In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Quel pasticciaccio brutto assai del glifosato Monsanto
4/09/2018EcoMagazine, Global Project
Duecento e ottantanove milioni di dollari di risarcimento. È costata cara alla Monsanto la sentenza del tribunale di San Francisco che ha sposato la tesi del giardiniere 46enne Dewayne Johnson, secondo cui la multinazionale non lo avrebbe informato correttamente sui rischi inerenti all’uso del glifosato. La Monsanto, come era prevedibile, ha già annunciato ricorso, ma la sentenza emessa questa estate, precisamente l’11 di agosto, rischia di spalancare le porte di penali miliardarie a tutte le altre cause di risarcimento per i danni causati dal glifosato. Ne sono in corso, nei soli Stati Uniti, quasi 5 mila. E questo è probabilmente uno dei motivi per i quali la Monsanto, sempre questa estate, è stata acquisita della Bayer per la cifra di “soli” 63 miliardi di dollari. La casa farmaceutica tedesca ha già deciso di cambiare il nome dell’azienda, oramai “sporcato” dalla cattiva fama che la multinazionale leader nella produzioni di ogm, si è ritagliata nella sua storia. E non solo per colpa del glifosato. La decisione dei giudici di San Francisco rimane comunque storica. Per la prima volta una corte di giustizia ha affermato che “il glifosato provoca il cancro”. Ma vediamo di approfondire la questione che, come sempre quando si tira in ballo scienza, giurisprudenze e, non ultimi gli enormi interessi economici che ci sono sotto, non può essere ridotta a bianchi e neri.
Innanzitutto, cosa è il glifosato? Si tratta di un potente diserbante non selettivo che viene assorbito dalla pianta tramite le foglie portandola velocemente al dissecamento. Diffusosi rapidamente a partire dagli anni ’70 in tutti i Paesi del mondo, sostituì rapidamente gli altri erbicidi in uso all’epoca in quanto questa sostanza si rivelava meno tossica per l’uomo ed inoltre, essendo facilmente degradabile, difficilmente arrivava ad inquinare le falde acquifere. Oggi è di gran lunga il diserbante più usato in tutto il mondo, sia nell’agricoltura che nel giardinaggio. In media, e considerando solo il peso del principio attivo, ogni ettaro coltivato ne consuma mezzo chilo all’anno. Nei soli Stati Uniti, con lo sviluppo delle coltivazioni transgeniche, strettamente collegato a questo diserbante, come vedremo più avanti, l’uso del glifosato è passato da 400 tonnellate nel 1974 alle 113 mila nel 2014.
Ovviamente, il fatto che negli anni ’70 si usavano diserbanti ancora più pericolosi ed inquinanti, non significa che il glifosato non comporti dei rischi comunque inaccettabili per la nostra salute. Ed infatti, la questione se questa sostanza causasse il cancro o meno, è stata subito sollevata da alcuni esperti. Le principali agenzie di regolamentazione si sono date battaglia difendendo tesi del tutto opposte sulla tossicità del pesticida in questione. Ma per ottenere un autorevole parere sulla pericolosità di questa sostanza, bisognò attendere il 2015 quando l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) dimostrò che tutti i precedenti lavori che assolvevano il glifosato era basati su dati forniti dalla Monsanto! Altre agenzie come l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e la Fao (Food and Agriculture Organization) successivamente difesero il glifosato dichiarando come “improbabile” una sua correlazione col cancro. Altre ancora, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dichiarato salomonicamente che il glifosato “non presenta potenziale genotossico” ma che comunque la sua “tossicità a lungo termine, la cancerogenicità, la tossicità riproduttiva e il potenziale di interferenza endocrina delle formulazioni devono essere chiariti”. Ancora la Iarc ha classificato questo diserbante nel gruppo 2A dei potenziali cancerogeni. Per dire, in compagnia delle carni rosse e delle emissioni delle fritture, mentre nel gruppo 1, più pericoloso, ci stanno le sigarette, le emissioni di raggi Uv e l’amianto.
Va considerato però che tutto questo bailamme riguarda solo il principio attivo del glifosato e non il prodotto in commercio e comunemente adoperato da agricoltori e giardinieri. Il brevetto esclusivo è scaduto nel 2001 ed ora sono molte le aziende che vendono glifosato, oltre alla Monsanto. Tutti questi prodotti, che fanno a gara l’un con l’altro per garantire un effetto ancora più efficace, si sono rivelati molto più tossici per la salute ed anche più inquinanti per l’ambiente, riuscendo, ad esempio, a raggiungere le falde acquifere come il principio attivo da solo non riesce a fare. Esemplare il caso di Pistoia, dove l’uso massiccio di questi prodotti sui vivai ha causato una percentuale di pesticidi nell’acqua superiore quasi al 30 per cento del consentito.
La guerra - ed uso questo termine a proposito! - che si è scatenata sopra il glifosato ha assunto aspetti che vanno ben oltre la corretta disputa scientifica. Monsanto, in più occasioni, ha messo in atto manipolazioni vergognose per screditare e colpire gli scienziati che denunciavano la pericolosità del suo prodotto, tacendo su studi di criticità che lei stessa aveva commissionato. E il tenace avvocato del giardiniere Dewayne Johnson, ha potuto così dichiarare che “la Monsanto ha combattuto la scienza”. E quando non l’ha combattuta, come rivelano le intercettazioni pubblicate nell’inchiesta Monsanto Papers, l’ha inquinata, pagando con vagonate di dollari dei prestanome perché pubblicassero come propri, studi fasulli preparati in realtà dalla stessa azienda su dati inventati di sana pianta. Un clima talmente scorretto in cui rimane difficile attenersi ai fatti o agli studi scientifici ma che si è rivelato un fertile terreno solo le teorie complottistiche. A tirare colpi bassi, infatti, si sono fatte avanti anche aziende che commerciano in prodotti per l’agricoltura alternativi al glisolfato che hanno finanziato altri studi, se non fasulli quantomeno pilotati, in cui si dimostrava la tossicità del diserbante targato Monsanto!
Una vera guerra senza esclusione di colpi in cui la prima vera vittima è stata la scienza.
Ma, anche nel caso del glifosato, rimane comunque la difficile questione di tradurre in una sentenza o in una legge quello che uno studio scientifico definisce “probabile” pericolosità. La domanda è: fino a che punto vogliamo rischiare con la nostra salute? Negli Usa, una sostanza può essere commerciata liberamente sino a che non se ne dimostra la pericolosità. In Italia, vale il - sacrosanto! - principio di precauzione: fino a che non si dimostra che un prodotto non fa male alla salute, non può essere commercializzato. Ed infatti, proprio in ottemperanza a questo principio, l’uso del glifosato è tutt’ora vietato nei parchi, nei giardini delle scuole e degli ospedali ed anche nel verde urbano grazie ad un decreto cautelativo del ministero della salute entrato in vigore il 22 agosto 2016. Questo è il motivo per il quale città che ne facevano un ampio uso, come Bolzano - per citare un caso che ho verificato personalmente - che vantavano viali fioriti ed una cura impeccabile dell’arredo urbano, si sono trovate di punto in bianco coperte di erbacce! I giardinieri si son attrezzati con roncole e falci e han fatto quello che potevano, ma l’organico non era sufficiente per fare a meno di un, comodo ma potenzialmente pericoloso, alleato come l’usatissimo glifosato.
Di diverso avviso l’Europa. Nel novembre 2017 i delegati dell’Unione hanno votato a favore del rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione all’uso del diserbante incriminato. E ora che la Monsanto è diventata di proprietà della tedeschissima azienda Bayer, la vediamo difficile che si faccia retromarcia!
Ma oltre alla solita questione sulla difficoltà di sposare scienza - che per sua natura ragiona solo in termini probabilistici - e giurisprudenza - che deve esprimere pareri certi -, la questione glifosato investe una serie di pesantissimi interessi di natura squisitamente economica e politica.
Il glifosato è una porta aperta per gli organismi geneticamente modificati. Nelle coltivazioni transgeniche infatti, è stata introdotta una definitiva resistenza al questo diserbante. Come dire che, sparando questo prodotto sopra un campo Ogm, bruci tutto tranne le piante ogm. Ammettiamolo: una bella comodità! Non è un caso che la coalizione Stop Glifosate abbia fatto della sua lotta a questo diserbante un simbolo della lotta agli ogm ed all’agricoltura industriale. Proprio la Monsanto prima, e la Bayer dopo, hanno fatto di questo abbinamento - ogm e glisolfato - il punto di forza della loro campagna per l’agricoltura transgenica.
Considerata la crisi in cui versa l’agricoltura convenzionale, sempre meno sostenuta finanziariamente dalla Comunità Europea, le strade sul futuro che si aprono sono solo due: il transgenico o la sua rivale per eccellenza, l’agricoltura biologica. Ed è per questo che bisogna dire stop al glifosato. Non solo in virtù del principio di precauzione. Il fallimento del modello di produzione agricola industriale, che oramai si sostiene solo grazie ai piani di Sviluppo Rurale, deve spingerci a cercare una nuova strada. Una strada che porta alla sostenibilità ambientale ed ai bassi consumi energetici, basata sulla tipicità del prodotto con filiera a chilometri zero. Una strada che ci allontana dal baratro in cui vorrebbero farci precipitare le multinazionali che spingono verso la facile soluzione del transgenico, della coltura intensiva, del consumo privatizzato dell’acqua e delle risorse, per una agricoltura nemica dell’uomo, nemica della terra.
Innanzitutto, cosa è il glifosato? Si tratta di un potente diserbante non selettivo che viene assorbito dalla pianta tramite le foglie portandola velocemente al dissecamento. Diffusosi rapidamente a partire dagli anni ’70 in tutti i Paesi del mondo, sostituì rapidamente gli altri erbicidi in uso all’epoca in quanto questa sostanza si rivelava meno tossica per l’uomo ed inoltre, essendo facilmente degradabile, difficilmente arrivava ad inquinare le falde acquifere. Oggi è di gran lunga il diserbante più usato in tutto il mondo, sia nell’agricoltura che nel giardinaggio. In media, e considerando solo il peso del principio attivo, ogni ettaro coltivato ne consuma mezzo chilo all’anno. Nei soli Stati Uniti, con lo sviluppo delle coltivazioni transgeniche, strettamente collegato a questo diserbante, come vedremo più avanti, l’uso del glifosato è passato da 400 tonnellate nel 1974 alle 113 mila nel 2014.
Ovviamente, il fatto che negli anni ’70 si usavano diserbanti ancora più pericolosi ed inquinanti, non significa che il glifosato non comporti dei rischi comunque inaccettabili per la nostra salute. Ed infatti, la questione se questa sostanza causasse il cancro o meno, è stata subito sollevata da alcuni esperti. Le principali agenzie di regolamentazione si sono date battaglia difendendo tesi del tutto opposte sulla tossicità del pesticida in questione. Ma per ottenere un autorevole parere sulla pericolosità di questa sostanza, bisognò attendere il 2015 quando l’International Agency for Research on Cancer (Iarc) dimostrò che tutti i precedenti lavori che assolvevano il glifosato era basati su dati forniti dalla Monsanto! Altre agenzie come l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e la Fao (Food and Agriculture Organization) successivamente difesero il glifosato dichiarando come “improbabile” una sua correlazione col cancro. Altre ancora, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dichiarato salomonicamente che il glifosato “non presenta potenziale genotossico” ma che comunque la sua “tossicità a lungo termine, la cancerogenicità, la tossicità riproduttiva e il potenziale di interferenza endocrina delle formulazioni devono essere chiariti”. Ancora la Iarc ha classificato questo diserbante nel gruppo 2A dei potenziali cancerogeni. Per dire, in compagnia delle carni rosse e delle emissioni delle fritture, mentre nel gruppo 1, più pericoloso, ci stanno le sigarette, le emissioni di raggi Uv e l’amianto.
Va considerato però che tutto questo bailamme riguarda solo il principio attivo del glifosato e non il prodotto in commercio e comunemente adoperato da agricoltori e giardinieri. Il brevetto esclusivo è scaduto nel 2001 ed ora sono molte le aziende che vendono glifosato, oltre alla Monsanto. Tutti questi prodotti, che fanno a gara l’un con l’altro per garantire un effetto ancora più efficace, si sono rivelati molto più tossici per la salute ed anche più inquinanti per l’ambiente, riuscendo, ad esempio, a raggiungere le falde acquifere come il principio attivo da solo non riesce a fare. Esemplare il caso di Pistoia, dove l’uso massiccio di questi prodotti sui vivai ha causato una percentuale di pesticidi nell’acqua superiore quasi al 30 per cento del consentito.
La guerra - ed uso questo termine a proposito! - che si è scatenata sopra il glifosato ha assunto aspetti che vanno ben oltre la corretta disputa scientifica. Monsanto, in più occasioni, ha messo in atto manipolazioni vergognose per screditare e colpire gli scienziati che denunciavano la pericolosità del suo prodotto, tacendo su studi di criticità che lei stessa aveva commissionato. E il tenace avvocato del giardiniere Dewayne Johnson, ha potuto così dichiarare che “la Monsanto ha combattuto la scienza”. E quando non l’ha combattuta, come rivelano le intercettazioni pubblicate nell’inchiesta Monsanto Papers, l’ha inquinata, pagando con vagonate di dollari dei prestanome perché pubblicassero come propri, studi fasulli preparati in realtà dalla stessa azienda su dati inventati di sana pianta. Un clima talmente scorretto in cui rimane difficile attenersi ai fatti o agli studi scientifici ma che si è rivelato un fertile terreno solo le teorie complottistiche. A tirare colpi bassi, infatti, si sono fatte avanti anche aziende che commerciano in prodotti per l’agricoltura alternativi al glisolfato che hanno finanziato altri studi, se non fasulli quantomeno pilotati, in cui si dimostrava la tossicità del diserbante targato Monsanto!
Una vera guerra senza esclusione di colpi in cui la prima vera vittima è stata la scienza.
Ma, anche nel caso del glifosato, rimane comunque la difficile questione di tradurre in una sentenza o in una legge quello che uno studio scientifico definisce “probabile” pericolosità. La domanda è: fino a che punto vogliamo rischiare con la nostra salute? Negli Usa, una sostanza può essere commerciata liberamente sino a che non se ne dimostra la pericolosità. In Italia, vale il - sacrosanto! - principio di precauzione: fino a che non si dimostra che un prodotto non fa male alla salute, non può essere commercializzato. Ed infatti, proprio in ottemperanza a questo principio, l’uso del glifosato è tutt’ora vietato nei parchi, nei giardini delle scuole e degli ospedali ed anche nel verde urbano grazie ad un decreto cautelativo del ministero della salute entrato in vigore il 22 agosto 2016. Questo è il motivo per il quale città che ne facevano un ampio uso, come Bolzano - per citare un caso che ho verificato personalmente - che vantavano viali fioriti ed una cura impeccabile dell’arredo urbano, si sono trovate di punto in bianco coperte di erbacce! I giardinieri si son attrezzati con roncole e falci e han fatto quello che potevano, ma l’organico non era sufficiente per fare a meno di un, comodo ma potenzialmente pericoloso, alleato come l’usatissimo glifosato.
Di diverso avviso l’Europa. Nel novembre 2017 i delegati dell’Unione hanno votato a favore del rinnovo per altri cinque anni dell’autorizzazione all’uso del diserbante incriminato. E ora che la Monsanto è diventata di proprietà della tedeschissima azienda Bayer, la vediamo difficile che si faccia retromarcia!
Ma oltre alla solita questione sulla difficoltà di sposare scienza - che per sua natura ragiona solo in termini probabilistici - e giurisprudenza - che deve esprimere pareri certi -, la questione glifosato investe una serie di pesantissimi interessi di natura squisitamente economica e politica.
Il glifosato è una porta aperta per gli organismi geneticamente modificati. Nelle coltivazioni transgeniche infatti, è stata introdotta una definitiva resistenza al questo diserbante. Come dire che, sparando questo prodotto sopra un campo Ogm, bruci tutto tranne le piante ogm. Ammettiamolo: una bella comodità! Non è un caso che la coalizione Stop Glifosate abbia fatto della sua lotta a questo diserbante un simbolo della lotta agli ogm ed all’agricoltura industriale. Proprio la Monsanto prima, e la Bayer dopo, hanno fatto di questo abbinamento - ogm e glisolfato - il punto di forza della loro campagna per l’agricoltura transgenica.
Considerata la crisi in cui versa l’agricoltura convenzionale, sempre meno sostenuta finanziariamente dalla Comunità Europea, le strade sul futuro che si aprono sono solo due: il transgenico o la sua rivale per eccellenza, l’agricoltura biologica. Ed è per questo che bisogna dire stop al glifosato. Non solo in virtù del principio di precauzione. Il fallimento del modello di produzione agricola industriale, che oramai si sostiene solo grazie ai piani di Sviluppo Rurale, deve spingerci a cercare una nuova strada. Una strada che porta alla sostenibilità ambientale ed ai bassi consumi energetici, basata sulla tipicità del prodotto con filiera a chilometri zero. Una strada che ci allontana dal baratro in cui vorrebbero farci precipitare le multinazionali che spingono verso la facile soluzione del transgenico, della coltura intensiva, del consumo privatizzato dell’acqua e delle risorse, per una agricoltura nemica dell’uomo, nemica della terra.
Spoiler Protection 2,0: l'app che fa sparire il ministro "Ruspa" dalla tua pagina social e ti salvaguardia il fegato
31/08/2018Global Project
Anche voi non ne potete più di aprire la vostra pagina social e di vedervi sparare in faccia le ultime razzistate del nostro poco amabile ministro degli Interni? Sì, d'accordo. I commenti che leggete sotto, quelli dei vostri "amici" di Facebook - altrimenti non sarebbero vostri amici di Facebook - sono tutt'altro che favorevoli a Mister Ruspa, Matteo Salvini. C'è chi si indigna, chi ne sfotte l'ignoranza, chi sottolinea la deragliata fascista in cui sta spingendo il Paese, chi posta "not in my name" per ricordargli che gli italiani non sono tutti con lui. C'è anche chi lo denuncia, chi organizza presidi, chi scende per strada e chi sale in barca. Come oggi, a Venezia, dove un gruppo di ragazze e ragazze ha occupato il pontile della Regione Veneto. Tutte ottime iniziative di resistenza civile, per carità! Fatto sta che la bacheca di chi, come me, segue più la politica che il gossip o il calcio, straripa di immagini, notizie e segnalazioni che riguardano tutte lui: il signor Ruspa. Tanto per fare un esempio, ho appena aperto la mia pagina social e, solo nei primi dieci post, quattro mi piazzavano in bella mostra, e senza avviso "solo per stomaci forti" il faccione del nostro vice (?) premier che, per dirla soft, non mi ispira particolari moti di simpatia. Che vi devo dire, allora? Non so voi, ma io non lo reggo più e sto cominciando a rimpiangere quei bei post di una volta pieni di gattini che ruzzolavano su un gomitolo di lana!
Anche perché, il personaggio in questione usa i social proprio come un battaglione di carri armati in una guerra mondiale e ci bombarda come neanche fossimo una Guernica sotto l'aviazione nazifascista. Pur di non fare il ministro dell'Interno, che gli toccherebbe affrontare temi da niente, tipo la mafia, la violenza sulle donne, il razzismo dilagante o la collusione tra il capitalismo e le Grandi Opere, il nostro Matteo spara come una mitragliatrice su cose che non esistono ma che, proprio grazie ai social, ci fa credere che esistano. Lui dice che siamo invasi da milioni di clandestini che delinquono, ad esempio, che c'è in atto una sostituzione etnica e che vogliono imporci l'islamismo, compreso l'uso dei numeri arabi nelle scuole. Anzi, nelle "squole", scritto alla leghista. Che poi non sia vero niente, non conta un benamato piffero. Siamo nell'era della "percezione del rischio" dove ci si laurea in ingegneria con due tweet, con tre post su Fb sai tutto sui vaccini e quello che dice la scienza vale meno di quello che racconta la madonna alle veggenti di Medjugorie. Perché la scienza se la sfangano in pochi, mentre Medjugorie è sempre piena di fedeli, e la democrazia maggioritaria conterà pure qualcosa, o no? Qualcuno l'ha chiamata l'era della post verità, e il nostro ministro ci sguazza come un sorcio in una fogna.
Ma come possiamo fare allora, per tornare a vedere romantici gattini e non sorci sparaballe nella nostra pagina Facebook? Il rimedio è semplice. Magari non risolutivo del problema in sé, perché non ci spedisce il ministro a far la pacchia in un lager libico, ma comunque efficace per farci stare un po' tranquilli e farci aprire Fb senza che ci si chiuda le stomaco.
Il rimedio si chiama Spoiler Protection 2.0 e lo si scarica facilmente dalla rete. Una volta lanciato, basta inserire la parola chiave "Salvini" come termine da evitare come la peste nera durante la navigazione, ed il gioco è fatto. Non vedremo mai più il suo faccione incarognito che sbraita contro zingari, clandestini, froci, ebrei, comunisti e quei violenti dei centri sociali nelle nostre pagine.
L'idea è stata lanciata dal giovane scrittore trentino Mattia Zadra che invita tutti ad "eclissare" - questo è il termine da lui romanticamente scelto - il ministro Ruspa e le sue sparate usando questo filtro per il browser. "Grazie a questo tool sono riuscito a eclissare tutti i post che contenevano il suo nome sul mio newsfeed di Facebook e Twitter - ha spiegato Mattia -. Al ministro interessa solo fare rumore e, paradossalmente, anche chi inveisce contro di lui finisce col fare il suo gioco ed alimenta una guerra fatta di commenti saturi di odio, ignoranza e disinformazione che va tutta a suo vantaggio".
Spoiler Protection 2.0 è un programma nato con scopi assai più nobili che oscurare il Salvini. Lo usano gli appassionati delle serie Tv per evitare di leggere nella propria bacheca, prima dell'uscita dell'attesissima puntata, se Daenerys Targaryen siederà sul Trono di Spade o se sarà uccisa dalla malvagia Cersei Lannister. Insomma, l'app è stata studiata per bannare, per l'appunto, gli spoiler cinematografici. Ma Mattia ci assicura che è efficace anche per bannare il Salvini: "Appena l'ho attivato, mezza bacheca di Facebook mi è scomparsa! I post che parlavano del ministro sono stati coperti da un velo rosso. Non è mia intenzione, naturalmente, barricarmi in una beata ignoranza. Ma l'informazione vera, per me, passa dai giornali e non dai social. Ora, finalmente, posso tornare a usare Fb e Twitter come facevo un tempo senza rovinarmi la salute".
Secondo Mattia Zadra questa scelta, oltre che salvaguardare il nostro povero fegato, contribuirebbe a contrastare una politica che oramai è fatta solo di insulti. E sul fegato possiamo anche essere d'accordo. Sul secondo punto, qualche perplessità ce l'abbiamo. I social non sono pensati per discussioni approfondite e tanto meno per un confronto sereno e democratico. Inoltre, si stanno "stagnandizzando" sempre di più. Ognuno, nella propria bacheca, segue e commenta solo chi la pensa come lui e vi trova conforto e avallo delle proprie opinioni, anche se crede che la terra sia piatta. Su Twitter e su Facebook, soprattutto, viviamo ognuno dentro la propria tribù, abbia essa come feticcio post di gattini arruffati, di campioni di calcio o di draghi abbattitori di imperi. Chi ama il Ruspa continuerà a santificare tutto quello che gli esce di bocca come se fosse il sangue di san Gennaro, anche se tutte le nostre bacheche si tingessero di rosso. Mattia ritiene che, senza una risposta che faccia da eco, i toni esacerbati senza i quali il Ruspa non saprebbe condire nessun discorso, perderebbero efficacia. Un po' come i musulmani di Bosnia che, prima della guerra dei Balcani, rispondevano pacatamente alle provocazioni dei nazionalisti serbi con un "bisogna essere in due per litigare". Poi è andata come è andata.
Magari sbaglio io ma, sino a che il fegato mi tiene, non userò Spoiler Protection nel mio brownser, pure se continuerò ad evitare di rispondere con insulti agli insulti, ed anche di confrontarmi democraticamente con persone che "democrazia" non sanno neppure come si scrive. Ripensandoci però, l'idea di Mattia però, non era affatto male. Adesso corro a vedere se c'è un app che faccia sparire il Ruspa. Ma dalla faccia della terra, però!
Anche perché, il personaggio in questione usa i social proprio come un battaglione di carri armati in una guerra mondiale e ci bombarda come neanche fossimo una Guernica sotto l'aviazione nazifascista. Pur di non fare il ministro dell'Interno, che gli toccherebbe affrontare temi da niente, tipo la mafia, la violenza sulle donne, il razzismo dilagante o la collusione tra il capitalismo e le Grandi Opere, il nostro Matteo spara come una mitragliatrice su cose che non esistono ma che, proprio grazie ai social, ci fa credere che esistano. Lui dice che siamo invasi da milioni di clandestini che delinquono, ad esempio, che c'è in atto una sostituzione etnica e che vogliono imporci l'islamismo, compreso l'uso dei numeri arabi nelle scuole. Anzi, nelle "squole", scritto alla leghista. Che poi non sia vero niente, non conta un benamato piffero. Siamo nell'era della "percezione del rischio" dove ci si laurea in ingegneria con due tweet, con tre post su Fb sai tutto sui vaccini e quello che dice la scienza vale meno di quello che racconta la madonna alle veggenti di Medjugorie. Perché la scienza se la sfangano in pochi, mentre Medjugorie è sempre piena di fedeli, e la democrazia maggioritaria conterà pure qualcosa, o no? Qualcuno l'ha chiamata l'era della post verità, e il nostro ministro ci sguazza come un sorcio in una fogna.
Ma come possiamo fare allora, per tornare a vedere romantici gattini e non sorci sparaballe nella nostra pagina Facebook? Il rimedio è semplice. Magari non risolutivo del problema in sé, perché non ci spedisce il ministro a far la pacchia in un lager libico, ma comunque efficace per farci stare un po' tranquilli e farci aprire Fb senza che ci si chiuda le stomaco.
Il rimedio si chiama Spoiler Protection 2.0 e lo si scarica facilmente dalla rete. Una volta lanciato, basta inserire la parola chiave "Salvini" come termine da evitare come la peste nera durante la navigazione, ed il gioco è fatto. Non vedremo mai più il suo faccione incarognito che sbraita contro zingari, clandestini, froci, ebrei, comunisti e quei violenti dei centri sociali nelle nostre pagine.
L'idea è stata lanciata dal giovane scrittore trentino Mattia Zadra che invita tutti ad "eclissare" - questo è il termine da lui romanticamente scelto - il ministro Ruspa e le sue sparate usando questo filtro per il browser. "Grazie a questo tool sono riuscito a eclissare tutti i post che contenevano il suo nome sul mio newsfeed di Facebook e Twitter - ha spiegato Mattia -. Al ministro interessa solo fare rumore e, paradossalmente, anche chi inveisce contro di lui finisce col fare il suo gioco ed alimenta una guerra fatta di commenti saturi di odio, ignoranza e disinformazione che va tutta a suo vantaggio".
Spoiler Protection 2.0 è un programma nato con scopi assai più nobili che oscurare il Salvini. Lo usano gli appassionati delle serie Tv per evitare di leggere nella propria bacheca, prima dell'uscita dell'attesissima puntata, se Daenerys Targaryen siederà sul Trono di Spade o se sarà uccisa dalla malvagia Cersei Lannister. Insomma, l'app è stata studiata per bannare, per l'appunto, gli spoiler cinematografici. Ma Mattia ci assicura che è efficace anche per bannare il Salvini: "Appena l'ho attivato, mezza bacheca di Facebook mi è scomparsa! I post che parlavano del ministro sono stati coperti da un velo rosso. Non è mia intenzione, naturalmente, barricarmi in una beata ignoranza. Ma l'informazione vera, per me, passa dai giornali e non dai social. Ora, finalmente, posso tornare a usare Fb e Twitter come facevo un tempo senza rovinarmi la salute".
Secondo Mattia Zadra questa scelta, oltre che salvaguardare il nostro povero fegato, contribuirebbe a contrastare una politica che oramai è fatta solo di insulti. E sul fegato possiamo anche essere d'accordo. Sul secondo punto, qualche perplessità ce l'abbiamo. I social non sono pensati per discussioni approfondite e tanto meno per un confronto sereno e democratico. Inoltre, si stanno "stagnandizzando" sempre di più. Ognuno, nella propria bacheca, segue e commenta solo chi la pensa come lui e vi trova conforto e avallo delle proprie opinioni, anche se crede che la terra sia piatta. Su Twitter e su Facebook, soprattutto, viviamo ognuno dentro la propria tribù, abbia essa come feticcio post di gattini arruffati, di campioni di calcio o di draghi abbattitori di imperi. Chi ama il Ruspa continuerà a santificare tutto quello che gli esce di bocca come se fosse il sangue di san Gennaro, anche se tutte le nostre bacheche si tingessero di rosso. Mattia ritiene che, senza una risposta che faccia da eco, i toni esacerbati senza i quali il Ruspa non saprebbe condire nessun discorso, perderebbero efficacia. Un po' come i musulmani di Bosnia che, prima della guerra dei Balcani, rispondevano pacatamente alle provocazioni dei nazionalisti serbi con un "bisogna essere in due per litigare". Poi è andata come è andata.
Magari sbaglio io ma, sino a che il fegato mi tiene, non userò Spoiler Protection nel mio brownser, pure se continuerò ad evitare di rispondere con insulti agli insulti, ed anche di confrontarmi democraticamente con persone che "democrazia" non sanno neppure come si scrive. Ripensandoci però, l'idea di Mattia però, non era affatto male. Adesso corro a vedere se c'è un app che faccia sparire il Ruspa. Ma dalla faccia della terra, però!
Storie dentro e oltre i muri
24/06/2018Global Project
«La valle è coperta di tendopoli dove i profughi siriani, nell'indifferenza più completa del governo libanese, si sforzano di tenere una vita il più possibile normale. Pagano affitti altissimi sia per la terra che occupano che per le tende e i materiali che utilizzano. Sono anche una forza lavoro non indifferente perché, per non essere sfrattati, finiscono per lavorare a bassissimo costo nei campi che circondano le loro tendopoli. Nessuno può dire quanti sono perché il governo libanese ha vietato altri censimento da parte dell'Unhcr, dopo aver raggiunto la cifra di un milione e mezzo di rifugiati, un paio di anni fa. Nessuno dà loro nulla, né assistenza sanitaria, né scuole. E' gente che non esiste. Gente che non altro futuro se non non quello di morire in silenzio, coltivando il sogno, sempre più impossibile, di ritornare un giorno nella loro terra distrutta».
Raffaello Rossini ha portato la sua testimonianza all'incontro di Sherwood Open Minds, svoltosi giovedì 21 giugno aSherwood Festival. Il tema dell'incontro era "Storie dentro e oltre i muri. Sui sentieri dei migranti verso l'Europa e gli Stati Uniti". Un titolo che ben riassume il percorso che movimenti e associazioni hanno intrapreso qualche anno fa, con le prime carovane in Ungheria. Un lungo viaggio che è stato chiamato OverTheFortress, oltre la fortezza. Un lungo viaggio ancora tutto da concludere che ha l'obiettivo di raccogliere storie e costruire narrazioni migranti, per non rassegnarsi ai linguaggi dell'odio e della disinformazione oggi imperanti, per costruire campagne e iniziative di sostegno, e per "mettere benzina" nei motori di tutti i movimenti che, in Italia come all'estero, continuano a lottare per i diritti umani, contro un capitalismo che, ogni giorno che passa, somiglia sempre di più a una rapina a mano armata.
Al dibattito, coordinato da chi scrive, è intervenuta Marta Peradotto, portavoce di Carovane Migranti, che ha raccontato degli incontri in Tunisia, in occasione della quarta carovana per i diritti dei migranti, con le madri e dei padri degli scomparsi in mare. «Impossibile non tracciare un parallelo tra i migranti dispersi nel Mediterraneo con i migranti che scompaiono, o meglio, che sono fatti scomparire, nella frontiera tra Usa e Messico. Abbiamo assistito a vari incontri tra le madri centroamericane e quelle tunisine. Tutte hanno ribadito che è venuto il momento di passare dalla lacrime alla lotta, perché non accada ai figli di altre madri quello che è successo ai loro figli».
A chiudere l'incontro, Matteo De Checchi del collettivo Mamadou che costruisce spazi comuni in una zona di vera frontiera con la legalità come Rosarno. Matteo ha parlato del muro invisibile che abbiamo a casa nostra. Quel muro che vorrebbe impedirci e, soprattutto, di farci indignare per lo sfruttamento cui sono sottoposti i migrati, schiavizzati come braccianti a pochi ero l'ora. «Una responsabilità che non può essere limitata ai padroni dei campi o al caporalato, ma che si interseca anche con la grande distribuzione e coinvolge direttamente le amministrazioni e la politica». Quella stessa politica che preferisce nutrirsi di insulti e di richiami a emergenze che non ci sono, per distrarre l'opinione pubblica su questioni assai più pericolose come le infiltrazioni mafiose nei Comuni e nelle amministrazioni regionali. Quella stessa politica che ha fatto dei migranti una merce e che ha innalzato quei muri che non saranno né un freno né una soluzione, quanto piuttosto una concausa del problema.
Chi inquina l’acqua, uccide l’umanità. Nella giornata dei Crimini Ambientali, i cittadini avvelenati dai Pfas circondano la Miteni
24/04/2018EcoMagazine, Global Project
Tante strade quelle che, nella giornata di ieri, hanno portato a Trissino movimenti, associazioni, spazi sociali, gruppi ambientalisti, cittadini stanchi di farsi avvelenare in silenzio. Tante strade che procedono verso una unica direzione e con un unico obiettivo: difendere la terra e l’ambiente in cui viviamo perché noi stessi siamo l’ambiente in cui viviamo. E se si ammala la terra, si ammala l’umanità.
Ieri, domenica 22 aprile, a Trissino, si è svolta la Giornata Contro i Crimini Ambientali. E quale piazza poteva essere migliore che lo spazio davanti la Miteni, la fabbrica della morte che per anni, nel silenzio complice di chi doveva controllare e non ha controllato, ha avvelenato le falde acquifere di mezzo Veneto?
All’appuntamento di lotta e di informazione, si sono presentati in tanti. Tra i duemila e i duemila cinquecento, secondo gli organizzatori. Non soltanto associazioni o i cittadini che per primi hanno denunciato la presenza di Pfas – i pericolosi composti perfluoroalchilici – nell’acqua che esce dal rubinetto di casa, ma anche movimenti ambientalisti dal respiro più ampio come GreenPeace, Legambiente, nominati Acqua Bene Comune, Medici per l’Ambiente, No Navi, reti Gas, associazioni contro la Tav e la Pedemontana, Salviamo la Val d’Astico, le guerriere ed i guerrieri delle Climate Defense Units con le loro maschere di Angry Animals, animali arrabbiati, e tante altre realtà ancora. Tutte accanto alle Mamme No Pfas che per prime hanno preso la parola nel palco antistante la Miteni, difesa, ancora una volta, da un cordone di polizia.
«Abbiamo cresciuto i nostri bambini mettendoci tutto il nostro impegno perché fossero sani, li abbiamo difesi dalle malattie ma non abbiamo pensato a difenderli dall’acqua che bevevano, Ma come potevamo noi pensare che proprio l’acqua che è vita, fosse pericolosa? Ora nel loro segue ci sono percentuali di Pfas da 10 a 40 volte superiori ai valori accettabili».
«Noi siamo gli animali arrabbiati – spiega un portavoce dei Climate Defense -, simbolo della rivolta di una natura di cui facciamo parte indissolubilmente, la Mitemi è solo una delle tante opere che devastano i territori. Il Veneto, in particolare, è la nuova Terra dei Fuochi tra Pedemontana e Val d’Astico. Un biocidio cui diciamo: Basta! Oggi siamo di fronte ad un movimento di ribellione che, pur nella sua diversità, si è posto obiettivi comuni contro le lobby dell’affarismo che stanno trasformando terra, acqua, paesaggio, ambiente, salute e la nostra stessa vita in merce. Costruiamo tutti assieme un nuovo immaginario che metta al centro la nostra salute e la salute dell’ambiente contro chi vuole ricavare profitto dalle malattie».
Tante le realtà che prendono la parola sul palco, intervallate dalla musica della chitarra che intona la canzone “No Pfas”. Tante realtà di movimento e pochi rappresentanti delle amministrazioni. Gli unici Comuni rappresentati con la fascia tricolore erano quelli di Lonigo e di Legnago.
Su palco sale Marzia, vestita da ape che invita tutti i cittadini ad essere operosi e attivi come le api. E magari anche pungere, quando necessario. Legambiente ricorda gli operai della Miteni, nel cui sangue sono presenti le percentuali più alte di Pfas. «Abbiamo chiesto il disastro ambientale e qualcosa si sta muovendo anche nelle istituzioni, ma fino a che la fabbrica e tutta l’area non sarà bonificata, non se ne esce».
Chiusura immediata della fonte di inquinamento sotto il principio di “chi inquina paga”, è quanto chiedono anche le Mamme No Pfas di Arzignano. «Accertiamo le responsabilità di chi ha inquinato ma anche di chi ha taciuto. Vogliamo inoltre l’adozione del principio di precauzione anche nelle nostre scuole. Ai bambini oggi non può essere data da bere l’acqua del rubinetto».
Luca di Acqua Bene Comune plaude al nuovo modo di far politica delle Mamme No Pfas e si augura che ne prendano esempio anche i politici di mestiere. Claudia porta la voce del recente convegno di Medicina Democratica: «Inquinare le acque è un crimine ambientale. Non facciamoci ingannare da false promesse. C’è una sola soluzione: chiudere le fabbriche inquinanti».
Una mostra di oltre 150 metri di fotografie e di pannelli scientifici fa da cornice agli stand con materiale informativo messi in campo dalle associazioni. L’aria che si respira è quella della grande festa ambientalista. Sul palco, l’ultimo intervento è di Claudio Lupo di Medici per l’Ambiente. «L’inquinamento delle falde non è solo una problematica idrogeologica. Noi esseri umani siamo acqua. Chi uccide l’acqua, uccide noi».
La giornata si chiude con musica e festa ma prima c’è l’azione contro la Miteni. La fabbrica viene circondata dalle attiviste e dagli attivisti che formano una grande catena umana seguendo gli Angry Animals che guidano il corteo illuminando la Miteni con grandi fumogeni colorati. É la chiusura simbolica di un impianto che produce morte da parte di una umanità che vuole continuare a vivere.
Inquinare è gratis. Anzi, di più: un vero business. Un rapporto del Climate Action Network denuncia l'imbroglio del sistema Ue sullo scambio di quote di emissione
12/04/2018
"Carbon Fat Cats" è il nome che gli ambientalisti del Climate Action Network hanno scelto per il loro studio. Nome che richiama quei grossi e grassi gattoni di casa che se ne stanno in panciolle sul divano tutto il santo giorno, preoccupandosi solo di dormire e rimpinzarsi di crocchette al salmone. Un paragone senza dubbio divertente ma che non calza sino in fondo, perché, quanto meno, questi tranquilli animali non creano danni all'ambiente e non condizionano la politica energetica europea. Come invece fanno le industrie ad altro consume energetico che sono le vere protagoniste del rapporto. Industrie che sono riuscite a ribaltare a loro vantaggio un sistema europeo come quello dello "scambio di emissioni" (Ets) che era stato studiato proprio per incentivare l'uscita sia pur graduale dai fossili, sotto il principio di "chi più inquina, più paga".
Ricordiamo brevemente che l'Ets è stato approvato dall'Unione Europea sotto la spinta di Cop 21, ai fini di contrastare la produzione di gas climalteranti e rientrare sotto la famosa soglie dei 2 gradi di aumento della temperatura rispetto ai tempi pre industriali. L'idea dei legislatori europei è stata quella di aprire una sorte di mercato libero dell'inquinamento che doveva funzionare così: stabilito un tetto limite per ogni categoria di industrie, chi inquina di meno può vendere le sue "quote" di emissioni risparmiate a chi inquina di più che deve così acquistarle. Questo meccanismo avrebbe dovuto incentivare le industrie più energicamente insostenibili a convertire la loro produzione in una filiera verde, a bassa emissione di carbonio, se non per amore dell'ambiente, perlomeno per una questione economica.
Tutti buoni propositi rimasti sulla carta. Il costo delle quote determinato dal mercato libero è stato talmente basso da non essersi rivelato di nessun stimolo per avviare produzioni meno climaticamente impattanti. Ma non solo. I Governi europei, preoccupati, o ricattati, dalla eventualità di possibili delocalizzazioni verso l'Est delle industrie pesanti, hanno varato politiche di defiscalizzazione e deroghe ai tetti di emissione. Deroghe pensate per evitare impatti diretti all'economia locale ma che, con la sempiterna giustificazione della "crisi economica", si sono trasformate in norme consolidate. Soltanto tra il 2008 e 2015, si legge su Fat Cats, i Governi europei hanno complessivamente regalato circa 143 miliardi di "deroghe gratuite". In altre parole, da un lato l'Europa chiede alle industrie di inquinare di meno imponendo severe quote limite, dall'altro incentiva defiscalizzando questo inquinamento - senza che, per altro, ci sia un equivalente politica fiscale per le aziende green - e, per non turbare i mercati asfissiati dalla crisi, paga di tasca sua le quote di sforamento. Volete un esempio? E' come se un vigile ti multasse per un divieto di sosta ma poi pagasse di tasca sua la multa e, in più, ti facesse un forte sconto sul bollo auto!
Un comportamento non solo economicamente ed ambientalmente insostenibile ma anche incomprensibile che si spiega soltanto come un evidente segnale della Comunità Europea di non voler davvero abbandonare i fossili ed avviare una vera transizione verso energie pulite. Segnale ribadito anche dalla recente decisione comunitaria di mantenere i discussi sussidi alle centrali a carbone, compreso quelle vecchie e altamente inquinanti, sino al 2030.
Con queste premessi, inquinare sarà davvero il business del futuro!
Ricordiamo brevemente che l'Ets è stato approvato dall'Unione Europea sotto la spinta di Cop 21, ai fini di contrastare la produzione di gas climalteranti e rientrare sotto la famosa soglie dei 2 gradi di aumento della temperatura rispetto ai tempi pre industriali. L'idea dei legislatori europei è stata quella di aprire una sorte di mercato libero dell'inquinamento che doveva funzionare così: stabilito un tetto limite per ogni categoria di industrie, chi inquina di meno può vendere le sue "quote" di emissioni risparmiate a chi inquina di più che deve così acquistarle. Questo meccanismo avrebbe dovuto incentivare le industrie più energicamente insostenibili a convertire la loro produzione in una filiera verde, a bassa emissione di carbonio, se non per amore dell'ambiente, perlomeno per una questione economica.
Tutti buoni propositi rimasti sulla carta. Il costo delle quote determinato dal mercato libero è stato talmente basso da non essersi rivelato di nessun stimolo per avviare produzioni meno climaticamente impattanti. Ma non solo. I Governi europei, preoccupati, o ricattati, dalla eventualità di possibili delocalizzazioni verso l'Est delle industrie pesanti, hanno varato politiche di defiscalizzazione e deroghe ai tetti di emissione. Deroghe pensate per evitare impatti diretti all'economia locale ma che, con la sempiterna giustificazione della "crisi economica", si sono trasformate in norme consolidate. Soltanto tra il 2008 e 2015, si legge su Fat Cats, i Governi europei hanno complessivamente regalato circa 143 miliardi di "deroghe gratuite". In altre parole, da un lato l'Europa chiede alle industrie di inquinare di meno imponendo severe quote limite, dall'altro incentiva defiscalizzando questo inquinamento - senza che, per altro, ci sia un equivalente politica fiscale per le aziende green - e, per non turbare i mercati asfissiati dalla crisi, paga di tasca sua le quote di sforamento. Volete un esempio? E' come se un vigile ti multasse per un divieto di sosta ma poi pagasse di tasca sua la multa e, in più, ti facesse un forte sconto sul bollo auto!
Un comportamento non solo economicamente ed ambientalmente insostenibile ma anche incomprensibile che si spiega soltanto come un evidente segnale della Comunità Europea di non voler davvero abbandonare i fossili ed avviare una vera transizione verso energie pulite. Segnale ribadito anche dalla recente decisione comunitaria di mantenere i discussi sussidi alle centrali a carbone, compreso quelle vecchie e altamente inquinanti, sino al 2030.
Con queste premessi, inquinare sarà davvero il business del futuro!
Bloody Money. Il valore sociale dell'inchiesta che attacca l'«oscura terra di mezzo»
26/03/2018Global Project
Con una inchiesta giornalistica sono riusciti a fare quello nessuno è riuscito a fare prima. Portare in piena luce un sistema, tanto nascosto quanto consolidato di intrecci tra mafia e Stato, tra imprenditoria e politica che sta alla base delle cosiddette ecomafie. Un sistema corrotto e corruttore che troviamo alla base tanto della gestione dei rifiuti quanto delle grandi opere come il Mose o le bonifiche. Una " oscura terra di mezzo" come l'hanno definita loro, dove l'ambiente e la salute sono merci da vendere e comprare. Stiamo parlando dei reporter del giornale on line FanPage e della loro inchiesta in sette puntate Bloody Money, denaro insanguinato. Partiti dalla Campania e dalle speculazioni assassine perpetrate nella Terra dei Fuochi, i giornalisti di FanPage, nella quarta puntata, l'ultima pubblicata, sono arrivati nel Veneto, e precisamente a Porto Marghera. Ed è proprio qui, al cso Rivolta che, venerdì 9 marzo, incontriamo Antonio Musella, giornalista di FanPage e uno degli autori dell'inchiesta, in occasione di una iniziativa pubblica alla quale ha partecipato anche un altro personaggio che da sempre si è speso nelle denunce e nella lotta al malaffare che, oggi come ieri, ruota attorno alle bonifiche e alla salvaguardia della laguna, Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità
Come è nata questa inchiesta?
Antonio Musella - Tutto parte da una collaborazione che Fan Page ha avviato con il pentito Nunzio Carrella, un boss della camorra che potremmo definire come l'inventore delle ecomafie. Lo stesso ex procuratore antimafia Franco Roberti lo ha utilizzato per fare luce su tante inchieste. Noi ci siamo letti le carte procedurali e abbiamo deciso di dare fiducia a questo pentito. La prova che non fosse un millantatore ce l'ha data lui stesso quando ci ha portato in un campo vicino a Ferrara raccontandoci che in quel luogo era stato smaltito illegalmente una grossa quantità di amianto. Noi abbiamo preso le pale e abbiamo scavato sino a trovare i rifiuti tossici. Abbiamo avuto la prova quindi, che Carrella diceva la verità e gli abbiamo posto questa domanda: cosa farebbe oggi se volesse tornare in attività? Lo abbiamo quindi seguito per tutta Italia con una telecamera nascosta mentre riprendeva contatto con i suoi vecchi intermediari con una facilità che ci ha lasciato allibiti. Si è fatto avanti di tutto: eserciti di faccendieri, politici corrotti, mafiosi, imprenditori interessati solo al guadagno, burocrati venduti.
Come rispondete alle critiche che sono state sollevate sul vostro modus operandi?
Antonio Musella - Ci hanno accusato di usare metodi non consoni come l'agente provocatore. Ci hanno detto di aver ostacolato le indagini. Ma noi facciamo i giornalisti e non i magistrati. Abbiamo sempre correttamente avvisato la Procura dei nostri movimenti. Noi di Fan Page siamo convinti che il lavoro sociale che abbiamo costruito e i risultati che abbiamo raggiunto siano più importanti di queste critiche. Siamo stati i primi a rimanere sconvolti dai dialoghi che abbiamo registrato, da meccanismi di corruzione così palesi e dal cinismo con cui intere aree venivano avvelenate solo per lucro. Ci hanno anche accusato di aver fatto uscire tutto sotto elezioni, a scopo spiccatamente propagandistico. Non è vero. Abbiamo pubblicato l'inchiesta solo perché erano saltate le coperture e fare uscire tutto alla luce era la nostra unica difesa.
Bloody Money parte dalla Campania, dalla Terra dei Fuochi, per approdare nel Veneto, alle bonifiche di Porto Marghera. Dove è peggio?
Antonio Musella - Subito dopo aver messo in scena il finto ritorno in attività del Carrella, il telefono che abbiamo usato come riferimento è diventato bollente. La chiamate arrivavano da tutta Italia. Campania e Veneto facevano la parte del leone. Ma ti direi che è l'Italia intera che è messa male. L'ambiente e la sua tutela sono temi semplicemente estromessi dall'agenda politica. Ne avete mai sentito parlare in queste ultime elezioni? Qui siamo a Venezia. Lo scandalo Mose ha fatto la storia della città ma ancora l'opera prosegue. Le bonifiche di Porto Marghera sono un altro scandalo a cielo aperto. Il problema è che c'è una oscura terra di mezzo, tra mafia, imprenditoria, politica e apparati dello Stato, dove la sola cosa che conta è fare business. Non importa come. Non importa se avveleni l'ambiente. Contano solo i soldi che si ricavano e conta ricavarli in fretta.
Gianfranco Bettin - Lo smaltimento dei rifiuti è stata il principio di tutte le ecomafie. E' sbagliato pensare che questa storia che parta dal sud Italia. Al contrario, la storia nasce proprio qua, a casa nostra. Il primo smaltimento illegale è quello che le mafie hanno portato a termine a San Giuliano. Ricordo un intervista proprio al Carrella in cui un giornalista gli chiede se sono venuti a nord per mettere a sistema la procedura e lui gli risponde: "No. Noi siamo venuti ad imparare". Il cinismo con il quale l'inquinamento viene trasformato in un affare lucroso, e chi se ne frega se poi la gente ci muore, è stato inventato a casa nostra. Nel sud, casomai, ha incontrato la criminalità organizzata e ne è nato un matrimonio proficuo per entrambi. Direi che, più che le stragi, dove le responsabilità sono oramai chiare, il nido di serpenti che avvelena l'Italia, tra burocrati di ministeri, politici, imprenditori, massonerie e mafiosi, oggi sta tutto qua. Un cuore di tenebra che non è ancora stato esplorato.
Una intermediaria di cui raccontate nella vostra inchiesta, Maria Grazia Canuto, afferma che a Venezia, con questa amministrazione, oggi il terreno è favorevole. Cosa ne pensate?
Gianfranco Bettin - Il primo segnale che ha dato l'attuale amministrazione, cioè cancellare il parco della laguna che avrebbe avuto il compito di vigilare su questo tema e tutelare l'ambiente e la salute, non depone certo a favore della trasparenza. Ma credo anche che sia ingenuo pensare che un sindaco possa impedire questa deriva. Gli scandali legati alle grandi opere ci insegnano proprio questo. Pensiamo alle bonifiche di Porto Marghera. Il denaro ottenuto sulla pelle di un territorio che ha pagato un prezzo terrificante in termini di inquinamento e di vite umane, e che doveva servire per la messa in sicurezza dello stesso territorio, è stato drenato verso un'opera devastante per l'ambiente come il Mose. Tutto ciò, senza che gli enti locali potessero intervenire. Anche per questo ol nostro Paese è messo male. Sono caduti i presidi locali e anche una amministrazione attenta, cosa che questa non è, non sarebbe una garanzia. Venezia? Al suo confronto, la Chicago di Al Capone è Disneyland. Tutte le attività più importanti economicamente sono in mano ad organizzazioni criminali: la salvaguardia, il Mose ed anche il turismo. Vedi la presenza di Cosa Nostra al Tronchetto.
Antonio Mugella - Il rapporto tra ambiente e attività produttive, in Italia, è sempre stato predatorio. E' questa la storia della nostra imprenditoria e non si scappa. E questo vale anche per le aziende, tipo la Montedison, a partecipazione statale. Ho un terreno vuoto? Allora lo devo far fruttare al massimo. E se per farlo devo passare attraverso un faccendiere legato alla mafia, pazienza. E se poi quel terreno avvelenerà migliaia di persone innocenti, non sono fatto miei. Sono anche d'accordo con Gianfranco che la possibilità degli enti locali di opporsi e di contrastare questo malaffare che inquina oltre all'ambiente anche la stessa politica, sono scarsissime. C'è stato un furto sistematico di competenza proprio per aprire la strada a questa sorta di industria dell'inquinamento così remunerativa economicamente. Come difendersi allora? L'antidoto migliore resta sempre la mobilitazione dal basso. Così come avete fatto per lo stoccaggio di rifiuti industriali che avrebbe trasformato Marghera nella pattumiera più inquinata ed inquinante d'Italia.
Come è nata questa inchiesta?
Antonio Musella - Tutto parte da una collaborazione che Fan Page ha avviato con il pentito Nunzio Carrella, un boss della camorra che potremmo definire come l'inventore delle ecomafie. Lo stesso ex procuratore antimafia Franco Roberti lo ha utilizzato per fare luce su tante inchieste. Noi ci siamo letti le carte procedurali e abbiamo deciso di dare fiducia a questo pentito. La prova che non fosse un millantatore ce l'ha data lui stesso quando ci ha portato in un campo vicino a Ferrara raccontandoci che in quel luogo era stato smaltito illegalmente una grossa quantità di amianto. Noi abbiamo preso le pale e abbiamo scavato sino a trovare i rifiuti tossici. Abbiamo avuto la prova quindi, che Carrella diceva la verità e gli abbiamo posto questa domanda: cosa farebbe oggi se volesse tornare in attività? Lo abbiamo quindi seguito per tutta Italia con una telecamera nascosta mentre riprendeva contatto con i suoi vecchi intermediari con una facilità che ci ha lasciato allibiti. Si è fatto avanti di tutto: eserciti di faccendieri, politici corrotti, mafiosi, imprenditori interessati solo al guadagno, burocrati venduti.
Come rispondete alle critiche che sono state sollevate sul vostro modus operandi?
Antonio Musella - Ci hanno accusato di usare metodi non consoni come l'agente provocatore. Ci hanno detto di aver ostacolato le indagini. Ma noi facciamo i giornalisti e non i magistrati. Abbiamo sempre correttamente avvisato la Procura dei nostri movimenti. Noi di Fan Page siamo convinti che il lavoro sociale che abbiamo costruito e i risultati che abbiamo raggiunto siano più importanti di queste critiche. Siamo stati i primi a rimanere sconvolti dai dialoghi che abbiamo registrato, da meccanismi di corruzione così palesi e dal cinismo con cui intere aree venivano avvelenate solo per lucro. Ci hanno anche accusato di aver fatto uscire tutto sotto elezioni, a scopo spiccatamente propagandistico. Non è vero. Abbiamo pubblicato l'inchiesta solo perché erano saltate le coperture e fare uscire tutto alla luce era la nostra unica difesa.
Bloody Money parte dalla Campania, dalla Terra dei Fuochi, per approdare nel Veneto, alle bonifiche di Porto Marghera. Dove è peggio?
Antonio Musella - Subito dopo aver messo in scena il finto ritorno in attività del Carrella, il telefono che abbiamo usato come riferimento è diventato bollente. La chiamate arrivavano da tutta Italia. Campania e Veneto facevano la parte del leone. Ma ti direi che è l'Italia intera che è messa male. L'ambiente e la sua tutela sono temi semplicemente estromessi dall'agenda politica. Ne avete mai sentito parlare in queste ultime elezioni? Qui siamo a Venezia. Lo scandalo Mose ha fatto la storia della città ma ancora l'opera prosegue. Le bonifiche di Porto Marghera sono un altro scandalo a cielo aperto. Il problema è che c'è una oscura terra di mezzo, tra mafia, imprenditoria, politica e apparati dello Stato, dove la sola cosa che conta è fare business. Non importa come. Non importa se avveleni l'ambiente. Contano solo i soldi che si ricavano e conta ricavarli in fretta.
Gianfranco Bettin - Lo smaltimento dei rifiuti è stata il principio di tutte le ecomafie. E' sbagliato pensare che questa storia che parta dal sud Italia. Al contrario, la storia nasce proprio qua, a casa nostra. Il primo smaltimento illegale è quello che le mafie hanno portato a termine a San Giuliano. Ricordo un intervista proprio al Carrella in cui un giornalista gli chiede se sono venuti a nord per mettere a sistema la procedura e lui gli risponde: "No. Noi siamo venuti ad imparare". Il cinismo con il quale l'inquinamento viene trasformato in un affare lucroso, e chi se ne frega se poi la gente ci muore, è stato inventato a casa nostra. Nel sud, casomai, ha incontrato la criminalità organizzata e ne è nato un matrimonio proficuo per entrambi. Direi che, più che le stragi, dove le responsabilità sono oramai chiare, il nido di serpenti che avvelena l'Italia, tra burocrati di ministeri, politici, imprenditori, massonerie e mafiosi, oggi sta tutto qua. Un cuore di tenebra che non è ancora stato esplorato.
Una intermediaria di cui raccontate nella vostra inchiesta, Maria Grazia Canuto, afferma che a Venezia, con questa amministrazione, oggi il terreno è favorevole. Cosa ne pensate?
Gianfranco Bettin - Il primo segnale che ha dato l'attuale amministrazione, cioè cancellare il parco della laguna che avrebbe avuto il compito di vigilare su questo tema e tutelare l'ambiente e la salute, non depone certo a favore della trasparenza. Ma credo anche che sia ingenuo pensare che un sindaco possa impedire questa deriva. Gli scandali legati alle grandi opere ci insegnano proprio questo. Pensiamo alle bonifiche di Porto Marghera. Il denaro ottenuto sulla pelle di un territorio che ha pagato un prezzo terrificante in termini di inquinamento e di vite umane, e che doveva servire per la messa in sicurezza dello stesso territorio, è stato drenato verso un'opera devastante per l'ambiente come il Mose. Tutto ciò, senza che gli enti locali potessero intervenire. Anche per questo ol nostro Paese è messo male. Sono caduti i presidi locali e anche una amministrazione attenta, cosa che questa non è, non sarebbe una garanzia. Venezia? Al suo confronto, la Chicago di Al Capone è Disneyland. Tutte le attività più importanti economicamente sono in mano ad organizzazioni criminali: la salvaguardia, il Mose ed anche il turismo. Vedi la presenza di Cosa Nostra al Tronchetto.
Antonio Mugella - Il rapporto tra ambiente e attività produttive, in Italia, è sempre stato predatorio. E' questa la storia della nostra imprenditoria e non si scappa. E questo vale anche per le aziende, tipo la Montedison, a partecipazione statale. Ho un terreno vuoto? Allora lo devo far fruttare al massimo. E se per farlo devo passare attraverso un faccendiere legato alla mafia, pazienza. E se poi quel terreno avvelenerà migliaia di persone innocenti, non sono fatto miei. Sono anche d'accordo con Gianfranco che la possibilità degli enti locali di opporsi e di contrastare questo malaffare che inquina oltre all'ambiente anche la stessa politica, sono scarsissime. C'è stato un furto sistematico di competenza proprio per aprire la strada a questa sorta di industria dell'inquinamento così remunerativa economicamente. Come difendersi allora? L'antidoto migliore resta sempre la mobilitazione dal basso. Così come avete fatto per lo stoccaggio di rifiuti industriali che avrebbe trasformato Marghera nella pattumiera più inquinata ed inquinante d'Italia.
D’Alpaos: “Scandali e arresti non sono serviti a nulla. La salvaguardia è tutt’ora ostaggio della politica delgi affari”
16/03/2018EcoMagazine, NoGrandiNavi
Pubblico della grandi occasioni, questo o pomeriggio in sala San Leonardo, Venezia, per Luigi d'Alpaos. Il noto ingegnere e docente emerito di idraulica dell'ateneo patavino, era l'ospite d'onore dell'incontro organizzato dal comitato No Grandi Navi sul tema "Sos Laguna". Iniziativa che ha aperto ufficialmente la mostra multimediale, liberamente visitabile nella sala, dedicata alla salvaguardia della laguna di Venezia e al difficile problema di conciliare salvaguardia dell'ecosistema e la portualità.
D'Alpaos, come sua consuetudine, ha tenuta desta la platea con grafici e tabelle, sostenendo con dati e rilevazioni sperimentali le sue tesi.
La sua prima considerazione è stata che troppo spesso vengono confuse e mescolate senza criterio tra aspetti diversi inerenti la gestione della nostra laguna: difesa dalle acque alte, salvaguardie e portualità.
Ognuno di questi aspetti, spiega D'Alpaos, meritano una analisi specifica, in particolare in condizioni critiche come una eventuale chiusura delle bocche di porto. Problemi squisitamente scientifici ma che sono stati sempre messi in secondo piano dalla politica. O meglio, da una politica asservita al partito degli affari.
"Sono oramai trascorsi quattro anni dallo scandalo che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici del Consorzio Venezia Nuova. Sono arrivati i commissari. Tre commissari. Sarebbe stato preferibile uno solo, in modo da avere un referente certo e una responsabilità certa, Ma ne hanno voluto tre. Ad ognuno di loro sono stati affiancati tre cosiddetti suggeritori. Cosa è cambiato? Possiamo dire oggi con assoluta certezza che i problemi della salvaguardia restano, oggi come nel passato, sempre nello sfondo. Qualche magari vengono anche ricordati in qualche intervista, ma sono comunque secondari".
In quanto alla decisione del Governo di eliminare la figura istituzionale del Magistrato alle Acque, commenta D'Alpaos, "è stata un grave errore. I governanti hanno confuso l'istituzione con il mal operato delle persone che tra l'altro, loro stessi avevano messo dentro. Invece di sopprimere l'istituzione, meglio sarebbe stato metterla in grado di difendersi da una occupazione militare da parte della politica. Oggi come ieri, continuano a dominare i portatori di interessi privati che sostengono obiettivi funzionali a questi loro interessi, senza mai chiedersi quali siano le ricadute sull'ecosistema lagunare".
In altre parole, come gli ambientalisti hanno più volte ribadito anche in tempi non sospetti, quello che è marcio in tutto l'affare della salvaguardia, dal Mose alle bonifiche, non erano solo le mele ma tutto l'albero. Scandali ed arresti non hanno cambiato nulla.
"Doveva arrivare un'epoca nuova, ci hanno detto, ma sono arrivati soli i commissari e gli aiutanti dei commissari. E' stata soltanto la solita operazione gattopardesca. Il ministro si è vantato di aver messo degli uomini di fiducia. Sarebbe stato meglio degli uomini competenti in materia considerato che, quello che dovevano fare questi commissari era gestire una questione tecnici e scientifica".
Commissari che, spiega D'Alpaos, mancano tra le altre cose anche di tempismo, considerato che parlano quando non dovrebbero parlare e tacciono quando dovrebbero farsi sentire. Il brillante ingegnere idraulico ricorda un paio di esempi: il ventilato scavo di nuovi canali e la proposta di una chiusura differenziata delle bocche di porto.
Sulla prima questione, basterebbe ricordare i disastri conseguenti allo scavo del canal dei Petroli per rendersi conto che le autostrade d'acqua non sono compatibili con la morfologia lagunare.
In quanto alla chiusura differenziata, D'Alpaos ricorda che l'idea era già stata proposta al Comitatone "quando ancora questa era una istituzione seria, la scienza aveva il suo peso e davvero si ragionava di salvaguardia. Non come ora che è al massimo un Comitatino". Ipotesi interessante per quanto riguarda la difesa dalle acque alte ma improponibile per il gioco di correnti che si creerebbe ed i conseguenti movimenti di sedimentazioni.
Luigi D'Alpaos ricorda anche i dati e le previsioni di innalzamento del livello del mare studiate dall'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, premi Nobel per le fisica. Anche nella migliore delle ipotesi, quella devastante assurdità chiamata Mose sarebbe fuori gioco.
Dati e tabelle alla mano, l'ingegnere idraulico si è divertito a calcolare le ore in cui, in un ipotetico anno 2010, le bocche di porto dovrebbero rimanere chiuse. Se consideriamo lo scenario più auspicabile disegnato dall'ilcc, quello del contenimento della temperatura sotto i due gradi, in una stagione appena un po' ventosa, le bocche di porto saranno chiuse per circa sei mesi, Se poi dovesse avverarsi lo scenario peggiore, le porte dovrebbero rimanere sempre chiuse. E addio laguna.
"In queste condizioni come si fa a parlare di mantenimento della portualità? Chi è quell'armatore che manda una sua nave in porto chiuso per sei mesi all'anno e in balia di un po' di scirocco? Non c'è nulla da fare. E' tutta la filosofia con cui è stata realizzato il Mose che è sbagliata. Salvaguardia dalle alta maree e portualità sono inconciliabili tra di loro. E tutti coloro che si battono per far entrare le Grandi Navi in Laguna, magari scavando altri canali, sono destinati a rimanere delusi. Resta il perché di un progetto realizzato così male. Va bene incapacità, ma credo che nessuno poteva ignorare questi dati. Mi sono fatto l'idea che sapessero tutto sin dall'inizio e abbiano solo cercato pretesti su pretesti per prepararsi a quella grande abbuffata che altro non è stato il Mose".
D'Alpaos, come sua consuetudine, ha tenuta desta la platea con grafici e tabelle, sostenendo con dati e rilevazioni sperimentali le sue tesi.
La sua prima considerazione è stata che troppo spesso vengono confuse e mescolate senza criterio tra aspetti diversi inerenti la gestione della nostra laguna: difesa dalle acque alte, salvaguardie e portualità.
Ognuno di questi aspetti, spiega D'Alpaos, meritano una analisi specifica, in particolare in condizioni critiche come una eventuale chiusura delle bocche di porto. Problemi squisitamente scientifici ma che sono stati sempre messi in secondo piano dalla politica. O meglio, da una politica asservita al partito degli affari.
"Sono oramai trascorsi quattro anni dallo scandalo che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici del Consorzio Venezia Nuova. Sono arrivati i commissari. Tre commissari. Sarebbe stato preferibile uno solo, in modo da avere un referente certo e una responsabilità certa, Ma ne hanno voluto tre. Ad ognuno di loro sono stati affiancati tre cosiddetti suggeritori. Cosa è cambiato? Possiamo dire oggi con assoluta certezza che i problemi della salvaguardia restano, oggi come nel passato, sempre nello sfondo. Qualche magari vengono anche ricordati in qualche intervista, ma sono comunque secondari".
In quanto alla decisione del Governo di eliminare la figura istituzionale del Magistrato alle Acque, commenta D'Alpaos, "è stata un grave errore. I governanti hanno confuso l'istituzione con il mal operato delle persone che tra l'altro, loro stessi avevano messo dentro. Invece di sopprimere l'istituzione, meglio sarebbe stato metterla in grado di difendersi da una occupazione militare da parte della politica. Oggi come ieri, continuano a dominare i portatori di interessi privati che sostengono obiettivi funzionali a questi loro interessi, senza mai chiedersi quali siano le ricadute sull'ecosistema lagunare".
In altre parole, come gli ambientalisti hanno più volte ribadito anche in tempi non sospetti, quello che è marcio in tutto l'affare della salvaguardia, dal Mose alle bonifiche, non erano solo le mele ma tutto l'albero. Scandali ed arresti non hanno cambiato nulla.
"Doveva arrivare un'epoca nuova, ci hanno detto, ma sono arrivati soli i commissari e gli aiutanti dei commissari. E' stata soltanto la solita operazione gattopardesca. Il ministro si è vantato di aver messo degli uomini di fiducia. Sarebbe stato meglio degli uomini competenti in materia considerato che, quello che dovevano fare questi commissari era gestire una questione tecnici e scientifica".
Commissari che, spiega D'Alpaos, mancano tra le altre cose anche di tempismo, considerato che parlano quando non dovrebbero parlare e tacciono quando dovrebbero farsi sentire. Il brillante ingegnere idraulico ricorda un paio di esempi: il ventilato scavo di nuovi canali e la proposta di una chiusura differenziata delle bocche di porto.
Sulla prima questione, basterebbe ricordare i disastri conseguenti allo scavo del canal dei Petroli per rendersi conto che le autostrade d'acqua non sono compatibili con la morfologia lagunare.
In quanto alla chiusura differenziata, D'Alpaos ricorda che l'idea era già stata proposta al Comitatone "quando ancora questa era una istituzione seria, la scienza aveva il suo peso e davvero si ragionava di salvaguardia. Non come ora che è al massimo un Comitatino". Ipotesi interessante per quanto riguarda la difesa dalle acque alte ma improponibile per il gioco di correnti che si creerebbe ed i conseguenti movimenti di sedimentazioni.
Luigi D'Alpaos ricorda anche i dati e le previsioni di innalzamento del livello del mare studiate dall'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, premi Nobel per le fisica. Anche nella migliore delle ipotesi, quella devastante assurdità chiamata Mose sarebbe fuori gioco.
Dati e tabelle alla mano, l'ingegnere idraulico si è divertito a calcolare le ore in cui, in un ipotetico anno 2010, le bocche di porto dovrebbero rimanere chiuse. Se consideriamo lo scenario più auspicabile disegnato dall'ilcc, quello del contenimento della temperatura sotto i due gradi, in una stagione appena un po' ventosa, le bocche di porto saranno chiuse per circa sei mesi, Se poi dovesse avverarsi lo scenario peggiore, le porte dovrebbero rimanere sempre chiuse. E addio laguna.
"In queste condizioni come si fa a parlare di mantenimento della portualità? Chi è quell'armatore che manda una sua nave in porto chiuso per sei mesi all'anno e in balia di un po' di scirocco? Non c'è nulla da fare. E' tutta la filosofia con cui è stata realizzato il Mose che è sbagliata. Salvaguardia dalle alta maree e portualità sono inconciliabili tra di loro. E tutti coloro che si battono per far entrare le Grandi Navi in Laguna, magari scavando altri canali, sono destinati a rimanere delusi. Resta il perché di un progetto realizzato così male. Va bene incapacità, ma credo che nessuno poteva ignorare questi dati. Mi sono fatto l'idea che sapessero tutto sin dall'inizio e abbiano solo cercato pretesti su pretesti per prepararsi a quella grande abbuffata che altro non è stato il Mose".
L'Italia sotto la neve. E sotto la neve, le Grandi Opere
3/03/2018Global Project
La prima domanda da che viene in mente a chi ascolta un Tg o legge un giornale in questi giorni, è come sia possibile che basti una nevicata un po' più consistente del solito per mettere in ginocchio l'intero Paese. Non è neppure il caso di scomodate i Cambiamenti Climatici. Tanto per citare un argomento che, in quest'ultima campagna elettorale, tutti sembrano aver dimenticato pur se dovrebbe essere centrale nel programma di governo di ciascuna formazione politica. Ma queste ultime nevicate con i Cambiamenti Climatici hanno poco a che fare! Ci spiegano, i meteorologi, che ogni 5 o 6 anni, statisticamente, si abbatte sull'Italia un ciclo nevoso che sfora dalle medie stagionali e che si rivela particolarmente inteso se accompagnato dall'arrivo del freddo vento siberiano, il Buràn: Proprio come è accaduto quest'ultima settimana. Nessuna novità. Dieci anni fa il Buràn arrivò in ottobre - andate a ripescare i giornali di quei giorni! - e causò gli stessi identici disagio che viviamo ora: treni bloccati, scuole chiuse, traffico fermo e romantiche fotografie delle nostre città storiche ammantate da candide coltri di neve.
Chiedersi come mai in questo decennio non è migliorato niente è una domanda sbagliata. In realtà, le cose sono peggiorate. Soprattutto nelle grandi città, la romantica coltre di candida neve ha congelato tutte le attività umane. Roma è andata in tilt. Napoli pure. Milano sta passando i suoi guai. Anche Venezia è rimasta isolata, sia pure per colpa di un traliccio che il Buràn ha abbattuto proprio sul ponte della Libertà.
Colpa delle amministrazioni comunali, tutte tra l'altro, di diverso colore? Sì e no. Il problema è che gli enti locali sono sempre più poveri perché le "emergenze", vere o presunte tali, sono gestite dai poteri centrali. Già. Perché non c'è niente, in Italia, che meglio si presti a trasformarsi un una fonte di denaro e di potere politico come la gestione delle "emergenze". Fatto sta che i Comuni hanno sempre meno soldi da investire in operazioni di manutenzione quotidiana. Gli spazzaneve non spazzano più le strade, i tecnici non perdono più tempo a verificare la tenuta di sistemi di deflusso e lo stato dei piloni, e anche la posa del sale, che prima veniva sparso sulle strade al primo apparire della neve, oggi viene centellinato. A Venezia, che questa settimana è stata gratificata da una spettacolare nevicata, non è stato sparso come di consueto per calli e campielli. Meno costoso mettere un cartello con scritto "vietato salire" sui punti più rischiosi, come sull'oramai mitico ponte di Calatrava, su cui i ruzzoloni sono diventati oramai una barzelletta. E così, se qualcuno si azzarda a transitarci, cade e si fa male, sono affari suoi, che il Comune lo aveva avvertito. Invece di far causa al Sindaco, rischia una multa.
Un altro punto da sottolineare è quello delle ferrovie. Bastano due fiocchi di neve a paralizzarle. Eppure, che i treni possano viaggiare anche quando la neve cade fitta fitta e tutto gela, ce lo dimostra la Transiberiana. Perché solo in Italia i treni si fermano? Per lo stesso motivo per il quale il viaggiatore da "utente" si è trasformato in "cliente". Spostarsi per andare a scuola o al lavoro non è più un diritto ma un'occasione per far guadagnare le finanziarie che hanno investito nel settore. La Tav è un perfetto esempio di questa devianza. Il progetto non risponde ad una logica di utenza ma ad una logica finanziaria. In altre parole, e oramai lo ammettono anche le fonti governative, l'Alta Velocità non serve a migliorare o a rendere più accessibile la fruizione della tratta da parte dei viaggiatori ma a dirottare denaro pubblico, vagonate di denaro pubblico, ai soliti noti: politici corrotti, amministratori incompetenti, finanzieri truffaldini e aziende in odor di mafia. Sotto questa ottica, perché mai le Ferrovie dovrebbero spendere denaro o impegnare risorse tecniche per far marciare i treni dei pendolari anche sotto la neve? Il costo non vale il guadagno né le perdita.
E questa è l'ottica che sta alla base di tutto quel sistema degno di bancarottieri fraudolenti che altro non sono sono le Grandi Opere.
E' notizia di qualche ora fa che, sempre a causa del maltempo, in Toscana è stato attivato l'allarme per il rischio idrogeologico. Neanche questa è una novità. Che i fiumi straripino quando piove o nevica un po' più del normale accade tutti gli anni, in Italia. Una stima di Legambiente ha quantificato in un milione di euro per ogni giorno di emergenza, i disastri causati dalla mancata prevenzione del rischio idrogeologico. Senza contare i danni ai privati e la perdita di vite umane che non può essere quantificata in denaro. Eppure basterebbe investire 10 miliardi di euro in previsioni di spesa, spalmabili quindi negli anni a venire, per attivare un piano di intervento che metta in sicurezza i corsi d'acqua dell'intero Paese. Poco meno di quando ci è costato - fino ad oggi! - l'incompiuto Mose. Senza contare il centinaio di milioni all'anno che saranno necessari per la sua manutenzione, nel caso, tutt'altro che sicuro, che l'opera venga primo o poi conclusa.
Ma investire in prevenzione, messe in sicurezza e in piccoli interventi sparpagliati in tutto il territorio, dando lavoro a migliaia di persone, investendo nelle piccole imprese e delocalizzando le competenze alle amministrazione locali, non è appetibile ad un sistema finanziario che ha oramai esautorato la politica e decide sul futuro economico e anche sociale del Paese.
Sotto la neve, pane, sotto il cemento, fame, recita un detto. Ma in Italia, se scaviamo sotto la neve troviamo solo le grandi, devastanti ed inutili opere.
Chiedersi come mai in questo decennio non è migliorato niente è una domanda sbagliata. In realtà, le cose sono peggiorate. Soprattutto nelle grandi città, la romantica coltre di candida neve ha congelato tutte le attività umane. Roma è andata in tilt. Napoli pure. Milano sta passando i suoi guai. Anche Venezia è rimasta isolata, sia pure per colpa di un traliccio che il Buràn ha abbattuto proprio sul ponte della Libertà.
Colpa delle amministrazioni comunali, tutte tra l'altro, di diverso colore? Sì e no. Il problema è che gli enti locali sono sempre più poveri perché le "emergenze", vere o presunte tali, sono gestite dai poteri centrali. Già. Perché non c'è niente, in Italia, che meglio si presti a trasformarsi un una fonte di denaro e di potere politico come la gestione delle "emergenze". Fatto sta che i Comuni hanno sempre meno soldi da investire in operazioni di manutenzione quotidiana. Gli spazzaneve non spazzano più le strade, i tecnici non perdono più tempo a verificare la tenuta di sistemi di deflusso e lo stato dei piloni, e anche la posa del sale, che prima veniva sparso sulle strade al primo apparire della neve, oggi viene centellinato. A Venezia, che questa settimana è stata gratificata da una spettacolare nevicata, non è stato sparso come di consueto per calli e campielli. Meno costoso mettere un cartello con scritto "vietato salire" sui punti più rischiosi, come sull'oramai mitico ponte di Calatrava, su cui i ruzzoloni sono diventati oramai una barzelletta. E così, se qualcuno si azzarda a transitarci, cade e si fa male, sono affari suoi, che il Comune lo aveva avvertito. Invece di far causa al Sindaco, rischia una multa.
Un altro punto da sottolineare è quello delle ferrovie. Bastano due fiocchi di neve a paralizzarle. Eppure, che i treni possano viaggiare anche quando la neve cade fitta fitta e tutto gela, ce lo dimostra la Transiberiana. Perché solo in Italia i treni si fermano? Per lo stesso motivo per il quale il viaggiatore da "utente" si è trasformato in "cliente". Spostarsi per andare a scuola o al lavoro non è più un diritto ma un'occasione per far guadagnare le finanziarie che hanno investito nel settore. La Tav è un perfetto esempio di questa devianza. Il progetto non risponde ad una logica di utenza ma ad una logica finanziaria. In altre parole, e oramai lo ammettono anche le fonti governative, l'Alta Velocità non serve a migliorare o a rendere più accessibile la fruizione della tratta da parte dei viaggiatori ma a dirottare denaro pubblico, vagonate di denaro pubblico, ai soliti noti: politici corrotti, amministratori incompetenti, finanzieri truffaldini e aziende in odor di mafia. Sotto questa ottica, perché mai le Ferrovie dovrebbero spendere denaro o impegnare risorse tecniche per far marciare i treni dei pendolari anche sotto la neve? Il costo non vale il guadagno né le perdita.
E questa è l'ottica che sta alla base di tutto quel sistema degno di bancarottieri fraudolenti che altro non sono sono le Grandi Opere.
E' notizia di qualche ora fa che, sempre a causa del maltempo, in Toscana è stato attivato l'allarme per il rischio idrogeologico. Neanche questa è una novità. Che i fiumi straripino quando piove o nevica un po' più del normale accade tutti gli anni, in Italia. Una stima di Legambiente ha quantificato in un milione di euro per ogni giorno di emergenza, i disastri causati dalla mancata prevenzione del rischio idrogeologico. Senza contare i danni ai privati e la perdita di vite umane che non può essere quantificata in denaro. Eppure basterebbe investire 10 miliardi di euro in previsioni di spesa, spalmabili quindi negli anni a venire, per attivare un piano di intervento che metta in sicurezza i corsi d'acqua dell'intero Paese. Poco meno di quando ci è costato - fino ad oggi! - l'incompiuto Mose. Senza contare il centinaio di milioni all'anno che saranno necessari per la sua manutenzione, nel caso, tutt'altro che sicuro, che l'opera venga primo o poi conclusa.
Ma investire in prevenzione, messe in sicurezza e in piccoli interventi sparpagliati in tutto il territorio, dando lavoro a migliaia di persone, investendo nelle piccole imprese e delocalizzando le competenze alle amministrazione locali, non è appetibile ad un sistema finanziario che ha oramai esautorato la politica e decide sul futuro economico e anche sociale del Paese.
Sotto la neve, pane, sotto il cemento, fame, recita un detto. Ma in Italia, se scaviamo sotto la neve troviamo solo le grandi, devastanti ed inutili opere.
L'Eni pronta a trivellare l'Alaska
4/12/2017Global Project
Abbattuti i vincoli di Obama, la multinazionale italiana è la prima azienda ad ottenere i permessi di ricerca petrolifera nel mare di Beaufort
Di Donald Trump si può dire di tutto ma non che sia uno che non mantiene la promesse. "La nostra economia si è fatta grande grazie al petrolio - aveva dichiarato prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti - e al petrolio torneremo in grande stile!" Detto e fatto. Il presidente che ha chiuso le porte ai migranti provenienti dai Paesi Canaglia, ha spalancate quelle stesse porte ai petrolieri, da qualsiasi Paese provengano. Ed i più lesti ad entrare sono stati quelli nostrani, quelli dell'italianissima Eni che è diventata così la prima multinazionale autorizzata ad andar di trivella dove nessuno aveva mai trivellato prima: nelle incontaminate acque della baia di Prudhoe, nel mare di Beaufort che bagna le gelide sponde settentrionali dell'Alaska. Proprio come aveva annunciato in campagna elettorale, il presidente tycoon ha lavorato sin dai suoi primi giorni alla Casa Bianca per affondare uno ad uno tutti i divieti sulle trivellazioni posti dal suo predecessore Barack Obama, che aveva tentato di dare una svolta green all'economia americana.
E se il petrolio è oramai ridotto agli sgocciolii anche negli ex ricchi giacimenti del Texas e delle terre artiche, ragione di più - suppone Trump - per incentivarne la ricerca, sostenendola anche con fondi statali, in luoghi dove fino a poco tempo fa l'attività non era neppure considerata conveniente, vuoi perché le condizioni climatiche rendevano l'estrazione proibitiva e poco remunerativa, o vuoi perché la particolare delicatezza dell'ecosistema comportava un inaccettabile rischio ecologico.
Caratteristiche queste che riscontriamo entrambe nell'Alaska. Uno degli ultimi paradisi (quasi) incontaminati della nostra terra e, allo stesso tempo, un ambiente difficile in cui operare. Tanto difficile che nel 2015, la Royal Dutch Shell che aveva un permesso di ricerca in quelle acque aveva preferito rinunciare all'incarico dopo l'insorgere di una serie di incidenti che solo per fortuna non si sono tramutati in disastri ambientali. Gli ambientalisti, all'epoca, avevano cantato vittoria sperando che con la rinuncia della Royal Dutch e con la svolta ambientalista di Barack Obama, fosse tramontato l'ultimo tentativo dell'uomo di trivellare l'artico.
Ed invece, c'è voluta l'elezione di Trump per scombinare tutto, tornare indietro di 20 anni ed aprire le porte ad una nuova esplorazione estrattiva in Alaska. A farsi avanti per prima, come abbiamo detto in apertura, è stata l'italianissima Eni: l'azienda creata da Enrico Mattei con lo scopo di dare una politica energetica al nostro Paese, e tramutatasi in seguito in una spa con il solo fine di far cassa per i suoi azionisti, attualmente guidata dalla presidente Emma Marcegaglia e dall'amministratore delegato Claudio Descalzi.
E' notizia di questi giorni che l'Eni, grazie alla svolta della nuova amministrazione presidenziale Usa, ha incassato anche il definitivo parere positivo del Bureau of Safety and Environmental Enforcement, dopo il contestatissimo da parte ambientalista nulla osta regalatogli lo scorso luglio dal Bureau of Ocean Energy Management. Per la multinazionale italiana si tratta di un doppio regalo natalizio targato Donald Trump. Non soltanto potrà estendere la ricerca petrolifera nella acque antistanti l'isola di artificiale di Spy, nella baia di Prudhoe, dove già possiede 18 pozzi in attività, ma potrà automaticamente contare sul rinnovo di questa concessione di estrazione. Concessione che, nei piani di Obama, avrebbe dovuto abbandonare per sempre.
"Concedendo a questa società straniera il permesso di trivellare il mare antistante l'Alaska, - ha dichiarato preoccupato Kristen Monsell, direttore dell'associazione Center for Biological Diversity che ha tentato di opporsi alle decisioni dei due Bureau - il presidente Trump sottopone il Paese e l'oceano ad un rischio ambientale gravissimo. Le condizioni in cui l'Eni deve operare sono tali da far temere alte probabilità di incidenti e di sversamenti che causerebbero danni irreparabili a tutto l'ecosistema costiero e anche a quello marino che, ricordiamolo, è fondamentale per l'equilibrio dell'intero pianeta".
Agli ambientalisti ha risposto Scott Angelle, presidente del Bureau of Safety, che ha citato il provvedimento America-First Offshore Energy Strategy firmato di pugno da Donald Trump: "Lo sviluppo di risorse responsabili nell’Artico è una componente essenziale per centrare l’obiettivo della dominanza energetica". E perché non si dica che l'amministrazione Trump non ha a cuore l'ambiente, ha promesso Angelle, "stiamo lavorando con gli autoctoni dell’Alaska e i nostri partner per un approccio bilanciato all’esplorazione di petrolio nell’Artico".
L'aspetto più ridicola di tutta questa triste faccenda - oltre al concetto trumpiano di "dominanza energetica" che vuol dire non aver intuito neppure alla lontana cosa stiamo rischiando tutti noi, passeggeri del pianeta Terra, con i cambiamenti climatici in atto - è proprio questo "approccio bilanciato". Per accontentare gli animalisti infatti, i permessi di esplorazione sono stati concessi solo per i mesi invernali, quando cioè le balene, le foche e gli orsi polari che per il resto dell'anno hanno l'abitudine di affollare la baia di Prudhoe, sono meno presenti! Metti caso che gli rovini il sonno…
E di tutto questo l'Eni che dice? Niente. Neppure un commento o una nota. Nel sito del Cane a Sei Zampe si continua a leggere di quante belle cose l'azienda mette in campo per lo "sviluppo sostenibile" in Ghana o per diffondere le energie rinnovabili in Angola. Parla di innovazione, di formazione e di lavoro per i giovani, discute in costosissimi convegni di "sicurezza, migrazione e lotta al terrorismo" (termini che, già accostandoli, non si fa un favore alla verità…), e progetta futuri "verdi" per porto Marghera. Cliccando qua e là troviamo anche un intero capitolo sui cambiamenti climatici e scopriamo che l'azienda "riconosce la loro evidenza scientifica" ed è "seriamente impegnata a contrastarli". C'è anche tutta una "strategy" per un futuro "low carbon" basato su uno studio di "governance & risk management" a sua volta basato su "cinque driver"… Ma sulle stazioni in Alaska nessuna notizia. Neppure un rigo. Neanche su foche, orsi e balene insonni.
Quel dialogo tra sordi chiamato Cop 23
9/11/2017EcoMagazine, Global Project
Doveva essere una Cop dai contorni essenzialmente tecnici, questa che si è aperta a Bonn lunedì 6 e che si svolgerà sino a giovedì 16 novembre. Una Cop senza grandi novità né particolari aspettative. Perlomeno prima che arrivasse Donald Trump a scombinare tutto. Doveva essere un incontro lontano dai fari della politica e circoscritto in contorni decisamente organizzativi per dare modo ai delegati dei 196 Stati che avevano ratificato l'accordo di Parigi, cui si è recentemente aggiunta anche la Siria, di accordarsi su come continuare quel percorso già avviato in Francia, stabilendo nei dettagli i contributi da versare, gli obiettivi e le misure da adottare per ridurre la produzione di gas climalteranti. Lo scopo di questa Cop 23, in altre parole, era quello di dare un contenuto dettagliato e pratico a quel famoso - e generico! - obiettivo di "mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2 gradi centigradi, meglio di 1,5, in più rispetto ai livelli pre-industriali" con il quale si terra concluso la sessione parigina.
Obiettivo questo, che già all'epoca a molti commentatori avevano definito "utopico" ma che rappresentava, quantomeno per i movimenti ambientalisti, una base di partenza e di lotta per poter esercitare pressioni sui loro Governi, fedeli al motto "pensare globalmente, agire localmente". Governi, c'è da sottolineare, sempre restii a tradurre in leggi quanto pomposamente sottoscritto negli accordi internazionali a salvaguardia dell'ambiente. Citiamo solo il caso dell'Italia che, dopo aver ratificato Cop 21 che metteva i fossili dalla parte sbagliata delle storia, rinnova le concessioni alle multinazionali per le trivellazioni del mare. Citiamo l'Italia perché è il Paese in cui viviamo, ma gli Usa, stavolta, hanno fatto decisamente peggio. Già in apertura dellla conferenza, i delegati a stelle e strisce hanno pubblicamente dichiarato che loro sono entrati in aula "solo per tutelare gli interessi dei cittadini americani" e nient'altro. Come se gli Stati Uniti non facessero parte del pianeta Terra!
Non è un segreto che Donald Trump ritenga i cambiamenti climatici una bufala da complottisti e che non abbia nessuna intenzione di trattare su quello che ritiene "l'attuale livello di agiatezza americano", basato sull'economia fossile. I recenti cataclismi che hanno devastato anche il sud degli States, non gli hanno fatto cambiare idea. Avvenimenti naturali contro i quali, a parer suo, si può solo pregare dio.
Sin dai primi giorni del suo mandato, Trump ha cominciato a smantellare quanto di buono aveva fatto Obama in tema di ambiente, tra gli applausi delle multinazionali dei fossili che hanno negli Stati Uniti e nel Canada le loro trincee più forti. L'obiettivo del miliardario diventato presidente è ora quello di svincolarsi dagli impegni di Cop21. Non lo potrà fare subito, perché bisogna rispettare l'iter procedurale stabilito dalle Nazioni Unite ma sin da questi primi giorni di incontri è apparso chiaro che la delegazione Usa non ha fatto altro che complicare o addirittura respingere qualsiasi tentativo di lavorare per una soluzione comune.
Atteggiamento questo, che ha irritato in particolare i francesi che, probabilmente, nel rigetto statunitense dell'accordo di Parigi leggono un affronto personale alla loro "grandeur". La delegazione francese, con questo che è stato definito un vero e proprio "strappo diplomatico", ha già fatto sapere che intende organizzare un summit subito dopo questo di Bonn senza invitare gli Usa. Il che non è una cattiva idea. E' molto probabile che proprio l'atteggiamento negativo dei delegati Usa impedirà all'assemblea di risolvere uno dei nodi centrali di Cop 23. Ovvero, quello dei finanziamenti necessari a "rinverdire" l'economia: i famosi 100 miliardi di dollari all'anno. Dollari che, di sicuro, non saranno gli Usa a sborsare, pur se il Paese nordamericano è tra i maggiori produttori mondiali di emissioni climalteranti. Bisognerà, dice la Francia, sedersi ad un nuovo tavolo e rifare i conti senza i cugini d'oltreoceano.
Cop 23 si presenta quindi come un fallimento annunciato. Un fallimento che oltre a tutto lascia aperte tre pericolose domande: è realizzabile l'obiettivo di contenere i cambiamenti climatici entro i 2 gradi senza gli Usa? è pensabile di finanziare questo obiettivo senza il contributo economico degli Usa? Terza e fondamentale questione: come reagiranno le altre potenze mondiali - dalla Cina ai Paesi Arabi, ma mettiamoci anche l'Europa- nel constatare che il Paese più ricco e maggiormente inquinante rifiuta qualsiasi vincolo internazionale e si prepara a giocare sul panorama dell'economia mondiale senza regole e senza limiti imposti?
Sono pochi coloro che ancora si ostinano a trovare risposte positive a questi quesiti.
Eppure, Cop 23 era nato all'insegna del dialogo, della "talanoa". Parola che nella lingua parlata alle isole Fiji, cui spetta la presidenza del vertice, significa "parlare con il cuore". Sarà invece un incontro con sordi che hanno scelto di tornare a 20 anni fa, quando ancora i Cambiamenti Climatici erano una teoria come tante altre.
Per dirla con le parole di Patricia Espinosa, presidente dell'Unfccc, Cop 23 doveva essere "il momento per passare dalla speranza all'azione". Rischia invece di passare alla storia come il vertice in cui la speranza di contenere l'aumento di temperature entro i due gradi è definitivamente morta.