- bruciare la legge 30

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La repubblica fondata sul parcheggio

Se l'Italia fosse così fondata sul lavoro come pretende d'essere, detta Italia oggi traballerebbe su fondamenta sempre più precarie. Per fortuna (fortuna?) l'Italia è da un pezzo fondata su basi un po' più solide: mattoni e cemento, i risparmi di mamma e papà: una vita di fatiche e risparmi per una villetta, anche due, la seconda condonata, e speriamo che l'Italia non smotti nel frattempo. Speriamo anche che la bolla immobiliare sia un modo di dire, uno di quegli ossimori tipo parallele convergenti: avete mai visto due parallele convergere? E la bolla immobiliare, l'avete mai vista? Ecco, appunto.

E il lavoro? Massì, ragazzini, se insistete vi diamo anche il lavoro; ma sia chiara una cosa: voi non siete operai, avete studiato, siete la classe consumatrice, e quando i vostri genitori passeranno a miglior vita sarete la classe proprietaria: nel frattempo niente cantieri e fonderie, per quello ci sono i sommersi. Voi non avete bisogno di produrre: avete bisogno di un parcheggio. Voi cercate un lavoro creativo, stimolante, partime, la necessaria continuazione dei vostri cazzeggianti pomeriggi postscolastici: giocavate ai videogames? Arruolatevi nella new economy. Scrivevate poesie? Provate a fare i pubblicitari. Ascoltavate musica? Ci sarebbe un posto da diggei. Consumavate sostanze? Iniziate a rivenderle ai più giovani.

Tutto questo può sembrare un po' precario, ma non si tratta di una vera scelta di vita. Si tratta solo di non stare mani in mano in attesa dei 45-50 anni, quando finalmente entrerete in possesso del vostro ammortizzatore sociale, l'eredità di mamma e babbo. Se nel frattempo il babbo si è risposato con una tailandese – o la mamma è scappata con un nigeriano – o se entrambi, seriamente preoccupati per il vostro futuro si sono fatti convincere a comprare un bel pacco di bond argentini – sono un po' cazzi vostri, il vongole-welfare-state non può prevedere ogni cosa.

I giovani che si lamentano? I giovani che si lamentano sono quelli che non hanno capito il bello del sistema, che la vita comincia a 25 anni, quando hai ancora davanti a te 20 anni di allegra improvvisazione professionale. Ma pensa solo quanti uffici cambierai, quanti contratti, quanti TFR, quanti incontri con chissà quante commercialiste simpatiche e disponibili, e poi da cosa nasce cosa. Oppure sono i figli dei perdenti, quelli che non hanno nessuna villetta da parte: "i figli degli operai" che, come disse lucidamente il mai abbastanza compianto premier uscente, la sinistra vorrebbe mescolare ai "figli dei professionisti", probabilmente per creare un orrido ibrido antropomorfo trinariciuto.

I giovani che si lamentano di solito si scontrano con un muretto dialettico di di quaranta-cinquantenni opinionisti che li irride: ma come? Volete il posto fisso? La pappa pronta? Boulot-metro-dodo? Dove sono finiti gli ideali libertari della nostra generazione, l'immaginazione al potere vietato vietare e bla bla bla? Prego di notare un paio di dettagli:

(1) questi opinionisti sono, appunto, quaranta-cinquantenni: vale a dire che hanno appena ereditato. Se hanno mai nutrito serie preoccupazioni sul loro avvenire, le hanno appena dimenticate. Se è andata bene a loro, perché non dovrebbero svoltare pure i figli? Il pensiero che una certa fase di espansione economica (quella del trentennio che i francesi chiamano "les trois glorieuses": '50–'60–'70) sia definitivamente terminata – e che quindi i figli possano trovarsi in congiunture nettamente più sfavorevoli – non li attraversa nemmeno per sbaglio.
(2) questi opinionisti sono, di solito, giornalisti (= appartenenti a una casta professionale delle più protette al mondo) e spesso nemmeno freelance. Mi piacerebbe vederli, un bel giorno, ricevere la notizia che il giornale intende licenziarli il 30 luglio e riassumerli in settembre, senza pagare ferie, perché così si risparmiano un bel po' di soldi; e poi pensavamo di ri-licenziarti a Natale, e anche tra Pasqua e il primo maggio, ti fai un bel ponte, e puoi sempre chiedere un sussidio disoccupazione.
"Ma chi mi garantisce che mi riassumete?"
"Eh, che domande! Vuoi il posto fisso? Dove sono finiti gli ideali libertari della tua generazione?"

I giovani che si lamentano vorrebbero essere adulti, in un mondo che di adulti non ha molto bisogno.
– Ha bisogno di vecchi, che tengano al sicuro i beni-rifugio (case); vecchi impauriti che ogni cinque anni votino per la sicurezza e la legalità.
– Ha bisogno di stranieri, senza troppi diritti, che facciano il lavoro duro senza complimenti.
– Ha bisogno di giovinastri dediti al consumo di tutte le merci necessarie.

La legge 30, che qualcuno chiama Biagi, va più o meno in questo senso. La legge 30 non prevede una generazione di ventenni o trentenni già adulti. Li tratta alla stregua di ragazzini, desiderosi di rimanere il più possibile in casa dei genitori. Ognuno, naturalmente, può raccontare la storia che preferisce, sulla legge 30. Io racconto la mia.

Si dia una ragazza A, che abita diciamo a 150 km. da un ragazzo B.
Poniamo che A e B vivano in un mondo di comunicazioni istantanee, un mondo dove non è difficile anche a persone lontane incontrarsi e piacersi, e percorrere più volte in un mese il percorso da 150 km., finché detto percorso non viene a noia, il prezzo della benzina continua a salire (i treni locali sono improponibili) e alcuni orologi biologici stanno scampanando da un pezzo.

A questo punto, in un Paese qualsiasi, A e B dovrebbero mettersi d'accordo su un posto dove vivere. Non ha senso che entrambi abbandonino il posto di lavoro: dunque sarà uno solo a rinunciare. Mettiamo che sia la ragazza A.
A questo punto vi aspettereste che la legge 30, che qualcuno chiama Biagi, intervenga per aiutarla: abbandonare un posto fisso per amore, non è il massimo della flessibilità? E non ci piacciono tanto, i ragazzi flessibili?

Sbagliato. Alla legge 30, che qualcuno chiama Biagi, piacciono i ragazzi flessibili finché stanno a casa dei genitori. Se la ragazza A decide di abbandonare il suo lavoro, non ha diritto a nessun sussidio di disoccupazione, neanche per un mese, niente. Perché non è stata licenziata: se n'è andata lei volontariamente. Non per giusta causa, ma per amore – ergo, non ha diritto a un euro. L'aiuteranno i genitori, non hanno un tesoro da parte i genitori? Ah, non ce l'hanno? Si accomodi allora nell'ufficio interinale più vicino alla dimora del fidanzato, e si attacchi alla svelta al primo cocoprò. Svelta! Che il tempo è denaro.

Secondo voi lo farà? Rinuncerà a un posto fisso da millecinquecento euro più benefits per farsi un bel salto nel buio? Per amore? O se ne resterà a casa dai suoi, in attesa di un amore che richieda meno flessibilità?

Io lo so che tutto questo può sembrare buffo, a chi non c'è dentro. Se l'amore c'è, il lavoro, prima o poi si trova; pazienza se è interinale. Quel che vi posso dire è che una cosa è raccontarle, le storie. Siamo tutti Harrison Ford, quando le raccontiamo.
Un'altra cosa è viverle. Quel salto nel buio, è un salto vero. Magari non è così in alto, e il buio non è così buio: ma il salto c'è, e forse voi non lo fareste.

Oppure l'avete fatto, un salto simile, e vi stimo. Ma non ce l'ho con chi non ce l'ha fatta. Ce l'ho con chi non si è mai trovato davanti a una scelta così, e tuttavia ne parla, ne discute, pretende di giudicare una generazione di precari controvoglia. Ce l'ho con chi discute sui giornali perché, storia vecchia, in Italia scrivere sui giornali è roba da privilegiati – e ogni discorso da privilegiati suona falso: sia gli snob che scambiano il precariato per la bohème, sia i pauperisti di chi dice "non ce la fanno ad arrivare a fine mese". Io, per esempio, ce la faccio.
Fino a giugno. Poi da settembre. Nel mezzo m'inventerò qualcosa, finché c'è amore non mi manca il resto.
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