senza pari. In effetti è un modello ormai tramontato, al punto che gli organi di partito oggi occultano, per quanto possibile, la loro affiliazione politica: come se fosse una vergogna rappresentare gruppi organizzati di cittadini e non concentrazioni di interessi economici. Evidentemente sì, è una vergogna. Vien quasi il sospetto che la redazione dell'Unità sia stata sacrificata a questo sentimento popolare. L'Unità è un bel brand, ma deve essere purificato: si pretende che continui a evocare i feticci di Berlinguer e Gramsci, senza più suggerire un'intelligenza con la casta dei politici.

Nel frattempo i politici danno l'impressione di voler saltare le intermediazioni: si presentano come gente alla mano, scravattati e sbottonati anche quando fuori non fa così caldo; hanno tante belle idee e progetti che hanno elaborato più o meno da soli, tra loro; ci "mettono la faccia" e si aspettano che i cittadini puntino su di loro, prendere o lasciare. Se hanno qualcosa da dire la twittano a costo zero, che bisogno c'è di una redazione? Ma a ben vedere non c'è bisogno nemmeno di un partito.

Io mi chiamo Leonardo, scrivo tante cose perché mi diverto. Cerco di scriverle più interessanti possibile, e quando riesco a farmi persino pagare è una gioia. Ma non ho mai pensato di dover stare su "un mercato" con questa roba. Guadagnare è un effetto collaterale, per così dire, un modo per farmi parzialmente una ragione del tempo sottratto ad altri divertimenti. L'obiettivo primario è un altro: capire me stesso, capire quello che mi succede intorno, cercare per quanto posso di contribuire a modificarlo. Non sono un intellettuale collettivo. Non sono nemmeno un intellettuale, probabilmente. Ma sono abbastanza libero. Anche sull'Unità, che qui ringrazio una volta in più.
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