In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

I cacciatori nel parco. La Regione confeziona un bel regalo di Natale alla lobby degli “sparatutto”

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Alla regia di questo ennesimo tentativo della Regione Veneto di smantellare le – poche – aree protette del Veneto per trasformarle in riserve di caccia per gli amici degli amici, c’è ancora lui: il consigliere Sergio Berlato, eletto nelle liste di Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale. Sotto tiro, è proprio il caso di dirlo, c’è il parco dei Colli Euganei. Un emendamento alla legge regionale legge di stabilità che sta per andare in discussione a Palazzo Ferro Fini, a firma del consigliere vicentino, chiede di ridurre di ben due terzi l’attuale superficie del parco, così da poter permettere ai cacciatori di praticare il loro “sport” preferito in aree sino ad oggi proibite alle doppiette
Un provvedimento che è stato definito una autentica porcheria, non solo dagli ambientalisti ma anche dai sindaci dei Comuni interessati come Arquà, Montegrotto, Battaglia, Lozzo, Este, Monselice e Galzignano, che vedono azzerare tutti i benefici che i loro cittadini ottengono dal parco, per fare un regalo di natale alla potentissima lobby dei cacciatori che ha nel consigliere Berlato il suo punto di riferimento. Una lobby, questa dei cacciatori, molto appetita da tutti i politici di destra (e anche da qualcuno di sinistra), considerato che il suo esempio è stato immediatamente seguito dal collega consigliere Stefano Valdegamberi, lista Zaia, che ha presentato un emendamento fotocopia sostituendo al nome “parco dei Colli”, “parco della Lessinia”. 

In poche parole, se gli emendamenti dovessero essere approvati, il nostro povero Veneto, già abbastanza cementificato, si ritroverebbe con due storici parchi in meno e due aziende venatorie in più. 
Il tutto, nel silenzio (complice?) del presidente Luca Zaia, dal quale ci si attenderebbe un po’ di veemenza in meno nella difesa di una lingua che non esiste e di una etnia immaginaria, e un po’ di attenzione in più per l’ambiente in cui viviamo.
E, siccome siamo sotto natale, i regali ai cacciatori non sono finiti: l’emendamento a firma Berlato prevede anche la depenalizzazione degli illeciti penali in materia di caccia. Come dire: fate quello che volete anche se la legge lo vieta. Tanto, tutti i vostri reati saranno condonati. Pensate che festa se questo principio giuridico fosse applicato anche alle altre categorie come, che so, gli automobilisti o i ladri!  
E c’è ancora qualcuno che sostiene che i cacciatori non siano una lobby! Lo sono invece. Proprio come quella dei costruttori che sarebbero i secondi a beneficiare dell’emendamento Berlato perché, una volta abbattuti i vincoli di tutela dei parchi, anche il cemento e le speculazioni edilizie avrebbero la strada spianata. 
La colpa poi, è tutta dei cinghiali! Il partito dei cacciatori giustifica questa vergognosa operazione di smantellamento dei parchi veneti imputandola ai cinghiali. E che ci sia un numero eccessivo di questi animali nella nostra Regione, che questi causino danni all’agricoltura e che trovino rifugio all’interno dei sopracitati parchi, è una verità indiscussa. 
Ma la soluzione non sono i cacciatori. Nessuna questione ambientale può essere risolta con la caccia. Soprattutto per come la intende chi oggi se la spassa a procurare dolore agli animali. Un cacciatore come lo era Mario Rigoni Stern, sottoscriverebbe ogni parola che abbiamo scritto perché non avrebbe nulla da spartire con chi spara per “sport”. 
I cacciatori non sono la soluzione. Casomai, sono il problema. Se la popolazione di questi animali ha raggiunto nel nostro Veneto livelli preoccupanti è solo perché proprio i cacciatori ne hanno fatto continue, e spesso illegali, immissioni. Non è neppure un mistero che questi animali sono fonte di grandi guadagni nel mercato clandestino della carne da tavola. 
Affidare la “tutela” della fauna, o anche una suo semplice contenimento, ai cacciatori è un controsenso. Intanto perché la loro sensibilità ambientale è quella di un dirigente del Consorzio Venezia Nuova, ma soprattutto perché l’interesse di un cacciatore è quello di riempire il carniere e, di conseguenza, di avere tanti animali ai quali sparare. 
Quello che si deciderà in consiglio regionale è il destino dei parchi veneti. Ed è appena il caso di notare che le scelte saranno irreversibili. Da una colata di cemento, dalla scomparsa di una specie, dalla devastazione di un’area protette non si torna più indietro. 
Chi ha a cuore l’ambiente e i beni comuni, deve agire oggi perché domani i pentimenti non serviranno a niente. 
Ambientalisti, comitati civici, associazioni animaliste hanno invitato tutti cittadini alla mobilitazione. L’appuntamento è lunedì 12 dicembre a Venezia, a mezzogiorno, davanti a Palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale.
Dovremo essere in tanti. Solo così riusciremo a far capire un bel po’ di cose a gente che ha la testa dura. 

Quell'ebraismo che rifiuta il sionismo

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La Terra Santa? "Appartiene esclusivamente al popolo Palestinese". Israele? "Uno stato illegittimo che non ha nessuna ragione di esistere". Ebraismo e sionismo? "Due concetti antitetici". Il chassidismo rifiuta il principio che sta alla base di questa ideologia: quello del diritto degli ebrei ad avere un loro Stato. Perlomeno sino a che il promesso Messia non busserà alle porte di Gerusalemme, inaugurando un'era di pace e prosperità sia per i vivi che per i morti. "Nell'attesa, noi preghiamo per un immediato e pacifico smantellamento dello Stato di Israele, perché i sionisti abbandonino la loro criminale ideologia e perché la terra di Palestina venga restituita ai loro legittimi proprietari. Così che anche in quei luoghi si possa tornare a vivere in pace come era nel passato". Parola di ebreo. Anzi, parola di rabbino: Yisroel Dovid Weiss, religioso ortodosso appartenente al movimento chassidista e noto attivista anti sionista, portavoce dell'organizzazione Neturei Karta (traducibile dall'aramaico come "i guardiani della città"). Assieme al discepolo Yehoshua Rosenberger, rabbi Weiss, martedì 29 novembre, in occasione della giornata che l'Onu dedica ai diritti dei palestinesi, è venuto a Venezia dagli Stati Uniti dove risiede per spiegare che quanto il governo israeliano sta portando avanti nella Terra Santa è un crimine che nulla ha a che vedere con l'ebraismo.
Per gridare al mondo la sua denuncia, rabbi Weiss si è scelto un palcoscenico mica male: piazza San Marco. I due ortodossi hanno chiesto l'appoggio di alcuni militanti per i diritti dei palestinesi di Venezia. Appoggio, detto per inciso, non poco problematico perché i due rabbini ortodossi debbono seguire regole rigidissime, tanto nell'alimentazione quando nel vestire e nel rapportarsi con gli altri. Gli è vietato, tanto per fare un esempio, non soltanto sfiorare un essere di genere femminile ma anche farsi inquadrare in una fotografia assieme ad una donna. Il che, in una piazza perennemente strapiena di turisti come quella di San Marco, è una pretesa non da poco. Anche le regole che rabbi Weiss detta per l'iniziativa sono alquanto particolari. Le riprese e le foto non devono inquadrarlo davanti a chiese o edifici religiosi. Così sceglie lo sfondo del palazzo Ducale, dopo essersi assicurato che il governo della Serenissima, ai suoi bei tempi, fosse sufficientemente laico. Niente altoparlanti ma solo la voce diretta, lingua inglese o ebraica. Solo i due religiosi inoltre, dovranno sostenere il cartello con la denuncia di Israele. Che si cominci la piazzata con "solo" un paio di ore di ritardo, era il minimo che ci si potesse aspettare. I due chassidim hanno un orologio tutto per conto loro. Si parte verso le sei di sera in una piazza San Marco che non è mai deserta. Quando rabbi Weiss comincia a parlare ad alta voce, dietro quel cartello con scritto, in italiano, l'ebraismo rifiuta il sionismo e lo Stato di Israele, si forma subito un capannello di turisti incuriositi dai nostri personaggi che, detto senza offesa, sembrano un anticipo di carnevale. E cominciano subito le contestazioni. Già, perché tra tanta gente da tutto il mondo non manca mai qualche turista israeliano che, sul sionismo, la pensa in tutt'altra maniera. Non passa un quarto d'ora che una viaggiatrice israeliana, particolarmente incavolata dall'acceso battibecco sostenuto col rabbino, telefona alla polizia. In tre minuti arrivano, nell'ordine, due vigili di piazza e una vigilessa, due soldati armati con bombe, maschere antigas e mitraglie come se fossero sulle strade di Mosul, con un poliziotto a sostegno (sono le famose ronde per la "sicurezza" che il sindaco di Venezia apprezza tanto), due carabinieri, altri due poliziotti in divisa e uno della Digos in borghese. C'è da sottolineare che la sceneggiata che ne è nata aveva il suo lato comico. Nessuno di questi signori spiaccicava una sola parola di inglese, per tacer dell'ebraico, inoltre nessuno di loro aveva idea che esistessero ebrei ortodossi antisionisti. I cartelli che denunciavano Israele, in mano a due uomini che possedevano tutte le caratteristiche del tipico ebreo da film, li spiazzava non poco. Quando i due rabbini hanno esibito regolari passaporti a Stelle e strisce, e non di qualche strano stan ex sovietico, i tutori dell'ordine hanno cominciato a pensare che le cose fossero più complicate del previsto. Come se non bastasse, tra tutte quelle forze in campo, non era neppure chiaro chi dovesse prendersi la responsabilità di decidere se portarli dentro per accertamenti o limitarsi a sgomberare il sit in. Ma un passaporto rilasciato dagli Usa dà sempre qualche vantaggio rispetto ad uno emesso in Libia o in Sudan. Così, una volta resisi conto che la questione era sì complicata ma non rientrava nel genere "attentato terroristico di matrice islamica", hanno optato per un saggio "lasciamo perdere". Non senza aver prima preso i documenti di un paio di italianissime persone che si erano gentilmente offerte di fare da interpreti con l'inglese ed essersi accertati che i due rabbini si incamminassero verso il loro albergo. Senza voler entrare nel merito della delicata questione se la causa palestinese tragga o no vantaggio da un sostegno che, per così dire, arriva dalle file dell'integralismo religioso ebraico, va sottolineato che l'iniziativa dei due rabbini nordamericani ha avuto quanto meno il merito di mettere il dito nella piaga del problema: l'uguaglianza ebreo = israeliano = sionista, con la quale Israele giustifica le sue continue violazioni ai diritti dei palestinesi, non ha motivo di essere. Si può essere ebreo senza essere sionista e si può essere sionista senza essere ebreo. "L'ebraismo è una religione, una forma di spiritualità, mentre il sionismo è una ideologia nazionalistica che non ha nulla a che vedere con la religione ebraica – spiega rabbi Weiss-. Più di un secolo fa, qualcuno decise di creare uno Stato per il popolo ebraico mentre noi crediamo fermamente che questo ci è proibito perché siamo stati esiliati dalla Terra Santa per decreto divino. Israele è stata creata sull'oppressione di un intero popolo e continua ancora ad opprimere commettendo continue violenze e atrocità. Noi ebrei non possiamo che ribadire che questo è un crimine. Nei dieci comandamenti è scritto 'non uccidere' e 'non rubare'. Eppure al mondo viene data l'impressione che i crimini sionisti siano commessi in nome del popolo ebraico, quando simili azioni sono espressamente proibite nella Torah". Eppure Israele continua ad essere appoggiata dalla maggior parte dei governi. Come vede questo sostegno? "Il mondo deve capire che l'appoggio allo Stato di Israele non è assolutamente di aiuto al popolo ebraico. Al contrario, il sionismo sta favorendo la ripresa dell'antisemitismo. Alla gente viene fatto credere che tutti gli ebrei siano favorevoli allo Stato di Israele, mentre, di fatto, ci sono centinaia di migliaia di ebrei che si oppongono all'esistenza stessa di uno Stato fondato su una ideologia nazionalista. A Gerusalemme comunità religiose cristiane, ebraiche e musulmane vissero in armonia per secoli. Fu l'intervento di questo movimento politico, il sionismo, che occupò le terre e commise crimini inauditi, a scatenare l'odio e la violenza che vediamo ancora oggi". Quali sono le soluzioni per portare la pace in Palestina? "Ce n'è una sola di soluzione che è anche la cosa giusta da fare: la Terra Santa appartiene ai palestinesi e a loro va restituita".

Referendum costituzionale, ecco perché gli ambientalisti devono votare NO

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Non è solo sul futuro del bicameralismo paritario, che saremo chiamati a decidere domenica 4 dicembre.
La revisione del Titolo V della Costituzione nasconde un tentativo - vergognosamente mascherato sotto il velo della "riduzione del numero dei parlamentari" e del "contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni", che si legge nel quesito referendario - di espropriare democrazia ai territori per accentrarla nelle mani di un apparato governativo che - qualsiasi sia il suo colore politico - è sempre di più un obbediente e prono portavoce dei dettami della finanza.
Basti solo pensare che l'introduzione della clausola di "supremazia statale", tanto cara alla Boschi e Renzi, su temi come l'energia, le infrastrutture, il governo del territorio, avrebbe reso impossibile condurre battaglie come quelle, vinte, per l'acqua pubblica e contro il nucleare o come quella, persa ma che comunque qualche risultato lo ha ottenuto, sulle trivelle.


Il disegno renziano di accentramento del potere non può essere accettato supinamente da chi si definisce ambientalista e crede in un allargamento della democrazia capace di includere i territori in cui conduce le sue battaglie, e si batte per una società slegata dai condizionamenti di un sistema economico che ha causato la crisi e i cambiamenti climatici.

Una visione di un futuro possibile e indispensabile, totalmente in contrasto con quella che sta proponendo il premier Matteo Renzi con questa riforma raffazzonata e, volutamente, poco chiara che si inserisce nell'ondata populista e antidemocratica che, proprio grazie al democratico strumento del voto (che non significa affatto "partecipazione"), sta investendo il mondo intero e che ha portato all'affermarsi di partiti filo nazisti in tanti Paesi dell'est europeo, alla Brexit in Gran Bretagna e all'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.
Una ondata che ha come principale nemico l'ambiente e coloro che si oppongono alla sua devastazione e trasformazione in merce. Perché altro non è che il riflesso politico dei cambiamenti climatici.

Per questo, oltre 150 comitati territoriali, dai No Tav ai No Muos, da Stop Biocidio a Medici per l'Ambiente - la lista completa la potete leggere a questo
link - hanno deciso di prendere posizione contro la riforma costituzionale con un appello. Una scelta doverosa per difendere non soltanto la pratica di rappresentanza contro chi vorrebbe arrogarsi il potere di scegliere i membri del senato, ma anche il diritto di poter continuare a lottare dai nostri territori per difendere salute, ambiente, diritti e beni comuni. In altre parole, per difendere la democrazia. Quella vera. Quella dal basso e partecipata, come solo chi ama, rispetta e cura l'ambiente in cui vive la può intendere. 

"La riforma Costituzionale formalizzata dal Governo Renzi, e sostenuta da Confindustria e dalle lobbies finanziarie ed economiche è un attacco diretto alla nostra possibilità di decidere sul futuro delle nostre vite e dei nostri territori. - si legge nell'appello - Un ulteriore e definitivo attacco da parte di quello stesso Governo che, in spregio ai valori della democrazia, ha sbeffeggiato con un #ciaone gli oltre 13 milioni di persone che il 17 Aprile scorso hanno votato per un modello energetico libero dal petrolio".

Domenica 4 dicembre, gli ambientalisti sbarrando la casella del No sulla scheda, avranno la possibilità di restituire il #ciaone a Renzi ed ai suoi referenti finanziari lanciando un segnale forte che affermi che, se si deve ammodernare la Costituzione, lo si faccia come hanno fatto Germania, Spagne e Francia, introducendo la tutela dell'ambiente, il principio di precauzione e la difesa delle generazioni future.
Tutte cose verso le quali la riforma renziana marcia in senso opposto, partorita come è da un sistema economica che si basa ancora sull'aggressione e sulla mercificazione dei beni comuni e delle risorse ambientali.

La fattoria senza padroni

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Nelle colline del Chianti, tra filari di viti e boschi di ulivi, c'è una fattoria senza padroni. E per raccontare la sua storia, partiremo dalla fine.
Siamo a pochi chilometri da Firenze. Trovare la fattoria non è facile perché bisogna indovinare lo sterrato giusto, dopo aver navigato a vista su una matassa di stradine sali e scendi, badando di non farsi distrarre dallo splendore artistico della cupola del Brunelleschi, che appare e scompare in lontananza, marcando il cuore del capoluogo toscano, adagiato nella valle dell'Arno. In quell'oasi di verde collinare, sembra impossibile che Firenze possa essere così vicina.
Capiamo di essere arrivati a destinazione quando vediamo un cartello della Monsanto. Già! Solo che sopra qualcuno ci ha disegnato un ragazzo armato di pennello che cancella il "santo" per sostituirlo con "deggi", tanto per rimarcare che da queste parti si respira tutta un'altra idea di agricoltura. Il nome della fattoria senza padroni è proprio Mondeggi. "Mondeggi Bene Comune", per l'esattezza. Nome che viene dallo sterrato che sale sulla collina sino ai tre casolari che sono la casa, il laboratorio, il deposito attrezzi, le cantine e tutto quanto fa fattoria per la ventina di ragazze e ragazze che, da circa tre anni, ha occupato questa terra, trasformandola, per l'appunto, in un Bene Comune.

Sabato 7 e domenica 8 marzo, la fattoria era in festa. Festa grande, intendo. Perlomeno un centinaio di persone si era radunato per discutere di occupazioni, sostenibilità, alternative ad un capitalismo predatorio che ha portato all'umanità solo povertà, guerre e devastazioni, mercificando Beni Comuni e diritti dei popoli. Si discuteva, in altre parole, del Mondo Possibile annunciato dagli zapatisti e su come traghettarci l'umanità. Una atmosfera simile, dico la verità, l'avevo respirata solo nei caracoles del Chiapas. Sotto gli accoglienti pergolati di Mondeggi, a raccontare storie di resistenza e di costruzione di alternative ad una economia basata sull'accumulazione e non sulla solidarietà, c'erano portavoce di popoli indigeni e di comunità contadine provenienti da tutta l'Amercia Latina. Nelle tante assemblee che si sono tenute nella fattoria senza padroni, ho ascoltato rappresentanti del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional del Salvador, dei Sem Terra brasiliani, dei sindacati contadini d'Argentina e del Messico. E poi, ospite d'onore, c'era lei: "Bertita" Càceres, in rappresentanza del Copinh dell'Honduras, che, come non sarà fuggito ai lettori di FrontiereNews avevo intervistato pochi giorni prima all'Internazionale di Ferrara. Non mancava, naturalmente, anche una vasta rappresentanza dei movimenti sociali e dell'associazionismo italiano ed europeo, tra i quali citiamo solo Genuino Clandestino, perché è il movimento da cui provengono le ragazze ed i ragazzi di Mondeggi e che ha promosso questa esperienza. E qui apro una parentesi per rimarcare che questo appuntamento, pure ignorato dalla maggior parte dei media italiani, ha avuto un riscontro tale a livello internazionale che papa Francesco, ha formalmente invitato un portavoce della fattoria senza padroni all'incontro internazionale dei movimenti popolari, in programma a Roma dal 2 al 5 novembre, alla presenza del pontefice, sul tema: “Programmare il protagonismo dei lavoratori di tutto il mondo che agiscono nelle lotte per la terra, la casa e il lavoro”. Un invito inaspettato che ha sollevato un bel po' di discussioni, non ancora concluse, all'interno della mailing list di Genuino Clandestino.
Ma torniamo sulle colline dei Chianti. Tra una assemblea tematica e una plenaria, c'è il tempo di visitare la fattoria. Gil e Carlo, portavoce a tempo della comunità senza padroni, mi fanno vedere la cantina. Considerata la loro giovane età, chiedo loro dove hanno imparato a fare il vino. "Su Google" mi risponde Gil. Devo aver fatto una faccia… No, dai, sul serio. Dove avete imparato a fare il vino? "Siamo tutti, o quasi tutti, studenti di agraria. Qualcosa ne sapevamo quindi, ma ti confesso che passare dalla teoria alla pratica non è affatto facile, soprattutto nei campi. Quindi abbiamo sperimentato, abbiamo chiesto ai vicini che sono sempre solidali con noi e, non ultimo, abbiamo fatto anche delle ricerche in rete. Per questo dico: Google. Se ci siamo riusciti noi, possono riuscirci tutti!"
Arrivati a questo punto, bisogna raccontare la storia di Mondeggi che comincia con un fallimento, quello dell'azienda srl a partecipazione pubblica che una decina di anni fa chiuse i battenti lasciando all'allora amministrazione provinciale un buco di un milione e 200 mila euro. Per la grande tenuta di oltre 200 mila ettari, seguirono sette anni di abbandono totale. Viti, ulivi, tutte le coltivazioni… tutto andava alla malora. "Qui attorno vivono molte comunità di contadini - mi racconta Carlo - e sono stati loro i primi a gridare allo scandalo nel vedere abbandonare al degrado una terra ricca e generosa come questa". Nascono i primi comitati autorganizzati che si riuniscono in "Verso Mondeggi Bene Comune" e si legano a Genuino Clandestino. Si comincia a parlare di occupazione e autogestione.
A prescindere da una esperienza in Umbria, di poca durata e già conclusa, è la prima volta in Italia che si ragiona di come "recuperare una terra" in stile Sem Terra. A differenza del Sudamerica, dove l'occupazione di uno stabile scatena immediatamente la repressione poliziesca mentre sulle terre da coltivare il Governo tende a mediare (il che non significa che i movimenti contadini ottengono sempre la terra, naturalmente), nel nostro Paese e in Europa le cose funzionano al contrario. Anche perché questa di Mondeggi è la prima vera esperienza di occupazione di terre coltivabili in Italia. "E' più facile occupare un centro sociale che un campo - mi assicura Carlo -. La terra, ce ne siamo accorti con le nostre mani, è bassa e dura!"
Seguono un paio di anni di preparazione, in cui ottiene l'appoggio dei contadini del Chianti, ed in cui si organizzano iniziative come la raccolta popolare delle olive, il recupero degli oliveti abbandonati, l'avvio di orti comuni. Quindi, tre anni fa, Mondeggi viene occupata. Dapprincipio un solo casolare e un piccolo appezzamento, poi il recupero si estende ad altri edifici e agli attuali 40 ettari gestiti in comune e senza padroni. La terra, come ci ha spiegato Carlo, è bassa e dura. le ragazze e i ragazzi ci investono quello che anno e, soprattutto, danno l'anima a coltivare dapprincipio viti e ulivi per farne vino e olio. Un po' alla volta, arrivano le arnie per le api, gli orti, un piccolo gregge di capre e pecore, la birra artigianale, il laboratorio di piante officinali, la scuola contadina… "Quest'anno siamo riusciti ad acquistare pure un trattore" racconta felice Gil. "La Cia, il potente sindacato dei grandi coltivatori, ci attacca di continuo e fa pressione sulle amministrazioni per arrivare allo sgombero. Dicono che abbiamo rubato la terra, che gli facciamo concorrenza sleale. Ma sono bugie. Il nostro olio, il nostro vino, il nostro miele vengono venduti solo negli spazi sociali e nei mercati di acquisto solidale. Chi compra i nostri prodotti, lo fa non soltanto per acquistare del vino, dell'olio o del miele ma soprattutto per sostenere il nostro progetto. Noi vendiamo quello che la Cia non può vendere: una agricoltura sostenibile e senza padroni!"
Le fertili terre attorno alla fattoria però, fanno gola alla speculazione. La Città Metropolitana che dalla Provincia ha ereditato il podere di Mondeggi (e i suoi debiti), affitta saltuariamente grandi appezzamenti della collina alle aziende private. "Prendono la terra per una anno e, in questo breve tempo, la sfruttano per ricavarne più soldi possibile. Usano grandi macchine che devastano le piante e impoveriscono il suolo, consumano prodotti chimici e inquinano l'acqua. Qualcuno farà anche i soldi, ma così non si va da nessuna parte. Non è per questa strada che si costruisce un futuro sostenibile e aperto a tutti".
L'ultima notizia è ancora più preoccupante. Una multinazionale agricola ha acquistato un appezzamento di Mondeggi. Sono solo pochi ettari, ma pagati ad un prezzo esorbitante perché contempla il diritto di prelazione verso i terreni confinanti. E' evidente che hanno tutte le intenzioni di allargarsi anche verso le terre senza padrone.
Cosa farete se compreranno anche la vostra terra e vi intimeranno di andarvene?
"Non hai sentito quello che hanno detto all'assemblea i compagni dei Sem Terra, del Frente salvadoregno, del Copinh e la stessa Berta Càceres? La terra non si compra e non si vende. Si difende. Faremo quello è giusto fare. Resistere ad ogni costo".

Il Parlamento Europeo ratifica l’accordo di Parigi. Per i movimenti si apre la stagione delle battaglie per il clima?

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Dalla politica non ci si deve aspettare niente. Una legge dello Stato, un accordo internazionale, non valgono più di un due a scopa se non c’è la volontà di applicarli. Non basta neppure la supposta buona fede di chi siede nella stanza dei bottoni. Tutto questo per spiegare che il raggiungimento del quorum di ratifica dell’accordo di Parigi, pur se va annoverata tre le “buone notizie” del giorno, non porta con sé assolutamente niente di definitivo o di vincolante. La partita del clima è ancora tutta da giocare.
In ogni caso, la ratifica degli accordi di Parigi, sancita ieri, martedì 4 ottobre, dall’Unione Europea, rimane comunque un fatto positivo. Ricordiamo infatti, che il documento di intenti varato da Cop21 sul mantenimento della temperatura entro i 2 gradi, per diventare operativo, implicava la successiva ratifica dei Governi di perlomeno 55 Paesi del mondo per una responsabilità complessiva del 55% delle emissioni climalteranti. Ieri, con la firma dell’Unione Europea il tetto è stato ampiamente raggiunto.
E qualcuno potrebbe anche stupirsi di come mai ci son voluti più di sette anni per ratificare il protocollo di Kyoto, mentre per Cop21 ne è bastato uno solo. Il perché di questa velocità, lo si spiega facilmente con due osservazioni. A dar la sveglia all’agenda politica dei nostri Governi, non è stata purtroppo la scienza - che da decenni mette in guardia dai pericoli conseguenti ai Cambiamenti Climatici - ma, ancora, il capitale.

Il primo punto da tenere in considerazione è che il futuro dell’economia, anche di quella che la Naomi Klein definisce “shock”, è solo e comunque green. Se Paesi come l’Olanda o la Svezia hanno già avviato l’iter per bonificare l’intero sistema di mobilità, sia pubblica che privata, vietare i motori a benzina e convertirli all’elettrico, non lo hanno fatto per amore dell’ambiente. O, perlomeno, non soltanto per amore dell’ambiente. I loro Governi si sono semplicemente resi conto che con il petrolio siamo agli sgoccioli. Gli ultimi giacimenti rimasti sono una delle prime cause delle guerre, delle devastazione e delle migrazioni forzate che affliggono la Terra. L’economia fondata sui fossili continua a combattere ma è già morta, pur se non se n’è ancora accorta (scusa Ariosto). Prima si sterza verso il green, e prima si arriva al traguardo dei Paesi che nel domani prossimo venturo potranno dire di contare nello scacchiere mondiale. E l’Italia? Stiamo ancora trivellando i nostri mari per non scontentare le multinazionali estere! All’appuntamento con la green economy del futuro, ci presenteremo con le classiche mutande del nonno.
La seconda osservazione è ancora più triste della prima. Dobbiamo ricordarci che nel piatto di Cop21 è stata rilanciata una posta di oltre 100 miliardi di dollari, da stanziare tra il 2020 al 2025, con i quali compensare le perdite dovute ai tagli di emissioni climalteranti ed incentivare le aziende verdi. Su chi dovrà gestire questi finanziamenti e con quali criteri (tanto per dirne una, si sono “dimenticati” di inserire la clausola del rispetto dei diritti umani per i Paesi che dovranno godere dei finanziamenti climatici) è la vera partita per la quale si sono scannati a Parigi. E questo spiega anche perché Paesi come l’India o la Cina, dove il concetto di “tutelare l’ambiente” non ha neppure una traduzione credibile, si sono affrettati a ratificare tutto ciò che c’era da ratificare pur di essere tra i primi a sedersi al tavolo dove verrà spartita la torta.
Ma, come dicevamo in apertura, la notizia che l’accordo di Parigi è diventato legge, sia pure non vincolante, né in Italia né altrove, rimane comunque una buona notizia. La politica, almeno stavolta, ha fatto quello che doveva fare e nei tempi previsti. Adesso la palla passa ai movimenti, alla cittadinanza attiva, alle associazioni. Perché la politica di più non può o non sa fare. Dovranno essere i cittadini a fare di Cop21 una bandiera, alzare la voce e pretendere che amministrazioni locali e Governi rispettino quegli accordi che loro stessi hanno ratificato. E dobbiamo aspettarci una battaglia dura, perché mai, nel dopoguerra, la democrazia è scesa a livelli così bassi come di questi tempi. E non è un caso. Perché la battaglia per il clima e la battaglia per la democrazia sono la stessa battaglia.
Cop21 ha ratificato che i fossili e l’economia che vi aveva capitalizzato sopra, stanno marciando dalla parte sbagliata delle storia dell’umanità. E, assieme a loro, tutto quel cieco fervore sviluppistico fatto di Mose, Tav, Grandi Opere, Grandi Navi, Ponti sullo Stretto, “Milioni di posti di lavoro” che hanno massacrato ambiente e democrazia negli ultimi 50 anni.
Il loro tempo sulla nostra Terra è finito. Dobbiamo solo farglielo capire.

Come dobbiamo dirvelo che l’inceneritore non lo vogliamo?

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E sempre all’erta bisogna stare! L’Sg31, buttato fuori dalla porta grazie ad una dura mobilitazione popolare, rischia di rientrare dalla finestra della partecipata. Finestra spalancata dalla cessione del 40% delle quote di Veritas alla srl Ecoprogetto. E il marcio non è solo in Danimarca evidentemente, considerato che della ventilata riapertura dell’inceneritore, se non addirittura della costruzione di un nuovo impianto nella stessa area, ne siamo venuto a sapere soltanto grazie all’allarme lanciato dal sindaco di Mira, il pentastellato Alvise Maniero, che ha prontamente informato la stampa non appena ne ha avuto notizia. C’è da chiedersi dove fossero gli altri 42 sindaci che pure fanno parte del consiglio di Bacino. A parte il Brugnaro “Gigio” che, di sicuro, stava sparlando di “schei” o di “sicurezza” davanti a qualche microfono. Ed è proprio sulla mancata trasparenza che il presidente della municipalità di Marghera ha puntato l’indice, questo pomeriggio, durante la riunione del consiglio. Un consiglio che sembrava più una assemblea popolare, pieno com’era di cittadini incazzati e preoccupati. “Proprio sul campo della gestione dei rifiuti bisognerebbe garantire la massima trasparenza - ha commentato l’ambientalista in apertura del dibattito -. Non è un caso che recentemente ci siano stati due attentati ai mezzi e agli impianti di trattamento, uno dei quali ha colpito proprio Veritas. I rifiuti, se non sono gestiti in maniera chiara e pulita, causano inquinamento ambientale e criminale”.

Il comunicato con il quale la partecipata Veritas, prende le distanze dal progetto Sg31 è sicuramente un passo avanti in questa battaglia per un futuro sostenibile - e non solo dal punto di vista ambientale ma anche economico considerato che, Parigi insegna, o saremo green o non saremo niente - ma rimane comunque una presa di posizione assolutamente non vincolante, perlomeno sino a quando il consiglio di Bacino formalizzerà la bocciatura del progetto.
Con un comunicato congiunto, si sono fatto sentire anche l’assemblea contro il Rischio chimico e il comitato Opzione zero che invitano i cittadini a tempestare di mail la posta dei membri del consiglio di Bacino ed a partecipare con pentole e fischietti al presidio che si svolgerà domani, alle ore 9 davanti a Veritas, via Porto di Cavergnano, Mestre, proprio in concomitanza con la riunione del consiglio.
La preoccupazione che gli interessi economici privati delle società legate all’incenerimento dei rifiuti prevalga sulla tutela dell’ambiente e della salute pubblica è forte, nonostante le rassicurazione di Veritas secondo cui Venezia non tornerà indietro dalla politica avviata dalla precedente amministrazione comunale che era riuscita a chiudere l’ultimo inceneritore potenziando la differenziata. Ma oggi, in laguna, l’aria tira da un altro versante.
E sempre all’erta bisogna stare, dicono i comitati ambientalisti. Nel Veneto, come in tutta Italia, chi parla di riciclo, riuso, riduzione, raccolta e recupero viene visto come un nemico dello “sviluppo” economico. L’Europa è ancora lontana. Alle mafie dei rifiuti va bene così. Ma i comitati, i movimenti e gli ambientalisti sono pronti alla mobilitazione. Sanno che dei comunicati non ci si può fidare. Non con questi sindaci, non con questa Regione, non con questo Governo.

Chi ama Venezia difende la laguna

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Mancavano solo loro, alla grande festa di musica e bandiere, che questo pomeriggio, sino a sera inoltrata ha colorato la fondamenta delle Zattere. Mancavano le Grandi Navi. Dalla marittima fanno sapere che l’autorità portuale ha preferito deviarle nei canali dietro la Giudecca. Eppure, il passaggio era sgombro. Questa volta, nessuno ha tentato di bloccare la circolazione di quelle specie di villaggi di vacanza galleggianti.
“Gli abbiamo fatto paura” spiegano dal palco. Più che paura forse, gli abbiamo fatto provare vergogna. Perché chi ama Venezia, questo pomeriggio, era là, in fondamenta, con i veneziani, a difenderla. Chi stava sulle navi, no. Di Venezia, dei suoi problemi e della sua vera bellezza, quei turisti da “tutto compreso”, non possono sapere nulla. Quelle tremila persone che dalla fondamenta chiedevano politiche per la residenzialità, interventi di tutela per la laguna, politiche per governare il turismo, l’allontanamento delle Grandi Navi e del loro inquinante passaggio, avrebbero anche potuto guastare la festa della partenza. Così, i condomini galleggianti, che di nave hanno ben poco, sono stati fatti girare al largo. I turisti si sono persi l’indubbio splendore di ammirare dall’alto del ponte la città dei dogi arrossare al tramonto del sole, ma gli è stata risparmiata l’umiliazione della verità: Venezia non vi vuole.

La vera festa, questo pomeriggio, era tutta alle Zattere, tra le tante bandiere Non Grandi Navi in riva, le barche a vela e a remi in canale, e la musica sul palco galleggiante, dove ad artisti come Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli e sir Oliver Skardy, si alternavano gli interventi politici dei rappresentanti del municipio di Barcellona e di altre “città ribelli”, o di portavoce di comitati ambientalisti come la No Tav, Nicoletta Dose, che si battono contro la politica delle Grandi Opere. categoria nella quale le Grandi navi rientrano di buon diritto: devastano il territorio, fagocitano soldi e risorse pubbliche per deviarle ad aziende private in odor di mafia. In cambio, rubano democrazia e drogano la politica. Impossibile non citare il Mose, che ha inaugurato la stagione delle Grandi Opere. Perché se puoi fare impunemente una tale porcheria in una città sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare ciò che vuoi dappertutto. “Il Mose è stato il bidone del secolo che ha portato via a Venezia soldi, risorse e anche democrazia – gridano dal palco -. A due anni dalla grande retata tutto è rimasto come prima. Le prove sono state un fallimento annunciato. L’opera non funziona ed è stata pensata apposta per divorare vagoni di euro in manutenzioni continue. Chiediamo al commissario di fare il suo mestiere e di verificare non soltanto l’aspetto finanziario ma anche le numerose criticità del progetto messe in evidenza da studi indipendenti dal consorzio”.
Tanta gente, abbiamo detto. Pochi gli onorevoli. Tra questi, ricordiamo solo Giulio Marcon, che venerdì ha chiesto una question time in parlamento proprio sul tema delle Grandi Navi. “Mi ha risposto il sottosegretario del ministero allo Sviluppo economico Antonello Giacomelli. Cosa mi ha detto? Poco e quel poco mi preoccupa. Prima mi ha fatto la storia delle Grandi Navi, che, se permettete, conoscevo già. Poi ha ribadito che stanno esaminando le varie proposte e che, purtroppo, non escludono lo scavo di altri canali. In conclusione, tanto per dimostrare che non aveva capito le mie domande, mi ha ricordato che nel canale della Giudecca non transitano più navi commerciali o traghetti. Grazie tante! Io stavo parlando delle Grandi Navi”.
Ultima nota per la Chiesa Pastafariana che ha aderito alla manifestazione con una sua coloratissima imbarcazione piena zeppa di birre e di pirati: i “fritelli” della costa.
Non posso sapere dove fossero gli altri dei, ma il Grande Spaghetto – o il suo spirito spiritoso-, questo pomeriggio, era in fondamenta delle Zattere ad ascoltare il concerto ed a “birredire” i manifestanti con le sue Pappardellose Appendici.
Ramen.

La Venezia che (r)esiste in assemblea a Rialto per preparare la festa di domenica 25

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Venezia si prepara alla grande manifestazione contro le Grandi Navi, prevista per domenica 25 settembre. E lo fa con una partecipata assemblea svoltasi questo pomeriggio nel cuore stesso della città: nella pescheria di Rialto. Quel cuore che “no se vende” come i residenti hanno scritto a grandi lettere sotto quello che fu un tempo il primo palazzo del Doge. Tanta gente, tante associazioni hanno accolto l’appello dei No Grandi Navi a dare vita a questo dibattito, comprendendo che la battaglia contro il gigantismo navale non solo è una battaglia in difesa della città, della sua laguna e della salute dei suoi abitanti, ma è anche un grimaldello per affrontare tutte le tante questioni che riguardano Venezia, dal turismo di massa al tanto citato “degrado”. Dietro il No alle Grandi Navi, ha spiegato Marco Baravalle in aperture dell’assemblea, ci sono tanti Sì: sì a una città solidale e sostenibile, sì alle case per i residenti, sì al controllo del traffico acqueo, sì all’artigianato e alla vita a Venezia.
“Proprio qui a Rialto dove sopravvive il valore d’uso di uno dei luoghi storici di Venezia, vogliamo ribadire che la nostra idea di città è ben diversa da quello che ne ha la Giunta e le compagnie di crociera che la vedono solo come uno strumento di profitto - ha spiegato Baravalle -. Ed è proprio sulle idee e sulle proposte che possiamo vincere questa battaglia, di fronte ai balbettii di chi non sa proporre nessuna soluzione, noi ripetiamo ancora una volta che le grandi navi debbono stare fuori dalla laguna e che Venezia esiste e resiste”.

Marta Canino, portavoce dell’assemblea No Grandi Navi, ha spiegato come si svolgerà la manifestazione. “Sarà una grande festa che si svolgerà attorno ad una grande piattaforma galleggiante. La manifestazione ha le autorizzazioni in regola. Venite tutti, a piedi alle Zattere o in barca in canale della Giudecca domenica 25 pomeriggio per dare voce alla Venezia che vogliamo”. Tra gli ospiti che saliranno sul palco galleggiante ci saranno attivisti No Tav come Nicoletta Dosio, e portavoce di movimenti e associazioni ambientaliste di tanti Paesi d’Europa. Ci saranno anche musica e spettacolo, naturalmente. Tra gli artisti che hanno aderito all’iniziativa, ricordiamo Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli, sir Oliver Skardy, Herman Medrano, Marco Furio Furieri, i Rimorchiatori, Banda Nera, Storie Storte, 4 Rooms Family e Big Mike.

Non resta altro da dire se non “Ci vediamo domenica 25 settembre alle Zattere”

L'energia che guarisce

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Il reiki tra religione per l'anima e terapia per il corpo
Il reiki viene definito dai suoi cultori come una tecnica di guarigione, semplice da praticare quanto efficace negli effetti, che può essere utilizzata da chiunque sia stato “energeticamente ripulito” mediante l’attivazione dei suoi “canali naturali” (vedremo più avanti il significato di questo termine). Nel sito della scuola italiana di reiki[1], si legge: «Il reiki è una tecnica di origine giapponese immediata e naturale che permette di riequilibrarsi e di ritrovare benessere psichico e fisico utilizzando semplicemente le proprie mani. È così semplice che tutti possono impararlo in un fine settimana, persino i bambini».
Questa pratica si propone come una terapia medica atta a curare traumi, distorsioni, ustioni, ferite ma anche allergie, così come malattie autoimmuni, semplici raffreddori o patologie tumorali. Decisamente molto. Anche quando la malattia non regredisce (il reiki, bontà sua, non pretende di garantire l’immortalità), il paziente trattato dovrebbe comunque trovare beneficio psicofisico nel trattamento e migliorare la qualità della sua vita. Il reiki inoltre - sempre secondo chi lo pratica - può essere utilizzato per curare malattie mentali come la depressione e garantirebbe una forte stabilità emotiva ed una maggior serenità nell’affrontare i problemi di tutti i giorni anche a chi è sano come un pesce.
Attenzione a non confondere il reiki con la pranoterapia, ovverosia la guarigione di un malanno tramite l’imposizione delle mani. Una terapia “alternativa” la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Mentre il pranoterapeuta travasa sul paziente la sua personale “energia magnetica”, il reikista si limita a far da «canale» per far scorrere l’«energia dell’universo». Il pranoterapeuta, alla fine della seduta - perlomeno così afferma - si sente svuotato e stanco, mentre il reikista che ha fatto solo da «filo conduttore» sarebbe a sua volta beneficiato dal passaggio del reiki. Contrariamente alla pranoterapia, il reiki può essere praticato anche su se stessi. Un’altra differenza fondamentale sta nel fatto che per applicare la pranoterapia bisogna essere delle persone speciali, alle quali Madre Natura, o chi per lei, ha elargito il magico dono della guarigione. Il reiki, al contrario, lo può praticare un premio Nobel come una persona semplice, un adulto come un bambino, un santo come un bestemmiatore incallito, purché ovviamente abbia prima investito i 300 euro indispensabili per farsi «attivare» i «canali energetici» da un maestro reikista. Da questo punto di vista, si tratta di una pratica di guarigione assai più democratica!


Il reiki nella sanità
Negli ultimi tempi, pur in assenza di studi scientifici che ne abbiano dimostrato una qualche efficacia, il reiki è entrato nella sanità italiana perlomeno in tre ospedali: nel reparto di medicina psicosomatica del San Carlo Borromeo di Milano e nei reparti oncologici del San Giovanni Battista di Torino e del Regina Elena di Roma. Nel canale YouTube della scuola YouReiki si possono vedere dei video che mostrano come questa pratica venga applicata ai pazienti oncologici del Regina Elena. Inoltre, a dimostrazione di come la pratica di questa disciplina si stia diffondendo in Italia, alcune associazioni di reiki sono riuscite ad inserire i loro corsi nell’ambito della formazione continua per il personale sanitario con la possibilità di rilasciare crediti Ecm (Educazione Continua in Medicina). I vantaggi, stando a quanto si legge nella pagina reiki con accredito Ecm, sarebbero sia per il paziente curato con il reiki che per l’operatore, il quale godrebbe di «maggiore resistenza alla fatica ed allo stress da turni» e farebbe così «minori assenze per malattia». Il reiki quindi curerebbe tanto chi lo eroga quanto chi ne beneficia. E ci sarebbe un vantaggio anche per l’azienda ospedaliera, in quanto il reiki può accelerare la convalescenza e contrastare le complicazioni: «si pensi ai vantaggi in termini di riduzione delle liste di attesa ed a quelli economici derivanti dal maggior turnover dei pazienti».

Quando l’energia è “intelligente”
Reiki è una parola giapponese composta da due ideogrammi: Rei (spirituale, intelligente) e Ki (energia). La traduzione letteraria del termine potrebbe essere quindi “energia intelligente”. «Quell’energia che esisteva ancor prima della creazione dell’universo - si legge su www.amoreiki.it - il principio divino dal quale è scaturito il Big Bang e che ha portato alla creazione dell’universo in tutte le sue manifestazioni».
Niente di misurabile o di contestualizzabile in un ambito scientifico, naturalmente. Anzi potremmo affermare che, per sua stessa natura, il reiki esula da qualsiasi definizione scientifica. I suoi adepti la descrivono infatti come una “energia” che non si può misurare, il che in termini scientifici è un non senso. Più un concetto filosofico e religioso, quindi. «Reiki indica un livello di energia vibrazionale che è comune a tutti gli esseri viventi e che nutre e mantiene le cose in vita» come spiega l’associazione reikista Alkaemia nel suo sito. Una sorta di «forza spirituale benigna» che avvolge l’universo impregnandolo di amore e di ordine.
Una energia per sua natura guaritrice, perché le patologie sarebbero imputabili a un disordine o, meglio, a un disequilibrio dello spirito che si riflette negativamente nel corpo.
Il reiki ha il potere di armonizzare l’uomo con l’universo donandogli così la guarigione. La malattia, sia essa una infezione virale o una semplice ferita da taglio, nella filosofia del reiki comporta uno squilibrio nel paziente che si traduce in sofferenza fisica e psichica. L’operatore reiki, incanalando l’energia dell’universo e facendola scorrere nel corpo del malato, ristabilirebbe questo mistico equilibrio, col risultato - sempre secondo i reikisti - di demolire l’infezione o di far cicatrizzare la ferita in tempi brevissimi.
Non sono necessari altri accorgimenti da parte dell’operatore. Il reiki, come abbiamo detto, è una energia intelligente. Una volta incanalata nel corpo sa da sola dove andare a depositare i suoi benefici influssi. Il terapista ha soltanto la funzione di «canalizzare» l’energia. Per questo non servono studi, conoscenze o abilità particolari, come, ad esempio, per l’agopuntura. L’operatore apre solo il «rubinetto» dell’energia che poi scorre da sola. Con queste premesse, i reikisti spiegano facilmente anche eventuali insuccessi. Ad esempio: hai applicato il reiki ad un torcicollo e non ti è passato? Nessuna contraddizione. Probabilmente avevi uno squilibrio più pericoloso in qualche altra parte dell’organismo e il reiki è andato a riequilibrare quella parte del tuo corpo.
Capirete che, partendo da queste premesse, è difficile dimostrare scientificamente se il reiki abbia una qualche efficacia o no.

Dagli States con furore
Raccontato così, il reiki sembra una delle tante discipline orientaleggianti in stile new age che hanno trovato la loro fortuna in Occidente, stravolgendo quello che era il loro significato nelle terre del Sol Levante. Non è affatto così. Provate a chiedere a qualche vostro conoscente giapponese che cosa sia il reiki. Io ci ho provato con un mio amico docente universitario di Kyoto e l’ho visto sprofondarsi in un mare di scuse confessando la sua ignoranza in materia. Solo dopo molte domande serrate - cosa considerata altamente maleducata per i criteri orientali - sono riuscito a capire che quello che noi chiamiamo reiki in Giappone… non esiste! O meglio, esiste ma è una pratica ascetica seguita solo da alcuni monaci buddisti, come complemento di digiuni e meditazioni, finalizzata a guarire più lo spirito che il corpo. Basta anche fare una ricerca su Google per assicurarsi che, mentre in Europa e nell’America del nord di scuole reiki ce ne sono molte, in tutto il Giappone la disciplina del reiki è praticamente sconosciuta e le poche associazioni che usano questo termine sono prettamente religiose e senza finalità terapeutiche.
Per definire il reiki che viene proposto in Italia, il mio amico orientale ha usato l’efficace espressione «la solita americanata».
Già. Perché il reiki che viene praticato in Italia non viene dal Paese del Sol Levante ma dagli Usa.

21 sassolini per il reiki
Tutti gli studiosi sono concordi nel considerare il monaco Mikao Usui (1865 - 1926) il fondatore del reiki. Di lui, che non ha lasciato nulla di scritto, non si sa molto più di quanto racconta la sua leggenda. Avrebbe messo a punto il reiki come metodo di risveglio spirituale e di riequilibrio energetico, meditando sulle pendici del vulcano Fujiyama 21 giorni e 21 notti, seduto su 21 sassolini.
Fondò la sua scuola in età avanzata e morì quattro anni dopo. Sulla sua lapide c’è scritto che insegnò il reiki a duemila persone. Solo sedici di questi studenti raggiunsero il livello di “shinpiden”, che consente di “attivare” altri reikisti. Per Usui, questo era un traguardo molto importante, raggiungibile solo con lunghi digiuni e profonde meditazioni. Per il reiki occidentale, è semplicemente il terzo livello del corso completo.
Fu una donna di passaporto statunitense e di origine giapponese, Hawayo Takata (1900 - 1980), colei che portò il reiki in Occidente. La donna conobbe questa disciplina in un viaggio a Tokjio tramite Chujiro Hayashi, un medico omeopata che fu iniziato al reiki dallo stesso Usui. Nel 1941 Hawayo Takata divenne il terzo maestro Reiki nella successione di Usui, e si autonominò responsabile unica della salvaguardia e della corretta diffusione del metodo Usui.
Takata strutturò il percorso formativo del reikista in tre corsi, come è tutt’ora, e occidentalizzò la disciplina liberandola dalle pratiche monacali e dandole una forte valenza terapeutica. Scrisse nel suo diario: «Io credo che esista un Essere Supremo, l'Infinito Assoluto, una Forza Vitale che governa il mondo e l'universo, un Potere Spirituale invisibile dinanzi al quale tutti gli altri poteri appassiscono nella loro insignificanza. Questo potere è incomprensibile per l'uomo, inimmaginabile, non misurabile, è la Forza Universale della Vita, da cui ogni singolo essere riceve continue benedizioni. Io chiamerò questa energia Reiki»

Il reiki in Italia
Dagli States, il reiki è arrivato in Italia attorno ai primi anni ’90. Da allora, questa pratica terapeutica si è diffusa in tutto il Paese, ottenendo un innegabile e crescente successo. In Italia le scuole di reiki sono oramai parecchie decine e sono diffuse in tutta la penisola. Il reiki, abbiamo scritto, è per sua natura “democratico”. Chiunque abbia frequentato il terzo livello, e di conseguenza abbia il potere di “attivare” gli aspiranti reikisti, può fondare una sua scuola e impegnarsi in questo business. La tecnica è sempre la stessa, così come sempre gli stessi sono i tre livelli che ogni scuola offre al pubblico. Il primo livello consiste nell’attivazione dei canali energetici e consente di guarire i pazienti, e anche lo stesso operatore, ponendo le mani (vedremo più avanti con che tecnica) a contatto col corpo dei malati. Il secondo livello permette di trasmettere il reiki a distanza con la sola forza del pensiero. Il terzo livello, l’ultimo, dà il potere di attivare altri reikisti e quindi di organizzare corsi di tutti i livelli.
Ognuno di questi corsi dura un paio di pomeriggi. I tariffari si aggirano sui 300 euro per il primo, 500 per il secondo, mentre il terzo arriva anche a 10 mila euro.
La distanza dei reikisti da un approccio di tipo scientifico si osserva anche nel modo in cui affrontano la questione della medicina dei farmaci. Per esempio, il reiki è antitetico al vaccino, che causa secondo reikinet.it «migliaia di reazioni serie, incluse centinaia di morti e di menomazioni permanenti». Vaccinare un bambino, si legge nel sito www.reiki.it , è come chiedergli «di allenarsi per un incontro di pugilato o sottoporlo ad un addestramento militare». Le spiegazioni che vengono fornite per giustificare questa opera di disinformazione rinviano ancora una volta a simboli e teorie, mai ad una qualche evidenza: «Il sistema immunitario è collegato all’archetipo del Guerriero e ci permette di entrare in relazione con il mondo, con l’Altro-da-me e di difenderci dalle invasioni». In questo modo, si legge sempre nel sito, «un bambino sano nei primi anni di vita è in grado di rispondere in modo adeguato per limitare i danni provocati dalla gran parte degli agenti infettivi e, allo stesso tempo di produrre la cosiddetta memoria immunologica». r
Secondo i reikisti, i vaccini possono essere assorbiti da un adulto, ma se «il bambino è ancora molto piccolo, il suo sistema immunitario è ancora totalmente immaturo e cercare di proteggerlo precocemente (prima del reale contatto con i germi) si è dimostrata essere una delle principali cause di danno vaccinale». Le conclusioni sono queste: «più i nostri figli sono vaccinati e più stanno male». Tutto al contrario dei bambini cui viene insegnato il reiki, «il regalo più grande che possiamo fare loro». E la conclusione di questo articolo è che «Oggi si può aiutare efficacemente i propri bambini senza inquinarli troppo con le tossiche medicine. Tante sono le possibilità. Grandissimi risultati ha ottenuto l’omeopatia, la giusta alimentazione con utilizzo di alimenti “bio”, la naturopatia, ma più grandi risultati potrete ottenere se unirete a qualsiasi cura, di medicina tradizionale o alternativa, il reiki».

Le critiche al reiki
Navigando in rete, quello che più stupisce un osservatore dotato di spirito critico è la quasi assoluta mancanza di voci critiche nei confronti di questa disciplina.
Se provate a battere il termine Reiki sulla finestra di Google, le pagine più facilmente citate sono quelle di associazioni di reikisti che promettono corsi, guarigioni miracolose, seminari, risvegli spirituali ed energetici.
Per trovare un approccio critico bisogna conoscere l’inglese (o correre il rischio di affidarsi al disgraziatissimo traduttore di Google). Lo Skeptic’s dictionary da abracadabra agli zombi[2], in un articolo, per la verità piuttosto succinto, racconta la storia del reiki e della sua diffusione, senza comunque tentare una spiegazione del suo successo, e alla fine liquida la pratica terapeutica come uno dei tanti placebo al pari delle altre pratiche di pranoterapia. Anche se il reiki, come abbiamo detto, non è assimilabile alla pranoterapia.
Chi si è espresso criticamente verso il reiki è invece la Chiesa cattolica, anche se ovviamente non sulla base di evidenze scientifiche.
La Commissione per la Dottrina della Conferenza episcopale, con una direttiva datata 25 marzo 2009, scaricabile in italiano al link indicato in nota[3], ha dichiarato che questa pratica terapeutica è una manifestazione demoniaca ed è nemica della fede cristiana: «Per un cattolico credere nella terapia reiki presenta problemi insolubili».
Il che si spiega facilmente. Per la teologia cattolica, che non ammette panteismi, la sola forza positiva e guaritrice che pervade l’universo è quella che viene da Dio tramite lo Spirito santo. Una forza che solo i santi possono adoperare per effettuare le miracolose guarigioni di cui abbondano le agiografie. Ma il reiki, come abbiamo scritto, ha una natura più “democratica” e può essere incanalato anche da atei o peccatori incalliti. Il che comporta che, se non viene da Dio, questa forza ultraterrena altro non può venire che dal demonio. Con una semplice ricerca in rete, non faticherete a trovare confessioni di cattolici praticanti che esprimono tutto il loro pentimento per aver usato questa energia diabolica. Va sottolineato che i cattolici che hanno provato il reiki non dicono che non funzioni. Anzi, ne sostengono il potere terapeutico. Ma riconoscono che, non potendo provenire da Dio, deve essere opera del suo antagonista per eccellenza, il demonio.
In ambito scientifico, invece, non sono molti gli studi condotti sulla reale efficacia del reiki. Quelli che ci sono, però, la contestano. Una revisione sistematica di 205 studi potenzialmente rilevanti pubblicata nel 2007 non ha trovato alcun effetto della terapia reiki né sul recupero funzionale dopo patologie debilitative né per la riduzione di dolore, ansia e depressione nei pazienti[4]. Analoghe conclusioni sono venute da un’altra ricerca pubblicata per The Cochrane Collaboration da Janine Joyce e Peter Herbison del dipartimento di medicina sociale e preventiva dell’Università di Otago, Nuova Zelanda[5].
Un lavoro focalizzato proprio a determinare gli effetti del reiki nella riduzione dei sintomi di ansia e depressione in pazienti tra i 16 e i 55 anni. Le conclusioni sono riassunte in una riga: «Non c’è nessuna evidenza che il reiki abbia qualche efficacia per i pazienti».

La conclusione dell'articolo integrale può essere letta solo sulla rivista o sul sito di Query

Note
1) www.ilreiki.it
2) http://www.skepdic.com/
3) http://tinyurl.com/grpzk8y
4) Lee, M. S., Pittler, M. H., & Ernst, E. (2008). Effects of reiki in clinical practice: a systematic review of randomised clinical trials. International journal of clinical practice, 62(6), 947-954.
5) Joyce, J., & Herbison, G. P. (2015). Reiki for depression and anxiety. The Cochrane Library.

La mia esperienza col Reiki

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E proviamo anche noi!
Per cercare di capire di più di questa disciplina, non appena mi si è presentata l’occasione mi sono iscritto ad uno dei corsi reiki di primo livello che periodicamente si svolgono vicino alla mia città, Venezia, organizzato da una delle associazioni più attive nel territorio: la Riziki. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Riziki non è un termine giapponese, ma africano. «Una parola in Kiswahili, ‘la lingua della costa’ - si legge nel loro sito - che mette in comunicazione vari gruppi etnici dell’Africa dell’est: una sorta di Esperanto africano». Scopo dell’associazione, sempre dal loro sito internet, è di promuovere «un equilibrio, dal punto di vista personale, sociale ed ambientale». Per questa ragione, Riziki, oltre che ad organizzare corsi in Italia, opera per la diffusione del reiki soprattutto nei Paesi del Sud del mondo,[...]

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