In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Referendum Grandi Navi. L’appello di EcoMagazine per il SI’

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Ci siamo. Oggi l’altra Venezia, quella che respira con la sua laguna, la Venezia che non ci sta a lasciarsi trasformare in un grande parco giochi per turisti, questa Venezia no logo, scende in calle e va a votare. Le attiviste e gli attivisti del comitato No Grandi Navi, dei centri sociali e delle associazioni ambientaliste hanno sistemato seggi in tutte i principali luoghi della città. Sarà impossibile per un veneziano, o anche per un visitatore diretto alla Biennale o alle spiagge, uscire di casa senza incocciarne uno. Un modo anche questo di riappropriarsi dei campi e delle fondamente della nostra città e di rispondere con i fatti a chi si lamenta del degrado scrivendo lettere ai giornali o postando foto di amorosi lucchetti serrati nelle ringhiere dei ponti sui social.
Perché, sia ben chiaro a tutti, che non andremo a votare solo per cacciare le Grandi Navi dalla laguna. Certo, quelle specie di condomini galleggianti, con i motori accesi anche all’ormeggio, sono una fabbrica di inquinamento come neanche un inceneritore riesce ad essere. Certo, il loro assurdo via vai per scarrozzare qualche turista idiota e dargli l’illusione di aver viaggiato per mare, ha il solo effetto di far guadagnare milioni alle compagnie crocieristiche e maciullare i fondali della laguna mettendo a rischio un equilibrio salvaguardato per secoli. Certo, il gigantismo ha fatto il suo tempo come le energie fossili che lo hanno nutrito. In qualunque direzioni questi villaggi vacanze low cost galleggianti girino la prua, il futuro della terra - sempre che la terra abbia un futuro - sta dall’altra parte.


Tutto questo è vero. Ma nel referendum che voteremo oggi, in quella scheda che ci chiede di decidere se le Grandi Navi debbano rimanere fuori o dentro la laguna, c’è molto di più. C’è la voglia inarrestabile di una città unica al mondo e dei suoi cittadini, lasciatemelo dire, anche loro unici al mondo, di riprendersi in mano il destino e cominciare a guardare al futuro come ad un orizzonte verso il quale dirigersi.
Di immaginare un domani possibile per la nostra città, di compiere quelle scelte a difesa della laguna che il Governo centrale, al pari di quello regionale, non ha mai saputo o voluto fare, limitandosi ad avallare passivamente gli interessi delle grandi compagnie che hanno mercificato, stuprato ed umiliato un bene prezioso, come la nostra incantevole laguna, che appartiene a tutti i veneziani come a tutti coloro che amano con sincerità la nostra città. E non è per caso che il referendum dia anche a loro il diritto di esprimersi col voto.
Perché, il vero degrado che affligge l’antica città dei Dogi non sono i lucchetti sui ponti (che ho trovato in tutte le città del mondo in cui sono stato) e neppure qualche turista sbalconato che si tuffa di testa in canal Grande (cosa che, magari non nel Canalasso ma in qualche canale secondario, facevano anche i nostri genitori). Il vero degrado di Venezia è stato lo scippo ai danni dei suoi cittadini della possibilità di decidere sulla loro città. E tutto in nome degli interessi del mercato. Perchè Venezia, come spiega sempre il nostro, ahimé, sindaco Brugnaro Luigi "xe schei". Il degrado invece, sono proprio questi "schei". Il degrado è il Mose e quel consorzio di banditi che ha corrotto, devastato ed inquinato la democrazia. Il degrado sono le barene artificiali e la trasformazione della laguna in un braccio di mare aperto. Degrado è non aversi saputo dotare di strumenti, come doveva essere il parco della laguna, atti a tutelare un ecosistema unico al mondo. Degrado è una giunta comunale che pensa di risolvere il problema del degrado licenziando gli operatori sociali e assumendo vigili palestrati e pistolettati come cowboy.
Le Grandi Navi, che nessuno a Venezia vuole ma che continuano ad andare su e giù nei nostri canali alla faccia nostra… anche questo è degrado.
Per questo domani andremo tutti a votare. Come in quella vecchia canzone che ascoltavo da ragazzino: per riprenderci in mano la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.

I Pfas versati in Veneto ammazzano. Lo svela una ricerca pubblicata sul European Journal of Public Health

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Di Pfas si muore. E si muore male. Ad affermarlo non sono più i "soliti" ambientalisti ma una ricerca pubblicata sull'ultimo numero dell'European Journal of Public Health. Rivista scientifica con tanto di peer review, vale a dire la procedura di valutazione applicata a tutte le pubblicazioni specialistiche da parte di esperti nel settore atta a verificare ed a garantire la validità di quanto pubblicato. La ricerca in questione, titolata "Drinking water contamination from perfluoroalkyl substances (Pfas): an ecological mortality study in the Veneto Region, Italy" (traducibile con "Contaminazione da acqua potabile da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas): uno studio ecologico di mortalità nella Regione Veneto, Italia") porta la firma di una equipe di scienziati coordinata dalla biologa Marina Mastrantonio dell'Enea. In fondo alla pagina, come allegato potete leggere una sua breve presentazione e l'integrale dell'intervista.
La ricerca ha messo a confronto i decessi avvenuti in Veneto nei Comuni dove le acque sono state contaminate dalle sostanze perfluoroalchiliche, Pfas, e quelli non interessati da questi inquinante, rivelando una innegabile presenza statistica nei primi di patologie come il tumore al rene e del seno, il diabete, le malattie cerebrovascolari, l'infarto miocardico, le malattie di Alzheimer e di Parkinson. Nonché un aumento della mortalità media di circa il venti per cento.


"Dal nostro studio - spiega la biologa - è emerso come nei comuni contaminati da Pfas ci siano degli eccessi statisticamente significativi della mortalità per alcune cause che non andrebbero sottovalutati in quanto la letteratura scientifica suggerisce un’associazione tra queste patologie ed esposizione a Pfas. In particolare è stato rilevato un aumento della mortalità generale negli uomini e nelle donne rispettivamente del 19% e 21%, del diabete (21% e 48%), malattie cerebrovascolari (34% e 29%) infarto (22% e 24%) e malattia di Alzheimer (33% e 35%). Nelle sole donne si osserva un aumento del 32% della mortalità per tumore del rene, del 11% del tumore della mammella e del 35% di Parkinson".
Le zone inquinate dalla lavorazione della Miteni, l'azienda che utilizzava i Pfas per produrre tessuti impermeabili, si estende per circa 200 chilometri quadrati e tocca 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo. Un bacino di circa 800 mila residenti potenzialmente vittime della contaminazione. Nell'immagine a fianco, le aree prese in considerazione dalla ricerca della dottoressa Mastrantonio e l'elenco dei Comuni nei quali è stato riscontrato una alta percentuale di decessi imputabili alle sopracitate patologie.
Da sottolineare come questa sia la prima indagine epidemiologica svolta in Italia su una popolazione la cui acqua sia stata contaminata da Pfas. Un inquinante che potremmo definire "emergente", come spiega la biologa dell'Enea. "Come è noto i PFAS sono un gruppo eterogeneo di composti chimici molto stabili e ampiamente utilizzati in diversi prodotti (pesticidi, rivestimenti in carta e cartone, detergenti, cere per pavimenti, vernici, schiume antincendio, oli idraulici, rivestimenti antiaderenti delle pentole (Teflon) trattamenti dei tessuti impermeabili e traspiranti (Goretex). Di conseguenza, i Pfas rappresentano una classe emergente di inquinanti ambientali, ubiquitari, altamente persistenti, rilevabili in tutte le matrici (acqua, aria, suolo) e soggetti a bioaccumulo lungo la catena alimentare. I più importanti studi sulla tossicità dei PFAS nell’uomo sono stati eseguiti a seguito dello sversamento di queste sostanze nel fiume Ohio, in Virginia. Una azienda della Dupont che produceva Teflon vi riversava i suoi reflui idrici e l’acqua del fiume era utilizzata a scopo potabile. A seguito di una class action intentata dalla popolazione interessata, la Dupont fu costretta a finanziare una ricerca indipendente sugli effetti sanitari dei PFAS".
La ricerca, in lingua inglese che potete scaricare in fondo alla pagina, conclude con un invito alla Regione Veneto di avviare "azioni immediate per evitare ulteriori esposizioni delle popolazioni a PFAS nell'acqua potabile".
Azioni che, al di là di qualche dichiarazione di intenti di effettuare screening sulla popolazione, stiamo ancora aspettando. La stessa ricerca in questione non ha avuto nessun riscontro da parte della nostra Regione.
Bisogna anche considerare che il problema non sta solo nel verificato aumento di decessi per patologie imputabili a queste sostanze perfluoroalchiliche. Questi inquinanti sono responsabili anche di malattie a bassa mortalità ma comunque pericolose e debilitanti. "Nelle popolazioni residenti in aree altamente contaminate e nei lavoratori esposti professionalmente - continua la biologa Marina Mastrantonio – sono state rilevate associazioni con ipertensione in gravidanza, aumenti dei livelli di acido urico, arteriosclerosi, ischemie cerebrali e cardiache, infarto miocardico acuto e diabete. Per quanto riguarda le patologie tumorali, incrementi del rischio sono stati evidenziati soprattutto nelle popolazioni professionalmente esposte per tumori del testicolo, rene, vescica, prostata, ovaio, mammella, fegato, pancreas, linfoma non Hodgkin, leucemie e mieloma multiplo".
E conclude: "Sulla base di tali evidenze e per un principio precauzionale non consiglierei agli abitanti delle aree interessate di bere acqua del rubinetto".

Venezia vs Grandi Navi. Domenica 18 giugno si vota Sì al Referendum

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Sarà una domencia importante per Venezia, quella del 18 giugno. Il comitato cittadino che lotta contro le Grandi Navi e il loro carico di inquinamento e di devastazione delle rive e dei fondali lagunari, ha indetto un referendum popolare autogestito. Il quesito è facile: "Vuoi che le Grandi navi da crociera restino fuori dalla laguna di Venezia e che non vengano effettuati nuovi scavi all'interno della laguna stessa?" La risposta che il comitato chiede alla cittadinanza è naturalmente Sì.
Stiamo parlando, ovviamente, di un referendum autoconvocato, considerato che i favorevoli alle Grandi Navi non hanno accettato di misurarsi nelle urne, ma che ha comunque un grande valore politico. Per la prima volta, i veneziano avranno la possibilità di contarsi e di dire la loro opinione su un problema, come quello delle Grandi Navi, sul quale non hanno mai avuto voce, considerando che fino ad oggi ad esprimersi sono stati solo ministeri, comitatoni vari e, last but not least, le compagnie di crociera che sono le vere padrone della laguna. Considerando che se ne sono bellamente infischiate di tutte le decisioni prese dalle autorità politiche. Anche i decreti che cercavano di contenere i danni all'ecosistema, come quello Clini Passera che il 2 marzo 2012 aveva vietato il transito anche alle stazze superiori alle 40 mila tonnellate, hanno avuto vita breve di fronte alle pressioni delle multinazionali del turismo. Quelle che Venezia la sfruttano solo e non lasciano un soldo in città.


Il referendum del 18 giugno sarà quindi una imperdibile occasione per riprendere voce sul governo della nostra città, per ribadire che la nostra salute è importante e non può essere compromessa dai fumi delle Grandi Navi che sparano inquinanti come due autostrade, per ricordare che Venezia è laguna e che la laguna non è un braccio di mare che può essere scavato a piacimento, solo per farci transitare queste specie di villaggi vacanze galleggianti che portano profitto ai soliti noti mercificando beni di tutti.
Già che ci siamo, il referendum sarà anche una opportunità di ricordare che i cambiamenti climatici si combattono localmente, invertendo la rotta di quel gigantismo consumista di cui le Grandi navi sono una bandiera. Donald Trump non è l'unico dinosauro fautore delle energie fossili al mondo. Cominciamo a combattere quelli che vorrebbero prosperare a casa nostra. Una Grande Nave produce più Co2 di una portaerei da guerra. Un motivo di più per andare a votare Sì al referendum. Perché se la terra avrà un futuro, questo sarà senza fossili. E senza Grandi Navi.

Clima - Ultimo tango a Parigi

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Non è il primo "pacco" targato Stelle&Strisce, questo di Trump, che arriva al pianeta Terra, pur se rischia di essere l'ultimo e il più pesante. E sempre in nome del principio "American First". Prima l'America. Come se l'America non facesse parte del pianeta Terra! Considerazione questa che ha fatto dire al regista Michael Moore che «il partito Repubblicano americano è la più grande organizzazione criminale su scala planetaria». 
Ricordiamoci che il percorso istituzionale per contrastare (ma sarebbe più corretto dire “contenere) i cambiamenti climatici, cominciato a Kyoto nel 2005, è partito senza l'appoggio degli Usa. Questo perché un altro repubblicano, l'allora presidente George Bush, aveva rifiutato di sottoscrivere l'accordo e, anzi, si era dimostrato particolarmente ostile ad ogni mediazione sostenendo che «lo stile di vita degli americani non può essere oggetto di trattativa». 
Altri tempi. Il negazionismo allora, era considerata dai più una teoria rispettabile pur se errata, nonostante tutti i libri e tutte le pubblicazioni a suo sostegno fossero opera di supposti "scienziati" al soldo diretto delle compagnie minerarie o di "giornalisti" che riempivano solo le pagine di diversi giornali. 


Altri tempi. Dieci anni dopo, a Parigi, nessuno ha potuto tirarsi indietro: Cop 21, in tutti i suoi limiti politici ed ambientali stessi, è stato sottoscritto da tutti i Paesi del mondo tranne la Siria (che ha altri problemi) e il Nicaragua (che comunque è già ad emissioni zero ed ha promesso di aderire a breve). Oggi, dire che i cambiamenti climatici non esistono ha la stessa valenza scientifica di affermare che la terra è piatta. Ci possono credere, o far finta di credere, al massimo personaggi tra il grottesco e il cialtronesco come Trump, per l'appunto, o il sindaco di Venezia che ha appena comunicato che il Comune aderirà alla giornata dell'ecologia, ma sottolineando che «non sarà una manifestazione contro l'amico Trump» e che «per contrastare l'inquinamento noi abbiamo già agito in tempi non sospetti con azioni concrete». Una considerazione che non può non lasciarci sgomenti.
Dopo il primo No a Kyoto, gli Usa piano piano sono rientrati nell'accordo, e, grazie all’impegno di Barack Obama, paladino del green capitalism, sono stati tra i promotori dell’accordo parigino del 2015. Stavolta però, non sarà così facile, perlomeno sino a che in sella rimarrà un dinosauro politico del calibro di Donald Trump. 
La sua uscita dagli accordi di Parigi era ampiamente nelle previsioni, giacché in campagna elettorale non aveva fatto che derubricare i cambiamenti del clima come di una "bufala messa in giro dai cinesi". 
Il Donald è un esempio vivente di quell'economia da rapina a mano armata che sottende ad un capitalismo fondato sullo sfruttamento feroce dei fossili ed è comprensibile che del parere della comunità scientifica non abbia alcuna cura. Così come del futuro del pianeta. 
Ma cosa accadrà ora alla Terra? Intanto va a farsi benedire l'obiettivo - già utopico! - di contenere l'impennata del riscaldamento globale sotto i 2 gradi celsius, considerato che gli Usa sono una delle principali cause di questo aumento. E parliamo solo di fonti dirette, di emissioni provenienti dal suolo nazionale, perché andrebbero, a mio parere, considerate anche le emissioni - che non sono affatto trascurabili - che gli Usa spargono nel pianeta con le loro missioni di "pace" ai quattro angoli del globo. La guerra sì; non è un caso che la Siria, da anni teatro di guerra tra i più importanti del globo, non abbia sottoscritto Cop21.
Una prima conseguenza dello svincolamento degli Usa, potrebbe essere una reazione a catena. Già Russia e Paesi arabi ci stanno stretti su Cop21 e non è un caso che siano stati proprio loro a spingere perché non fossero vincolanti. E questo era un limite dell'accordo che avevamo già sottolineato a suo tempo. 
Gli Usa, dando via libera allo sfruttamento indiscriminato delle risorse fossili, si aggiudicano un innegabile vantaggio, oggi negato agli altri Paesi le cui economie ancora puntano su questo mercato e la cui crescita è “frenata” dalla firma del trattato Cop21. 
Perché dovrebbero lasciare agli Stati Uniti un tale vantaggio in questa corsa? Certo. Stiamo parlando di una corsa che ha come traguardo finale un mondo dove l'umanità non può sopravvivere. Ma questo è il capitalismo, bellezza! 
Qualche considerazione invece fa fatta sulla politica americana. Non è un mistero che Trump sia inviso ad una buona parte del suo stesso partito. Non certo per una sciocchezzuola come quella di mettere a repentaglio il futuro del pianeta, ma perché temono che stia dirigendo il Paese dalla parte sbagliata del… capitalismo! Già. Perché c'è una economia, che qualcuno chiama green, che sta spingendo per farsi largo nella spire della finanza mondiale. 
Senza addentrarci su considerazioni etiche riguardo questa nuova finanza -  sempre ammesso che il capitalismo un'etica ce l'abbia, da qualche parte - facciamo notare come la decisione di Donald Trump abbia trovato una immediata e ferrea opposizione da parte delle tante e potenti aziende o multinazionali che si sono riconvertite al verde. 
Un solo esempio: la fondazione Rockefeller ha annunciato da qualche giorno che liquiderà tutte  le sua azioni nel settore dei combustibili fossili in nome della salvaguardia del pianeta. La notizia ha avuto una pesante ricaduta proprio nel momento in cui Trump annunciava l'affondamento di Cop21. Tanto che gli investitori di una compagnia trivellatrice come la ExxonMobil hanno spinto perché questa si impegnasse a rispettare i limiti parigini, indipendentemente dalle decisioni del presidente degli Stati Uniti. E così hanno fatto altre multinazionali, non solo quelle green. Google, Microsoft nel settore dell'informatica, Unilever nel campo dell'alimentazione e tante altre ancora hanno dichiarato che, Trump o no, i limiti di Parigi, loro li rispetteranno in ogni caso; così come stanno andando verso questa direzioni molti sindaci americani, tra cui Bill de Blasio a New York .
Secondo un dato diffuso dal Partito Verde Europeo, nel solo 2016 oltre 5 trilioni di dollari a livello globale sono stati sottratti ai fossili e reinvestiti in energia pulite. La Cina e l'Europa - a parte l'Italia dove il trend è contrario, considerato che trivelliamo i mari, abbattiamo uliveti per costruire oleodotti e continuiamo a voler realizzare Tav e autostrade - sono all'avanguardia nella costruzione di questa nuova economia. «La cosiddetta green financing - sostiene la co-presidente del Partito Verde Europeo, Monica Frassoni - conviene non solo eticamente, ma anche economicamente, poiché la società è ormai direzionata verso le rinnovabili, a causa del crollo dei profitti per le fonti possibili, alla riduzione del costo delle energie pulite, alla creazione di posti di lavoro green vis à vis la perdita di molti posti di lavoro nei settori estrattivi sporchi». 
La svolta di Trump va letta, quindi, come una contraddizione interna al capitalismo stesso, ma anche come una forzatura rispetto al ruolo che gli stessi USA ambiscono ad avere all’interno delle potenza del G7, in particolare sulle scelte che riguardano l’economia.  E poi - chissà? - magari in questo spietato tiro alla fune tra capitalismo fossile e capitalismo verde, potrebbe spezzarsi proprio la fune. Sempre che prima non si spezzi la Terra!

A Trento, va in scena OltrEconomia. L'economia delle pratiche dal basso che non ruba diritti e restituisce felicità

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C'è anche un altro festival dell'economia, a Trento. C'è un altro festival perché c'è anche un'altra economia nel mondo. Una economia che non va a braccetto con la finanza, che non indebita i Paesi più poveri e che non detta legge alla politica imponendo uno "sviluppo" - termine questo sempre da scrivere virgolettato come ci insegna Serge Latouche - oramai slegato da qualsiasi logica scientifica, oltre che sociale e umana. Oltre questa economia da banditi, c'è l'economia solidale, quella che ha sposato gli accordi di Parigi parecchi decenni prima che questi fossero scritti e che ha deciso che il futuro dell'umanità, se l'umanità avrà un futuro, sarà verde, sostenibile, democratico, dal basso e completamente svincolato dalla dittatura delle energie fossili. Questa è l'economia che ha saputo saltare il fosso scavato dal capitalismo e andare oltre una idea di economia diventata, in questa ultima fase della globalizzazione, ferocemente predatoria di diritti, di ambiente e di beni comuni.
OltrEconomia è infatti l'azzeccato nome che si è dato questo festival alternativo del quale anche EcoMagazine è partner.


E va da sé che se il primo festival conta un bel po' di sponsor danarosi, dalle banche alle fondazioni, e gode del patrocinio di istituzioni a tutti i livelli, e occupa i salotti buoni della città. Il secondo festival, gli sponsor danarosi non ha neppure provato a cercarseli. Le associazioni ambientaliste, i comitati cittadini e gli spazi sociali che hanno organizzato questa sua quarta edizione, hanno scelto ancora una volta di stare sotto il cielo aperto del parco Santa Chiara. Tanto per ribadire che l'economia che piace a loro non ha bisogno di palazzi e di lusso.
I giorni di svolgimento dei due festival, invece, saranno proprio gli stessi. Tutto si svolgerà in contemporanea. Si apre mercoledì 31 maggio e si chiude domenica 4 giugno.
Radicalmente diversi invece, saranno i temi di attualità trattati dai due festival. Soprattutto, radicalmente diverso sarà il modo di affrontare questi temi. "Le disuguaglianze aumentano, la massa dei poveri, dei migranti, dei precari si allarga senza confini. La ricchezza cresce a dismisura e si concentra sempre di più nelle mani di pochi. Il potere decisionale si polarizza in una 'non-immagine' i cui contorni sfumano, spesso, in acronimi senza forma - si legge nella presentazione di OltrEconomia - I consigli di amministrazione di un manipolo di multinazionali e centri finanziari sostengono e circondano di lobbies l’ascesa di classi dirigenti mondiali e locali, vecchie e nuove: così decidono il futuro del nostro pianeta e dei nostri territori. Il potere si accentra, difende, conserva, moltiplica gli interessi di parte e accresce il bene privato di pochi. E si attua nelle forme coercitive dell'economia, della finanza speculativa, delle privatizzazioni, del debito, delle politiche dell'austerity, del capitalismo vorace, delle guerre, dei fondamentalismi, della violenza di genere, del femminicidio, del patriarcato, della corruzione mafiosa, nel dissesto territoriale, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, della distruzione ambientale".
Il programma completo di OltrEconomia 2017, quest'anno dedicato al tema Corpo e territori, lo potete trovare a questo link. Gli incontri saranno tutti trasmessi in diretta da Global Project. Oltre alle tavole rotonde, ci saranno stand di gastronomia, corsi di teatro, laboratori per grandi e per bambini, spettacoli per divertirsi e musiche per ballare. Già. Perché OltrEconomia, al contrario di quell'altro festival, è anche una festa, e chi abita a Trento o nelle vicinanze ci si reca anche per divertirsi, per mangiare bene e sano, per imparare, per discutere e per stare in bella compagnia.
Anche questa è una differenza non da poco tra le due opposte economie di cui abbiamo scritto. Quella che ha saputo andare Oltre una idea di "sviluppo" paragonabile ad una rapina a mano armata (perché altro non è l'economia finanziaria) è anche quella che rende donne e uomini più felici.
Ed è anche quella che ci piace di più.

Chi decide sul futuro del pianeta?

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Un G7 deludente sotto tutti gli aspetti, quello che si è consumato a Taormina. Deludente per gli accordi sulla lotta al terrorismo che non sono andati oltre ad una formale dichiarazione di intenti, E con un Donald Trump appena tornato da un tour in Arabia Saudita dove ha chiamato gli sceicchi sauditi, noti finanziatori dei movimenti integralisti islamici, "i migliori amici del mondo occidentale" indicando nell'Iran la "fonte di ogni male", non c'era da attendersi che a Taormina, la questione terrorismo fosse affrontata seriamente.
Deludente, il G7 di Taormina, lo è stato anche sul tema immigrazione, confermando "il diritto sovrano degli Stati di gestire i propri confini e di stabilire politiche nell'interesse della sicurezza nazionale", avallando, in pratica, quell'approccio securtario che si è ampiamente dimostrato fallimentare anche e soprattutto in tema di sicurezza. Da sottolineare l'uso del termine "nazionale" davanti a "sicurezza". Come dire: ogni "nazione" faccia quello che vuole. E buonanotte all'ipotesi di affrontare il problema come come dovrebbe essere affrontato: cioè nelle sue dinamiche globali.


Qualche risultato, le diplomazie europee lo hanno ottenuto solo sul tema del protezionismo, portando a casa un impegno - sia pure generico - a mantenere i mercati aperti. E sapendo come la pensa in merito un pazzoide del calibro del presidente degli Stati Uniti, è una cosa non da poco.
In compenso, un totale fallimento si è rivelato qualsiasi tentativo di far ragionare Mr. Trump sui cambiamenti climatici. Che tutte quelle menate sul clima che cambia fossero solo balle da campagna elettorale messe in giro dai democratici, il multimiliardario diventato presidente lo aveva sempre detto. I soldi poi, lo sanno tutti, si fanno solo inquinando. Concetto questo, che gli ha garantito l'elezione e l'appoggio delle maggiori industrie nordamericane, penalizzate dalle politiche green di Barack Obama.
Certo, la decisione finale sulla permanenza o meno della più grande potenza industriale mondiale nel club degli accordi di Parigi, non è ancora stata ufficialmente presa, ma vi sono pochi dubbi a riguardo. L'anima verde dell'amministrazione Trump - pensate un po' come siamo messi - è incarnata dalla figlia Ivanka. Niente di più che un gioco delle parti, naturalmente. Perché sull'inevitabile sganciamento degli Usa da Cop21 scommettono tutti i media statunitensi. Il tweet lanciato da Trump, "I will make my final decision on the Paris Accord next week!" (Prenderò la mia definitiva decisione sull'accordo di Parigi la prossima settimana) è già una pietra tombale. Se avesse capito la posta in gioco o se gliene fregasse qualcosa del problema del clima che cambia, non starebbe a pensarci su una settimana.
Gli scenari che si aprono a questo punto sono inquietanti. Se gli Usa se ne vanno, il club di Cop21 perderà la maggior fonte di investimenti che serviva a coprire le conversioni verso una economia sostenibile dei Paesi meno industrializzati. Secondo punto: la maggior potenza industriale del mondo, svincolata dai limiti di inquinamento posti da Obama, comincerà ad inquinare la terra senza limiti. Quella stessa terra dove camminiamo pure noi. E il clima che cambia non guarda frontiere o "nazioni". Terzo punto: cosa faranno l'Europa e le altre potenze mondiali? E' lecito attendersi che di fronte ad un produzione statunitense svincolata da ogni limite di emissioni di Co2, gli altri gruppi industriali si sentiranno penalizzati e premeranno per avere le stesse possibilità di "sviluppo" - termine da scrivere sempre con le virgolette - delle concorrenti a stelle e strisce. Insomma, senza gli Usa, quell'ultimo salvagente all'umanità che erano gli accordi di Parigi rischia di andarsene a fondo.
Perché di questo parliamo quando parliamo di cambiamenti climatici: della possibilità che ha l'umanità di continuare a vivere su questo pianeta.
E la domanda che bisogna porsi è: chi deve decidere sul futuro del mondo? E' giusto che spetti a quei sette personaggi interpretare i bisogni e le aspirazioni di tutta la razza umana? La questione è tutta qua e può essere rinchiusa in una sola parola: democrazia.
Chiediamoci: chi sono quei sette capi di Stato e chi rappresentano? I Paesi più industrializzati del mondo? E allora come mai non c'erano la Russia, l'India e, soprattutto, la Cina? Per il presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, i sette di Taormina sono i rappresentanti dei "Paesi che associano economia di mercato a democrazia". A parte il fatto che i due termini non possono essere associati per niente, il Gentiloni non l'ha detta giusta. Il vero comun denominatore di questi sette Paesi, è l'aspirazione alla continuazione di un sistema di governance globale ad ispirazione capitalista ed occidentale. E questo non è né giusto né ragionevole, considerando che il cambiamento climatico è una questione da affrontare solo globalmente. Insomma, il teatrino andato in scena a Taormina è tutto il contrario di quello che noi chiamiamo democrazia.
Certo, a parte Gentiloni (l'Italia elettoralmente fa sempre storia a sé), tutti gli altri leader sono stai "democraticamente" votati in regolari competizioni elettorali nei rispettivi Paesi. Anche Mussolini lo è stato. Basta questo a mettere chi vince al timone dei destini di tutto il mondo? I cambiamenti climatici non sono per nulla democratici. Tu puoi democraticamente eleggere un presidente che non ci crede ma il clima continuerà lo stesso a mutare. Se tutti gli scienziati affermano che se non spingiamo l'economia oltre della dittatura dei fossili, la temperatura aumenterà sino a mettere in pericolo la sopravvivenza dell'umanità, democrazia significa cercare tutti insieme una strada per ottenere il risultato di rallentare il cambiamento climatico. L'economia finanziaria non dovrebbe aver voce in questo processo. A Taormina, invece, è successo l'esatto contrario. L'esatto contrario di quello che per noi è democrazia.

Chiusura zapatista (una storia vera)
Me ne stavo a La Garrucha (Chiapas, Messico, America, pianeta Terra) stravaccato sull'amaca a ragionare con un "compa" della Giunta di Buon Governo. Il tipo mi racconta che era appena andato a San Cristobal ad ordinare un sistema di filtraggio dell'acqua per un paese là vicino. Ci avevano investito una bella cifra per il budget del municipio e lo avevano deciso di punto in bianco. La cosa mi stupì alquanto. Da quelle parti, "platicano", ciò discutono, su ogni problema per ore ed ore sino a che tutta la comunità è d'accordo. Noi diremmo: "ti prendono per sfinimento". E lo fanno anche su questioni assolutamente risibili come, che so?, la composizione del desayuno caliente, la colazione calda per i bambini che vanno a scuola (c'è pure una speciale commissione sul problema). Sul sistema di filtraggio che costava una sbarellata di pesos invece… nada! Gliene chiedo la ragione e quello mi guarda come si guarda un imbecille: "E che c'è da discutere sull'acqua? Si lavora perché sia potabile, sufficiente per tutti e… basta".

Sulle orme di chi non dimentica

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Tante scarpe appese ad un filo, tra le fronde degli alberi di Ca' Bembo liberata. Sotto, le stampe delle loro suole. Ciascuna con una frase, un pensiero, un ricordo, una speranza. Sono le orme di chi non vuole dimenticare suo padre, sua madre, suo figlio. Vittime innocenti di un crimine che ha come primo responsabile lo Stato. Sono i desaparecidos della frontiera del Messico. Gente scomparsa nel nulla. Venduti a peso di carne umana a latifondisti, narcotrafficanti, magnaccia. Fatti a pezzi per incrementare il mercato di organi, usati come capri espiatori nelle galere o cavie da laboratorio, schiavizzati in fabbriche illegali, prostituiti nei postriboli. Numeri secondi solo alla guerra in Siria. Più di 30, forse anche 40 mila scomparsi, secondo le recenti stime delle associazioni per i diritti umani. Perlomeno centomila ammazzati negli ultimi dieci anni. Da quando cioè, Stati Uniti e Messico dichiararono la cosiddetta "guerra al narcotraffico" che ha ottenuto il solo risultato - che poi è quello che si prefiggeva! - di consegnare il Paese centroamericano alle multinazionali della droga e creare una "pattumiera" sociale ed economica a ridosso degli States. Proprio come a ridosso delle nostre case ci sono i contenitori della differenziata. Perché, sia chiaro a tutti, che se le pistole che uccidono sono tenute dai narcos, ad armare queste pistole ed puntarle è lo Stato messicano. Partiti al governo ed opposizioni, polizia ed esercito sono spartiti tra i tanti cartelli mafiosi. E quando qualche narcotrafficante viene trovato accoppato per un regolamento di conti, non è raro scoprire che apparteneva all'esercito o alla polizia o che era stato addestrato in uno di quei campi dove gli specialisti della guerra statunitensi preparano le forze che dovrebbero combattere i trafficanti di narcotici.


Ecco perché Messico, fare domande è molto più rischioso che commettere un omicidio. Lo sanno bene tutti i colleghi giornalisti che ogni giorno rischiano la vita. E lo sapeva bene Javier Valdez Cárdenas, accoppato lunedì 15 maggio sotto il giornale che dirigeva. E' il settimo giornalista messicano ucciso quest'anno.

E lo sanno bene, che a far domande si rischia la pelle, anche i genitori degli scomparsi. Lo sa bene Ana Enamorado, madre di un ragazzo di 17 anni fatto sparire nel niente. Più volte minacciata di morte perché si ostina a percorre la strada che doveva aver percorso anche suo figlio, mostrando a tutti coloro che incontra la foto del suo ragazzo. E, ad ogni passo che compie, ad ogni orma che lascia, non può fare a meno di chiedersi se il suolo che calpesta non sia in realtà la tomba di suo figlio.

Le orme di chi continua a cercare sono state trasformate in una esposizione artistica - Huellas de la Memoria - che vuole essere, prima di tutto, un grido di dolore su quanto avviene alla frontiera del Messico, dallo scultore Alfredo Lopez Casanova. L'esposizione itinerante è esposta a Venezia, tutti i pomeriggi sino a domenica, nello splendido giardino di Ca' Bembo, in fondamenta del rio di San Trovaso, che gli studenti del Lisc, Liberi Saperi Condivisi, hanno recuperato e restituito alla città. A portare la mostra in laguna, sono stati gli attivisti dell'associazione Ya Basta Edi Bese.

Di seguito, l'intervista di Camilla Camilli a Ana Enamorado.



La Regione, con la scusa del cinghiale, apre i parchi ai cacciatori

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La Regione Veneto ha approvato col decreto numero 598 del 28 aprile 2017 un piano di controllo e di eradicazione dei cinghiali nel territorio regionale ai fini di riportare il numero degli esemplari della specie a livelli - a detta della Giunta - "sostenibili".
La presenza del cinghiale nelle nostre terre viene trattata con tutti i criteri dell'emergenza. Nella premessa al decreto, si legge una lunga serie di danni arrecati all'agricoltura da questi animali che sarebbero addirittura pericolosi per l'uomo. La conclusione, sempre dettata della cosiddetta logica emergenziale, è ovviamente quella di autorizzarne la caccia. Si tratta, in altre parole, dell'ennesimo regalo con il quale la Giunta del Veneto premia i suoi fedeli cacciatori, sostenendo quella stessa categoria sociale che ha causato il danno (e pure l'emergenza) con rilasci abusivi di animali di allevamento, non di rado ibridati con i maiali domestici.
Se è vero che, per ora, la caccia dentro i parchi prevede comunque l'approvazione dell'ente gestore, è anche vero che il decreto punta verso questa soluzione e apre una porta all'attività venatoria che difficilmente potrà venir chiusa.


I parchi del Veneto corrono seriamente il rischio di trasformarsi da oasi di tutela ambientale a riserve di caccia con grave rischio di chi vi si reca per una passeggiata, per sport o semplicemente per godere di un angolo di natura incontaminata. Senza contare poi, che un decreto simile incoraggia indirettamente la caccia abusiva, considerando che non saranno pochi i cacciatori che, con la doppietta in mano, si limiteranno ad abbattere solo cinghiali e solo nel numero consentito per la sopracitata "sostenibilità".

Una nube nera nera sui cieli di Roma. Facciamo finta di niente?

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Cinque giorni dopo, si viene a sapere che ci avevano ragione gli ambientalisti. Quel fumo sprigionatosi dal deposito dell'Eco X di Pomezia e che, nella mattinata di venerdì 5 maggio, ha invaso i cieli di Roma conteneva anche diossina e amianto. "Avevamo già avuto delle segnalazioni nei giorni precedenti all'incendio - aveva dichiarato all'Ansa il presidente di Legambiente Lazio, Roberto Scacchi - Dei cittadini ci avevano segnalato la presenza di mucchi di materiale plastico all'interno dell'area dell'azienda Eco X dai quali provenivano odori maleodoranti. Si erano anche formati dei comitati di quartiere sul problema. Abbiamo segnalato più volte la situazione alle autorità e denunciato pure la possibile presenza di amianto, ma sembra che tutto fosse in regola". Il problema, come vedremo più avanti, sta tutto nelle cosiddette "regole".


Fatto sta che quando il deposito è andato a fuoco, gli ambientalisti hanno subito denunciato l'inevitabile presenza di diossina, essendosi sviluppato da un cumulo di plastiche di riciclo allo stato grezzo e, quindi, non ancora trattate. Ci son voluti cinque giorni però prima che le autorità ammettessero che avevano ragione loro.
Con il cielo della capitale ancora oscurato dalla nube nera, era tutto un coro di "non destiamo allarmismi nella popolazione che è tutto sotto controllo". Anche Enrico Mentana apre il suo Tg sottolineando che "se la nube fosse sopra un'altra città e non su Roma, non staremmo neppure a parlarne".
Eppure la nube è nera, brutta, puzza e fa paura. E la gente che ci si trova sotto non ci crede che non faccia anche male respirarla, quell'aria che sa di plastica bruciata.
A gettare acqua sul fuoco, ci si mette anche la Giunta capitolina della sindaca Virginia Raggi e lo stesso Comune di Pomezia, pure lui a guida pentastellata. "I valori di Pm10 registrati dall'Arpa sono tutto sommato accettabili - ha dichiarato il sindaco della cittadina situata a poco meno di 30 chilometri dalla Capitale, Fabio Fucci -. I valori rilevati, sebbene siano sopra lo soglia di allarme, sono analoghi ai valori registrati nel centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità".
Il che, secondo lui dovrebbe tranquillizzarci. Secondo noi invece, dovrebbero preoccupare non poco chi si trova a respirare l'aria del centro urbano di Roma nei periodi di maggiore criticità, come spiega il primo cittadino.
Ma il punto non è neppure questo. Tanto l'Arpa, quanto gli amministratori locali, e lo stesso ministro della Salute, Beatrice Lorenzin- che ad intervalli regolari esce dal suo ufficio a spiegarci che "stiamo attentamente monitorando la situazione" - parlano dei valori di polveri sottili. La diossina è un'altra cosa e non è rilevabile con questo tipo di analisi. L'amianto pure. E allora di cosa parlavano?
Anche sull'area interessata dal disastro, i conti non tornano. Da Pomezia ai quartieri di Roma, secondo la mappatura del ministero della Salute. Ma secondo segnalazioni raccolte dal Legambiente e dall'Ona, l'osservatorio nazionale amianto, la puzza di plastica bruciata si è sentita per un raggio di oltre 50 chilometri dal rogo. sino ad arrivare nei paesi più a nord della provincia di Latina. Sempre secondo il ministero, non ci sarebbero stati ricoverati a parte un vigile del fuoco, uno dei primi accorsi nel luogo dell'incidente, che ha accusato un lieve malore. Di opinione diversa Legambiente Lazio che parla di decine di persone giunte nei pronto soccorso degli ospedali accusando sintomi come bruciore aglio occhi, nausea e vomito.
Proprio come in tempio di guerra, la prima vittima dei disastri ambientali è sempre la verità. Le amministrazioni, sia locali che nazionali, si rivelano ancora una volta quantomeno impreparate - sia dal punto di vista scientifico che procedurale - a fronteggiare queste situazioni di crisi ambientale. La paura di innescare panico tra la popolazione impedisce di intervenire prontamente, perdendo tempo prezioso proprio nella prima fase, quella più delicata e pericolosa del disastro. Meglio adagiarsi su una politica di monitoraggio continuo, sperando che le cose si sistemino da sole. In fondo, quante volte i limiti di sicurezza di Pm10 e di altri inquinanti vengono sforati nelle nostre città senza che nessuno si sogni di protestare? Al massimo, si può consigliare alla gente di tenere le finestre chiuse. Male, non fa.
E come per tante altre devastazioni ambientali, si attende che sia la Procura a fare i primi passi. Con i tempi lunghi della giustizia italiana che non sono certo quelli che servirebbero a contenere ed a combattere i fenomeni inquinanti.
Subito dopo l'incendio, il cantiere dell'Eco X è stato messo sotto sequestro dalla Procura di Velletri. Ed è toccato allo stesso procuratore che indaga sull'ipotesi di reato per incendio doloso, Francesco Prete, dichiarare quello che gli ambientalisti affermavano, i cittadini sospettavano ma nessun amministratore aveva prima ammesso. Cioè che: "La Asl ha rilevato la presenza di amianto sul materiale campionato".
C'era quindi l'amianto e c'era quindi anche la diossina. E i giornali e i cittadini lo vengono a sapere - cinque giorni dopo - dal procuratore che indaga e non dal ministro o dall'assessore regionale all'ambiente o dal sindaco. C'è qualcosa che non funziona nella catena di comando e di pronto intervento, evidentemente.
Così, per sapere quanto vasta sarà l'area contaminata dove, con tutta probabilità verrà interdetto il raccolto agricolo, bisognerà attendere il prosieguo delle indagini.
Una stima di Coldiretti, parla di circa 150 aziende agricole coinvolte dalla nube. Numeri che sono sicuramente destinati ad aumentare, secondo Legambiente, perché la diossina è un inquinante infido e pericoloso e, più che nell'aria, si diffonde nella terra e nelle acque, avvelenando i prodotti della terra per lunghi periodi di tempo. Ma intanto che la giustizia fa il suo corso, i contadini continuano a lavorare la loro terra inquinata e gli operai impiegati nelle fabbriche della zona industriale di Pomezia, a ridosso del deposito bruciato dell'Eco X, continuano ad andare al posto di lavoro senza neppure la protezione di una mascherina per i residui di amianto. Quali saranno le conseguenze sui polmoni di questi lavoratori?
Non ci sono regole, in Italia, per gestire le crisi ambientali. E nessuno vuole prendersi la responsabilità di scriverle, perché queste regole sarebbero decisamente in contrasto con i dettami imperanti dell'economia e dello "sviluppo". Così come non ci sono regole certe sulle soglie di pericolosità di tante sostanze inquinanti e i limiti di sicurezza sono solo asticelle che si alzano e si abbassano a seconda dei casi. Così come non ci sono normative cui attenersi nella gestione di tante lavorazioni a rischio per il solo motivo di non abbassare la redditività. "Viene da pensare che un’impiantistica necessaria per evitare incendi neppure c’era nella Eco X - nota il presidente di Legambiente Lazio - perché probabilmente non era nemmeno necessaria per legge! Altrimenti la gestione dell’incendio sarebbe stata differente".
Ancora una volta, i tempi e gli obiettivi dell'economia, della politica e dell'ambiente sono sempre più distanti tra loro.

Il gasdotto for dummies. Ovvero, perché noi stiamo dalla parte degli ulivi

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Ulivi contro manganelli? Noi stiamo dalla parte degli ulivi. Anche perché i manganelli scendono sempre in campo quando le altre argomentazioni non convincono. Reprimere e criminalizzare, è un buon sistema per evitare di dare risposte. Soprattutto quando le risposte non ci sono o sono ben diverse da quelle che la propaganda ufficiale cerca di propinarci. In gergo tecnico, si chiamano "bugie". Ecco di seguito un elenco commentato con le principali "bugie" che raccontano quelli che stanno dalla parte dei manganelli. E che, non per altro, hanno bisogno dei manganelli.

Tap, di cosa stiamo parlando?
Lo possiamo leggere nel sito stesso della Trans Adriatic Pipeline: "Tap, Trans Adriatic Pipeline, è il progetto per la realizzazione di un gasdotto che trasporterà gas naturale dalla regione del Mar Caspio in Europa. Collegando il Trans Anatolian Pipeline alla zona di confine tra Grecia e Turchia, attraverserà la Grecia settentrionale, l’Albania e l’Adriatico per approdare sulla costa meridionale italiana e collegarsi alla rete nazionale".

Gas naturale, naturalmente.
Tutta la campagna pubblicitaria a favore del Tap si basa su due equivoci di fondo. Entrambi montati ad arte. Il primo è che "Una volta realizzato, costituirà il collegamento più diretto ed economicamente vantaggioso alle nuove risorse di gas dell’area del Mar Caspio", come si legge sempre sul loro sito che evita di spiegare per chi è "economicamente vantaggioso".
Il secondo è quello del "gas naturale". Naturale come dire che è ecologico. Ma stiamo parlando di metano. Siamo d'accordo che bruciare carbone è più inquinante ma non dimentichiamo che il metano, come tutti i combustibili fossili, fa parte delle energie non rinnovabili, quelle che a Parigi (ce lo vogliamo ricordare o no?) sono state buttate fuori dalla storia dell'umanità. dell'umanità che vuole avere ancora un futuro su questa terra, intendiamo. Il metano è un climalterante, è tutt'altro che un combustibile ecologico ed è un gas serra. Quando, sempre a Parigi, parlavamo di "decarbonizzazione" non intendevamo il processo di sostituzione del carbone col gas, ma abbattere le emissioni di carbonio. Quelle emissioni che anche il metano produce.
Il Tap, come tante altre Grandi Opere, si basa su queste due fondamenta di argilla: convenienza economica e 'sviluppo'. Siccome è facile smentirle con un po' di dati, le manganellate si rivelano sempre necessarie per convincere gli ambientalisti recalcitanti. Dove non può la logica…


L'obiettivo del Tap è variare le rotte di importazione del metano che oggi sono appannaggio di un Paese tutt'altro che stabile e amico dell'Europa come la Russia di Putin.
Già. Perché la Turchia guidata da quel Pinochet del Bosforo che altro non è Erdogan è un Paese serio, democratico e affidabile! Per non parlare della Georgia e dell'Azerbaijan, dei satrapi che le governano e che, oltretutto, pescano parte del gas che rivendono a noi proprio dalla Russia di Putin.

Grazie a questa condotta, l'Italia diventerà un hub dal metano. (Hub è un inglesismo brutto ed inutile per dire "fulcro". Noi lo usiamo perché tutta la propaganda a favore della Tap usa questo termine e ciò da anche l'idea del valore di questa propaganda.)
Manco per sogno. La Germania ha già investito sul raddoppio del North Stream che le porta il gas direttamente dai giacimenti russi. Il gas proveniente dagli Stan ce lo dovremmo ciucciare tutto noi. Anche perché la Francia non ne ha bisogno, visto che ha il nucleare. E così la Croazia.

Questo gas ci serve.
In Italia nessun Governo ha mai affrontato la costruzione di una politica energetica seria. Così come, ad esempio, hanno fatto Paesi come la Svezia o la Danimarca, pianificando per tempo il passaggio alle rinnovabili sulla lunghezza di decenni. Per cui nessuno può dire quanto metano servirà agli italiani nei prossimi anni. Due fatti però possiamo notare. Il primo è che la nostra capacità di importare metano, anche senza Tap, è già doppia rispetto ai fabbisogni attuali. Il secondo è che la tendenza dell'ultimo decennio all'uso di gas è in diminuzione.
La realtà è che il mondo sta cambiando. Le rinnovabili stanno rivoluzionando l'economia e non ci sono dubbi che alla fine, nonostante la fortissima e violenta resistenza delle multinazionali dei combustibili fossili, vinceranno loro. I Paesi che si adegueranno arriveranno primi al traguardo della storia. Il Trans Adriatic Pipeline ci riporta alla partenza.

Il governatore Emiliano gioca sporco sul Tap e cerca di spostare gli equilibri in vista del congresso del Pd.
Domenica scorsa, dopo una combattutissima partita, il Campodarsego si è imposto 2 a 1 sull'Union Feltre nella 29esima giornata del campionato di serie D, girone C. Come dite? Non ve ne frega niente? Neanche a me dell'Emiliano e del congresso del Pd.

I soldi investiti sono dei privati. Gli italiano avranno solo benefici in bolletta.
Questa barzelletta l'abbiamo già sentita e non ci diverte più. Il privato geneticamente modificato che lavora per gli interessi pubblici devono ancora inventarlo. Il Tap, oltre che dalle sei società iniziali - Saipem, Bp, Socar e in misura minore Fluxys, Axpo e Enagas - è finanziato anche dalla Banca Europea per gli Investimenti (che avrebbe nel suo statuto la mission di combattere i cambiamenti climatici, pensate un po') e vi partecipa anche la Snam con altri soldi pubblici che prima o poi ci ritroveremo in bolletta. Ricordiamoci soltanto del rigassificatore di Livorno. Altra Grande Opera "strategica" sull'approvvigionamento di metano che doveva essere realizzata interamente dai privati e poi si è trasformata nell'ennesima inutile incompiuta capace solo di fagocitare vagonate di finanziamenti pubblici. E senza che i privati ci abbiano rimesso un euro. Anzi.

Gli ulivi verranno solo spostati e non distrutti.
Che bello! E i poveri orsi polari che per colpa dei cambiamenti climatici si troveranno senza ghiaccio sotto il culo, li carichiamo su una nave e li portiamo nello zoo del film Madagascar. Scherzi a parte, non possiamo ridurre problemi complessi che richiedono una soluzione radicale al destino di ulivi e di orsi. Rispondere, a chi ribadisce il suo No al Tap chiedendo una diversa politica energetica, che gli ulivi saranno risparmiati, vuol dire fare brutta demagogia. Talmente brutta che servono le manganellate per farla entrare nella testa degli ambientalisti. E poi cosa significa "li spostiamo su un altro posto dove si troveranno ancora meglio"? Se son cresciuti là, devono restare là. Se c'è un altro posto adatto, piantiamoci ulivi giovani e facciamoli crescere. Con questo ragionamento, tra un po' sposteremo tutte le opere d'arte, anche quelle architettoniche, dentro musei privati a pagamento ed i paesaggi li ricorderemo in cartolina. A pagamento, pure queste.

Il metano ci aiuta nel passaggio alle rinnovabili
Questo sarebbe vero se ci fosse un Governo più serio. Ma, d'altra parte, un Governo più serio avrebbe fermato le trivelle in mare e non si imbarcherebbe mai in una opera senza futuro come il Tap. Il rischio, piuttosto, è che avvenga il contrario. Il nostro Paese attualmente ha creato una sovracapacità di energia elettrica basata sui fossili e in particolare sul metano che finisce per rallentare, se non addirittura opporsi, ad un auspicabile passaggio verso le rinnovabili.
Soprattutto, perseverare in questa direzione, ostinata e contraria ad un futuro senza fossili, ci allontana dalla vera soluzione che è la creazione di una politica energetica sostenibile, atta a contenere davvero i cambiamenti climatici. Bruciare metano al posto del carbone, - come ci ordinano le multinazionali del Tap - non è la risposta corretta alle domande che sono state poste negli incontri di Parigi. La soluzione è sempre quella: risparmiare energia, consumare meno, combattere lo spreco, utilizzare mezzi sostenibili, rinunciare al superfluo.
Ma non abbiate timore che un giorno ci arriveremo. Il giorno in cui i fossili saranno solo un ricordo e non sarà più l'economia ma la scienza e la democrazia dal basso a dettare l'agenda politica.
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