In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

All’arrembaggio! Venezia sale in barca contro le Grandi Navi

E’ stata una grande giornata di festa e di mobilitazione per Venezia. Una giornata in cui chi abita la città e chi l’ha a cuore ha trovato l’orgoglio di salire in barca o di scendere in fondamenta per ribadire che Venezia appartiene a chi la vive e non a chi la sfrutta come un bancomat. In questo senso, le Grandi Navi non sono altro che un emblematico esempio di una economia al collasso che scarica inquinamento e devastazioni ambientali sul territorio per produrre profitto per pochi, mercificando ed umiliando la stessa democrazia di base. Perché i canali sono le strade di Venezia e i veneziani li vogliono attraversati da imbarcazioni tradizionali a remi e non da questi immensi centri commerciali galleggianti, pieni di turisti da vacanza in saldo, che guardano la città dall’alto senza comprenderne la natura, e salutano dall’alto con la mano i pochi residenti rimasti come fossero vuote comparse in una insulsa cartolina.
Ma oggi è stata anche la giornata in cui il cosiddetto “Governo del cambiamento” ha gettato la maschera rivelandosi per quello che è: un nemico dei movimenti ambientalisti. Un governo che persegue le stesse politiche del peggior Pd condendole con razzismo ed autoritarismo. Nonostante il canale della Giudecca fosse presidiato da una cinquantina di barche a remi ed a motore, le grandi navi non sono state fatte passare ugualmente – al contrario di quanto avvenne un anno fa – scortate da una flotta di imbarcazioni della polizia che hanno speronato e sparato con gli idranti contro le leggere barche a remi. Non hanno esitato a mettere in pericolo la vita dei manifestanti e neppure di rischiare un incidente navale in bacino, considerato che, in acque basse, la manovrabilità delle Grandi navi è limitata. Eccolo qua, il “cambiamento”!

“A sei anni dal decreto Clini Passera che poneva un limite al tonnellaggio delle navi entranti in laguna, non è cambiato niente – hanno detto i portavoce dei No Navi – Le navi continuano a transitare per l’area marciana. E il ministro Toninelli non sa che pesci prendere. Un giorno dice una cosa e il giorno dopo la smentisce. I loro alleati della Lega invece sanno bene da che parte stare: quella degli interessi delle multinazionali crocieristiche”.

In questo solo fine settimana, le navi che transiteranno nel canale della Giudecca sono 18. E se consideriamo che ciascuna di loro inquina come 14 mila automobili si capisce come mai, Venezia – la città per antonomasia senza auto – risulta una delle più inquinate d’Europa, proprio come se fosse costruita a ridosso di una autostrada a tre corsie!

“Per questo – hanno detto gli attivisti – rilanciamo la proposta di organizzare una grande manifestazione a Roma, come suggerito da tutti i movimenti ambientalisti con cui ci siamo riuniti ieri al Sale. Dobbiamo porre questo Governo davanti alle sue contraddizioni. Parlano di cambiamento ma è chiaro a tutti che la confusione con cui trattano il problema delle Grandi Navi a Venezia e, in generale, tutta la politica delle grandi opere, è solo un sistema per evitare di decidere e lasciare tutto come sta, consentendo a chi saccheggia i territori di continuare impunemente a farlo”.


Nel video girato da Global Project, la polizia difende il passaggio della terza Grande Nave, mettendo a repentaglio la vita dei manifestanti sul barchino, tentando uno speronamento.


Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica

Fuori, sui masegni della fondamenta, decine di palloncini colorati, bandiere al vento e le installazioni galleggianti pronte per la grande festa di domani. Dentro, la “meglio gioventù” d’Italia. Quella capace di mobilitarsi per la giustizia climatica, la tutela dei territori e la democrazia ambientale. E sono in tanti. Nella sala degli antichi magazzini dove un tempo la Repubblica Serenissima conservava il prezioso sale, si sono radunate più di 300 persone, in rappresentanza dei 56 comitati e movimenti provenienti da tutta la penisola che hanno raccolto l’appello lanciato dai No Grandi Navi.
Siamo in fondamenta delle Zattere. Proprio sulle rive del canale che unisce Venezia alla Giudecca. Proprio dove transitano le Grandi Navi. Abnormi condomini galleggianti, il cui continuo via vai inquina l’aria e devasta i fondali di una città che vive della sue laguna, anteponendo il profitto di pochi ad un bene di tutti. Una città, questa che era dei Dogi, che è emblematica per dare il giusto peso alle tematiche ambientaliste. Qui, dove l’acqua e la terra si mescolano senza barriere, complementandosi l’una con l’altra, e dove la bellezza è allo stesso tempo vita e morte, a causa di un assedio turistico oramai insostenibile. “Qui è più semplice rendersi conto che le tematiche ambientali non possono essere disgiunte da quelle del diritto di cittadinanza, e che non si può parlare di giustizia climatica senza parlare anche di democrazia” spiega aprendo l’assemblea, nel primo pomeriggio, Marco Baravalle del Sale. In questa Venezia dove, con l’imposizione del Mose, è stato sperimentato il devastante sistema delle Grandi Opere,”è davanti agli occhi di tutti che la battaglia che l’umanità sta combattendo è tra chi difende i beni comuni e chi li vuole mercificare per trarne profitto. E cosa altro è questa se non una battaglia per la democrazia?” conclude Marco.

Il microfono passa di mano in mano sino a sera. A prendere la parola sono i portavoce dell’intero arcipelago ambientalista del Paese, da Taranto alla val di Susa, dai No Tap ai No Pfas. Negli interventi di tutti, si legge la volontà di percepirsi com un unico movimento, superando lo steccato del singolo problema e della specifica lotta. Proprio come hanno fatto i No Tav valsusini. “Siamo usciti dalla nostra valle per spiegare a tutta l’Italia che questa battaglia non riguarda solo noi – spiega Francesco Richetto – E’ una battaglia di tutti perché questo sistema economico è contro l’umanità. E’ la battaglia di tutti coloro che credono in un mondo diverso, dove i soldi non servono a ricavare profitti ma a far felici le persone. Mobilitiamoci, quindi, perché se non lo facciamo noi, nessuno lo farà per noi”.

Nessuno, e tantomeno il Governo. Perché i movimenti non hanno Governi amici. Oggi come ieri. Anche il Governo penta stellato che qualche suo tifoso continua a chiamare “del cambiamento”, non ha fatto altro che continuare le precedenti politiche “sviluppiste” di una economia malata. Un tradimento? Sì, per qualcuno, come per i portavoce dei comitati tarantini o per di Stop Biocidio della Terra dei Fuochi. “Questi politici hanno attraversavano le mobilitazioni e raccolto fiducia e voti da tanti di noi, cavalcando le nostre rivendicazioni come oggi cavalcano il razzismo – commenta Raniero Madonna – ma non ci hanno messo molto a rivelarsi per questo che davvero sono. Dei nemici dei movimenti”.

Le insostenibili posizioni di chi, a parole, tuonava contro il Mose o le Grandi Navi e, una volta al potere, ha cambiato radicalmente idea e governa con quella stessa Lega che ha sconquassato l’intero Paese con le Grandi Opere, sono, per Tommaso Cacciari, del Laboratorio Morion, una contraddizione da cogliere senza indugio, organizzando una manifestazione a Roma. “Al di là delle cupe narrazioni di razzismo che ottengono tutta l’attenzione dei media, c’è un’Italia straordinaria. Ci sono decine di migliaia di persone come noi, capaci di organizzarsi nei territori e di lottare per la democrazia ambientale. Prepariamoci a dare vita ad una grande mobilitazione. Se non lo facciamo noi, chi lo farà?”

Appello subito rilanciato da Margherita da Lonigo, portavoce delle Mamme No Pfas. “Ci siamo svegliate una mattina ed abbiamo scoperto che nel sangue dei nostri figli c’è una percentuale di Pfas superiore di dieci volte la soglia di pericolo. Abbiamo denunciato una fabbrica che ha inquinato irrimediabilmente la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Oggi la fabbrica è ancora là e continua ad inquinare e ad avvelenare i miei figli. Quando ci pensiamo, ci sale in corpo una rabbia che non ci serve nessun ulteriore incentivo per mobilitarci. E state tranquilli che non ci fermeremo mai!”

Ogm nei nostri supermercati? Pochi ma presenti

Ogm negli scaffali dei nostri supermercati? Sì. Ce ne sono. Basta fare un po' di attenzione e leggere le etichette. Io stesso, nel market sotto casa, ho trovato una farina precotta a marchio Pan e proveniente dagli Usa con la scritta - in piccolo e tra parentesi, ma comunque visibile - "Prodotta con mais geneticamente modificato". 
Come è possibile? In Italia è vietata la coltivazione di piante geneticamente modificata, ma non è vietata la loro importazione, sia pure limitatamente a prodotti destinati all'alimentazione animale, e previa una autorizzazione del prodotto a livello europeo. Ma la normativa europea è molto meno rigida di quella italiana. E con i regolamenti 1829 e 1830 del 2003 consente la commercializzazione di certi prodotti Ogm, purché la loro presenza sia indicata nella confezione.
Si capisce quindi, come possa capitare che un prodotto geneticamente modificato in vendita oltre frontiera, finisca per "cascare" nello scaffale di un supermercato nostrano.


Dal 2006, l’Istituto superiore di sanità in collaborazione con il Centro di referenza nazionale per la ricerca di Ogm predispone un piano nazionale di controllo sulla presenza di questi organismi nei cibi che finiscono nelle nostre tavole. L'ultimo rilevamento ha confermato il trend decrescente di Ogm nei prodotti commercializzati al dettaglio, a testimonianza, recita la nota ministeriale, della "consapevolezza crescente degli operatori del settore alimentare, che pongono particolare attenzione lungo tutta la filiera alimentare". Solo il 4% dei campioni prelevati conteneva trance sensibili di Ogm. E questi campioni provenivano da prodotti di importazione. In primis, prodotti a base di riso dalla Cina. "In Italia - conclude lo relazione dell'istituto superiore di sanità - la presenza di Ogm, autorizzati e non, negli alimenti continua ad essere decisamente limitata ed a concentrazioni estremamente basse" e "si può concludere che per i prodotti alimentari, sul mercato italiano, permane il rispetto dei requisiti d’etichettatura previsti dalla normativa vigente, assicurando in tal modo l’informazione al consumatore".
Questo non risolve comunque il problema della presenza di alimenti transgenici nel nostro Paese che non può certo definirsi "Ogm free" anche solo considerando che la gran parte dei mangimi a base di soia utilizzati nei nostri allevamenti - fatti salvi quelli certificati biologici - provengono da Stati Uniti e Canada dove l'uso di Ogm è legale e ampiamente utilizzato. E considerato che l'Italia produce solo l'8 per cento della soia di cui fa uso e che all'estero quasi tutta la soia è oramai transgenica, un rigido divieto in questo senso getterebbe nel panico tutti gli allevamenti del Paese che non saprebbero più dove rifornirsi.

In questo senso, gli Ogm sono emblematico esempio di una globalizzazione che ha instaurato in tutto il pianeta una dittatura economica capace di superare qualsiasi frontiera geografica e bypassare qualsiasi politica nazionale. La risposta o sarà globale o non sarà.

Quel pasticciaccio brutto assai del glifosato Monsanto

Duecento e ottantanove milioni di dollari di risarcimento. È costata cara alla Monsanto la sentenza del tribunale di San Francisco che ha sposato la tesi del giardiniere 46enne Dewayne Johnson, secondo cui la multinazionale non lo avrebbe informato correttamente sui rischi inerenti all’uso del glifosato. La Monsanto, come era prevedibile, ha già annunciato ricorso, ma la sentenza emessa questa estate, precisamente l’11 di agosto, rischia di spalancare le porte di penali miliardarie a tutte le altre cause di risarcimento per i danni causati dal glifosato. Ne sono in corso, nei soli Stati Uniti, quasi 5 mila. E questo è probabilmente uno dei motivi per i quali la Monsanto, sempre questa estate, è stata acquisita della Bayer per la cifra di “soli” 63 miliardi di dollari. La casa farmaceutica tedesca ha già deciso di cambiare il nome dell’azienda, oramai “sporcato” dalla cattiva fama che la multinazionale leader nella produzioni di ogm, si è ritagliata nella sua storia. E non solo per colpa del glifosato. La decisione dei giudici di San Francisco rimane comunque storica. Per la prima volta una corte di giustizia ha affermato che “il glifosato provoca il cancro”. Ma vediamo di approfondire la questione che, come sempre quando si tira in ballo scienza, giurisprudenze e, non ultimi gli enormi interessi economici che ci sono sotto, non può essere ridotta a bianchi e neri.
Innanzitutto, cosa è il glifosato? Si tratta di un potente diserbante non selettivo che viene assorbito dalla pianta tramite le foglie portandola velocemente al dissecamento. Diffusosi rapidamente a partire dagli anni ’70 in tutti i Paesi del mondo, sostituì rapidamente gli altri erbicidi in uso all’epoca in quanto questa sostanza si rivelava meno tossica per l’uomo ed inoltre, essendo facilmente degradabile, difficilmente arrivava ad inquinare le falde acquifere. Oggi è di gran lunga il diserbante più usato in tutto il mondo, sia nell’agricoltura che nel giardinaggio. In media, e considerando solo il peso del principio attivo, ogni ettaro coltivato ne consuma mezzo chilo all’anno. Nei soli Stati Uniti, con lo sviluppo delle coltivazioni transgeniche, strettamente collegato a questo diserbante, come vedremo più avanti, l’uso del glifosato è passato da 400 tonnellate nel 1974 alle 113 mila nel 2014.

Ovviamente, il fatto che negli anni ’70 si usavano diserbanti ancora più pericolosi ed inquinanti, non significa che il glifosato non comporti dei rischi comunque inaccettabili per la nostra salute. Ed infatti, la questione se questa sostanza causasse il cancro o meno, è stata subito sollevata da alcuni esperti. Le principali agenzie di regolamentazione si sono date battaglia difendendo tesi del tutto opposte sulla tossicità del pesticida in questione. Ma per ottenere un autorevole parere sulla pericolosità di questa sostanza, bisognò attendere il 2015 quando l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) dimostrò che tutti i precedenti lavori che assolvevano il glifosato era basati su dati forniti dalla Monsanto! Altre agenzie come l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e la Fao (Food and Agriculture Organization) successivamente difesero il glifosato dichiarando come “improbabile” una sua correlazione col cancro. Altre ancora, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dichiarato salomonicamente che il glifosato “non presenta potenziale genotossico” ma che comunque la sua “tossicità a lungo termine, la cancerogenicità, la tossicità riproduttiva e il potenziale di interferenza endocrina delle formulazioni devono essere chiariti”. Ancora la Iarc ha classificato questo diserbante nel gruppo 2A dei potenziali cancerogeni. Per dire, in compagnia delle carni rosse e delle emissioni delle fritture, mentre nel gruppo 1, più pericoloso, ci stanno le sigarette, le emissioni di raggi Uv e l’amianto.

Va considerato però che tutto questo bailamme riguarda solo il principio attivo del glifosato e non il prodotto in commercio e comunemente adoperato da agricoltori e giardinieri. Il brevetto esclusivo è scaduto nel 2001 ed ora sono molte le aziende che vendono glifosato, oltre alla Monsanto. Tutti questi prodotti, che fanno a gara l’un con l’altro per garantire un effetto ancora più efficace, si sono rivelati molto più tossici per la salute ed anche più inquinanti per l’ambiente, riuscendo, ad esempio, a raggiungere le falde acquifere come il principio attivo da solo non riesce a fare. Esemplare il caso di Pistoia, dove l’uso massiccio di questi prodotti sui vivai ha causato una percentuale di pesticidi nell’acqua superiore quasi al 30 per cento del consentito.

La guerra - ed uso questo termine a proposito! - che si è scatenata sopra il glifosato ha assunto aspetti che vanno ben oltre la corretta disputa scientifica. Monsanto, in più occasioni, ha messo in atto manipolazioni vergognose per screditare e colpire gli scienziati che denunciavano la pericolosità del suo prodotto, tacendo su studi di criticità che lei stessa aveva commissionato. E il tenace avvocato del giardiniere Dewayne Johnson, ha potuto così dichiarare che “la Monsanto ha combattuto la scienza”. E quando non l’ha combattuta, come rivelano le intercettazioni pubblicate nell’inchiesta Monsanto Papers, l’ha inquinata, pagando con vagonate di dollari dei prestanome perché pubblicassero come propri, studi fasulli preparati in realtà dalla stessa azienda su dati inventati di sana pianta. Un clima talmente scorretto in cui rimane difficile attenersi ai fatti o agli studi scientifici ma che si è rivelato un fertile terreno solo le teorie complottistiche. A tirare colpi bassi, infatti, si sono fatte avanti anche aziende che commerciano in prodotti per l’agricoltura alternativi al glisolfato che hanno finanziato altri studi, se non fasulli quantomeno pilotati, in cui si dimostrava la tossicità del diserbante targato Monsanto!
Una vera guerra senza esclusione di colpi in cui la prima vera vittima è stata la scienza. 

Ma, anche nel caso del glifosato, rimane comunque la difficile questione di tradurre in una sentenza o in una legge quello che uno studio scientifico definisce “probabile” pericolosità. La domanda è: fino a che punto vogliamo rischiare con la nostra salute? Negli Usa, una sostanza può essere commerciata liberamente sino a che non se ne dimostra la pericolosità. In Italia, vale il - sacrosanto! - principio di precauzione: fino a che non si dimostra che un prodotto non fa male alla salute, non può essere commercializzato. Ed infatti, proprio in ottemperanza a questo principio, l’uso del glifosato è tutt’ora vietato nei parchi, nei giardini delle scuole e degli ospedali ed anche nel verde urbano grazie ad un decreto cautelativo del ministero della salute entrato in vigore il 22 agosto 2016. Questo è il motivo per il quale città che ne facevano un ampio uso, come Bolzano - per citare un caso che ho verificato personalmente - che vantavano viali fioriti ed una cura impeccabile dell’arredo urbano, si sono trovate di punto in bianco coperte di erbacce! I giardinieri si son attrezzati con roncole e falci e han fatto quello che potevano, ma l’organico non era sufficiente per fare a meno di un, comodo ma potenzialmente pericoloso, alleato come l’usatissimo glifosato.

Di diverso avviso l’Europa. Nel novembre 2017 i delegati dell’Unione hanno votato a favore del rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione all’uso del diserbante incriminato. E ora che la Monsanto è diventata di proprietà della tedeschissima azienda Bayer, la vediamo difficile che si faccia retromarcia!

Ma oltre alla solita questione sulla difficoltà di sposare scienza - che per sua natura ragiona solo in termini probabilistici - e giurisprudenza - che deve esprimere pareri certi -, la questione glifosato investe una serie di pesantissimi interessi di natura squisitamente economica e politica.
Il glifosato è una porta aperta per gli organismi geneticamente modificati. Nelle coltivazioni transgeniche infatti, è stata introdotta una definitiva resistenza al questo diserbante. Come dire che, sparando questo prodotto sopra un campo Ogm, bruci tutto tranne le piante ogm. Ammettiamolo: una bella comodità! Non è un caso che la coalizione Stop Glifosate abbia fatto della sua lotta a questo diserbante un simbolo della lotta agli ogm ed all’agricoltura industriale. Proprio la Monsanto prima, e la Bayer dopo, hanno fatto di questo abbinamento - ogm e glisolfato - il punto di forza della loro campagna per l’agricoltura transgenica.

Considerata la crisi in cui versa l’agricoltura convenzionale, sempre meno sostenuta finanziariamente dalla Comunità Europea, le strade sul futuro che si aprono sono solo due: il transgenico o la sua rivale per eccellenza, l’agricoltura biologica. Ed è per questo che bisogna dire stop al glifosato. Non solo in virtù del principio di precauzione. Il fallimento del modello di produzione agricola industriale, che oramai si sostiene solo grazie ai piani di Sviluppo Rurale, deve spingerci a cercare una nuova strada. Una strada che porta alla sostenibilità ambientale ed ai bassi consumi energetici, basata sulla tipicità del prodotto con filiera a chilometri zero. Una strada che ci allontana dal baratro in cui vorrebbero farci precipitare le multinazionali che spingono verso la facile soluzione del transgenico, della coltura intensiva, del consumo privatizzato dell’acqua e delle risorse, per una agricoltura nemica dell’uomo, nemica della terra.

Spoiler Protection 2,0: l'app che fa sparire il ministro "Ruspa" dalla tua pagina social e ti salvaguardia il fegato

Anche voi non ne potete più di aprire la vostra pagina social e di vedervi sparare in faccia le ultime razzistate del nostro poco amabile ministro degli Interni? Sì, d'accordo. I commenti che leggete sotto, quelli dei vostri "amici" di Facebook - altrimenti non sarebbero vostri amici di Facebook - sono tutt'altro che favorevoli a Mister Ruspa, Matteo Salvini. C'è chi si indigna, chi ne sfotte l'ignoranza, chi sottolinea la deragliata fascista in cui sta spingendo il Paese, chi posta "not in my name" per ricordargli che gli italiani non sono tutti con lui. C'è anche chi lo denuncia, chi organizza presidi, chi scende per strada e chi sale in barca. Come oggi, a Venezia, dove un gruppo di ragazze e ragazze ha occupato il pontile della Regione Veneto. Tutte ottime iniziative di resistenza civile, per carità! Fatto sta che la bacheca di chi, come me, segue più la politica che il gossip o il calcio, straripa di immagini, notizie e segnalazioni che riguardano tutte lui: il signor Ruspa. Tanto per fare un esempio, ho appena aperto la mia pagina social e, solo nei primi dieci post, quattro mi piazzavano in bella mostra, e senza avviso "solo per stomaci forti" il faccione del nostro vice (?) premier che, per dirla soft, non mi ispira particolari moti di simpatia. Che vi devo dire, allora? Non so voi, ma io non lo reggo più e sto cominciando a rimpiangere quei bei post di una volta pieni di gattini che ruzzolavano su un gomitolo di lana!

Anche perché, il personaggio in questione usa i social proprio come un battaglione di carri armati in una guerra mondiale e ci bombarda come neanche fossimo una Guernica sotto l'aviazione nazifascista. Pur di non fare il ministro dell'Interno, che gli toccherebbe affrontare temi da niente, tipo la mafia, la violenza sulle donne, il razzismo dilagante o la collusione tra il capitalismo e le Grandi Opere, il nostro Matteo spara come una mitragliatrice su cose che non esistono ma che, proprio grazie ai social, ci fa credere che esistano. Lui dice che siamo invasi da milioni di clandestini che delinquono, ad esempio, che c'è in atto una sostituzione etnica e che vogliono imporci l'islamismo, compreso l'uso dei numeri arabi nelle scuole. Anzi, nelle "squole", scritto alla leghista. Che poi non sia vero niente, non conta un benamato piffero. Siamo nell'era della "percezione del rischio" dove ci si laurea in ingegneria con due tweet, con tre post su Fb sai tutto sui vaccini e quello che dice la scienza vale meno di quello che racconta la madonna alle veggenti di Medjugorie. Perché la scienza se la sfangano in pochi, mentre Medjugorie è sempre piena di fedeli, e la democrazia maggioritaria conterà pure qualcosa, o no? Qualcuno l'ha chiamata l'era della post verità, e il nostro ministro ci sguazza come un sorcio in una fogna.
Ma come possiamo fare allora, per tornare a vedere romantici gattini e non sorci sparaballe nella nostra pagina Facebook? Il rimedio è semplice. Magari non risolutivo del problema in sé, perché non ci spedisce il ministro a far la pacchia in un lager libico, ma comunque efficace per farci stare un po' tranquilli e farci aprire Fb senza che ci si chiuda le stomaco.

Il rimedio si chiama Spoiler Protection 2.0 e lo si scarica facilmente dalla rete. Una volta lanciato, basta inserire la parola chiave "Salvini" come termine da evitare come la peste nera durante la navigazione, ed il gioco è fatto. Non vedremo mai più il suo faccione incarognito che sbraita contro zingari, clandestini, froci, ebrei, comunisti e quei violenti dei centri sociali nelle nostre pagine.

L'idea è stata lanciata dal giovane scrittore trentino Mattia Zadra che invita tutti ad "eclissare" - questo è il termine da lui romanticamente scelto - il ministro Ruspa e le sue sparate usando questo filtro per il browser. "Grazie a questo tool sono riuscito a eclissare tutti i post che contenevano il suo nome sul mio newsfeed di Facebook e Twitter - ha spiegato Mattia -. Al ministro interessa solo fare rumore e, paradossalmente, anche chi inveisce contro di lui finisce col fare il suo gioco ed alimenta una guerra fatta di commenti saturi di odio, ignoranza e disinformazione che va tutta a suo vantaggio".

Spoiler Protection 2.0 è un programma nato con scopi assai più nobili che oscurare il Salvini. Lo usano gli appassionati delle serie Tv per evitare di leggere nella propria bacheca, prima dell'uscita dell'attesissima puntata, se Daenerys Targaryen siederà sul Trono di Spade o se sarà uccisa dalla malvagia Cersei Lannister. Insomma, l'app è stata studiata per bannare, per l'appunto, gli spoiler cinematografici. Ma Mattia ci assicura che è efficace anche per bannare il Salvini: "Appena l'ho attivato, mezza bacheca di Facebook mi è scomparsa! I post che parlavano del ministro sono stati coperti da un velo rosso. Non è mia intenzione, naturalmente, barricarmi in una beata ignoranza. Ma l'informazione vera, per me, passa dai giornali e non dai social. Ora, finalmente, posso tornare a usare Fb e Twitter come facevo un tempo senza rovinarmi la salute".


Secondo Mattia Zadra questa scelta, oltre che salvaguardare il nostro povero fegato, contribuirebbe a contrastare una politica che oramai è fatta solo di insulti. E sul fegato possiamo anche essere d'accordo. Sul secondo punto, qualche perplessità ce l'abbiamo. I social non sono pensati per discussioni approfondite e tanto meno per un confronto sereno e democratico. Inoltre, si stanno "stagnandizzando" sempre di più. Ognuno, nella propria bacheca, segue e commenta solo chi la pensa come lui e vi trova conforto e avallo delle proprie opinioni, anche se crede che la terra sia piatta. Su Twitter e su Facebook, soprattutto, viviamo ognuno dentro la propria tribù, abbia essa come feticcio post di gattini arruffati, di campioni di calcio o di draghi abbattitori di imperi. Chi ama il Ruspa continuerà a santificare tutto quello che gli esce di bocca come se fosse il sangue di san Gennaro, anche se tutte le nostre bacheche si tingessero di rosso. Mattia ritiene che, senza una risposta che faccia da eco, i toni esacerbati senza i quali il Ruspa non saprebbe condire nessun discorso, perderebbero efficacia. Un po' come i musulmani di Bosnia che, prima della guerra dei Balcani, rispondevano pacatamente alle provocazioni dei nazionalisti serbi con un "bisogna essere in due per litigare". Poi è andata come è andata.


Magari sbaglio io ma, sino a che il fegato mi tiene, non userò Spoiler Protection nel mio brownser, pure se continuerò ad evitare di rispondere con insulti agli insulti, ed anche di confrontarmi democraticamente con persone che "democrazia" non sanno neppure come si scrive. Ripensandoci però, l'idea di Mattia però, non era affatto male. Adesso corro a vedere se c'è un app che faccia sparire il Ruspa. Ma dalla faccia della terra, però!

Storie dentro e oltre i muri

«Coltivavo patate e ora coltivo migranti. E' molto più remunerativo». Perché questo sono i profughi: una merce. Una merce come tante altre. Raffaello Rossini, documentarista e regista, tra le altre cose, del documentario dal significativo titolo La merce siamo noi, ricorda così le testimonianze dei contadini della valle della Bekaa, a una trentina di chilometri da Beirut, che affittano i loro terreni alle famiglie siriane che fuggono dalla guerra. 
«La valle è coperta di tendopoli dove i profughi siriani, nell'indifferenza più completa del governo libanese, si sforzano di tenere una vita il più possibile normale. Pagano affitti altissimi sia per la terra che occupano che per le tende e i materiali che utilizzano. Sono anche una forza lavoro non indifferente perché, per non essere sfrattati, finiscono per lavorare a bassissimo costo nei campi che circondano le loro tendopoli. Nessuno può dire quanti sono perché il governo libanese ha vietato altri censimento da parte dell'Unhcr, dopo aver raggiunto la cifra di un milione e mezzo di rifugiati, un paio di anni fa. Nessuno dà loro nulla, né assistenza sanitaria, né scuole. E' gente che non esiste. Gente che non altro futuro se non non quello di morire in silenzio, coltivando il sogno, sempre più impossibile, di ritornare un giorno nella loro terra distrutta».

Raffaello Rossini ha portato la sua testimonianza all'incontro di Sherwood Open Minds, svoltosi giovedì 21 giugno aSherwood Festival. Il tema dell'incontro era "Storie dentro e oltre i muri. Sui sentieri dei migranti verso l'Europa e gli Stati Uniti". Un titolo che ben riassume il percorso che movimenti e associazioni hanno intrapreso qualche anno fa, con le prime carovane in Ungheria. Un lungo viaggio che è stato chiamato OverTheFortress, oltre la fortezza. Un lungo viaggio ancora tutto da concludere che ha l'obiettivo di raccogliere storie e costruire narrazioni migranti, per non rassegnarsi ai linguaggi dell'odio e della disinformazione oggi imperanti, per costruire campagne e iniziative di sostegno, e per "mettere benzina" nei motori di tutti i movimenti che, in Italia come all'estero, continuano a lottare per i diritti umani, contro un capitalismo che, ogni giorno che passa, somiglia sempre di più a una rapina a mano armata. 
Al dibattito, coordinato da chi scrive, è intervenuta Marta Peradotto, portavoce di Carovane Migranti, che ha raccontato degli incontri in Tunisia, in occasione della quarta carovana per i diritti dei migranti, con le madri e dei padri degli scomparsi in mare. «Impossibile non tracciare un parallelo tra i migranti dispersi nel Mediterraneo con i migranti che scompaiono, o meglio, che sono fatti scomparire, nella frontiera tra Usa e Messico. Abbiamo assistito a vari incontri tra le madri centroamericane e quelle tunisine. Tutte hanno ribadito che è venuto il momento di passare dalla lacrime alla lotta, perché non accada ai figli di altre madri quello che è successo ai loro figli». 
A chiudere l'incontro, Matteo De Checchi del collettivo Mamadou che costruisce spazi comuni in una zona di vera frontiera con la legalità come Rosarno. Matteo ha parlato del muro invisibile che abbiamo a casa nostra. Quel muro che vorrebbe impedirci e, soprattutto, di farci indignare per lo sfruttamento cui sono sottoposti i migrati, schiavizzati come braccianti a pochi ero l'ora. «Una responsabilità che non può essere limitata ai padroni dei campi o al caporalato, ma che si interseca anche con la grande distribuzione e coinvolge direttamente le amministrazioni e la politica». Quella stessa politica che preferisce nutrirsi di insulti e di richiami a emergenze che non ci sono, per distrarre l'opinione pubblica su questioni assai più pericolose come le infiltrazioni mafiose nei Comuni e nelle amministrazioni regionali. Quella stessa politica che ha fatto dei migranti una merce e che ha innalzato quei muri che non saranno né un freno né una soluzione, quanto piuttosto una concausa del problema.

Chi inquina l’acqua, uccide l’umanità. Nella giornata dei Crimini Ambientali, i cittadini avvelenati dai Pfas circondano la Miteni

Tante strade quelle che, nella giornata di ieri, hanno portato a Trissino movimenti, associazioni, spazi sociali, gruppi ambientalisti, cittadini stanchi di farsi avvelenare in silenzio. Tante strade che procedono verso una unica direzione e con un unico obiettivo: difendere la terra e l’ambiente in cui viviamo perché noi stessi siamo l’ambiente in cui viviamo. E se si ammala la terra, si ammala l’umanità.
Ieri, domenica 22 aprile, a Trissino, si è svolta la Giornata Contro i Crimini Ambientali. E quale piazza poteva essere migliore che lo spazio davanti la Miteni, la fabbrica della morte che per anni, nel silenzio complice di chi doveva controllare e non ha controllato, ha avvelenato le falde acquifere di mezzo Veneto?
All’appuntamento di lotta e di informazione, si sono presentati in tanti. Tra i duemila e i duemila cinquecento, secondo gli organizzatori. Non soltanto associazioni o i cittadini che per primi hanno denunciato la presenza di Pfas – i pericolosi composti perfluoroalchilici – nell’acqua che esce dal rubinetto di casa, ma anche movimenti ambientalisti dal respiro più ampio come GreenPeace, Legambiente, nominati Acqua Bene Comune, Medici per l’Ambiente, No Navi, reti Gas, associazioni contro la Tav e la Pedemontana, Salviamo la Val d’Astico, le guerriere ed i guerrieri delle Climate Defense Units con le loro maschere di Angry Animals, animali arrabbiati, e tante altre realtà ancora. Tutte accanto alle Mamme No Pfas che per prime hanno preso la parola nel palco antistante la Miteni, difesa, ancora una volta, da un cordone di polizia.
«Abbiamo cresciuto i nostri bambini mettendoci tutto il nostro impegno perché fossero sani, li abbiamo difesi dalle malattie ma non abbiamo pensato a difenderli dall’acqua che bevevano, Ma come potevamo noi pensare che proprio l’acqua che è vita, fosse pericolosa? Ora nel loro segue ci sono percentuali di Pfas da 10 a 40 volte superiori ai valori accettabili».
«Noi siamo gli animali arrabbiati – spiega un portavoce dei Climate Defense -,  simbolo della rivolta di una natura di cui facciamo parte indissolubilmente, la Mitemi è solo una delle tante opere che devastano i territori. Il Veneto, in particolare, è la nuova Terra dei Fuochi tra Pedemontana e Val d’Astico. Un biocidio cui diciamo: Basta! Oggi siamo di fronte ad un movimento di ribellione che, pur nella sua diversità, si è posto obiettivi comuni contro le lobby dell’affarismo che stanno trasformando terra, acqua, paesaggio, ambiente, salute e la nostra stessa vita in merce. Costruiamo tutti assieme un nuovo immaginario che metta al centro la nostra salute e la salute dell’ambiente contro chi vuole ricavare profitto dalle malattie».
Tante le realtà che prendono la parola sul palco, intervallate dalla musica della chitarra che intona la canzone “No Pfas”. Tante realtà di movimento e pochi rappresentanti delle amministrazioni. Gli unici Comuni rappresentati con la fascia tricolore erano quelli di Lonigo e di Legnago.
Su palco sale Marzia, vestita da ape che invita tutti i cittadini ad essere operosi e attivi come le api. E magari anche  pungere, quando necessario. Legambiente ricorda gli operai della Miteni, nel cui sangue sono presenti le percentuali più alte di Pfas. «Abbiamo chiesto il disastro ambientale e qualcosa si sta muovendo anche nelle istituzioni, ma fino a che la fabbrica e tutta l’area non sarà bonificata, non se ne esce».
Chiusura immediata della fonte di inquinamento sotto il principio di “chi inquina paga”, è quanto chiedono anche le Mamme No Pfas di Arzignano. «Accertiamo le responsabilità di chi ha inquinato ma anche di chi ha taciuto. Vogliamo inoltre l’adozione del principio di precauzione anche nelle nostre scuole. Ai bambini oggi non può essere data da bere l’acqua del rubinetto».
Luca di Acqua Bene Comune plaude al nuovo modo di far politica delle Mamme No Pfas e si augura che ne prendano esempio anche i politici di mestiere. Claudia porta la voce del recente convegno di Medicina Democratica: «Inquinare le acque è un crimine ambientale. Non facciamoci ingannare da false promesse. C’è una sola soluzione: chiudere le fabbriche inquinanti».
Una mostra di oltre 150 metri di fotografie e di pannelli scientifici fa da cornice agli stand con materiale informativo messi in campo dalle associazioni. L’aria che si respira è quella della grande festa ambientalista. Sul palco, l’ultimo intervento è di Claudio Lupo di Medici per l’Ambiente. «L’inquinamento delle falde non è solo una problematica idrogeologica. Noi esseri umani siamo acqua. Chi uccide l’acqua, uccide noi».
La giornata si chiude con musica e festa ma prima c’è l’azione contro la Miteni. La fabbrica viene circondata dalle attiviste e dagli attivisti che formano una grande catena umana seguendo gli Angry Animals che guidano il corteo illuminando la Miteni con grandi fumogeni colorati. É la chiusura simbolica di un impianto che produce morte da parte di una umanità che vuole continuare a vivere.

Inquinare è gratis. Anzi, di più: un vero business. Un rapporto del Climate Action Network denuncia l'imbroglio del sistema Ue sullo scambio di quote di emissione

"Carbon Fat Cats" è il nome che gli ambientalisti del Climate Action Network hanno scelto per il loro studio. Nome che richiama quei grossi e grassi gattoni di casa che se ne stanno in panciolle sul divano tutto il santo giorno, preoccupandosi solo di dormire e rimpinzarsi di crocchette al salmone. Un paragone senza dubbio divertente ma che non calza sino in fondo, perché, quanto meno, questi tranquilli animali non creano danni all'ambiente e non condizionano la politica energetica europea. Come invece fanno le industrie ad altro consume energetico che sono le vere protagoniste del rapporto. Industrie che sono riuscite a ribaltare a loro vantaggio un sistema europeo come quello dello "scambio di emissioni" (Ets) che era stato studiato proprio per incentivare l'uscita sia pur graduale dai fossili, sotto il principio di "chi più inquina, più paga".
Ricordiamo brevemente che l'Ets è stato approvato dall'Unione Europea sotto la spinta di Cop 21, ai fini di contrastare la produzione di gas climalteranti e rientrare sotto la famosa soglie dei 2 gradi di aumento della temperatura rispetto ai tempi pre industriali. L'idea dei legislatori europei è stata quella di aprire una sorte di mercato libero dell'inquinamento che doveva funzionare così: stabilito un tetto limite per ogni categoria di industrie, chi inquina di meno può vendere le sue "quote" di emissioni risparmiate a chi inquina di più che deve così acquistarle. Questo meccanismo avrebbe dovuto incentivare le industrie più energicamente insostenibili a convertire la loro produzione in una filiera verde, a bassa emissione di carbonio, se non per amore dell'ambiente, perlomeno per una questione economica.

Tutti buoni propositi rimasti sulla carta. Il costo delle quote determinato dal mercato libero è stato talmente basso da non essersi rivelato di nessun stimolo per avviare produzioni meno climaticamente impattanti. Ma non solo. I Governi europei, preoccupati, o ricattati, dalla eventualità di possibili delocalizzazioni verso l'Est delle industrie pesanti, hanno varato politiche di defiscalizzazione e deroghe ai tetti di emissione. Deroghe pensate per evitare impatti diretti all'economia locale ma che, con la sempiterna giustificazione della "crisi economica", si sono trasformate in norme consolidate. Soltanto tra il 2008 e 2015, si legge su Fat Cats, i Governi europei hanno complessivamente regalato circa 143 miliardi di "deroghe gratuite". In altre parole, da un lato l'Europa chiede alle industrie di inquinare di meno imponendo severe quote limite, dall'altro incentiva defiscalizzando questo inquinamento - senza che, per altro, ci sia un equivalente politica fiscale per le aziende green - e, per non turbare i mercati asfissiati dalla crisi, paga di tasca sua le quote di sforamento. Volete un esempio? E' come se un vigile ti multasse per un divieto di sosta ma poi pagasse di tasca sua la multa e, in più, ti facesse un forte sconto sul bollo auto!

Un comportamento non solo economicamente ed ambientalmente insostenibile ma anche incomprensibile che si spiega soltanto come un evidente segnale della Comunità Europea di non voler davvero abbandonare i fossili ed avviare una vera transizione verso energie pulite. Segnale ribadito anche dalla recente decisione comunitaria di mantenere i discussi sussidi alle centrali a carbone, compreso quelle vecchie e altamente inquinanti, sino al 2030.

Con queste premessi, inquinare sarà davvero il business del futuro!

Bloody Money. Il valore sociale dell'inchiesta che attacca l'«oscura terra di mezzo»

Con una inchiesta giornalistica sono riusciti a fare quello nessuno è riuscito a fare prima. Portare in piena luce un sistema, tanto nascosto quanto consolidato di intrecci tra mafia e Stato, tra imprenditoria e politica che sta alla base delle cosiddette ecomafie. Un sistema corrotto e corruttore che troviamo alla base tanto della gestione dei rifiuti quanto delle grandi opere come il Mose o le bonifiche. Una " oscura terra di mezzo" come l'hanno definita loro, dove l'ambiente e la salute sono merci da vendere e comprare. Stiamo parlando dei reporter del giornale on line FanPage e della loro inchiesta in sette puntate Bloody Money, denaro insanguinato. Partiti dalla Campania e dalle speculazioni assassine perpetrate nella Terra dei Fuochi, i giornalisti di FanPage, nella quarta puntata, l'ultima pubblicata, sono arrivati nel Veneto, e precisamente a Porto Marghera. Ed è proprio qui, al cso Rivolta che, venerdì 9 marzo, incontriamo Antonio Musella, giornalista di FanPage e uno degli autori dell'inchiesta, in occasione di una iniziativa pubblica alla quale ha partecipato anche un altro personaggio che da sempre si è speso nelle denunce e nella lotta al malaffare che, oggi come ieri, ruota attorno alle bonifiche e alla salvaguardia della laguna, Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità


Come è nata questa inchiesta?

Antonio Musella - Tutto parte da una collaborazione che Fan Page ha avviato con il pentito Nunzio Carrella, un boss della camorra che potremmo definire come l'inventore delle ecomafie. Lo stesso ex procuratore antimafia Franco Roberti lo ha utilizzato per fare luce su tante inchieste. Noi ci siamo letti le carte procedurali e abbiamo deciso di dare fiducia a questo pentito. La prova che non fosse un millantatore ce l'ha data lui stesso quando ci ha portato in un campo vicino a Ferrara raccontandoci che in quel luogo era stato smaltito illegalmente una grossa quantità di amianto. Noi abbiamo preso le pale e abbiamo scavato sino a trovare i rifiuti tossici. Abbiamo avuto la prova quindi, che Carrella diceva la verità e gli abbiamo posto questa domanda: cosa farebbe oggi se volesse tornare in attività? Lo abbiamo quindi seguito per tutta Italia con una telecamera nascosta mentre riprendeva contatto con i suoi vecchi intermediari con una facilità che ci ha lasciato allibiti. Si è fatto avanti di tutto: eserciti di faccendieri, politici corrotti, mafiosi, imprenditori interessati solo al guadagno, burocrati venduti.


Come rispondete alle critiche che sono state sollevate sul vostro modus operandi?


Antonio Musella - Ci hanno accusato di usare metodi non consoni come l'agente provocatore. Ci hanno detto di aver ostacolato le indagini. Ma noi facciamo i giornalisti e non i magistrati. Abbiamo sempre correttamente avvisato la Procura dei nostri movimenti. Noi di Fan Page siamo convinti che il lavoro sociale che abbiamo costruito e i risultati che abbiamo raggiunto siano più importanti di queste critiche. Siamo stati i primi a rimanere sconvolti dai dialoghi che abbiamo registrato, da meccanismi di corruzione così palesi e dal cinismo con cui intere aree venivano avvelenate solo per lucro. Ci hanno anche accusato di aver fatto uscire tutto sotto elezioni, a scopo spiccatamente propagandistico. Non è vero. Abbiamo pubblicato l'inchiesta solo perché erano saltate le coperture e fare uscire tutto alla luce era la nostra unica difesa. 


Bloody Money parte dalla Campania, dalla Terra dei Fuochi, per approdare nel Veneto, alle bonifiche di Porto Marghera. Dove è peggio?


Antonio Musella - Subito dopo aver messo in scena il finto ritorno in attività del Carrella, il telefono che abbiamo usato come riferimento è diventato bollente. La chiamate arrivavano da tutta Italia. Campania e Veneto facevano la parte del leone. Ma ti direi che è l'Italia intera che è messa male. L'ambiente e la sua tutela sono temi semplicemente estromessi dall'agenda politica. Ne avete mai sentito parlare in queste ultime elezioni? Qui siamo a Venezia. Lo scandalo Mose ha fatto la storia della città ma ancora l'opera prosegue. Le bonifiche di Porto Marghera sono un altro scandalo a cielo aperto. Il problema è che c'è una oscura terra di mezzo, tra mafia, imprenditoria, politica e apparati dello Stato, dove la sola cosa che conta è fare business. Non importa come. Non importa se avveleni l'ambiente. Contano solo i soldi che si ricavano e conta ricavarli in fretta. 


Gianfranco Bettin - Lo smaltimento dei rifiuti è stata il principio di tutte le ecomafie. E' sbagliato pensare che questa storia che parta dal sud Italia. Al contrario, la storia nasce proprio qua, a casa nostra. Il primo smaltimento illegale è quello che le mafie hanno portato a termine a San Giuliano. Ricordo un intervista proprio al Carrella in cui un giornalista gli chiede se sono venuti a nord per mettere a sistema la procedura e lui gli risponde: "No. Noi siamo venuti ad imparare". Il cinismo con il quale l'inquinamento viene trasformato in un affare lucroso, e chi se ne frega se poi la gente ci muore, è stato inventato a casa nostra. Nel sud, casomai, ha incontrato la criminalità organizzata e ne è nato un matrimonio proficuo per entrambi. Direi che, più che le stragi, dove le responsabilità sono oramai chiare, il nido di serpenti che avvelena l'Italia, tra burocrati di ministeri, politici, imprenditori, massonerie e mafiosi, oggi sta tutto qua. Un cuore di tenebra che non è ancora stato esplorato. 


Una intermediaria di cui raccontate nella vostra inchiesta, Maria Grazia Canuto, afferma che a Venezia, con questa amministrazione, oggi il terreno è favorevole. Cosa ne pensate?


Gianfranco Bettin - Il primo segnale che ha dato l'attuale amministrazione, cioè cancellare il parco della laguna che avrebbe avuto il compito di vigilare su questo tema e tutelare l'ambiente e la salute, non depone certo a favore della trasparenza. Ma credo anche che sia ingenuo pensare che un sindaco possa impedire questa deriva. Gli scandali legati alle grandi opere ci insegnano proprio questo. Pensiamo alle bonifiche di Porto Marghera. Il denaro ottenuto sulla pelle di un territorio che ha pagato un prezzo terrificante in termini di inquinamento e di vite umane, e che doveva servire per la messa in sicurezza dello stesso territorio, è stato drenato verso un'opera devastante per l'ambiente come il Mose. Tutto ciò, senza che gli enti locali potessero intervenire. Anche per questo ol nostro Paese è messo male. Sono caduti i presidi locali e anche una amministrazione attenta, cosa che questa non è, non sarebbe una garanzia. Venezia? Al suo confronto, la Chicago di Al Capone è Disneyland. Tutte le attività più importanti economicamente sono in mano ad organizzazioni criminali: la salvaguardia, il Mose ed anche il turismo. Vedi la presenza di Cosa Nostra al Tronchetto. 


Antonio Mugella - Il rapporto tra ambiente e attività produttive, in Italia, è sempre stato predatorio. E' questa la storia della nostra imprenditoria e non si scappa. E questo vale anche per le aziende, tipo la Montedison, a partecipazione statale. Ho un terreno vuoto? Allora lo devo far fruttare al massimo. E se per farlo devo passare attraverso un faccendiere legato alla mafia, pazienza. E se poi quel terreno avvelenerà migliaia di persone innocenti, non sono fatto miei. Sono anche d'accordo con Gianfranco che la possibilità degli enti locali di opporsi e di contrastare questo malaffare che inquina oltre all'ambiente anche la stessa politica, sono scarsissime. C'è stato un furto sistematico di competenza proprio per aprire la strada a questa sorta di industria dell'inquinamento così remunerativa economicamente. Come difendersi allora? L'antidoto migliore resta sempre la mobilitazione dal basso. Così come avete fatto per lo stoccaggio di rifiuti industriali che avrebbe trasformato Marghera nella pattumiera più inquinata ed inquinante d'Italia.

D’Alpaos: “Scandali e arresti non sono serviti a nulla. La salvaguardia è tutt’ora ostaggio della politica delgi affari”

Pubblico della grandi occasioni, questo o pomeriggio in sala San Leonardo, Venezia, per Luigi d'Alpaos. Il noto ingegnere e docente emerito di idraulica dell'ateneo patavino, era l'ospite d'onore dell'incontro organizzato dal comitato No Grandi Navi sul tema "Sos Laguna". Iniziativa che ha aperto ufficialmente la mostra multimediale, liberamente visitabile nella sala, dedicata alla salvaguardia della laguna di Venezia e al difficile problema di conciliare salvaguardia dell'ecosistema e la portualità.
D'Alpaos, come sua consuetudine, ha tenuta desta la platea con grafici e tabelle, sostenendo con dati e rilevazioni sperimentali le sue tesi.
La sua prima considerazione è stata che troppo spesso vengono confuse e mescolate senza criterio tra aspetti diversi inerenti la gestione della nostra laguna: difesa dalle acque alte, salvaguardie e portualità. 

Ognuno di questi aspetti, spiega D'Alpaos, meritano una analisi specifica, in particolare in condizioni critiche come una eventuale chiusura delle bocche di porto. Problemi squisitamente scientifici ma che sono stati sempre messi in secondo piano dalla politica. O meglio, da una politica asservita al partito degli affari.
"Sono oramai trascorsi quattro anni dallo scandalo che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici del Consorzio Venezia Nuova. Sono arrivati i commissari. Tre commissari. Sarebbe stato preferibile uno solo, in modo da avere un referente certo e una responsabilità certa, Ma ne hanno voluto tre. Ad ognuno di loro sono stati affiancati tre cosiddetti suggeritori. Cosa è cambiato? Possiamo dire oggi con assoluta certezza che i problemi della salvaguardia restano, oggi come nel passato, sempre nello sfondo. Qualche magari vengono anche ricordati in qualche intervista, ma sono comunque secondari".
In quanto alla decisione del Governo di eliminare la figura istituzionale del Magistrato alle Acque, commenta D'Alpaos, "è stata un grave errore. I governanti hanno confuso l'istituzione con il mal operato delle persone che tra l'altro, loro stessi avevano messo dentro. Invece di sopprimere l'istituzione, meglio sarebbe stato metterla in grado di difendersi da una occupazione militare da parte della politica. Oggi come ieri, continuano a dominare i portatori di interessi privati che sostengono obiettivi funzionali a questi loro interessi, senza mai chiedersi quali siano le ricadute sull'ecosistema lagunare".

In altre parole, come gli ambientalisti hanno più volte ribadito anche in tempi non sospetti, quello che è marcio in tutto l'affare della salvaguardia, dal Mose alle bonifiche, non erano solo le mele ma tutto l'albero. Scandali ed arresti non hanno cambiato nulla.
"Doveva arrivare un'epoca nuova, ci hanno detto, ma sono arrivati soli i commissari e gli aiutanti dei commissari. E' stata soltanto la solita operazione gattopardesca. Il ministro si è vantato di aver messo degli uomini di fiducia. Sarebbe stato meglio degli uomini competenti in materia considerato che, quello che dovevano fare questi commissari era gestire una questione tecnici e scientifica".
Commissari che, spiega D'Alpaos, mancano tra le altre cose anche di tempismo, considerato che parlano quando non dovrebbero parlare e tacciono quando dovrebbero farsi sentire. Il brillante ingegnere idraulico ricorda un paio di esempi: il ventilato scavo di nuovi canali e la proposta di una chiusura differenziata delle bocche di porto.

Sulla prima questione, basterebbe ricordare i disastri conseguenti allo scavo del canal dei Petroli per rendersi conto che le autostrade d'acqua non sono compatibili con la morfologia lagunare.
In quanto alla chiusura differenziata, D'Alpaos ricorda che l'idea era già stata proposta al Comitatone "quando ancora questa era una istituzione seria, la scienza aveva il suo peso e davvero si ragionava di salvaguardia. Non come ora che è al massimo un Comitatino". Ipotesi interessante per quanto riguarda la difesa dalle acque alte ma improponibile per il gioco di correnti che si creerebbe ed i conseguenti movimenti di sedimentazioni.
Luigi D'Alpaos ricorda anche i dati e le previsioni di innalzamento del livello del mare studiate dall'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, premi Nobel per le fisica. Anche nella migliore delle ipotesi, quella devastante assurdità chiamata Mose sarebbe fuori gioco.

Dati e tabelle alla mano, l'ingegnere idraulico si è divertito a calcolare le ore in cui, in un ipotetico anno 2010, le bocche di porto dovrebbero rimanere chiuse. Se consideriamo lo scenario più auspicabile disegnato dall'ilcc, quello del contenimento della temperatura sotto i due gradi, in una stagione appena un po' ventosa, le bocche di porto saranno chiuse per circa sei mesi, Se poi dovesse avverarsi lo scenario peggiore, le porte dovrebbero rimanere sempre chiuse. E addio laguna.

"In queste condizioni come si fa a parlare di mantenimento della portualità? Chi è quell'armatore che manda una sua nave in porto chiuso per sei mesi all'anno e in balia di un po' di scirocco? Non c'è nulla da fare. E' tutta la filosofia con cui è stata realizzato il Mose che è sbagliata. Salvaguardia dalle alta maree e portualità sono inconciliabili tra di loro. E tutti coloro che si battono per far entrare le Grandi Navi in Laguna, magari scavando altri canali, sono destinati a rimanere delusi. Resta il perché di un progetto realizzato così male. Va bene incapacità, ma credo che nessuno poteva ignorare questi dati. Mi sono fatto l'idea che sapessero tutto sin dall'inizio e abbiano solo cercato pretesti su pretesti per prepararsi a quella grande abbuffata che altro non è stato il Mose".
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