In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

La protesta dei lavoratori-schiavi in prefettura

CaporalatoDopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre

Sono scesi tutti in piazza, probabilmente per la prima volta in vita loro, a reclamare diritti e dignità. Una trentina di lavoratori ha pacificamente manifestato ieri mattina in piazza Antenore, davanti alla sede della Prefettura di Padova, sostenuti dagli attivisti dell’Adl Cobas. Sono i lavoratori schiavizzati dalla cooperativa BM Services: pakistani per di più, ma anche qualche somalo ed eritreo. Lavoratori senza stipendio, costretti a lavorare per 12 ore al giorno all’interno degli stabilimenti di Grafica Veneta di Trebaseleghe o di Barizza International di Loreggia.

Due colossi, il primo in particolare, nel campo dell’editoria internazionale che utilizzavano i lavoratori schiavi messi a contratto dalla BM Services. L’inchiesta che ha portato all’arresto di 11 persone, tra i quali l’amministratore delegato Giorgio Bertan e il responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton di Grafica Veneta, è partita dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano picchiato, derubato e abbandonato legato ai bordi di una strada dai connazionali della BM Services. «Questi lavoratori non potevano neppure protestare perché la BM teneva in ostaggio i loro documenti e li ricattava trattandoli come schiavi ha spiegato Stefano Pieretti di Adl Cobas Oggi finalmente hanno potuto fare sentire per la prima volta le loro voci».

Dopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre. «Abbiamo spiegato al prefetto che la proposta avanzata dalla proprietà è irricevibile spiega Pieretti -. Queste persone che hanno lavorato per anni, sfruttati e sottopagati, negli stabilimenti di Grafica Veneta non possono essere liquidate con un contratto a tempo di sei mesi ed un bonus di un migliaio di euro per gli stipendi non ricevuti».

L’Adl Cobas ha chiesto, sia per i 21 lavoratori delle Grafiche che per i 14 della Barizza, un contratto a tempo indeterminato e una liquidazione di 1500 euro per il mese di luglio che, a causa degli arresti che hanno praticamente azzerato la Bm Services, non gli è stato retribuito. «Abbiamo anche lanciato una sottoscrizione per consentire a questi lavoratori che sono letteralmente alla canna del gas di poter mangiare fino a che la loro situazione lavorativa non sarà stabilizzata. Teniamo presente che molti di loro si troveranno senza un tetto perché la BM non ha più pagato l’affitto della casa in cui li costringeva a vivere venti alla volta».

Una situazione, questa del caporalato diffuso nel mondo del lavoro che l’Adl Cobas ha denunciato i più occasioni. «Se il lavoro sporco del caporalato viene sempre lasciato ad altri, in questo caso la BM, non ci vengano a raccontare che i vertici delle aziende coinvolte non ne sapevano nulla! conclude Pieretti Grafica Veneta aveva stipulato un contratto da 270 mila euro all’anno con la BM per 21 lavoratori. Basta fare due conti ed appare evidente che questo non poteva significare altro che una retribuzione da 4 euro l’ora al massimo. Un bel risparmio per una azienda di punta nel campo dell’editoria che lo scorso anno ha fatturato un ricavo di 158 milioni di euro e che certo non si può definire in crisi».

Roghi in Sardegna, il sistema antincendio c'era, ma è stato dismesso

Dopo le fiamme sul Montiferru, la procura di Oristano indaga per incendio colposo aggravato. Il presidente della Regione Solinas ha chiesto lo stato di emergenza, ma nessuno guarda alle cause

Raccontano ad Oliena (in provincia di Nuoro) che il santo più venerato in Sardegna sia tale S’Antincendiu. Il santo protettore del servizio antincendio che ha dato conforto e lavoro a tantigiovani disoccupati dell’isola. Santo del tutto sconosciuto all’agiografia cristiana, che si può anche leggere Sant’incendiu e che, in questa veste, ha permesso ad altrettanti proprietari terrieri di ricavare un bel po’ di denaro dai roghi appiccicati ai loro appezzamenti.

Oliena è una cittadina arroccata nel cuore della Barbagia, regione tristemente nota per i sequestri di persona negli anni ’70 e ’80. Cittadina famosa perché il giorno di Pasqua, che qui festeggiano col nome S’incontru, tutta la gente del paese si affaccia alle finestre per sparare in aria all’impazzata con doppiette da caccia, pistole 44 Magnum e mitra Ak 47. Neanche quando facevo il corrispondente da Beirut ho mai assistito a una sparatoria del genere. “Un territorio armato fino ai denti. Nuoro guida la classifica italiana”, titolava un reportage della Nuova Sardegna che sottolineava i dati allarmanti di questa provincia col più alto numero di possessori di porto di pistola e di fucile per uso venatorio. “Poi ci sono le armi illegali, ma quella è un’altra storia” concludeva il reportage. E se il nuorese è in testa all’hit parade delle armi, le rimanenti provincie sarde seguono da vicino. Il culto delle armi da fuoco, in quest’isola, è diffuso in tutte le generazioni ed è strettamente legato a termini come la “valentia” (una sorta di onore maschilista contornato di obblighi di vendette ad ogni costo) di cui si sono fatti scudo anche i (pochi) piromani che la magistratura è riuscita a mandare a processo.

Rifiuti in fiamme: il patto tra imprenditori, amministratori e mafie

L'incendio non ha cause naturali

Tre incendi, in sospetta contemporaneità, hanno fatto piazza pulita dei boschi di Oristano e compiuto una strage di animali. Si sospetta un'origine dolosa

L’isola armata sino ai denti oramai ogni estate viene devastata da terrificanti incendi. Incendi che, anche in virtù delle nuove e sempre più torride condizioni climatiche, si rivelano ogni volta più devastanti. Il Wwf nel suo ultimo report Il Mediterraneo brucia li ha definiti mega-incendi: “A partire dal 2017 una nuova generazione di incendi è apparsa nell'Europa mediterranea, superando per dimensione e portata i grandi incendi. Si tratta di mega-incendi che generano vere e proprie tempeste di fuoco, causate del collasso della colonna convettiva”. Anche questa è una conseguenza del cambiamento climatico. Sempre secondo il Wwf – che lancia un preoccupato e sino ad ora inascoltato appello ai governi per dotarsi di strumenti atti a difendere la biodiversità e il nostro patrimonio boschivo – solo il 4 per cento di questi incendi sarebbe dovuto a cause naturali. Il rimanente è imputabile a negligenza umana o a episodi dolosi.

Per quanto riguarda il disastro accaduto in Sardegna negli ultimi giorni, l’ipotesi delle cause naturali la possiamo escludere in partenza. La magistratura sta ancora indagando, ma i responsabili del corpo forestale sardo hanno già messo in chiaro che il rogo principale, quello che ha letteralmente divorato il Montiferru, è stato innestato a Bonàrcado-Santu Lussurgiu da una vettura incendiata. Anche per gli altri tre incendi che, in sospetta contemporaneità, hanno fatto piazza pulita dei boschi di Oristano e compiuto una strage di animali, si sospetta un'origine dolosa. La magistratura ha già aperto un fascicolo contro ignoti.

Fumi neri su Aprilia: un inquinamento ignorato

Il sistema antincendio dismesso nel 2005

"Si è privato in modo arbitrario e – per chissà quali secondi fini – il nostro patrimonio boschivo sardo di uno strumento fondamentale per la prevenzione e la lotta agli incendi"Michele Cossa - Consigliere regionale dei Riformatori sardi

La natura – in questo caso l’impetuoso vento di maestrale – ha senza dubbio accentuato la propagazione dell’incendio, ma direttamente (per dolo) o indirettamente (per cambiamenti climatici) la devastazione alla quale abbiamo assistito, è imputabile soltanto all’uomo. Anche nelle evidenti carenze nell’affrontare una situazione che si continua a definire “emergenziale” pur ripetendosi ogni anno con le stesse modalità. Com'è possibile che nella regione più colpita dagli incendi in tutto il Paese non fosse stanziato un numero sufficiente di Canadair (gli speciali aerei antincendio) e che questi siano dovuti arrivare dalla Corsica e dalla Grecia per fermare le fiamme? “Forse abbiamo comperato gli aerei sbagliati”: nel web si è subito scatenata l’ironia degli ambientalisti che hanno impietosamente messo a confronto le enormi spese sostenute dall’Italia per acquistare i cacciabombardieri F35 con quelle destinate al servizio di Canadair. Servizio che, tra le altre cose, in Italia è stato appaltato a una ditta privata, al contrario di altri Paesi europei dove è gestito, con ottimi risultati, direttamente dal corpo forestale.

Tutto vero. Ma si dimentica che un servizio antincendio funzionante e che aveva dato pure ottimi risultati, la Sardegna lo aveva già. Peccato sia stato completamente dismesso nel 2005. Una scelta condannata anche dal tribunale di Cagliari che nel 2018 ha obbligato la Regione a risarcire Teletron euroricer, la ditta che aveva messo a punto questo sistema basato su un’innovativa tecnologia di telerilevamento capace di segnalare immediatamente lo scoppio di un incendio e intervenire prima che le fiamme si propaghino incontrollate. Il sistema Teletron è attualmente adoperato in altre regioni italiane considerate a rischio ed è utilizzato anche in altri Paesi mediterranei come Spagna e Grecia. La Teletron aveva iniziato la sperimentazione proprio in Sardegna, nel 1984. Il sistema è diventato operativo l’anno successivo rivelando subito la sua efficacia e abbattendo dell’85 per cento il numero di incendi. Il sistema funzionava infatti anche come deterrente per eventuali piromani la cui azione criminale viene subito rilevata dal sistema.

Terra dei fuochi, bonifiche e riforme ferme da 13 anni

Ma nel 2005 la Regione ha preferito dismettere il sistema, dichiarando finita la sperimentazione. E il numero di incendi è subito schizzato verso l’alto. “Si è privato in modo arbitrario e – per chissà quali secondi fini – il nostro patrimonio boschivo sardo di uno strumento fondamentale per la prevenzione e la lotta agli incendi – ha dichiarato il consigliere regionale di opposizione Michele Cossa, dei Riformatori sardi –. Per realizzare le 50 postazioni sperimentali di telerilevamento, la Regione aveva investito 30 milioni di euro, senza contare i quasi 900 mila euro per gli aggiornamenti. Ma invece di implementarle, abbiamo speso altri soldi per dismetterle. E, come se non bastasse, la Regione dovrà spendere altri 230 mila euro per rispettare la sentenza del tribunale”.

Nel frattempo la Regione ha preferito continuare a investire ogni anno almeno 80 milioni di euro in campagne antincendio la cui efficacia è sotto gli occhi di tutti. Senza contare i cospicui finanziamenti a fondo perduto che, una volta raffreddatasi la situazione, arriveranno dal Governo centrale come conseguenza dello stato di calamità che il presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha prontamente chiesto. In una nota Solinas ha già assicurato che sono state accelerate le procedure per "abbattere tutti i tempi tecnici e burocratici e abbreviare i passaggi che ci consentiranno di erogare i ristori ai cittadini e alle aziende, per il risanamento degli edifici pubblici e privati, per una ripartenza che vogliamo tutti sia rapida". Ai fedeli di S’Antincendiu non resta che ringraziare il loro santo protettore.


Grafica Veneta, la Cgil: «Dall’indagine elementi sconcertanti»

Sfruttamento. Nell'azienda che ha stampato Harry Potter 11 arresti con accuse pesanti

«Mi domando che razza di paese sia quello in cui ci si lamenta della disoccupazione ma si rifiuta il lavoro. Su 25 posti aperti ne ho coperti solo 4 in tre mesi. Qualche ragazzotto che dà la disponibilità c’è ma poco dopo rinunciano per via dei turni che reputano troppo pesanti». Così, nell’aprile del 2018 si lamentava in un’intervista l’amministratore unico di Grafica Veneta, Fabio Franceschini. Una personalità di spicco nell’editoria nazionale, tenuto conto che l’azienda di Trebaseleghe (Padova) pubblica best seller come la saga di Harry Potter e la biografia di Barack Obama.

Già grande amico del governatore del Veneto Giancarlo Galan, prima della sua rovinosa caduta, Franceschini si era lasciato convincere a candidarsi al parlamento nel 2018 nel collegio di Vicenza con i colori di Forza Italia ricavandone però la classica trombatura per l’inaspettato balzo in avanti della Lega. Parole, queste del patron di Grafica Veneta sulla poca voglia di lavorare dei giovani, che assumono tutto un altro sapore dopo l’inchiesta dei carabinieri di Padova sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri in forza alla sua azienda che hanno portato all’arresto di 11 persone accusate, tra le altre cose, di rapina, estorsione e sequestro di persona.

Nove degli arrestati sono di origine pakistana. Secondo gli inquirenti, facevano parte di una organizzazione specializzata nello sfruttare i connazionali, obbligandoli a vivere e a lavorare in condizioni inumane negli stabilimenti della Grafica e utilizzando metodi violenti come pestaggi, minacce alle famiglie e sequestri. L’inchiesta infatti è cominciata dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano legato, picchiato e abbandonato ai bordi di una statale di Piove di Sacco (Padova). Gli ultimi due arrestati sono però due pezzi grossi di Grafica Veneta: Giorgio Bertan, amministratore delegato, e Giampaolo Pinton, direttore dell’area tecnica dell’azienda. Il patron, che non risulta indagato, ha comunque espresso parole di fiducia nei confronti dei suoi stretti collaboratori finiti in manette sottolineando «la piena stima e il completo supporto».

Diverso il parere degli inquirenti secondo i quali i due erano perfettamente a conoscenza dei metodi usati dall’organizzazione pakistana. Mentre la magistratura prosegue le indagini, emergono particolari raccapriccianti sulle condizioni di lavoro ai quali sono sottoposti i lavoratori, tutti assunti con contratti capestro interinali, costretti a turni di 12 ore, senza ferie e tutele, e obbligati per di più a versare parte dello stipendio all’organizzazione per pagarsi l’affitto in stanze dormitori fatiscenti riempite con una ventina di persone. Non sono mancate le reazioni sul piano politico e sindacale.

Cristina Guarda, consigliere regionale di Europa Verde, ha sottolineato in un comunicato la vicinanza dell’azienda con il presidente veneto Luca Zaia. In più occasioni infatti, il Governatore leghista ha espresso ammirazione e pubblicamente lodato la Grafica per aver fornito 2 milioni di mascherine ai tempi della prima ondata pandemica. «Vista oggi, quella di Grafica Veneta sembra solo una azione di ethics washing. Chiediamo alla Regione di valutare tutti gli strumenti idonei a tutela della propria immagine e della qualità del lavoro in Veneto. Anche per valutare se ci sono altri casi come questi nel nostro territorio».

Per la Cgil regionale, il caso di Grafica Veneta dimostra una volta ancora come il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni sia un sistema malato. Premesso che spetta alla magistratura fare luce sull’intera vicenda, Christian Ferrari, segretario generale della Cgil del Veneto, ha commentato: «Quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù. Lavoratori privati non solo dei diritti più elementari ma addirittura della loro libertà. Noi abbiamo molte volte denunciato che il fenomeno del caporalato è presente nella nostra regione nell’agricoltura, nell’edilizia e nella logistica. Ma sapere che nemmeno una azienda che è considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti. E deve far agire le istituzioni».


‘Fie a Manetta’, le barcaiole veneziane contro il machismo lagunare

Andare in barca nella città lagunare significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non solo, la pandemia ha dimostrato che in certi casi si tratta di sopravvivenza. Eppure da sempre il mondo delle barche è stato riservato ai soli uomini; una tradizione riservata che viene tramandata da padre a figlio. Fino a qualche mese fa, quando un collettivo di circa cinquanta donne l’ha messa in discussione.

“Fia”, a Venezia, significa ragazza. Un termine dialettale, un po’ sbarazzino e un po’ confidenziale, con cui rivolgersi alle giovani e alle giovanissime. La “manetta” in questione è quella del timone del fuoribordo. Tenerlo “a manetta” vuol dire procedere alla velocità massima del motore. Una traduzione di “Fie a Manetta” potrebbe quindi essere “ragazze a tutto gas”. E, siccome stiamo parlando di laguna, la prima immagine che ci viene in mente è quella di una “fia” che, con i capelli al vento e la mano sinistra sul timone, plana sulle onde a tutta birra, mentre la prua del suo barchino si impenna orgogliosa. Esattamente l’immagine che le ragazze in questione hanno scelto per il loro logo. L’associazione, nata con lo scopo di insegnare alle ragazze di Venezia e delle isole ad andare in barca, è nata in pieno lockdown.

“Una delle conseguenze delle pandemia – racconta Marta Canino, istruttrice e fondatrice delle Fie – è stata quella di far riscoprire alla gente l’importanza di possedere e di saper usare la barca a motore. E questo è stato evidente sopratutto per le donne che dovevano andare a fare la spesa o portare i figli in spiaggia. Con i trasporti pubblici tagliati o affollati oltre il consentito, molte donne rimanevano per ore negli imbarcaderi col carrello della spesa o col passeggino del bambino ad attendere un battello che le prendesse a bordo. E così hanno cominciato ad adoperare la barca del marito o del proprio compagno, all’inizio per necessità ma poi anche per divertimento, scoprendo quanto è divertente andarsene a manetta per i canali”.

Le prime a prendere in mano il timone sono state le ragazze della Giudecca, l’isola divisa dalla città dall’omonimo canale. Quello famoso per l’indecente passaggio – che oramai si spera sia storia passata! – delle Grandi Navi. Un tratto di mare altamente trafficato da croceristi, mezzi pubblici, pescatori, trasporti e quant’altro. Avventurarcisi con un minuscolo barchino per la traversata non è semplice per nessuno. “Durante la pandemia il canale era deserto e molte donne della Giudecca hanno trovato il coraggio per traghettarlo ed andare a fare la spesa nei più forniti supermercati di Venezia”, continua Marta. “Oggi le cose sono tornate, quasi, alla normalità ma le donne oramai hanno scoperto quanto è bello, e utile, andare in barca autonomamente, senza bisogno di un uomo che le accompagni”.

Motori e machismo

In laguna, il mondo della barca a motore – intendendo con questo termine sia le imbarcazioni tradizionali in legno col fuoribordo, i barchini o gli open col timone a volante – è sempre stato un universo riservato agli uomini. Il barchino col 40 cavalli (se sono di più ci vuole la patente nautica) è un po’ l’equivalente del motorino per i ragazzi di terraferma. Lo si chiede ai genitori non appena si hanno compiuti i canonici sedici anni, lo si usa per farsi belli con le ragazze, per scorrazzare con gli amici e anche per farci le classiche idiozie giovanili, tipo le impennate (a Venezia l’equivalente dell’impennata è lo slalom tra le bricole, ed ogni estate qualcuno ci rimette la pelle). Una ragazza da sola in barca col motore lanciato “a manetta”, sino a qualche anno fa, sarebbe stata indicata a dito e fatta oggetto dei più beceri commenti maschilisti sul livello culturale di “donna al volante, pericolo costante”. Andare in barca, per una donna, significa solo praticare la voga veneta, per le più sportive, o la vela, per le più aristocratiche.

“Se un trasportatore incrocia in un canale una barca con un uomo al timone, si mettono d’accordo sulla precedenza”, spiega Marta. “Se incrocia una donna, la guarda come una che sta a perdere tempo e lo fa perdere pure a lui, che sta ‘seriamente’ lavorando. Taxisti e gondolieri, poi, ti scrutano come per scoprire che disastro stai per combinare. E non parliamo dei consigli non richiesti che ti arrivano sempre anche da chi passa per la fondamenta! La prima cosa che insegno alle ragazze che si iscrivono all’associazione è di non cag*rli neppure di striscio! E scusa il francesismo!”

Marta è una veneziana doc, nata nel quartiere popolare di Santa Marta. È tra quelle calli che deve aver imparato il “francese”. Ha preso in mano il suo primo timone a 7 anni. “Guarda dritta davanti a te la linea della prua e mantieniti sempre alla stessa distanza dalle bricole” le diceva lo zio Veniero quando andavano a fare picnic all’isola di Poveglia. Il timone, Marta non lo ha più lasciato e, quando si è trasferita col suo compagno alla Giudecca, ne ha compreso ancora di più l’importanza.

Dalla Giudecca con furore

L’associazione delle “Fie a Manetta” è nata ufficialmente il 26 febbraio scorso. Conta una cinquantina di socie, è affiliata alla Uisp e riconosciuta dal Coni. Ha sede a Sacca Fisola, l’isola legata alla Giudecca da un lungo ponte, e grazie agli amici della Rebiennale – un’associazione che ricicla le installazioni della Biennale per farne arredamenti – si sta per dotare di un vicino approdo sul canale con tutti i comfort.

“Vengono da noi donne di tutte le età, dai sedici ai sessant’anni. So che ti stupirai, ma la maggioranza non sono ragazzine ma signore che hanno passato la quarantina”, mi racconta Alessandra De Marchi, che gestisce il club con Marta. Mi fa accomodare nella sede dell’associazione che tra poco si doterà anche di una biblioteca nautica. “All’inizio erano solo giudecchine o di Fusina ma poi si sono fatte avanti anche veneziane e ultimamente anche una donna di Murano”. Il che, tenendo presente la cagnesca rivalità tra le due isole poste a nord e a sud di Venezia, è un autentico miracolo! “Ci sono ragazze che sanno già andare in barca e che mi portano la loro mamma perché la istruiamo. E poi signore in pensione che vogliono usare la barca di famiglia per andare a fare la spesa o per godersi una giornata in spiaggia senza bisogno di aspettare i comodi del marito. O semplicemente giovani e meno giovani che hanno scoperto la bellezza della laguna e se la vogliono godere in pace”.

Una scuola, questa che hanno messo in piedi le “Fie a Manetta” che non ha equivalenti in Italia. Anzi, diciamo pure nel mondo. Esistono corsi per il conseguimento della patente nautica di vela o di motore, entro od oltre le 12 miglia, ma questi corsi non ti insegnano ad andare in barchino per la laguna con un fuoribordo per l’uso del quale non servono licenze. L’addestramento all’andar per canali, a Venezia, è una tradizione che i padri impartiscono ai figli. Figli, ovviamente, maschi. Le ragazze in barca si limitano a stendersi a prua con la madre e le zie.

“La pandemia quantomeno ha avuto il merito di rendere protagonista il femminile in molte cose come, nel nostro caso, l’utilizzo della barche a motore – spiega Marta – se non altro per andare a far spese, portare i bambini a scuola o in spiaggia. Noi abbiamo cercato di favorire questo salto in avanti. Difficoltà? Tante. Anche perché non ci sono scuole o corsi di questo genere in Italia. Abbiamo dovuto inventarci gli esercizi e tutto l’insegnamento. Io, per fortuna, ho avuto sin da piccola un maestro d’eccezione come mio zio Veniero e l’ho preso da esempio!”

Chi dice donna dice… ambiente

“Fie a Manetta” non è comunque un club esclusivamente femminile. C’è anche una mezza dozzina di uomini che va a lezione da loro. “Noi non escludiamo nessuna e nessuno”, spiega Marta. “L’associazione ha un consiglio direttivo formato da cinque donne, le istruttrici sono donne e ci chiamiamo “Fie a Manetta”, ma se qualche ragazzo vuole imparare ad andare in  barca, perché dovremmo dirgli di no? Col femminismo io ho fatto pace un bel po’ di anni fa”.

A Venezia, Marta è conosciuta anche per le battaglie ambientali fatte come attivista No Grandi Navi. Le chiedo se approfitta delle lezioni per stimolare la consapevolezza delle sue allieve sui problemi di Venezia. “Non ce n’è affatto bisogno!”, incalza lei. “Sono loro stesse a raccontarmi le difficoltà che, in quanto residenti, sono costrette ad affrontare ogni giorno. Andare in barca infatti significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non ho bisogno di stimolarle perché mi raccontino i disastri provocati da un turismo selvaggio che trasforma le case in hotel o in B&B e che mercifica l’intera città riducendola ad uno sportello di bancomat. Io mi limito a fare da ascoltatrice. Le cose vengono fuori da sole. Una mia allieva un giorno mi ha spiegato che, andando in barca, ha capito che non solo non conosceva affatto la laguna, ma neppure aveva compreso la città in cui era nata. Aveva sempre vissuto sull’acqua senza sapere che viveva sull’acqua”.

La marea ambientalista contro il G20 di Venezia

Dentro l'Arsenale i ministri delle Finanze dei 20 Paesi più ricchi al mondo, fuori il mondo ambientalista (e non solo). Sul tavolo la tassa sulle multinazionali, la pandemia e il cambiamento climatico

C’è l’Arsenale. E dentro l’Arsenale, i rappresentanti dei 20 Governi più ricchi (e potenti) del mondoche discutono di finanza e del futuro dell’umanità con manager di banche, delegati di multinazionali, padroni di imprese fossili e amministratori di gruppi industriali. Fuori dell’Arsenale, c’è il mondo: Fridays for future, Extinction rebellion, sindacati di base, Non una di meno, gruppi antispecisti, No tav, Stop biocidio, No grandi navi. Attorno all’Arsenale, uno sbarramento di millecinquecento poliziotti asserragliati dentro calli chiuse per l’occasione con cancellate d’acciaio, cecchini sui tetti coi fucili sempre puntati, battaglioni di soldati in assetto di guerra, mezzi anfibi che corrono sparati sui canali ed elicotteri che rombano in cielo in stato di massima allerta. Eccola qua, la Venezia del G20. Fatte le dovute proporzioni, non è cambiato molto da quella Genova di, giusto giusto, vent’anni fa.

Sul tavolo del meeting dei 20 ministri delle Finanze (che assieme rappresentano più dell’80 per cento del Pil mondiale) ci sono tre questioni principali: una tassazione minima del 15 per cento per le multinazionali; una task force sui vaccini anti-covid per i Paesi in via di sviluppo e per rafforzare la risposta alle future pandemie; il monitoraggio dei rischi globali legati al cambiamento climatico. Se da un lato per il Commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni l'accordo per una riforma della tassazione globale rappresenta "una giornata storica", i manifestanti tagliano corto: “Ti pare un successo che una multinazionale paghi il 15 per cento di tasse mentre un'impresa artigianale paga il 39? Dovrebbe essere il contrario, semmai. Semplicemente ridicolo", è il commento di Tommaso Cacciari, uno dei portavoce delle rete anti G20.

La rete "We are the tide, you are only G20" ("noi siamo la marea, voi solo il G20") – nata un mese fa e decisa a proseguire in vista della Cop26 di Glasgow – ha presidiato Venezia durante tutti i giorni del summit. Dopo svariate dimostrazioni pacifiche e colorate, alla fine gli scontri.

Venezia "blindata"?

Qui in laguna non ci sono galli che ti danno la sveglia, ma durante i quattro giorni del summit non c’è pericolo di svegliarsi tardi. Ci pensa il rombo degli elicotteri che volano sfiorando i tetti delle case per meglio sorvegliare calli e campielli, a tirarti giù dal letto. Cominciano all’alba e vanno avanti e indietro senza concedere tregua sino al tramonto. Sono gli Aw139 Leonardo. Velivoli dalle altissime prestazioni e che in un’ora di volo bruciano 600 litri di carburante.

Tutti i giornali, senza distinzione, sono concordi nel descrivere una Venezia “blindata”. In realtà, ad essere blindate sono le delegazioni delle venti grandi potenze venute qui a discutere sui destini del mondo. Dal punto di vista dei (sempre meno) residenti della città lagunare, sembra di vivere nei giorni dell’acqua alta. Interi quartieri impossibili da raggiungere senza un pass speciale, tornelli nelle calli, canali chiusi al traffico, musei sbarrati, attività commerciali e turistiche sospese. “Non  bastava la pandemia, adesso ci è capitato anche il G20”, è il ritornello preferito di negozianti e alberghieri che vivono la “blindatura” come un prosieguo di zona rossa. E ancora: corse di battelli e vaporetti sospese o costrette a deviazioni che, più che facilitarti lo spostamento, ti complicano la vita. Un esempio è l’ospedale Civile che per sua sfortuna si trova nei pressi dell’Arsenale dove si svolge il vertice. Il battello non si ferma più all’imbarcadero vicino. E neppure a quello dopo. Chi deve andarci a lavorare, a visitare un parente ricoverato o per seguire una terapia, deve sfangarsela a piedi lungo tutta la fondamenta, e sotto un solleone africano che è la miglior testimonianza del climate change.

Ancora una volta, Venezia è stata usata come un palcoscenico a dispetto di chi, ostinatamente, continua a viverci.


"We are the tide, you are only G20"

A portare un po’ di colore in questo grigioverde militare che ha occupato calli e campielli ci ha pensato We are the tide, you are only G20: "noi siamo la marea, voi solo il G20". La rete si è proposta di ricordare ai “grandi delle Terra” che un altro mondo, libero dai condizionamenti della finanza, non solo è possibile o auspicabile, ma è necessario per la sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta. La rete We are tide è nata un mese fa, in una chiesa di periferia di un quartiere di periferia di una già di per sé periferica Marghera (il quartiere di Venezia sulla terraferma, ndr). È stato un prete di frontiera a tenerla a battesimo ospitando nei locali del suo patronato i rappresentanti di tante associazioni e movimenti: don Nandino Capovilla della parrocchia della Resurrezione. Personaggio noto in città per le tantissime attività a favore del popolo palestinese.

We are tide ha unito sotto l’ombrellone dalla giustizia climatica praticamente l’intero arcipelago ambientalista e di movimento del nostro Paese. Tantissime le realtà che vi fanno parte: dai Fridays for future a Extinction rebellion, da sindacati di base come Cobas e Adl, a Non una di meno e gruppi antispecisti, sino agli storici No tav, Stop biocidio e No grandi navi. Questi ultimi a far gli onori di casa assieme alla foresta di Sherwood dei centri sociali del nord est. Due i partiti politici che hanno ufficialmente aderito: Rifondazione comunista ed Europa Verde.

L'iniziativa di Xr sul ponte di Calatrava sotto lo striscione "I loro soldi, il nostro sangue"
L'iniziativa di Xr sul ponte di Calatrava sotto lo striscione "I loro soldi, il nostro sangue"

Dal sit in davanti alle sedi di Banca Intesa San Paolo, “scelta per i suoi continui investimenti nell'ambito del carbon fossile e perché rappresentativo del mondo della finanza”, sino all’immancabile striscione appeso al ponte di Rialto, le ragazze e i ragazzi di Extinction rebellion si sono resi protagonisti di alcuni vivaci iniziative come quella che ha colorato di rosso il ponte di Calatrava sotto lo striscione “I loro soldi, il nostro sangue”. Oppure la rappresentazione di sirene morte e spiaggiate su una fondamenta a simboleggiare la devastazione dell’ambiente marino. Sul ponte dell’Arsenale, le attiviste di Extinction si sono simbolicamente incollate per terra, costringendo i passanti, per lo più giornalisti e funzionari direi al vertice, a scavalcare i loro corpi.

La protesta di Xr al G20 di Genova. Credits: Extinction rebellion
La protesta di Xr al G20 di Genova. Credits: Extinction rebellion

“Vent’anni fa la contrapposizione era tra capitale e lavoro, oggi è tra capitale e vita – ha spiegato Anna Clara Basilicò, portavoce di We are the tide –. Ai potenti chiediamo di ascoltarci e di uscire dalla loro bolla per il bene di tutta l’umanità”. Ecco perché la rete nata per il G20 di Venezia non ha intenzione di fermarsi qui: il percorso che è stato aperto porterà la voce dei movimenti ambientalisti italiani a Glasgow, dove a novembre è prevista la Cop26 sul clima, rimandata di un anno causa covid.

Alla fine, gli scontri

La situazione è degenerata verso le 16.30 quando i manifestanti hanno deciso di violare la zona rossa per avvicinarsi all’Arsenale e far sentire ai potenti la voce di chi chiede “giustizia sociale, giustizia climatica, reddito e welfare per tutti”. L'appuntamento era alle 14.30 alla fondamenta delle Zattere che dà sul canale della Giudecca, teatro delle storiche battaglie contro le Grandi navi. Nonostante la colonnina del termometro segnasse ben oltre i 30 gradi – a ricordare ai presenti che questa è l’estate più calda degli ultimi anni ma anche la più fresca degli anni a venire – almeno millecinquecento persone hanno accolto l’appello di scendere in campo per ricordare ai 20 che il mondo non può essere governato dalle logiche di una finanza predatoria. La pandemia e lo spezzettamento del summit in tanti vertici hanno impedito la partecipazione di rappresentanze internazionali, ma sono comunque arrivate attiviste ed attivisti da tante regioni italiane, dalla Val Susa alla Campania.

Il corteo si è mosso con determinazione verso lo sbarramento di poliziotti in assetto antisommossache lo attendeva nella calle larga di Sant’Agnese. A tenere la testa del corteo erano soprattutto ragazze. Le donne, per lo più giovani o giovanissime – e questo è senza dubbio una novità – sono state le vere protagoniste di questi giorni, sia nell’organizzazione delle iniziative sia negli interventi al microfono e nella gestione della piazza. Nei municipi zapatisti dello Stato messicano del Chiapas, si dice che “quando le donne avanzano, nessuno resta indietro”. Così è stato anche sabato a Venezia.

Una ragazzina che si teneva un fazzoletto in testa per fermare il sangue mi ha detto: “Ci hanno voluto mostrare il vero volto del capitalismo barricato dentro l’Arsenale”

La carica violenta della polizia non è riuscita a disperdere il corteo che ha tenuto il campo, indietreggiando solo sotto i colpi dei manganelli. Ci sono stati tra i manifestanti diversi feriti e contusi. Un giovane è stato fermato e oggi sarà processato per direttissima. Una ragazzina che si teneva un fazzoletto in testa per cercare di fermare il sangue mi ha detto: “Ci hanno voluto mostrare il vero volto del capitalismo barricato dentro l’Arsenale”.

"Questo summit non può offrire una soluzione perché è parte integrante del problema – afferma Cacciari –. Noi questo lo avevamo capito anche vent’anni fa ma i potenti che si sono asserragliati dentro l’Arsenale, ancora no. Continuano a proporre le stesse fallimentari ricette liberistiche ancora legate alle energie fossili”. “È una precisa strategia delle politiche dominanti quella di evocare nei loro proclami temi cari ai movimenti ambientalisti per aggiudicarsi consensi e fare poi esattamente l’opposto – spiega Gianfranco Bettin, storico ambientalista veneziano e portavoce dei Verdi –. In realtà, come abbiamo visto anche oggi (sabato, il giorno della manifestazione, ndr) la distanza tra chi esercita il potere e il mondo reale è sempre più incolmabile”.




La marea in protesta: sfida a caldo e cariche della polizia

Le mobilitazioni contro il G20. In piazza con le parole d’ordine: Giustizia sociale, giustizia climatica, reddito e welfare per tutti

Cariche, manganelli e lanci di fumogeni. Vent’anni dopo Genova, la risposta dei potenti della terra a chi prova a ricordare loro che una altro mondo è possibile, non è cambiata di una virgola.

«CI HANNO VOLUTO MOSTRARE il vero volto del capitalismo barricato dentro l’Arsenale, al di là di tutte i proclami ipocriti che fanno su resilienza e conversioni ecologiche» dice una ragazza che si teneva la testa sanguinante per una manganellata. Eppure, la manifestazione era cominciata in maniera pacifica. Almeno 1.200 persone hanno accolto l’appello della rete We Are Tide You Are Only G20 e hanno raggiunto la fondamenta delle Zattere per protestare contro il summit della finanza al grido di «Giustizia sociale, giustizia climatica, reddito e welfare per tutti».

Appuntamento alle 14,30 sotto un solleone da climate change col termometro che passava i 30 gradi. Ad offrire un po’ di fresco solo l’ombra dei gazebo delle varie associazioni che hanno costituito la rete contro il G20, con quello dei No Grandi Navi a far gli onori di casa.

Tanti gli interventi che si sono succeduti al microfono per ricordare che il clima non fa sconti a nessuno e che se vent’anni fa il conflitto era tra capitale e lavoro, oggi è tra capitale e vita. «Noi questo lo abbiamo capito spiega Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della rete i potenti che si sono asserragliati dentro l’Arsenale, no. Non possiamo accettare che le loro scelte condizionino il futuro di tutta l’umanità. Oggi, a differenza di vent’anni fa, la giustizia climatica è al centro delle rivendicazioni di tutti i movimenti e ci aiuta a superare le differenze. Ma per i ministri che sono barricato dentro l’Arsenale non è cambiato nulla». La rete We Are Tide You Are Only G20, noi siamo la marea voi siete solo il G20, nasce a Venezia contro il summit della finanza ma non finirà a Venezia, perché tornerà in piazza in tutte le altre città italiane in cui si svolgeranno i G20 ed è solo il primo passo di un percorso che si concluderà a Glasgow, in occasione della prossima Cop sul clima.

LA PANDEMIA e, soprattutto, la suddivisione del summit in tanti vertici da svolgersi in altrettante città, hanno impedito una partecipazione internazionale alla manifestazione delle Zattere, ma sono comunque intervenute le principali realtà ambientaliste del Paese, da Stop Biocidio Campania ai No Tav della Valsusa, sino ai Fridays For Future e a Extinction Rebellion. Dentro la rete We Are Tide ci sono anche sindacati di base come i Cobas e l’Adl, associazioni transfemministe come Non Una di Meno e anche due partiti politici come Rifondazione e i Verdi, entrambi presenti all’iniziativa di ieri con i loro attivisti.

Una manifestazione pacifica fino a quando è partito il corteo con l’obiettivo di violare la zona rossa e raggiungere l’Arsenale. In calle Sant’Agnese, ai piedi del ponte dell’Accademia, gli attivisti si sono trovati di fronte uno sbarramento di polizia in assetto antisommossa che ha caricato la testa del corteo che è riuscito a resistere al primo impatto ma ha dovuto ritirarsi sotto i manganelli. Una decina di persone ha riportato contusioni e un attivista è stato fermato dalla polizia. I manifestanti hanno quindi fatto ritorno alle Zattere ed hanno continuato a presidiare la fondamenta chiedendo la liberazione dell’attivista. Dall’altra parte della città intanto, Un gruppo di ragazze e di ragazzi di Extinction Rebellion si è recato sul ponte di Calatrava e ha messo in atto una colorita performance, colorando di rosso i gradini e stendendosi per terra.

Su un grande striscione appeso sopra il ponte sul Canal Grande si leggeva: «I loro soldi, il nostro sangue». «La rete We Are Tide è tutto questo spiega Anna Clara Basilicò -. C’è chi tenta di violare la zona rossa, chi organizza performance, chi sceglie di partecipare con altri mezzi. C’è rispetto delle diverse sensibilità senza che una creda di doversi imporre sull’altra. La battaglia per la giustizia climatica riguarda tutte e tutti perché è una battaglia per il futuro di tutte e tutti».

«Noi siamo la marea, voi solo G20»: oggi scende in piazza la rete «We Are Tide»

Ci si sveglia al rombo degli elicotteri, qui in laguna. Volano bassi per meglio sorvegliare calli e campielli. Cominciano all’alba e vanno avanti e indietro senza concedere tregua sino al tramonto. Si tratta per di più degli Aw139 Leonardo. Velivoli dalle altissime prestazioni ma che in un’ora di volo bruciano 600 litri di carburante. I giornali parlano tutti di una Venezia «blindata» nei giorni di questo G20 della finanza cominciato giovedì e che si concluderà domani. Volano sopra una città militarizzata. Una città «blindata» come ripetono pedissequamente tutti i media.

A portare un po’ di colore in questo grigioverde militare che ha invaso calli e campielli, ci hanno pensato le ragazze ed i ragazzi di Extinction Rebellion, una cinquantina circa, che ieri si sono incollati col sedere per terra sui masegni delle calli che portano all’entrata principale dell’Arsenale, costringendo giornalisti e politici diretti al vertice a scavalcarli. «Così magari si accorgono che ci siamo anche noi» mi ha spiegato un giovanotto con un cartello appeso al collo con la scritta «I loro soldi saranno la nostra estinzione».

Lunedì 5 luglio era stata la volta degli attivisti di We Are Tide You Are Only G20 (Noi siamo la marea voi siete solo G20). La rete nazionale contro il summit cui hanno aderito associazioni ambientaliste, sindacati di base, movimenti sociali, studenteschi e di lotta ai cambiamenti climatici come i Fridays For Future.

Gli attivisti hanno organizzato in una dozzina di città italiane, dei sit in davanti alle filiali di Banca Intesa San Paolo. Banca, hanno scritto «scelta per i suoi continui investimenti nellambito del carbon fossile e perché rappresentativo del mondo della finanza».

La rete si è costituita nel un patronato di una chiesa periferica di Marghera, dove il parroco don Nandino Capovilla ha dato spazio a tutti coloro che, come lui, sognano una economia diversa.

Mercoledì, è stato il momento dell’oramai tradizionale striscione sul Canal Grande. Un centinaio di attiviste e attivisti di We Are Tide, dopo aver tenuto una improvvisata conferenza stampa nel vicino campo di San Bortolomio, è salita sul ponte di Rialto per appendere un lungo lenzuolo in cui si annunciava la manifestazione di oggi.

Ed è proprio questo pomeriggio che è attesa la principale manifestazione contro il summit. Appuntamento alle 14,30 alle fondamenta delle Zattere, storico teatro di tante iniziative contro le grandi navi. Ma non sarà solo una manifestazione “contro”, questa organizzata da We Are Tide.

«Vogliamo interfacciarci con questo G20 che parlerà di finanza per chiedere che la discussione sul futuro dell’economia venga affrontata seriamente e in maniera propositiva. Le alternative ci sono spiega Anna Clara Basilicò, portavoce della rete -: un reddito universale accessibile a tutte e tutti, un sistema monetario controllato dagli Stati e non dalle banche. Questi sono i veri nodi da affrontare. La finanza oggi altro non è che una logica speculativa che metta a valore la vita stessa e non più soltanto le ore di lavoro o il prodotto. E’ una messa a profitto globale del vivente che regala grandi ricchezze a pochi escludendo i corpi che la producono. Questa economia malata che depreda ed impoverisce la terra portando miseria a interi popoli, e si nutre di crisi: sia quelle sociali che causano

le migrazioni, che di quella climatica ed anche di quella pandemica, considerando che il Covid è nato probabilmente da uno spillover imputabile ai cambiamenti del clima. Ciò che sarà discusso nel summit invece, è la solita ricetta liberista che è la causa e non la soluzione del problema».

E così, vent’anni dopo Genova, oggi tocca a Venezia mobilitarsi contro il summit dei Grandi, per spiegare a 20 potenti che finanza e vita non vanno d’accordo tra di loro, e che il futuro del pianeta appartiene a tutti. Sono attese delegazioni e attivisti da tutte le città italiane. La polizia ha già lanciato l’allarme per «possibili infiltrazioni di Black Bloc». Ed anche questo ci ricorda tanto Genova.

Clima, sanità e diseguaglianze, al G20 di Venezia è prevista «l’alta marea»

G208-11 luglio, rete di movimenti prepara la protesta

«Chi rotolerà via la pietra del sepolcro?» E’ la domanda che campeggia sopra il portone della chiesa della Resurrezione. Una chiesa di frontiera in una quartiere di frontiera, quello della Cita, che sorge nella periferia di Marghera che a sua volta è la periferia di Venezia. Alti palazzi condominiali con le finestre che da un lato si affacciano sopra la stazione di Mestre e dall’altro spaziano sino a quel che rimane di quella laguna che era dei dogi.

Ed è proprio dal sagrato di questa chiesa di frontiera che salirà la marea delle mobilitazioni contro il G20, che si svolgerà nel capoluogo veneto da giovedì 8 a domenica 11 luglio. La marea, lo sa bene chi è nato in laguna, fa tanti danni e non si ferma davanti a niente. Mose compreso. Per questo, le attiviste e gli attivisti che stanno preparando le mobilitazioni hanno scelto come nome della loro piattaforma: «We are tide. You are only (G)20». «Noi siamo la marea, voi siete solo (G)20».

La pietra sepolcrale che la marea si augura di rotolare via, è quella ben nota dei 2 miliardi di persone al mondo che non hanno assistenza sanitaria e neppure accesso all’acqua potabile e non avranno voce in questo summit. Oppure dell’1% più ricco della popolazione che possiede metà della ricchezza globale. O, se preferite una chiave ambientalista, del 10% del mondo che è responsabile di oltre metà delle emissioni climalteranti. Tutte pietre per le quali il G20 proporrà ricette che, spiega We Are Tide, non sono soluzioni ma parte integrante del problema. Esattamente come il Mose. E come la marea, la mobilitazione parte da lontano ed investe tutto ciò che è movimento. Domenica pomeriggio, grazie all’ospitalità di don Nandino Capovilla, personaggio bene noto nel veneziano per le sue battaglie a favore del popolo palestinese, sul sagrato della chiesa della Resurrezione, si sono dati appuntamento Fridays For Future, No Grandi Navi, centri sociali, rappresentanti di associazioni ambientaliste e anche di formazioni politiche come i Verdi.

Una assemblea di avvicinamento al G20 che ha l’obiettivo di far partire quella marea che non si fermerà a Venezia ma investirà le piazze di tutte le altre città che ospiteranno gli incontri del G20, a partire da Napoli e sino al summit vero e proprio, che si svolgerà a Roma questo autunno. E avanti ancora, sino alla Pre Cop sul clima di Milano di fine ottobre. Perché è proprio quella per il clima la battaglia da combattere. Le numerose crisi sistemiche che si sommano, ultima quella della pandemia, sono solo un sintomo della più vasta crisi climatica ha spiegato Anna Clara Basilicò, di We Are Tide Il G20 rappresenta gli Stati con le economie più ricche a livello planetario e pretende di ricondurre il mondo a quel sistema neoliberista che ha eliminato i diritti dal suo vocabolario, costruendo un divario sempre maggiore tra ricchi e poveri, svilendo ogni processo democratico.

Lo strumento che il G20 propone è quello della finanza che ha garantito solo profitti per pochi a scapito dei diritti di molti. Dietro a formule come ‘transizione ecologica’, si nasconde un tentativo di rilanciare l’economia fossile, investendo ancora più miliardi in grandi opere inutili e dannose. Ma questa non è la soluzione. E’ il problema”.

Un processo che va a pari passo con la militarizzazione sempre più massiccia cui assistiamo nelle nostre strade. Durante il G20, non sarà militarizzata solo l’area dell’Arsenale, dove si svolgerà il summit, ma l’intera città che sarà dichiarata Zona Rossa. Nelle calli saranno sistemati tornelli identificativi, nei campi, posto di blocco militari. I canali saranno presidiati da moto d’acqua.

Ogni manifestazione vietata per ragioni di sicurezza. «Proprio per questo la nostra risposta dovrà essere forte conclude Sebastiano, giovane attivista di We Ara Tide -. Sabato 10 saremo tutti alla Zattere, che sono state il teatro di tanti manifestazioni contro le Grandi Navi. E da qui partirà un corteo con l’obiettivo dichiarato di violare la zona rossa». La pietra da far rotolare è davvero pesante.

Riecco le Grandi Navi a Venezia, e la protesta: «Il decreto del governo è una fake news»

In laguna. Con la mastodontica Msc orchestra, un gigante da 90 mila tonnellate, si riapre la stagione crocieristica. «Il decreto - dice Andreina Zitelli del comitato No Navi - permette infatti di transitare sino a che non verrà approntata una soluzione alternativa. Soluzione che già ci sarebbe»

Ha cercato di giocare in anticipo, l’Msc Orchestra. La mastodontica nave da 90 mila tonnellate, la prima a tornare in laguna dopo lo stop forzato causato dalla pandemia, è salpata dalla Marittima con un’ora e mezza d’anticipo per evitare di incocciare nella protesta per terra e per mare che i Comitato No Navi aveva organizzato. Non ce l’ha fatta. Sin dal primo pomeriggio, il canale della Giudecca era già presidiato da decine di imbarcazioni, per lo più tradizionali, con bandiere e striscioni a difesa della laguna. Lungo la fondamenta delle Zattere, centinaia di manifestanti erano già radunati per preparare le “tavolate” con le quali avevano progettato di aspettare il passaggio della nave, recuperando una antica tradizione veneziana di cenare tutti insieme nei campi e nei campielli nella tiepide serate estive.

Il passaggio anticipato non ha impedito agli ambientalisti presenti di accogliere con fischi, trombe, lacrimogeni e qualche dito medio alzato la lussuosa nave da crociera. In acqua, si è scatenata l’oramai tradizionale battaglia navale tra attivisti a remi o a vela e le lance con supporto di moto d’acqua della polizia. In più, c’è stato la provocazione di una mezza dozzina di grosse barche a motore da carico, noleggiate da alcuni lavoratori portuali pro grandi navi, che si sono lanciate contro le barche degli attivisti senza che la polizia facesse nulla per contrastarli. Solo per buona sorte non si sono registrati incidenti gravi.

Col passaggio dell’Msc Orchestra, alta tre metri in più del campanile di San Marco, si riapre la stagione crocieristica e le Grandi Navi tornano a riprendersi la laguna, incuranti dell’inquinamento che esce dai loro camini. Quel fumo tossico che continuano a emettere anche quando la nave è attraccata e che rende Venezia una delle città con i più alti livelli di Pm10 d’Europa. Tornano a devastare i fondali dei canali muovendo una massa d’acqua insostenibile per una laguna dal precario equilibrio idrogeologico come quella di Venezia. Tornano a far passerella davanti a San Marco anche se il Governo ha ammesso che questi grattacieli galleggianti sono incompatibili con Venezia e ha varato un decreto per estrometterli definitivamente dalla laguna.

«Una fake new istituzionale ha commentato Andreina Zitelli del comitato No Navi -. Le grandi navi sono ancora qui a fare il bello e il cattivo tempo. Il Governo ha ammesso una cosa che non poteva

non ammettere: l’incompatibilità dei fondali lagunari con il passaggio delle navi con stazza superiore alle 40 mila tonnellate. Cosa che aveva già sancito il decreto Clini-Passera, nove anni fa. Ma non hanno nessuna intenzione di fermare le crociere. Il decreto permette infatti alle navi di transitare sino a che non verrà approntata una soluzione alternativa. Soluzione che già ci sarebbe ma, proprio per guadagnare tempo, il Governo ha scelto la strada del concorso di idee. Peraltro senza scadenza. Intanto le navi vanno su e giù come prima».

A questo proposito l’associazione Ambiente Venezia ha presentato una formale diffida alle autorità che sovrintendono il traffico navale affinché mettano in pratica i principi di questo decreto che sottolinea la pericolosità del mega traffico navale in laguna sostenendo che, giacché è stata comprovata l’incompatibilità per l’ecosistema, il traffico crocieristico deve essere fermato in attesa della famosa «soluzione alternativa».

In una Venezia che sta lentamente uscendo dalla pandemia solo per accorgersi che nulla è cambiato e che Giunta regionale e Comune ripropongono la stessa formula fatta di speculazioni edilizie, privatizzazione degli spazi comuni e turismo di massa, la manifestazione di ieri pomeriggio ha avuto l’effetto di una sveglia. «Ci accusano di essere contro il lavoro ha spiegato Tommaso Cacciari, portavoce dei No Navi -. Non è vero. Noi siamo e sempre saremo dalla parte del lavoro e del reddito garantito. Sono le Grandi Navi e questa economia fondata sullo sfruttamento dei beni comuni e la turistificazione di massa che portato all’allontanamento dei residenti e alla disoccupazione. Sono loro i nemici del lavoro».

I comitati ambientalisti veneti esultano: «Chi ci ha avvelenato paghi»

Eco-reatiQuindici manager di multinazionali andranno a processo per disastro doloso e inquinamento ambientale


Il rinvio a giudizio dei quindici manager della Miteni, l’azienda vicentina responsabile di aver avvelenato con i Pfas le acque di mezzo Veneto, è stato accolto con grande entusiasmo dalle 226 tra associazioni ambientaliste, comitati cittadini e pubbliche amministrazioni, che si erano costituite parte civile e che, per tutto lo scorso fine settimana hanno assediato il tribunale con un presidio permanente che si è concluso alla lettura della sentenza.
«Stiamo piangendo di gioia – ha commentato Patrizia Zuccato delle Mamme No Pfas – Temevamo che ancora una volta il potere e il denaro mettessero tutto a tacere, ma questa sentenza ci apre una strada. Sappiamo che sarà tutta in salita ma ora è una strada aperta e vi assicuro che la percorreremo sono in fondo». Anche Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, parla di «una prima grande vittoria». «Ci aspettiamo che venga applicato il principio che sta alla base degli ecoreati: chi inquina paga. La difesa delle falde e della salute deve stare al centro del Piano nazionale di ripresa».
La decisione del giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti ha accolto in toto l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri vicentini Barbara De Munari e Hans Roderich Blattner. I quindici manager sono stati rinviati a giudizio con le accuse di disastro doloso, avvelenamento delle acque, inquinamento ambientale ed anche di bancarotta fraudolenta per il fallimento della società Miteni nel 2018. Si tratta di quindici dirigenti d’azienda di rilevanza internazionale che fanno riferimento a importati multinazionali come la Mitsubishi e l’Icig, proprietarie della Miteni negli ultimi decenni in cui l’avvelenamento è stato più pesante per l’utilizzo di Pfas di ultima generazione, come GenX e C6O4.
Dunque, il primo luglio prossimo in Corte d’Assise ci sarà il più grande processo per crimini ambientali mai svoltosi nel Veneto, e probabilmente anche in Italia, sia per la pericolosità dei materiali versati che per l’ampiezza dell’area interessata dall’inquinamento e che investe le provincie di Vicenza, Verona, Padova. Mezzo Veneto, per l’appunto. Senza contare che l’area inquinata si sta tutt’ora espandendo e che la presenza di Pfas è stata rilevata recentemente anche nella laguna veneziana. Solo nei prossimi anni riusciremo a quantificare con precisione l’impatto causato dallo sversamento di queste molecole killer nelle falde acquifere. Gli effetti sulla salute dei cittadini che hanno bevuto l’acqua inquinata o che si sono nutriti di verdure locali è già testimoniato da varie ricerche mediche che hanno riscontrato un forte aumento di patologie come tumori ai reni e ai testicoli, coliti ulcerose sino a ictus, osteoporosi precoce, diabete, Alzheimer. I Pfas colpiscono in particolare i bambini e le donne in stato di gravidanza causando aborti e malformazioni nei feti. Un disastro ambientale e sociale le cui conseguenze le pagheremo anche negli anni a venire, in quanto questi acidi perfluoroacrilici agiscono come una sorta di bomba ad orologeria. Una «pandemia chimica» che si accumula nel metabolismo e i cui effetti possono manifestarsi anche a decenni di distanza.

La soddisfazione per questa primo pronunciamento che riconosce le pesanti responsabilità della Miteni non riuscirà ad allontanare la paura di ammalarsi in un prossimo futuro. Così come non diminuirà i disagi di chi non potrà ancora bere l’acqua del rubinetto, continuerà a guardare con sospetto le verdure in vendita nei mercati ed a rinunciare a coltivare l’orto sotto casa. Allo stesso mmodo, il processo non può rimediare i ritardi di una amministrazione regionale che per tanti anni si è dimostrata sorda alle denunce dei residenti che sin dai primi anni del nuovo secolo chiedevano come mai nei prati di Trissino le margherite nascessero con due corolle o con i petali raggrinziti. Solo nel 2013, l’Arpa ha cominciato a studiare il fenomeno, riscontrando ufficialmente la presenza di Pfas nelle falde. Per il rinvio a giudizio, ci sono voluti altri 8 anni. I tempi della giustizia non sono mai quelli della salute e dell’ambiente. Tanto più che nella maggioranza che guida la Regione, di bonifiche ancora non se ne parla.
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