In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Il caso dell’hotel Monaco. Un motivo di più per chiedere una sanatoria. E subito!

“Ci mancavano solo gli stranieri” titola Libero. E sotto la notizia dei 100 richiedenti asilo dell’hotel Monaco trovati positivi al Covid19, le conclusioni che tira la testata diretta da Vittorio Feltri sono quelle razziste e xenofobe che, senza fatica, ci possiamo immaginare. E noi che abbiamo sottoscritto la campagna “Sanatoria subito!”, saremmo dei “pazzi” solo perché riteniamo che la maniera migliore di fermare il contagio sia quella di evitare i grandi assembramenti, come sono per l’appunto i centri per migranti dopo che i decreti sicurezza hanno spazzato via quello che di buono era stato fatto con l’accoglienza diffusa per affidare tutto il business migratorio alle grandi cooperative. Quelle che ogni tanto si guadagnano le prime pagine dei giornali per essere finite sotto inchiesta per reati di stampo mafioso. Ma anche la mafia per Libero è tutta colpa dei migranti. 

Sotto il titolone, per la cronaca, troviamo un’altra balla: “Sbarcati 467 clandestini, con Salvini erano quasi azzerati”. Non è vero. Gli sbarchi non erano affatto azzerati quando il ducetto legaiolo era ministro degli Interni. Lo dicono i numeri e pure il sindaco (leghista) di Lampedusa. Ma i colleghi di Libero sanno bene che se ripeti tante volte una bugia, qualcuno finisce per crederla una verità. E questa storia dell’hotel Monaco pare perfetta per rovesciare la frittata, e far diventare bianco il nero e nero il bianco. Nel caso, la storiella pare perfetta per trasformare i migranti in untori, le vittime in carnefici, il dritto per lo storto. 
Ma cosa è successo all’hotel Monaco, una struttura alberghiera situata nella zona industriale di Verona, trasformato dal 2014 in un centro di accoglienza richiedenti protezione internazionale? E’ successo quello che noi dalle pagine di questo sito, abbiamo sempre denunciato: le concentrazioni di migranti sono ingiuste per chi ci finisce dentro, dannose per un vero processo di inclusione, inutilmente costose, socialmente pericolose perché alimentano la percezione di insicurezza dei cittadini, utili solo per chi fa campagne xenofobe e deve dimostrare che “non funziona niente” e “i clandestini sono tutti delinquenti”. Non potevamo sapere che sarebbe arrivato il Covid19, altrimenti avremmo aggiunto anche “a forte rischio di diffusione di un eventuale contagio”. 
Poi è cambiato il Governo, ma le politiche sui migranti sono rimaste le stesse. Ed è arrivata anche la pandemia. Ma questa non l’hanno portata i migranti ma gli uomini d’affari che andavano su e giù tra l’Italia e la Cina. Cosa che ha spiazzato parecchio la nostra destra. Come fare per continuare ad addossare la colpa ai “clandestini”? Il caso dell’hotel Monaco cade a fagiolo. Eccoli trasformati tutti in untori. La struttura di accoglienza è assediata da un cordone di forze dell’ordine che neanche se ci fosse nascosta dentro l’intera “cupola” della mafia. Se avete stomaco, andate a leggervi i commenti sotto gli articoli web dei giornali locali che hanno riportato la notizia. C’è chi chiede alla polizia di sparare a vista, chi il lanciafiamme liberatorio. 
Tutto normale. In momenti di smarrimento come questo, la vigliaccheria prende il sopravvento sulle anime più semplici. I migranti, i “neri”, i “clandestini” sono feticci perfetti per sfogare le nostre paure. Un meccanismo che i “giornalisti” di Libero conoscono bene. Ai colleghi che gestiscono le pagine web dei giornali locali invece, vorrei ricordare che la nostra deontologia proibisce di lasciare commenti razzisti sulle pagine e che vanno immediatamente bannati. Invito i lettori a segnalare ogni violazione ai probi viri dell’Ordine dei Giornalisti. 
“Siamo indignati per come è stata gestita la conduzione dell’hotel Monaco – spiega Daniele Todesco dell’Osservatorio Migranti Verona – La struttura era attenzionata sin dall’inizio dell’epidemia e non è immaginabile che non sia stato previsto un piano. Dentro ci sono 147 migranti. Alcuni lavorano in cooperative. Come è possibile che si sia arrivati a questo punto? Le concentrazioni sono sempre negative ma in tanto di pandemia, rischiano di mettere in pericolo tutti, migranti e non. Il vero problema è la densità abitativa della struttura, per altro ‘benedetta’ dalla Prefettura non solo al Monaco”. 
Già. Densità abitativa. E si ritorna alla questione della chiusura per decreto del precedente Governo Lega & 5 Stelle, dei piccoli centri di accoglienza per raggruppare i migranti in grosse strutture con taglio di operatori e di servizi, e conseguente trasformazione dei mediatori in sorveglianti.
L’Osservatorio ha inviato una formale richiesta di chiarimenti al prefetto di Verona, Donato Cafagna: “Chiediamo chiarezza, perché riteniamo che le persone ospitate all’interno dell’Hotel non siano state trattate in modo rispettoso”. 
Il comunicato inviato al Prefetto è volutamente garbato. In  realtà, ci sarebbe da incazzarsi parecchio sul fatto che i migranti dell’hotel Monaco abbiano saputo, solo attraverso la stampa, che un centinaio di loro è stato trovato positivo al tampone. Tranne pochi di loro, nessuno sa ancora l’esito del suo test. Positivi e negativi continuano a vivere assieme senza che nessuno li abbia neppure informati delle precauzioni da adottare per non essere contagiati o per non diffondere il contagio! Più che in modo “poco rispettoso”, sono stati trattati in maniera vergognosa e discriminatoria! Oltre a tutto, riteniamo che, informare la stampa prima dei diretti interessati, sia una grave violazione dei diritti delle persone sottoposte a tampone e, per i colleghi giornalisti che hanno riportato la notizia, anche una violazione del codice di deontologia professionale riguardo alle norme sulla privacy e sui dati sensibili. 
Ma c’è molto di più che una “semplice” violazione della privacy. “Perché non si è provveduto immediatamente a separare coloro che erano risultati positivi dai negativi?” chiede l’Osservatorio Migranti. In questo modo decine di persone sono state lasciate a rischio di contagio e, probabilmente, ora sono tate contagiate. I principi di sicurezza che valgono per le vite dei cittadini italiani, non valgono evidentemente per le vite degli stranieri. 
Un doppio errore. Perché, anche a voler prescindere dalla palese ingiustizia, dovremmo aver imparato che il Coronavirus non rispetta i confini nazionali e non guarda neppure se hai la carta di identità o il permesso di soggiorno in regola. Queste sono idiozie da umani, lui è un virus “democratico”. Per questo bisogna rispondergli tutti insieme perché tutti siamo parte della stessa umanità. Le regole anti contagio che valgono per gli italiani devono valere per tutti coloro che si trovano a vivere accanto a noi. Aspettiamoci, nel prossimo futuro, altri casi come questo dell’hotel Monaco. Sono costruiti ad arte per cavalcare paure e fomentare irrazionali divisioni. Ma la risposta che dovremo dare è sempre la stessa: sanatoria subito!

Neanche il virus ferma la caccia! La Regione Veneto autorizza i cacciatori di andare in deroga alla quarantena

Andrà tutto bene. Restiamo a casa. Scuole chiuse, musei, cinema, teatri, pizzerie (che voglia di una Margherita cotta su forno a legna), bar, anche le chiese. Anche la sinagoga sotto casa mia. Tutto chiuso. Ed è giusto così. Niente passeggiate, niente visite agli amici. Neanche la zia ultra novantenne che vive da sola, possiamo andare a trovare. Non possiamo neppure slegare la barca per una vogata in laguna per goderci questi primi tepori primaverili. E anche chi vive dall’altra parte del ponte, deve lasciare la bicicletta che ha oliato per tutto l’inverno ferma in garage. Ma va bene. Facciamo tutti la nostra parte per fermare il diffondersi della pandemia. Tutti? Tutti tutti? No, non tutti. Ci sono categoria che per le quali le deroghe alla legge che vale per tutti, più che eccezioni sono costanti. Sto parlando dei cacciatori. Quello che vale per tutti, per loro conta come un fico secco. Un uomo non può portare il suo bambino a prendere un po’ di sole, ma se quest’uomo gira con un fucile a tracolla per andare a sparare a degli animali, allora tutto gli è concesso. Anche andare in deroga alle disposizioni di quarantena! 

E così, signore e signori, pure in una emergenza planetaria come quella che stiamo vivendo, la caccia deve continuare! 

“Mentre l'Italia è in piena emergenza Coronavirus - si legge in un comunicato diffuso da associazioni ambientalista come Enpa, Lac, Lav, Lipu e Wwf - molte Regioni, approfittando del comprensibile e basso livello di attenzione della opinione pubblica, stanno emanando provvedimenti a favore della caccia, a partire dalle leggine incostituzionali fino alle autorizzazioni per l'attuazione di piani di ‘controllo’ della fauna, che consentiranno ai cacciatori selecontrollori di uscire sul territorio in totale disprezzo ai provvedimenti restrittivi assunti dal Governo”. 

Il Veneto governato dal leghista Luca Zaia, come è lecito aspettarsi, è in prima fila nell’attivare i cosiddetti “piani di controllo della fauna selvatica” che altro non sono che strumenti legislativi per consentire ai cacciatori di sparare allo sparabile. Nessuna limitazione per gli uomini con la doppietta. Nessun “200 metri da casa”. Loro possono spostarsi dove vogliono ed entrare pure nel tuo fondo privato se solo pensano che ci possa essere un animale da accoppare. 

Stesso discorso per l’altra Regione governata dalla Lega: la Lombardia. La giunta di Attilio Fontana ha addirittura fatto di peggio e si è attivata per impugnare una ordinanza del Tar che chiedeva la sospensione della caccia alla volpe! Come se in Lombardia non ci fossero cose più urgenti da fare che lavorare per consentire ai cacciatori di dedicarsi al loro divertimento preferito! 

Decisioni come queste che lasciano esterrefatti! Come ambientalisti non possiamo non sottolineare che l’inquinamento e le devastazioni all’ecosistema, di cui la caccia è l’esempio più emblematico, sono tra le cause più accreditate non solo per la diffusione del virus ma anche per il cosiddetto fenomeno dello ‘spillover’, ovvero il salto che permette al patogeno di trasferirsi da specie all’altra, dal pipistrello all’uomo. 

Ma l’aspetto più triste e sconsolante della vicenda, è che neppure quanto sta accadendo riesce ad insegnare qualcosa ai nostri cacciatori. In un momento in cui tutti siamo chiamati alla massima responsabilità, loro continuano pensare ad una cosa sola: sparare, sparare, sparare.

Ponte Galeria sbarrato. "Ospiti" senza protezioni e abbandonati da tutti

“Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o i guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere la distanza di sicurezza negli spazi comuni o nella mensa. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine attorno a loro sono nelle stesse identiche condizioni”. Così si sfoga Carla Livia Trifan, 22 anni, romana, operatrice sociosanitaria in attesa di occupazione, che ha contattato LasciateCIEntrare in seguito all’appello per una sanatoria dei migranti irregolari lanciato dalla nostra associazione e da Legal Team Italia, Progetto Melting Pot Europa e Medicina Democratica.
“Tenerli in queste condizioni non ha nessun senso e rischia solo di far espandere ancora di più il contagio. O li liberano tutti o li sistemano in un posto sicuro”. Carla si riferisce ai migranti “ospiti” del centro Ponte Galeria a Roma: 40 donne e 75 uomini, compreso il suo fidanzato. “Lo hanno fermato il 3 marzo – racconta -. Appena l’ho saputo ho chiamato la polizia per chiedere spiegazioni. Lui è nato in Tunisia ma vive in Italia sin da quanto aveva 14 anni. Ora ne ha 26 ma non è ancora riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana. La polizia mi ha detto di stare tranquilla, che era solo un controllo, ma intanto lo avevano già portato al centro”.

L’iter per il suo rilascio si complica con l’arrivo della pandemia. Le date del processo slittano a non si sa quando. Intanto lui è ancora dentro. Carla va portargli vestiti puliti e generi alimentari. “Gli servono cibo scaduto che puzza. Chi può si fa fare la spesa dagli operatori o si fa aiutare dagli amici fuori”. Ma il 18 marzo entra in vigore il decreto di chiusura sanitaria e le porte di Ponte galeria vengono sbarrate. “Sono andata a portargli un po’ di cibo. Avevo la mascherina, i guanti e l’autocertificazione. Sono stata fermata dalla polizia che mi ha spiegato che la mia non si poteva considerare una emergenza e mi mi hanno minacciato di denuncia. Tra l’altro, loro non avevano né guanti né mascherine e mi si sono avvicinati a meno di un metro di distanza”. Adesso, Carla può sentire il suo fidanzato solo per telefono. Lui ha una scheda, che si paga, con la quale la può chiamare una volta al giorno da una cabina situata dentro la struttura. “Mi ha detto che un ragazzo che stava là è stato trovato positivo. Ora è in isolamento. Ma quanto ci metteremo a capire che, con questa epidemia, liberarli tutti è l’unica cosa da fare?”

Crociera da incubo, la nave Costa Victoria in cerca di un porto

Coronavirus. Paura a bordo, 1.400 persone tra passeggeri e personale sperano di attraccare al più presto
Doveva essere una spensierata crociera all’insegna della mondanità in «ambienti eleganti e confortevoli», studiati apposta per «regalarti il massimo del benessere, del comfort, del divertimento», come si legge nel sito della compagnia. Ma per i 718 passeggeri della Costa Victoria si è rivelata un incubo. Un incubo che ancora non si sa come, e dove, andrà a finire.

La grande nave era salpata da Venezia il 5 gennaio e qui avrebbe dovuto concludere il suo lungo viaggio attorno al mondo a fine marzo, dopo aver fatto scalo nei principali porti dei cinque continenti, dalle Barbados alle Antille Olandesi, dalle coste dell’Ecuador a quelle della Polinesia. L’esplosione della pandemia ha scombinato i programmi e l’elegante nave si è vista sbarrare, uno dopo l’altro, l’accesso di tutti i porti di destinazione. La crociera è finita prima del tempo ed ora la grande nave sta facendo precipitosamente ritorno alla casella di partenza, dove giungerà il 28 marzo.

I comunicati della compagnia in cui viene ripetuto che non ci sono contagiati a bordo sono smentiti dalle mail di passeggeri e lavoratori di bordo. «A Dubai, il 7 marzo, sono state fatte imbarcare anche persone che venivano da aree a rischio» si legge. «Molte persone vanno in giro tossendo pesantemente e non abbiamo nessuna certezza. La situazione è complicata e c’è paura. Non sono stati distribuiti dispositivi di protezione personali. Gli spettacoli sono stati sospesi per evitare la vicinanza, ma si continuano ad ammassare persone nei ristoranti».

A bordo ci sono solo due medici e un paio di infermieri. «Aiutateci» è l’appello che lancia uno dei 790 lavoratori di bordo. «È assurdo far sbarcare 1.400 persone in un’area pesantemente colpita dal virus: se risultassimo contagiati andremmo ad aggravare una situazione sanitaria già compromessa dall’attuale emergenza. Noi non vogliamo mettere in pericolo nessuno. Solo tornare a casa». I passeggeri vorrebbero sbarcare in un porto del sud, Bari o Napoli. Ma la nave che mercoledì è entrata nel canale di Suez, sta facendo rotta verso l’alto Adriatico. Due le ipotesi sulla destinazione finale: Trieste o Venezia. Nessuna certezza viene dalla compagnia di crociere che, dopo qualche giorno di sospensione dell’attività, ha già annunciato che la stagione turistica riprenderà regolarmente e ha già messo in vendita sul suo sito biglietti per partenze dal 1 aprile.

Chi non ha nessuna voglia di ripartire ma vorrebbe solo sbarcare, sono i passeggeri della Victoria, molti dei quali sono australiani e sono convinti, come assicurano anche i mass media del loro Paese, che la destinazione finale della nave sia rimasta quella, già prevista, di Venezia: uno dei focolai della pandemia. Costa Crociere non conferma ma nemmeno smentisce. Lo stesso presidente della Regione Veneto si è dichiarato contrario all’attracco della nave alla marittima di Venezia. «Non siamo dei lazzaroni – ha dichiarato Luca Zaia – ma non sappiamo quanti siano i contagiati a bordo che hanno bisogno di cure e non siamo nelle condizioni di poter garantire nulla perché siamo in emergenza».

«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»

Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».

Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.

In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.

La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Monti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.

In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.

I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!

L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?

No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.

#Coronavirus and Climate Change. Or, in simpler words, #Capitalism

The widespread spread of the Coronavirus, which started in one city in China and spread rapidly throughout the planet, had at least the merit of making everyone understand what climate change had made few people understand. And that is that we all live on the same planet. The problems can in no way be circumscribed by borders that only exist for politics. Nor can they be militarized. Not even by building walls. The world is one and humanity, beyond any nationalist rhetoric, is also one. All the peoples of the world are interconnected. And so is the economy, culture, thought, migration, problems and emergencies such as this pandemic that has spread rapidly from China to the whole world. But not only all humanity is interconnected. We are also interconnected with the environment around us. As Ferdinand de Saussure said, “Tout se tient”, everything is connected. This is the first commandment of modern ecology.
Originally published by Global Project. Written by  Riccardo Bottazzo.
The Coronavirus and the global fears it has unleashed has confronted us with a reality that, when and hopefully soon the emergency will be overcome, can no longer be ignored. This, climate change – the other big issue that affects the whole planet – had failed to make it understood, despite the undeniable commitment of environmentalists, scientists and charismatic figures like our Greta. The questions, of course, were asked in a different way. The perception of individual risk, in the case of the virus, is much more immediate and natural, as well as considered closer both in space and time. Even the behaviors that are asked of us to overcome the emergency – avoiding contact, staying at home, often washing your hands, etc. – are much easier to perform than the actions that are asked of us to stop Climate Change, that is to change lifestyle, give up fossils, build a new economy. Or, if you prefer simpler and more direct words: bring down capitalism. You will realize that “washing your hands often” is an easier action to take!
“We need to radically review the current model of production and development, which is environmentally unsustainable, because we are destroying the planet’s biodiversity and wildly exploiting natural resources,” environmentalist Grazia Francescato pointed out in a nice interview published in Vita – But it is also unacceptable on a social level, because this type of globalization has caused an economic inequality never seen before (8 people in the world have more economic resources than half of humanity). In short, it is a matter of promoting what we environmentalists call ‘ecological conversion of the economy and society’, which also means making a cultural leap, creating a new collective consciousness.
Are we really sure that, precisely on the assumption that “Tout se tient”, the explosion of this pandemic has nothing to do with climate change and, consequently, with capitalism? Many scientific studies point out that sudden changes in temperature and related parameters, such as humidity, tend to favour the “species jump”, that mechanism by which the virus is transformed and transferred from an animal species (the bat, in the case of Covid 19) to humans. It is not yet certain in what percentage, climate change and temperature increase affect this mechanism, but a correlation is clear. A research by Giuseppe Miserotti for the association Medici per l’Ambiente has linked the explosion of the latest epidemics, from Sars to Aviaria, up to swine flu and the current Covid 19, with temperature peaks, at least 0.6 degrees above average, recorded in the areas in question. Even if we consider the most optimistic forecasts of global warming, there is little to be happy about! In circulation, says Miserotti, there are billions of dangerous pathogens, both in animals and frozen in the melting permafrost of the now former “eternal glaciers” of the poles. Pathogens that could be triggered precisely by rising temperatures.
But even without bothering Climate Change, it is no mystery that pollution attributable to fossil fuels kills even without causing extreme weather events. We cite, in this regard, only the most widely accepted research of the Medical Society Consortium, which highlights how known direct pathologies attributable to the consumption of fossil fuels combine at least four and a half million people every year! One wonders why we are so concerned about the Coronavirus! But even in this case, “washing your hands often” is an easier, more easily communicated and calming answer than “bringing down capitalism”. 

But, some say, the spread of this pandemic has at least had the merit of reducing, if not capitalism, at least greenhouse gas emissions. The skies of China – which I personally have never been able to see blue – have never been so clean. True. But that’s not good news. Antonio Guterres himself, Secretary General of the United Nations, has stressed that it is only a temporary phenomenon because the activities that caused the pollution have not been closed down and, already now that China has come out of the emergency phase, they are recovering with greater vigor, as if to recover lost time and money! Let us not delude ourselves, explained Guterres, that the virus is helping us in the fight against climate change. On the contrary, the risk is that the pandemic will invisibilize the issue of Climate Change and distract public opinion from the real great battle that humanity must fight to save this planet where “Tout se tient”, from the climate, to epidemics, to social justice. And this time no one will be able to tell us that it’s enough to “wash your hands often”.

Coronavirus e Climate Change. Oppure, in parole più semplici, Capitalismo

La capillare diffusione del Coronavirus, partito da una città della Cina ed estesosi rapidamente in tutto il pianeta, ha avuto quantomeno il merito di far capire a tutti quello che i cambiamenti climatici avevano fatto capire a pochi. E cioè che viviamo tutti sullo stresso pianeta. I problemi non possono in nessun modo essere circoscritti da frontiere che esistono solo per la politica. Neppure militarizzandole. Neppure costruendo muri. Il mondo è uno solo e anche l’umanità, al di là di qualsiasi retorica nazionalista, è una sola. Tutti i popoli del mondo sono interconnessi. E così lo è l’economia, la cultura, il pensiero, le migrazioni, i problemi e le emergenze come questa pandemia che dalla Cina si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Ma non solo tutta l’umanità è interconnessa. Siamo interconnessi anche con l’ambiente che ci circonda. Come diceva Ferdinand de Saussure, “Tout se tient”, ogni cosa è collegata. E’ questo il primo comandamento dell’ecologia moderna. 
Il Coronavirus e le paure mondiali che ha scatenato ci ha posto di fronte ad una realtà che, quando e speriamo presto l’emergenza verrà superata, non può più essere ignorata. Questo, ai cambiamenti climatici – l’altra grande questione che investe tutto il pianeta – non era riuscito di farlo capire, nonostante l’innegabile impegno degli ambientalisti, degli scienziati e di personaggi carismatici come la nostra Greta. Le questioni, certamente, si sono poste in maniera diversa. La percezione del rischio individuale, nel caso del virus, è molto più immediata e naturale, oltre che considerata più vicina sia nello spazio che nel tempo. Anche i comportamenti che ci vengono chiesti per superare l’emergenza –  evitare i contatti, restare a casa, lavarsi spesso le mani, eccetera – sono molto più semplici da eseguire rispetto alle azioni che ci vengono chieste per fermate il Climate Change, e cioè cambiare stile di vita, rinunciare ai fossili, costruire una nuova economia. Oppure, se preferite parole più semplici e dirette: abbattere il capitalismo. Capirete che “lavarsi spesso le mani”, è una azione più facile da mettere in campo!

“Dobbiamo rivedere in modo radicale l’attuale modello di produzione e di sviluppo, che è insostenibile a livello ambientale, perché stiamo distruggendo la biodiversità del pianeta e sfruttando in modo selvaggio le risorse naturali ha sottolineato l’ambientalista Grazia Francescatoin una bella intervista pubblicata su Vita –  Ma che è inaccettabile anche a livello sociale, perché questo tipo di globalizzazione ha causato una disuguaglianza economica mai vista prima (8 persone al mondo hanno più risorse economiche della metà dell’umanità). Insomma, si tratta di promuovere quella che noi ambientalisti chiamiamo ‘conversione ecologica dell’economia e della società’, che vuol dire anche fare un salto culturale, creare una nuova coscienza collettiva”.
Siamo davvero sicuri che, proprio partendo dal presupposto che “Tout se tient”, l’esplosione di questa pandemia non abbia nulla a che vedere con i cambiamenti climatici, e, di conseguenza, col capitalismo? Molti studi scientifici mettono in evidenza che le variazioni repentine della temperatura e dei parametri ad essa collegati, come l’umidità, tendono a favorire il “salto di specie”, quel meccanismo per il quale il virus si trasforma e si trasferisce da una specie animale (il pipistrello, nel caso del Covid 19) all’uomo. Non è ancora certo in quale percentuale, i cambiamenti climatici e l’aumento della temperatura influiscono su questo meccanismo, ma una correlazione è sicura. Una ricerca di Giuseppe Miserotti per l’associazione Medici per l’Ambiente ha collegato l’esplosione delle ultime epidemie, dalla Sars all’Aviaria, sino all’influenza suina e all’attuale Covid 19, con i picchi di temperature, superiori perlomeno di 0,6 gradi sulla media, registrati nelle aree in questione. Anche a voler considerare le previsioni più ottimistiche sul surriscaldamento globale, c’è poco da stare allegri! In circolazione, sostiene Miserotti, ci sono miliardi di agenti patogeni pericolosi, sia negli animali che congelati nel permafrost in via di scioglimento degli oramai ex “ghiacciai eterni” dei poli. Agenti patogeni che potrebbero essere innescati proprio dall’aumento delle temperatura. 
Ma anche senza scomodare il Climate Change, non è un mistero che l’inquinamento imputabile alle energie fossili uccida anche senza bisogno di causare eventi meteorologici estremi. Citiamo, a tale proposito, solo la più recete ricerca del Medical Society Consortium che sottolinea come le patologie direttame note imputabili al consume di combustibili fossili accoppino almeno quattro milioni e mezzo di persone ogni anno! Vien da chiedersi come mai ci stiamo preoccupando tanto del Coronavirus! Ma anche in questo caso, “lavarsi spesso le mani” è una risposta più facile, più facilmente comunicabile e più tranquillizzante che “abbattere il capitalismo”. 
Ma, sostiene qualcuno, la diffusione di questa pandemia ha avuto perlomeno il merito di abbattere, se non il capitalismo, perlomeno le emissioni di gas serra. I cieli della Cina – che io personalmente non sono mai riuscito a vedere azzurri – non sono mai stati così puliti. Vero. Ma non è una buona notizia. Lo stesso Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha sottolineato che si tratta solo di un fenomeno temporaneo perché le attività che causavano l’inquinamento non sono state chiuse e, già adesso che in Cina si è usciti dalla fase emergenziale, stanno riprendendo con maggior vigore, come a voler recuperare il tempo, e il denaro!, perduti. Non illudiamoci, ha spiegato Guterres, che il virus ci aiuti nella lotta ai cambiamenti climatici. Anzi, il rischio è che la pandemia invisibilizzi la questione del Climate Change e distragga l’opinione pubblica dalla vera grande battaglia che l’umanità deve combattere per salvare questo pianeta dove “Tout se tient”, dal clima, alle epidemie, alla giustizia sociale. E stavolta nessuno ci potrà dire che basta “lavarsi spesso le mani”. 

DeCOALonize the planet

"Siamo l'antidoto al capitalismo”. Così si leggeva nel grande striscione che gli attivisti hanno appeso ai lunghi nastri che trasportano il carbone sin dentro la centrale. Nastri che, perlomeno per un paio d’ore, sono stati bloccati, causando lo spegnimento della caldaia ed una diminuzione della produzione.

Siamo a Fusina, a ridosso della laguna di Venezia. Qui, in una delle aree più inquinate d’Italia dove, quando durante ogni tornata elettorale si promettono bonifiche che puntualmente non vengono mai portate a termine, è situata una delle dodici centrali a carbone del Paese. La quinta più grande d’Europa.

Ed è proprio qui che, nella tarda mattinata di ieri, circa duecento attiviste e attivisti dei centri sociali del Nord Est hanno fatto irruzione, bloccando il cancello di ingresso, occupando i nastri trasportatori e salendo nelle strutture più alte per calare striscioni di protesta con scritte come “One solution: revolution” o “DeCOALonize the planet”.

"La concentrazione di CO2 in atmosfera nell’ultimo anno ha superato la soglia delle 415 parti per milione e continua a crescere. Il Pianeta sta letteralmente andando a fuoco. Gli effetti del surriscaldamento globale sono ormai evidenti a tutti e sembrano avanzare ad una velocità esponenziale. - ha spiegato Stella, una giovane attivista del cso Rivolta - La centrale di Fusina, dentro questo quadro, rappresenta per molti aspetti uno dei simboli della non volontà politica ed economica di affrontare la crisi climatica, anzi di voler continuare a speculare sulla devastazione del territorio”

“C’è un progetto di convertire questa centrale a metano - continua Stella -. L’Enel, proprietaria della centrale, pubblicizza questa operazione come un passaggio all’energia sostenibile dimenticando che anche il metano rimane sempre un combustibile fossile e un potentissimo gas serra. Non è questo il cambiamento to che vogliamo. Non è così che si ferma il climate change“.

L’iniziativa si è svolta pacificamente. Dopo tre ore di occupazione, le ragazze ed i ragazzi, hanno abbandonato i nastri e e si sono diretti in corteo verso i grandi siti di stoccaggio del carbone, a ridosso della laguna.

Ma non è solo la centrale a carbone, il problema dell’entroterra veneziano. Da tempo, la Regione Veneto col benestare del Comune di Venezia sta portando avanti il contestassimo progetto di riaprire un inceneritore, sempre nell’area di Fusina. Questo impianto di termodistruzione a cui mirano Ecoprogetto e i soci privati di Bioman e Agrilux, dovrebbe essere, nelle intenzioni dei suoi progettisti, il più grande del Veneto. “Ancora una volta per Marghera e per l’area metropolitana di Venezia - si legge in un comunicato dei centri sociali - si prospetta un futuro da pattumiera. Il nostro territorio è sommerso dallo smog e dai veleni ma ambiente e salute dei cittadini non contano mai niente quando di mezzo ci sono grandi affari”.

L’iniziativa si colloca in un percorso di avvicinamento al Venice Climate Meeting che si svolgerà nella città lagunare sabato 4 e domenica 5 aprile e che si propone in continuità col Climate Camp svoltosi a settembre al Lido. In quell’occasione, le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future e gli attivisti dei No Grandi navi avevano vissuto un “giorno da leoni” occupando per la prima volta nella storia della mostra del cinema ill tappeto rosso delle star.

Il muro colorato dai sogni del Venezia Mestre

Il murale del Bae, sulla strada per Venezia, sarà abbattuto e ricostruito. I mattoni dell’opera, dedicata al «papà» degli ultrà del Mestre, venduti per finanziare la resistenza in Rojava 

È lungo cento metri. I disegni e i colori forti e vivaci richiamano il folklore e le tonalità tipiche degli indigeni del centro America: il rosso del tramonto ed il verde della selva. I colori del calcio Venezia. Le grandi lettere che compongono la scritta «Bae per sempre» sono completate da due frasi scritte più in piccolo: «I sogni attraversano gli oceani» e «Dalla laguna alla selva Lacandona».

È LUNGO CENTO METRI, il murale del Bae, e se ne sta su quel muro che costeggia via Libertà da quasi vent’anni. Da quando, dopo la morte di Francesco Romor, avvenuta nel febbraio del 2001, a soli quarant’anni, i suoi amici dello stadio e del centro sociale Rivolta gli hanno dedicato l’opera.
Chi arriva in auto a Venezia non può fare a meno di passarci accanto e, se non è del posto, di domandarsi cosa abbia in comune la città dei Dogi con la selva messicana. Via della Libertà è l’unica strada di accesso al lungo ponte che collega Venezia alla terraferma. Impossibile non notarlo e non rimanere colpiti da quella lunga esplosione di colori sempre vivaci. Ogni anno, il giorno del compleanno del Bae, i suoi amici rimettono mano ai pennelli ed alle vernici per riportare il murale al suo originario splendore coprendo il grigiore dei fumi di porto Marghera che, da queste parti della laguna, sono perennemente in agguato.
REALIZZATO A RIDOSSO del ponte della Libertà, il murale del Bae è esso stesso un ponte verso la libertà. Quell’esplosione di colori che lo compongono non sono solo un benvenuto a tutti coloro che arrivano a Venezia ma anche una esortazione a continuare a sognare perché è «con i sogni che si attraversano gli oceani». Quegli oceani che il Bae non ha potuto attraversare perché è scomparso proprio mentre stava per partire per il Messico per partecipare alla marcia della dignità indigena, o del Colore della Terra, come l’aveva pittorescamente chiamata il subcomandante insorgente Marcos. Quell’anno, dai centri sociali del nord est, partì per il Chiapas un centinaio di ragazze e di ragazzi riuniti nell’associazione Ya Basta. Tutti col Bae nel cuore.
CALCIO E LIBERTÀ.

Francesco Romor, il Bae

La storia del Bae. «Lui sapeva tenere insieme tutto e tutti – ricorda l’amico Franz Peverieri -. Era il papà degli ultras delle curva del Venezia Mestre. Piena di ragazzi che vedevano nel calcio un qualcosa capace di regalare sogni. Abbracciavamo i colori delle nostre squadre sapendo che nulla avevano a che fare col colore della pelle. Alla base del nostro tifo c’erano valori e passioni scevre da fascismi, razzismi e xenofobia». Una strada che ha portato il Bae ed i suoi ragazzi dagli spalti del Penzo, lo stadio del Venezia, ai centri sociali del nord est. Dentro il Rivolta di Marghera, gli ultras ritagliarono un loro spazio di militanza quotidiana creando la famosa Osteria allo Sbirro Morto, di cui il Bae era il rinomato cuoco. «Sino agli ultimi istanti di vita, il Bae ha continuato il suo impegno che univa passione per il calcio e sete di giustizia. Quando è scomparso, abbiamo piantato un albero nel giardino del Rivolta e poi, quando siamo andati in Messico, lo abbiamo portato con noi, e lo abbiamo ripiantato dove lui avrebbe voluto andare: a Guadalupe Tepeyaca, nel cuore della Selva Lacandona. Un villaggio che gli zapatisti hanno restituito ai suoi abitanti, liberandolo da sette anni di occupazione militare da parte dell’esercito federale».
IN COLLABORAZIONE con Ya Basta, gli amici di Francesco realizzano il progetto chiamato «Lo stadio del Bae» di supporto alle comunità indigene della rebeldia zapatista. L’idea iniziale era di costruire uno stadio a lui dedicato, ma, in accordo con la Junta de Buen Gobierno, hanno realizzato molto di più: un acquedotto a Guadalupe Tapeyac, l’erbolario di medicina tradizionale al caracol de la Realidad, campi da basket, falegnamerie e officine e altri progetti come Agua para todos e la commercializzazione del caffè zapatista. Grazie al sostegno di tante associazioni legate al «futbol rebelde» italiane e anche europee, come gli ultras tedeschi del Sankt Pauli, lo Stadio del Bae riesce a raccogliere quasi 100 mila euro che negli anni successivi saranno devoluti alle comunità ribelli indigene. Tutti progetti che, con altre formule e con altri finanziamenti, ancora sono portati avanti dalle associazioni Ya Basta di tutta l’Italia.
LE RUSPE NON CANCELLANO i sogni.
Sogni che non finiscono mai, quelli rappresentati dal murale del Bae. Sogni che attraversano gli oceani ma che rischiano di crollare sotto le ruspe che dovranno aprire la strada al nuovo piano di viabilità varato dal Comune di Venezia. Già. Il murale del Bae dovrà essere abbattuto per fare spazio ad una nuova strada. I cantieri sono già stati aperti e, tra non molto, Venezia dovrò dire addio allo storico muro. Non sarà però un addio al murale.
Il valore sociale ed artistico di questo che è uno dei primi esempi di street art mestrina è stato riconosciuto anche da una amministrazione comunale come quella di Venezia che certamente non è molto sensibile alle battaglie che stavano a cuore a persone come Francesco Romor. L’assessore alla Viabilità, Renato Boraso, ha garantito che sarà concesso uno spazio uguale nel nuovo muro che fiancheggerà la strada. Un gruppo di consiglieri bipartisan ha aperto un confronto con Ya Basta e le associazioni dei tifosi del Venezia per trovare una soluzione comune. Anche il presidente della municipalità di Marghera, Gianfranco Bettin, ha invitato il Comune ad aprirsi al confronto con la famiglia e gli amici di Romor.
RESTA PERÒ UN MURALE da abbattere. Un murale su cui sono stati riversati, assieme ai colori, anche tanti sogni. «Abbatteremo il muro ma salveremo il murale, rilanciando le battaglie in cui Francesco credeva – conclude Franz -. E lo faremo usando la nostra creatività. L’idea su cui stiamo lavorando è quella di smontare l’opera e vendere i singoli mattoni. Il ricavato lo destineremo ad altri progetti di resistenza e di solidarietà». Quali? «Se il Bae fosse ancora con noi, il suo cuore oggi sarebbe nel Rojava, assieme ai curdi che combattono contro l’aggressione turca. Con gli amici di Ya Basta stiamo valutando come realizzare questo progetto. Il nostro amico, ne siamo sicuri, sarebbe contento».

A Madrid è stato assassinato l’accordo di Parigi. Cop25 sarà l’ultimo crimine contro l’umanità

Cop25 ha chiarito una volta per tutte che i governi del mondo non sono in grado di mettere in campo una strategia adatta a contrastare i cambiamenti climatici. Al contrario della precedente conferenza svoltasi a Katowice, dove gli osservatori più ottimisti avevano giudicato in maniera positiva l’apertura di alcuni, generici, spazi di intervento verso un definitivo abbandono dei fossili, la conferenza di Madrid ha messo tutti d’accordo: Cop 25 è stata un completo fallimento. A nulla sono valsi i “tempi supplementari” di ben 42 ore giocati dopo la prevista chiusura dei lavori nel tentativo di salvare perlomeno la faccia. I rappresentanti dei 196 Paesi che hanno partecipato agli incontri, non hanno saputo, o voluto, trovare nessun accordo sui tre punti principali in discussione: la regolazione del mercato del carbonio, le compensazioni ai Paesi poveri e la quantità di Co2 che ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a tagliare nei prossimi anni. Quei tre punti che a Katowice erano stati lasciati in sospeso e “rimandati a settembre”. Cioè alla prossima conferenza sul clima, questa di Madrid.
Come si temeva, non sono bastati i drammatici appelli degli scienziati (oramai non è rimasto più nessuno a sostenere tesi negazioniste) che hanno lanciato numerosi appelli al buonsenso, invitando i governi a dare retta alla scienza e non all’economia. Non sono bastate nemmeno le drammatiche notizie degli scioglimenti dei non più eterni ghiacciai artici o i fenomeni atmosferici sempre più estremi che si stanno verificando sempre più frequentemente in tutto il pianeta. A Venezia ne sappiamo qualcosa! Non sono bastate nemmeno i milioni di giovani che sono ripetutamente scesi nelle piazze di tutto il mondo a chiedere, in nome della “democrazia climatica”, una radicale svolta ecologista nella politica capace di ridare una speranza alla terra. Tutto questo non è servito a niente se non a dimostrare che i governi e la finanza procedono imperterriti in una direzione contraria a quella verso cui vanno la scienza, i cittadini consapevoli e pure il buon senso.
Il guaio è che sono i primi a tirarsi dietro il pianeta!

Quanto è accaduto a Madrid altro non è che un crimine contro l’umanità. Il peggiore. Non solo perché è il più cinico, il più cattivo e pure il più stupido. Questo rischia di essere il crimine “definitivo” contro l’umanità. Perché se l’aumento della temperatura non verrà in qualche modo contenuto, non ci sarà più posto per l’umanità sul pianeta Terra.

Sotto questo punto di vista, il genericissimo documento di intenti in cui si esprime la volontà di combattere in qualche modo i cambiamenti climatici, chiamato ipocritamente “Time for action”, appare solo come una crudele presa per il sedere. Senza considerare che, come ha sottolineato il noto ed apprezzato meteorologo Luca Lombroso, anche per questo documento assolutamente inefficace ai fini pratici, Brasile e Usa hanno avuto il coraggio di fare ostruzione! I primi perché hanno tutta l’intenzione di “monetizzare” la foresta amazzonica sino all’ultimo albero - e tanti saluti all’ultimo polmone verde rimasto su questa terra -, i secondi perché il loro presidente Donald Trump continua a sostenere tesi negazioniste in onore alle lobby delle energie fossili che lo hanno fatto eleggere.

Dopo questa Cop, di fatto, l’accordo di Parigi non esiste più. Solo l’Europa, grazie al nuovo Governo, qualcosa ha fatto approvando un percorso che dovrebbe condurci nel 2050 alla “neutralità climatica”, ovvero a zero emissioni. Ma l’Europa da sola non basta. Gli Stati Uniti, come hanno dichiarato da tempo, si stanno sfilando ed è possibile che nei prossimi incontri non parteciperanno neppure con un delegato. Cina, India, Russia, Paesi Arabi e il Brasile del presidente Jair Bolsonaro - guarda caso i Paesi che inquinano maggiormente e che sono stati tra i principali attori di questo fallimento - hanno ampiamente dimostrato che non sono disposti neppure e concedere una generica promessa a contenere le emissioni ed a limitare il consumo delle energie fossili.

Arrivati a questo punto, possiamo anche cominciare a discutere su cosa ed a chi servono queste conferenze sul clima se non a “dare un’opportunità ai Paesi di negoziare scappatoie”, come ha suggerito Greta.
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