Fin che la barca va, l'inquinamento aumenta
19/04/2016EcoMagazine, Global Project
Sotto osservazione, in particolare, l'inquinamento atmosferico che deriva dal traffico navale e dal via vai di Grandi Navi al porto di Venezia. "Ho effettuato valutazioni dell'aria in tanti porti e tante città - ha dichiarato Axel Friedrich - ma un inquinamento simile non l'ho mai rilevato. In Italia, si continua a permettere alle navi di bruciare carburante di pessima qualità e di non adoperare i filtri antiparticolato con conseguenze tragiche per la salute di migliaia e migliaia di cittadini, per non parlare degli effetti nefasti sul clima, sull'ambiente e anche sui monumenti. I Paesi che si affacciano nel mare del Nord e nel mar Baltico, invece, hanno ottenuto per le loro acque il riconoscimento dell'area Seca (SOx Emission Control Area. ndr) migliorando notevolmente la qualità dell'aria".
In Italia le cose marciano diversamente, le lobby crocieristiche giocano al risparmio, e di filtri e di carburanti a basse emissioni non vogliono sentir parlare. Anche l'accordo Venice Blue Flag con il quale le compagnie si impegnavano ad abbattere la percentuale di zolfo nei carburanti utilizzati in entrata e in uscita del porto, lascia il tempo che trova, considerato che nessuno ha mai effettuato un serio controllo sulle emissioni e che gli stessi dati ottenuti dallo staff di Friedrich dimostrano tutto il contrario. Vedi i picchi registrati ogni qualvolta volta che una nave transitava per il canale della Giudecca.
Le modalità con le quali l'Arpav controlla le emissioni, infatti è uno dei punti focali delle critiche dello scienziato tedesco. Ad oggi c'è una sola centralina in tutta la laguna e sistemata, per di più, a Sacca Fisola. Cioè sottovento rispetto ai principali venti che soffiano a Venezia che sono quelli di bora. "Un posto perfetto per dimostrare che l'inquinamento non esiste. Se proprio vogliono usare una sola centralina dovrebbero sistemarla dove c'è più flusso di persone e dove batte di più l'inquinamento. A San Marco, per esempio. Là noi abbiamo rilevato i picchi più preoccupanti".
Da sottolineare che, pur se misurati con un arbitraggio... "casalingo", i dati raccolti dalle centraline Arpav in questi primi mesi dell'anno hanno ugualmente sforato i limiti di legge. E che in Italia si continua a morire di inquinamento lo afferma anche l'Unione Europea, che ha sanzionato il nostro Paese per mancanza di interventi a tutela della salute dei suoi cittadini. Secondo l'agenzia Ambiente europea, sarebbero oltre 50 mila in Italia le morti premature dovute agli inquinanti atmosferici.
Una situazione criminale nella quale Governo, Regione e Comune, a veri livelli, si guardano bene dall'intervenire preferendo continuare con la politica dello struzzo. Tanto per citare un esempio, da quest'anno la normativa rende obbligati i controlli delle polveri ultra sottili (proprio queste misurate dal dottor Friedrich) ma l'Arpav non è ancora stata dotata degli strumenti per effettuare un corretto monitoraggio. E stiamo parlando di apparecchiature che costano poche migliaia di euro.
Non ci sono soldi o non c'è la volontà politica di affrontare una situazione che imporrebbe scelte radicali e ben diverse da quella di continuare a far fare passerella in laguna alle Grandi Navi?
Ma sappiamo già da che parte pende la bilancia quanto il governatore Luca Zaia e il sindaco Gigio Brugnaro, mettono sul piatto la salute dei cittadini e gli interessi delle grandi lobby.
Fin che la barca va, lasciala andare.
Non solo il mare. Il petrolio inquina anche la politica e la democrazia
13/04/2016EcoMagazine, Global Project
Il problema sta tutto nel fatto che l’oro nero non inquina solo l’ambiente ma la stessa democrazia.
E’ appena il caso di ricordare come proprio il petrolio sia stato, ed è tutt’ora, un formidabile veicolo di corruzione in tutta la terra. Non ultimi, i Paesi del sud del mondo dove le briciole di bilancio di una qualsiasi compagnia petrolifera sono sufficienti per comperarsi l’intero Governo, con apparato burocratico in gentile omaggio.
Global Witness, una bene informata associazione internazionale che monitora i legami tra povertà, corruzione, violazione dei diritti umani e sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi meno industrializzati, ha identificato nel petrolio e, in generale, nelle risorse minerarie il settore di maggior rischio di corruzione. Su 427 casi “ufficiali” monitorati nel 2014, il 20% di questi è imputabile al settore estrattivo.
Un effetto dovuto alla sproporzione tra la debolezza economica del tessuto sociale del Paese sfruttato e i profitti miliardari delle compagnie, certo. Ma il petrolio è anche causa di questa sproporzione perché alimenta regimi corrotti e totalitari, fomenta sanguinose guerre e trova nella diseguaglianza e nelle ingiustizie sociali un fertile concime sul quale prosperare.
Pensiamo solo alla Nigeria dove il settore petrolifero rappresenta il 14,4 % del pil. Il recente scandalo che ha coinvolto l’Eni e alcune sue associate come la Saipen ha portato al sequestro di oltre 200 milioni di dollari in conti svizzeri di presunta corruzione per le concessioni di sfruttamento dei giacimenti marini.
Nell’interessante dossier di Legambiente “Sporco petrolio”, la situazione viene egregiamente riassunta con questa parole. “La corruzione è un micidiale strumento per aggirare leggi e processi democratici, per spostare ingenti risorse economiche in capo a pochi soggetti in grado di organizzare e gestire reti di corruttele e malaffare, per drenare a costi irrisori risorse pubbliche alle comunità locali, lasciando sul posto solo una lunga scia di problemi ambientali”.
E questo non vale solo per la Nigeria e per gli altri bacini del sud dove si estrae l’oro nero, come l’Amazzonia, ma anche per Paesi industrializzati come la nostra povera Italia. Anche solo considerando gli scandali petrolifici degli ultimi due anni, tra manager, funzionari pubblici e “amici di amici” sono stati indagati e, in alcuni casi, già condannati, ben 189 persone per reati che spaziano dall’inquinamento alla corruzione, dalle frodi fiscali alle truffe.
Il caso della Tempa Rossa è solo l’ultimo di un lungo elenco che, facciamo una facile previsione, è tutt’altro che concluso.
Il petrolio, in altre parole, potrebbe ben essere annoverato nell’elenco delle tante Grandi Opere che ammorbano il nostro Paese, pur se con una valenza più internazionale. Ogni tanto, la magistratura mette le manette a qualche alto dirigente e tutti a gridare allo scandalo della “male marcia” infiltrata - chissà come? - in un sistema produttivo che si continua a definire immacolato. Poi tutto continua come prima sino al prossimo scandalo.
Il punto della questione invece, sta nel fatto che il sistema petrolio continua a funzionare ed a macinare profitto privato solo se assieme all’oro nero produce anche corruzione, devastazione ambientale, disuguaglianza sociale, criminalità organizzata e impoverimento della democrazia. Senza queste situazioni a contorno, il gioco non vale la candela.
Solo in termini di emissioni di C02 - e senza considerare sversamenti eccezionali o anche i “normali” danni all’ambiente che sono impliciti nell’attività estrattiva e che i petrolieri non pagano mai -, un barile di petrolio ha un costo di circa 100 dollari. Se consideriamo che, pur tra altalenanti fluttuazioni, il prezzo del petrolio si aggira sui 30 dollari a barile, è chiaro che questa differenza o la paga lo Stato, oppure l’investitore gioca in perdita.
Una corruzione diffusa a tutti i livelli ed un controllo totalitario sull’opinione pubblica sono elementi senza i quali il sistema petrolio non potrebbe funzionare. A questo punto viene solo da chiedersi coma mai qualcuno si stupisca ancora che l’economia fossile è andata in crisi nera.
Quel che le trivelle estraggono dai giacimenti in fondo al mare, in altre parole, non devasta solo l’ambiente ma anche la nostra democrazia.
Margini in/versi intervista EcoMagazine
10/04/2016Margini in/versi
L’unica certezza con cui ci avviciniamo al referendum del 17 aprile è la scarsissima informazione aggravata e rilanciata dalla dissuasione al voto. Quest’ultimo aspetto è il più amaro, dal momento che l’astensionismo ha segnato in negativo le ultime tornate elettorali, e semmai dovrebbe allarmare l’intera classe politica. Il calo dell’affluenza tradisce un salto genetico della democrazia, purtroppo cavalcato dalle forze della maggioranza. Oggi l’elettorato si configura sempre più come qualcosa di scomodo. Lo si riduce a strumento destabilizzante e con ciò si disconosce pericolosamente l’innesto di rappresentanza nelle istituzioni di cui è l’unico legittimo portatore, il che costituisce per l’appunto la base dei nostri ordinamenti. Grazie all’inchiesta sulle attività estrattive in Basilicata, i riflettori sono tornati ad accendersi. E tuttavia il principio non mi soddisfa: senza indagati, senza la testa di un ministro, che sono di per sé fatti eclatanti, destinati ad avere una grande risonanza, quali elementi avrebbe avuto il cittadino per interrogarsi sul merito della questione energetica? Ben pochi.
La solita vulgata dell’ambientalista nemico del progresso sarebbe entrata in circolo più indisturbata di quanto non sia accaduto nelle ultime settimane. Resta il fatto che solo le inchieste avviate sui centri di Viggiano e Tempa Rossa, hanno determinato un’informazione di rimbalzo attorno a un tema che non è per nulla contingente, ma implica il nostro modo di impostare le politiche energetiche nell’immediato futuro; anche questo di per sé è dolo e dovrebbe far riflettere.
Di sicuro la transizione alle rinnovabili non può avvenire con uno strappo immediato rispetto alle fonti di energia, per così dire, tradizionali. Sarebbe irragionevole pensarlo. Però, occorre fare un paio di precisazioni, affatto accessorie. La prima è che tutto quello che risulti essere lesivo per il territorio e la salute pubblica, sia oggetto di indagini serrate, e qualora il danno sia inequivocabilmente provato, si proceda a immediata sospensione e condanna di ciò che lo determina. La seconda, ancor più importante della prima perché la giustizia ha sì carattere riparatorio ma non potrà sanare le cose alla radice, è scegliere ciò che vogliamo per il nostro futuro. Votare è in tal senso l’unica garanzia.
Pronunciarsi con chiarezza affinché la strada sia quella dettata da un approvvigionamento che contempli il più basso impatto ambientale, questo siamo tenuti a farlo. E bisogna farlo adesso. La politica è l’unico strumento di cui disponiamo per influire sul corso della storia, per dare alle nostre vite quel carattere di impegno solidale e collettivo a cui ogni generazione è chiamata. La tutela del nostro ambiente e delle risorse che possiede ne è un tratto essenziale. Basta riprendere in mano la Costituzione italiana. L’articolo 9 pone al centro il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, essendo due aspetti inalienabili su cui si basa l’identità dei suoi abitanti: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
L’Italia possiede risorse idriche strategiche. Nostro compito è tutelarle e porle al riparo da qualsiasi opera minacci di comprometterle. L’acqua si avvia a essere nel medio termine più importante del petrolio, specie in un paese come il nostro di estensione geografica limitata e dove la produttività agricola è una voce di grande peso nell’economia interna e a livello di esportazione. Il clima ci benedice, sperperare questa fortuna è follia. Invito a rileggere lo studio del geologo Franco Ortolani sulla Vallo del Diano, nel Cilento, luogo che dal 1997 suscita gli appetiti delle compagnie petrolifere straniere. I rischi strutturali legati alla conformazione del territorio ne metterebbero in discussione la sopravvivenza, qualora si trivellasse e nel contempo occorresse un evento sismico o la ancor più probabile rotazione del suolo, caratteristica di quelle zone, come di molte altre in Italia. Qui il collegamento: Caso petrolio-Vallo di Diano.
Da noi, reperire risorse nel sottosuolo terrestre o marino, è l’equivalente di cercare a tentoni un oggetto in una cristalleria lasciata al buio. La probabilità di urtare qualcosa e danneggiarlo senza rimedio è elevatissima. La differenza è che ciò che distruggiamo dove viviamo, non costituisce solo deturpamento estetico, ma significa la perdita di quanto ci permette di sopravvivere. Tutelarci è un invito al buon senso.
Ne parliamo con Riccardo Bottazzo, direttore della rivista «EcoMagazine», osservatorio sui conflitti ambientali, impegnato in tema di informazione, conservazione e monitoraggio. Invito alla lettura di questa testata chiunque non la conosca e voglia tenersi aggiornato sugli argomenti toccati nella nostra discussione.
Tra disinformazione e inviti a disertare le urne, ci avviamo a un appuntamento elettorale molto importante. In ballo la tutela del nostro mare e del nostro territorio, oltre alla possibilità di pronunciarci sul modo di impostare e gestire la politica energetica nel paese. Quale appello rivolgete ai cittadini perché vadano a votare?
Ai cittadini chiediamo di rimettere in gioco lo stesso entusiasmo e lo stesso slancio che hanno evitato al Paese di cadere nella trappola del nucleare e ci hanno permesso di contrastare la privatizzazione dell’acqua. Oramai, più che il voto, sono i referendum che aprono spazi alla democrazia partecipativa, svilita da una rappresentanza parlamentare che, per lo più, non rappresenta più nulla. La portata del quesito referendario va ben al di là del quesito stesso, proprio come è avvenuto in tutti i casi precedenti. Non si tratta però di un Sì o un No al Governo Renzi, come qualche politico malaccorto sta cercando di sostenere, ma non è neppure un referendum sul mantenimento delle piattaforme dopo le scadenze, pur importante al fine di difendere il nostro mare. Chi sbarrerà la casella del Sì chiederà al Governo di cambiare la sua attuale, e perdente, politica energetica per intraprendere la strada delle alternative ai combustibili fossili. Come, d’altra parte, lo stesso Governo si è impegnato - ma solo a parole sino ad ora - sottoscrivendo l’accordo di Cop21.
Un filone della recente inchiesta sugli impianti in Basilicata riguarda il traffico illecito di rifiuti. L’impatto ambientale delle attività estrattive è di per sé affatto trascurabile, anche quando siano osservate tutte le normative vigenti in materia. Se a tale pratica si aggiunge il dolo, le conseguenze su ambiente e persone rischiano di essere pressoché irreparabili. Alla giustizia non resta che intervenire coi suoi mezzi, che nel caso italiano significano tempistiche altrettanto dolosamente lunghe, e ciò non rassicura certo la popolazione. Fintanto che non sia garantita un’efficace vigilanza su illeciti e abusi di potere, cose che l’idea di profitto purtroppo favorisce, è forse legittimo chiedere la sospensione di queste attività. Qual è la vostra idea?
C’è lo spazio per la Giustizia e c’è quello per la politica. Nel nostro Paese, spesso tendiamo a confondere i due ambiti di intervento. La magistratura ha i suoi tempi. Io sono di Venezia e mi sono occupato del caso Mose. Ci sono voluti vent’anni e più, perché i magistrati scoperchiassero quella pentole di malaffare, tangenti e devastazioni che gli ambientalisti denunciavano sin dall’inizio! Ma ancora oggi il Mose va avanti, pur se oramai è chiaro a tutti che è solo una macchina mangiasoldi inutile, anzi devastante, ai fini di difendere gli equilibri della lagune e capace solo di dirottare denaro pubblico nella mani di faccendieri privati, non di rado in odor di mafia. Il problema sta nel fatto che la magistratura può mandare in galera qualche corrotto, ma spetta alla politica decidere se proseguire o no con l’opera, e, in generale, come intervenire per tutelare l’ambiente. Magari seguendo i consigli di quella strana cosa. da tutti dimenticata in Italia, che si chiama “scienza”.
Le estrazioni petrolifere rischiano di ripetere questa storia. Che poi è la storia di tutte le grandi opere. Sospendere l’attività estrattiva in attesa di sentenze certe della magistratura, e ripensarla sotto un’ottica diversa e più ambientalista, che non sia quella di favorire i grandi interessi finanziari o quelli familiari di chi è al potere, sarebbe non solo legittimo ma anche intelligente e democratico.
Gli interessi di Total e Shell verso il nostro paese non sono nuovi. Dal ’97 a oggi gli abitanti della Vallo di Diano, riuniti in un comitato di difesa delle risorse idriche del territorio, sono stati impegnati in un duro testa a testa a colpi di perizie e cause in tribunale. Spesso si accusano questi movimenti di essere organizzazioni animate da pressappochismo e arretratezza, mentre leggendo le carte relative ai rischi corsi dai luoghi interessati dalle perforazioni, si ha lo spaccato di un paese che punta i piedi perché i rischi oggettivamente corsi non valgono il guadagno. L’Italia è un paese a forte sismicità e dove i problemi legati al dissesto idrogeologico si manifestano con particolare frequenza. I cittadini sono chiamati, credo, a opporsi fortemente a impiantare qualsiasi attività non consideri questi due aspetti, che determinerebbero una catastrofe di ampie proporzioni e la morte dei territori coinvolti. Non se ne parla mai abbastanza: i tratti geologici del nostro ambiente richiedono un occhio di riguardo. Cosa vi sentite di dire al riguardo?
In Italia oramai sta diventando vietato fare la cosa giusta. I processi ai No Tav, la militarizzazioni di cantieri devastanti per il territorio ma considerati alla stregua di “siti di interesse nazionale”, neanche fossero caserme, i linciaggi mediatici anche alle semplici opinioni come nel caso dello scrittore Erri De Luca, lo dimostrano. Chi difende il suo territorio da una politica economica oramai agli sgoccioli, costretta per tirare avanti a mercificare ambiente, beni comuni e diritti, rischia la galera per “terrorismo”. E come succede agli ambientalisti, anche gli esperti che sottolineano, dati alla mano, i rischi per l’ambiente vengono messi alla berlina con infondate accuse di arretratezza e di non capire le esigenze di uno “sviluppo” che, come ci suggerisce Serge Latouche, va sempre scritto tra virgolette!
Per venire alla tua domanda, “cosa vi sentite di dire al riguardo”, agli ambientalisti e a chi ha a cuore il nostro paese, risponderei con il testo della canzone No Surreder di Bruce Springsteen. Non arrendetevi. Se l’umanità avrà un futuro, sarà quello che noi sapremo costruire. E sarà un futuro che mette al primo posto la difesa dell’ambiente e la tutela dei beni comuni. Il futuro scritto sui conti panamensi della grande finanza sta dalla parte sbagliata della storia.
L’estensione della nostra penisola non le permette di sopportare attività così invasive quali trivellazioni a 4000-5000 metri di profondità per estrarre gas e idrocarburi. Conformazione, orogenesi, limitatezza di spazi disponibili non possono essere ignorate. Ci affacciamo inoltre su un mare con un ricambio delle acque imparagonabile rispetto a quello che interessa gli oceani. Volendo fare un raffronto, anche in virtù di un territorio assai più vasto del nostro, gli Stati Uniti possono gestire una politica energetica diversa in materia di energia, sebbene io credo che il graduale abbandono del petrolio sia una tappa a cui nessuno nel breve riuscirà a sottrarsi.
Le carte da giocare per il nostro sviluppo sono dunque nel monitoraggio e nella valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche. Voglio dire, il clima ci benedice da secoli. Perché scambiare un inquinamento certo, per una vocazione aiutata dalla natura del nostro ambiente?
Non c’è un perché. Non ci sono risposte a questa tua domanda. Il capitale ha solo una regola: quella di massimizzare il profitto. Questa sola segue e altro non guarda. Il discorso «vale la pena consumare le nostre ricchezze paesaggistiche e naturali (di tutti) per estrarre qualche barile di petrolio (privato)» può avere un senso per me e per te, ma non per la finanza che punta a monetizzare subito e tutto quello che è – e anche quello che non sarebbe – monetizzabile. Non c’è un futuro cui il capitale debba tener da conto. Non ci sono generazioni future alle quali pensare. Questo compito spetterebbe alla politica. Ma tocca scrivere al condizionale perché oggi la politica ha demandato le sue competenze all’economia. Oggi la politica è attaccata su tutti i fronti. È considerata sporca, inutile, personale, fonte di guadagni illeciti. Adesso, non dubito che per certi “politici” sia proprio così, ma il punto non è questo. La politica è lo strumento con il quale esercitiamo la democrazia. Chi scende in piazza, chi occupa i cantieri, chi difende l’ambiente anche con azioni forti, fa politica e rivendica democrazia contro un potere oramai tutto relegato nelle mani di una economia che tira avanti a furia di shock, per ricordare Naomi Klein. In questo senso, il tuo discorso va rovesciato. Un ipotetico disastro petrolifero, specie in una area a forte valore ambientale e artistico, andrebbe tutto a vantaggio di una economia che si nutre di disastri.
Oggi il connubio tra tecnologie, saperi e ricerche nel settore dell’agronomia permette una resa della terra più elevata che in passato. In questi anni impietosi di crisi economica, la terra è stata inoltre un rifugio per chi è rimasto senza occupazione o per chi un’occupazione la stava cercando per la prima volta. Molti i giovani che hanno preferito investire in attività agricole. Le risorse idriche rivelano pertanto la loro natura strategica, mentre l’attività estrattiva ne minaccia la sussistenza per le future generazioni. Si tratta secondo me di scegliere cosa vogliamo essere, anche e soprattutto per i nostri figli. Non sarebbe ora di ribadire con forza che tutelare l’ambiente non è affatto un moto umano regressivo, ma semmai l’opzione più attuale di cui disponiamo?
Sono d’accordo naturalmente. I molti “giovani che hanno preferito investire in attività agricole”, come scrivi, hanno capito quello che i nostri governanti non hanno capito, oppure preferiscono non capire: il domani, il futuro dei nostri figli, non sarà legato alle attività estrattive e, in generale, ai combustibili fossili. Non è solo una questione di opportunità. Mi spiego: preferire l’acqua al petrolio (perdona la semplificazione) non è solo una scelta atta a favorire quello che al momento conviene. È l’unica scelta possibile per salvare il pianeta da una svolta epocale: quella dettata dai cambiamenti climatici. A Parigi, così come nelle precedenti Cop, è stato ribadito ancora una volta che il mondo sta cambiando e che, se vogliamo che la Terra sopravviva, non abbiamo altra scelta che imprimere alla nostra economia una sterzata decisa verso le rinnovabili, così come verso il riciclo, il riuso, una limitazione decisa dei consumi, e un drastico cambiamento dei nostri stili di vita. Tutto ciò passa anche attraverso il referendum del 17 aprile. Quella domenica ricordiamoci di andare tutti a votare e poi mettiamoci tranquilli che avremo tante, tante altre battaglie da fare!
Articolo tratto dal blog Margini in/versi
La letteratura migrante come bene comune
10/04/2016Frontiere News
La letteratura come grimaldello per scardinare le serrature mentali che si annidano su concetti vuoti di significato come “clandestino” o “sicurezza”. La letteratura come dialogo, come incontro tra culture, come reciproco arricchimento di chi scrive e chi legge. La letteratura come mezzo per restituire alle parole quella dignità che gli viene negata da tutte le semplificazioni xenofobe che scavano dentro le nostre paure. La letteratura, infine, come bene comune. Ed è proprio quest’ultimo il sottotitolo del 15esimo convegno sul tema “Non solo acqua, non solo aria” intitolato a Franco Argento che si svolgerà nel ferrarese da giovedì 14 a sabato 16 aprile. Una “tre giorni” fitta di appuntamenti dedicata, come di consueto, alla letteratura migrante. L’appuntamento è organizzato dal Cies (centro informazioni ed educazione allo sviluppo) di Ferrara, in collaborazione con altre realtà che si occupano di migranti e di diritti come Cittadini del Mondo, Quadrifoglio, PortoAmico, e gode dei patrocini istituzionali di Comune, Provincia e Regione.
Come è oramai tradizione, il primo appuntamento del festival, quello di giovedì, si svolgerà a Portomaggiore, teatro Smeraldo alle ore 9, per poi trasferirsi al centro Il Quadrifoglio, Pontelagoscuro, Ferrara. Tra le scrittrici e gli scrittori che interverranno, segnaliamo Melita Richter, Tahar Lamri, Nader Ghazvinizadeh, Silvestra Sbarbaro, Sandro Abruzzese, Barbara Diolaiti, Ibrahim Kane Annour ed Alessandro Ghebreigziabiher.
Per il programma dettagliato potete visitare questa pagina
Negli incontri saranno coinvolti, come è oramai consuetudine, le ragazze ed i ragazzi dei principali istituti scolastici di Ferrara e Provincia.
Da sottolineare come Portomaggiore, il Comune dove si aprirà il festival di letteratura migrante, è una delle aree italiane a più alta densità di migranti. Una scelta non casuale. Cosa c’è di più migrante della letteratura?
Non è un Paese per ambientalisti. Lo scandalo Tempa Rossa travolge la ministra per lo Sviluppo economico
1/04/2016EcoMagazine, Global Project
La “buona notizia” in questione è che il progetto Tempa Rossa, un inquinante impianto di estrazione a Corleto Perticara, in provincia di Potenza ed a ridosso dal parco nazionale dell’Appennino lucano, inizialmente stralciato dallo Sblocca Italia, era stato reinserito grazie alle pressioni della compagna ministra. Cinque minuti prima, la stessa ministra aveva telefonato al Gemelli, rassicurandolo sul suo progetto. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte”. La Maria Elena in questione, è la ministra con delega all’attuazione del Programma di Governo, Boschi. Altro personaggio che puntualmente sale alle cronache per le strette parentele finite sotto inchiesta, come nel recente caso di Banca Etruria.
L’emendamento è stato puntualmente approvato e ancora una volta il nostro Paese ha svenduto un suo pezzo di territorio pubblico ai petrolieri privati. Un “regalo”, per le sole aziende di Gianluca Gemelli di circa 2 milioni e mezzo di euro di subappalti.
Da sottolineare che il progetto è stato approvato qualche giorno prima che il nostro capo di Governo, Matteo Renzi, volasse a Parigi, davanti all’assemblea di Cop21, per raccontare quando brava fosse l’Italia ad investire sulle rinnovabili.
Stavolta però la pubblicazione dell’intercettazione che non lascia spazio ad equivoci, ha inguaiato la ministra che proprio ieri ha rassegnato le dimissioni. Dimissioni chieste dall’opposizione ma prontamente accettate anche dalla maggioranza. Va sottolineato che il solo a non voltarle le spalle è stato Silvio Berlusconi che per le intercettazioni, evidentemente, ha una idiosincrasia tutta sua, e non ha perso l’occasione di bollarle ancora una volta come “inaccettabili” in un Paese democratico.
C’è da dire che le intercettazioni sono solo l’aspetto più teatrale di una inchiesta sulla quale la Procura di Potenza sta indagando da quasi tre anni e che ha messo sotto inchiesta una sessantina di persone, tra ex sindaci, dirigenti dell’Eni e di altre aziende appaltatrici, dirigenti regionali e dipendenti pubblici. Oltre al già citato Gianluca Gemelli, proprietario di ben due società petrolifere, accusato di concorso in corruzione e millantato credito per aver promesso vantaggi agli imprenditori in cambio del suo rapporto col ministro.
Sotto sequestro preventivo, sono state posti gli impianti incriminati, bloccando l’attività in Val d’Agri dove si estraevano circa 75mila barili di petrolio al giorno.
Secondo gli inquirenti, i dirigenti dell’Eni, accusati di traffico e smaltimento illecito di rifiuti, sforavano volutamente il tetto di inquinamento imposto dalla normativa e inviavano dati “non corrispondenti al vero, parziali o diversi da quelli effettivi” agli enti di controllo. I rifiuti pericolosi inoltre, venivano trasformati in ordinari e smaltiti come tali con la complicità delle aziende appaltatrici con un guadagno valutabile, sempre secondo la magistratura, tra i 44 e i 110 milioni all’anno.
"Per risparmiare denaro si sono ridotti ad avvelenare il territorio con meccanismi truffaldini” ha sintetizzato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che in conferenza stampa ha restituito il quadro di un fitti intreccio di rapporti malavitosi tra petrolieri e politica, con la complicità delle strutture regionali di controllo.
Il tutto a pochi giorni dal referendum sulle attività estrattive in mare. Giustizia ad orologeria? Il procuratore Roberti nega decisamente: “Le richieste di misura cautelare sono state presentate tra agosto e novembre del 2015. Prima del referendum e in tempi non sospetti”. La pubblicazione delle intercettazioni ha comunque fatto arrabbiare Matteo Renzi che si è sperticato ad assicurare che lo scandalo della Tempa Rossa e le dimissioni del suo ministro non hanno nulla a che vedere con il Sì al referendum del 17 aprile.
La realtà è un’altra. Ancora una volta, le inchieste della magistratura non hanno fatto altro che confermare - pur con il consueto ritardo - le tesi degli ambientalisti secondo le quali il Governo Renzi si fa forte di uno strettissimo legame con le lobby petrolifere. Lobby che perseguono interessi propri, non di rado con metodi truffaldini per non dire mafiosi, inquinando il Paese e mercificando beni comuni.
Le dimissioni della ministra Guidi dimostrano che dietro l’attività estrattiva si celano interessi privati miliardari e non il semplice mantenimento dei posti di lavoro, come sostengono i fautori del No.
Come è stato per l’acqua, il referendum sulle trivelle ha una valenza politica che travalica il quesito sull’opportunità di rinnovare o no le concessioni estrattive a mare.
Il voto del 17 aprile sarà una occasione per ribadire al Governo che il futuro energetico che vogliamo per il nostro Paese è quello che la stessa Italia si è impegnata a costruire a Cop21. E non è quello che continua ad inseguire quei combustibili fossili tanto cari ai loro “amici” petrolieri.
Comincia la battaglia per difendere il nostro futuro dalle trivelle. A Venezia si costituisce il comitato per il Sì
14/03/2016EcoMagazine
Quello sul quale gli elettori saranno chiamati ad esprimersi, domenica 17 aprile, è un referendum senza storia perché, contrariamente a quanto accaduto per l’acque e il nucleare, i sostenitori delle trivelle, che alla fin fine sono solo i petrolieri, non hanno nessun argomento valido da opporre alle tesi ambientaliste. Le attività estrattive contribuiscono al bilancio nazionale per appena 340 milioni di euro all’anno. Come dire che solo a fare il referendum si spende di più. In compenso, “regalano” al nostro Paese, inquinamento del mare e delle falde, subsidenza e un forte rischio ambientale.
Il “No” non ha ragioni da vendere e per questo punterà sulla disinformazione e sull’astensione. “A poche settimane dal referendum il 50 per cento degli italiani non sa neppure che si andrà a votare” spiega Michele Boato, del comitato per il Sì. Il lavoro degli ambientalisti e di quei partiti come i 5 Stelle, Sel, Verdi e anche la Lega Nord, (folgorata sulla via dell’ecologia?) dovrò puntare tutto ad informare gli italiani, a far sapere loro che domenica 17 si aprono le urne e che è importante depositarvi dentro la propria scheda.
Questa mattina a Venezia si è costituito il comitato Vota Sì per fermare le trivelle. Tra i presenti, oltre al Boato, Paolo Cacciari, Salvatore Lihard, Isabella Albano, Cristiano Gasparetto e altri.
“Non è solo una questione ambientale – ha rimarcato Cristiano Gasparetto di Italia Nostra – Si tratta di riprenderci in mano il nostro destino contro delle prese di posizione arbitrarie di un Governo che tratta i cittadini come sudditi”.
Come già dicemmo per l’acqua, si scrive “trivelle” si legge “democrazia”
Dalla Val di Susa alla Laguna. La battaglia è per la democrazia
8/03/2016EcoMagazine
Il palazzo Ducale di Venezia (e dei veneziani!) che, ricordiamolo, ai tempi dei Dogi non è mai stato difeso da una milizia armata in quanto il popolo doveva avere il potere e la possibilità di rovesciare il governo dogale qualora questi avesse contro la città e la sua laguna, è stato usato dal premier Matteo Renzi come una prestigiosa ed esclusiva location per un vertice con il suo parigrado francese, François Hollande. Vertice in cui si è discusso, tra le altre cose, di una eventuale guerra di cui non solo i semplici cittadini ma ma neppure i parlamentari sanno qualcosa.
Quanto è successo a Venezia, quindi, chiarisce una volta per tutte che la battaglia dei No Tav non è solo contro l’Alta Velocità, quella dei No Grandi Navi non è solo contro i condomini galleggianti che devastano la laguna, la battaglia contro le trivelle non è solo per difendere il mare e far rispettare gli accordi - che lo stesso Renzi aveva sottoscritto - di Cop21, quella degli studenti medi (confortante la loro massiccia presenza al corte) non è solo per la scuola… E’ una battaglia di tutti per riportare in Europa quella cosa che oramai non esiste più: la democrazia.
Intendiamo, parliamo di una democrazia reale, dal basso e partecipata. Una democrazia che non può esaurirsi in una croce su una scheda per eleggere un parlamento che oramai non conta più niente.Ma una democrazia che consenta alla cittadinanza di gestire in autonomia il proprio territorio e di rifiutare le Grandi Opere finalizzate non a rispondere ai bisogni della collettività ma per dare linfa ad una economia mafiosa e militarizzata che trita ambiente, diritti e beni comuni. Perché i valsusini non vogliono la Tav, così come i veneziani non vogliono le grandi navi o il Mose. E’ la mafia capitale a volerle. La soluzione non è la magistratura. Non lo è mai, la magistratura una soluzione. Casomai questa può solo dimostrare il fallimento della politica. E il fallimento della politica, scritto con gli idranti di questa mattina, è l’aver demandato i suoi compiti e le sue prerogative ad un capitalismo predatorio, ultimo epigone di una economia devastata e devastante.
Una economia che, come è stato dimostrato a Parigi, non ha più futuro o, meglio, non è più in grado di costruire futuro per l’umanità. Quello che accadrà domani lo dobbiamo costruire sin da oggi. E la strada giusta non è quella del vertice militarizzato ma di quei ragazzi che oggi sono venuti in duemila a Venezia per difendere la Val di Susa e la laguna e chiedere giustizia climatica, diritti e democrazia.
Quei buchi nell’acqua chiamati trivelle. #CementoArricchito
26/02/2016EcoMagazine
Vero che l’opposizione di alcuni Paesi petroliferi, come l’Arabia Saudita, ha impedito che nell’accordo finale comparisse il termine “decarbonizzazione”, ma è pure vero che, se davvero vogliamo anche soltanto provare a contenere l’aumento globale della temperatura "ben al di sotto di 2 gradi Celsius in più rispetto ai livelli pre-industriali” - come si legge nel documento conclusivo - tutti gli Stati firmatari dovranno impegnarsi sin da subito a trovare alternative energetiche sostenibili.
In altre parole, gli idrocarburi come il petrolio, il carbone in tutte le sue forme, il gas come il metano, sono stati definitivamente buttati fuori della storia dell’umanità.
O non ci sarà futuro per questi combustibili, o non ci sarà futuro per l’umanità.
Fa riflettere quindi che, neppure un mese dopo gli incontri parigini, dove tanto il premier Matteo Renzi, quanto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, vantavano l’Italia come uno dei Paesi più virtuosi e pronti a fare carte false per mantenere il surriscaldamento globale nei limiti proposti, il Governo varava uno Sblocca Italia tutto incentrato su Grandi Opere, consumo indiscriminato del territorio e, dulcis in fundo, dichiarasse “strategico” un piano di trivellazioni che aveva fatto infuriare non solo i “soliti” ambientalisti ma addirittura gli enti locali.
Tanto è vero che la richiesta del referendum popolare sulle trivellazioni in programma il prossimo 17 aprile, è stata presentata, come prescrive la Costituzione, da dieci Regioni interessate, tra le quali il Veneto. Ed è la prima volta, nel nostro Paese, che un quesito referendario viene presentato dai governi regionali. Tra l’altro, in numero doppio rispetto al quorum prescritto che è di cinque.
Come sia possibile che enti non sempre coerentemente schierati su tematiche ambientaliste come le Regioni, siano stati così solerti nell’accogliere le pressioni referendarie provenienti dal mondo ecologista, è presto detto. Per i governo locali, le trivelle sono soltanto un buco nell’acqua: nulla hanno da guadagnare e tutto da perdere, nel caso, non certo impossibile, di uno sversamento o di altre conseguenze inquinanti.
Come ha spiegato, in un incontro pubblico Venezia, Andrea Boraschi, responsabile energia e clima di Greenpeace, i permessi di ricerca e di sfruttamento di idrocarburi, altro non sono che un regalo ai petrolieri a spese dei cittadini. “Il petrolio estratto in Italia non appartiene alla nazione ma alle compagnie petrolifere. Il quantitativo estratto andrebbe inoltre a coprire il consumo nazionale per sole 7 o 8 settimane, così come le riserve di gas non durerebbero più di 6 mesi”.
Perché allora le compagnie come l’Eni, pronta a trivellare a poca distanza da un parco naturale come quello del Delta del Po, sono disposte ad accollarsi questi impegni economici? “Perché le royalties, i diritti di concessione, da noi, sono i più bassi del mondo, e non superano il 7% di quello che si estrae - ha concluso Boraschi -. Per questo parliamo di regalo di Natale ai petrolieri”.
A far da contrappeso, nell’altro piatto della bilancia, c’è un… mare di rischi. Anche senza arrivare al pericolo di scatenare reazioni di subsidenza - punto sul quale la comunità scientifica ha opinioni divergenti - rimane il costante rischio di sversamento. Ipotesi accreditata anche dall’alta sismicità dell’area in cui dovrebbero sorgere le piattaforme. Di disastri marini legati all’estrazione o al trasporto di combustibili fossili, ne abbiamo già registrati tanti al mondo. Anche a considerare solo l’aspetto economico, i costi per la collettività si sono rivelati assolutamente sproporzionati ai vantaggi. Inoltre, tutti questi disastri si sono verificati nell’oceano. Cosa succederebbe in caso di sversamento in un mare chiuso come quello Adriatico, a poche miglia marine dalla laguna di Venezia e da tante spiagge che vivono di turismo?
Preoccupazioni queste, che investono anche settori non propriamente vicini all’ambientalismo, come quello degli albergatori e degli stessi pescatori.
“Le compagnie petrolifere ci hanno offerto qualche migliaio di euro come indennità in previsione di un ridimensionamento della pesca dovuto alle loro attività - ha raccontato Giampaolo Buonfiglio, presidente delle cooperative italiane pesca -. Ma come potremmo accettare? Nel solo Veneto, ci sono migliaia di barche e di famiglie che campano solo di questo lavoro”.
Da Venezia, la mobilitazione in vista del vicino referendum si è allargata a tutta la Regione. Comitati popolari e associazioni ambientaliste hanno organizzato sit in, incontri pubblici e colorate iniziative in tutte le provincie.
I sostenitori del No punteranno soprattutto sull’astensione ed a sminuire la portata del referendum. “E’ sbagliato pensare che con questo referendum l’Italia venga chiamata a scegliere tra i combustibili fossili e la ricerche sulle fonti di energia rinnovabili - commenta il consigliere emilianoromagnolo del Pd Gianni Bessi -. Le due cose devono andare avanti insieme”.
Di opposto avviso gli ambientalisti. “Invitiamo tutti gli italiani ad andare a votare ed a votare Sì - spiega Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto -. La nostra battaglia contro le trivelle non è solo contro le trivelle. Il referendum dovrà anche essere un segnale forte per il Governo Renzi affinché si decida a tradurre in pratica gli accordi di Parigi. I combustibili fossili devono essere abbandonati per investire sulle energie rinnovabili, le sole capaci di regalarci davvero un futuro”.
Anche da Venezia, no all'estradizione di Omar Nayef
18/02/2016Ya Basta Êdî Bese
Questa piccola isola della laguna di Venezia è quindi un luogo – simbolo per la causa palestinese, che proprio qui vide riconosciuta dalla comunità internazionale la sua esistenza e i suoi consequenziali diritti.
E proprio su questa piccola isola la cui visuale spazia sino a piazza San Marco, un gruppo di attivisti ha accolto l’appello lanciato dall’associazione Samidoun (parola araba che significa “resistenti”) a favore di Omar Nayef, il rifugiato politico palestinese da dicembre “assediato” nella sua ambasciata a Sofia da una richiesta di estradizione di Israele.
Come già fatto a New York, a Roma, a Praga e in altre capitali europee, anche a Venezia, questa mattina, alcune ragazze e ragazzi dell’associazione Ya Basta Edi Bese e del Laboratorio Morion hanno alzato uno striscione nel campo antistante la chiesa di San Giorgio con la scritta “Giustizia per Omar. No all’estradizione”.
L’iniziativa veneziana si collega alla campagna lanciata dal sito samidoun.net che si occupa di portare solidarietà ai prigionieri politici palestinesi. E Omar Nayef, condannato all’ergastolo da un tribunale militare israeliano per l’uccisione di un militare colono che si era macchiato di crimini contro la popolazione, è a buon diritto uno di loro. La storia di Nayef, dalla sua rocambolesca fuga dopo una sciopero della fame e della sua nuova vita in Bulgaria dove risiede da oltre 20 anni con la sua famiglia, la potete leggere su questo link del sito di Ya Basta Edi Bese.
Durante la manifestazione di San Giorgio, gli attivisti hanno ribadito l’importanza di sottoscrivere l’appello a favore di Omar Nayef e, di conseguenza, anche di tutti i rifugiati politici palestinesi che si troverebbero in immediato rischio di espulsione qualora passasse un precedente come questo.
In nome del popolo asfissiato
16/01/2016EcoMagazine
L’allarme, si legge sempre sulla Tribuna, è stato dato dall’ambientalista Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità di Marghera, dalla sua pagina Facebook il 31 dicembre. Ultimo giorno di un anno, tra l’altro, superiore alla media in quanto piovosità. In questa prima quindicina di gennaio, caratterizzate da una marcata siccità, la situazione è alquanto peggiorata. Gli sforamenti dei limiti di sicurezza delle polveri sottili registrati dalle centraline Arpav in tutta la Regione sono oramai una norma. E la cosa più grave è che tutto ciò avviene nella completa indifferenza dei nostri amministratori. “Speriamo che piove presto - si è limitato a dichiarare il governatore veneto, Luca Zaia -. Questo è l’unico rimedio”.
Certo. La pioggia è un rimedio. Ma starsene con le mani in mano in attesa della pioggia è un delitto. Ci sono tanti provvedimenti che si possono, che si debbono prendere. Provvedimenti, lo sappiamo bene, anche assai impopolari per l’elettore medio come il blocco della circolazione, ad esempio, ma indispensabili in un momento in cui la salute di tutti è messa a rischio. Provvedimenti che, chi governa, non può esimersi dal varare.
Ci sono cose da fare subito a livello locale, e cose da fare subito a livello nazionale. Ci sono cosa da fare a lungo termine a livello locale, e cose da fare a lungo termine a livello nazionale.
Ma, sempre e comunque ci sono “cose” da fare, se non vogliamo asfissiare.
Ci sono interventi contingenti ed urgenti, ed interventi strutturali a lungo termine. Interventi di competenza dei Comuni, delle Regioni e, per quanto riguarda una strategia d’insieme, anche del Governo.
A livello locale, bisogna bloccare le fonti di emissione più impattanti, organizzare un lavaggio quotidiano delle strade più trafficate, mettere mezzi pubblici gratuiti o a prezzo ridotto, limitare il traffico ordinario.
A livello regionale e nazionale, bisogna avviare una radicale conversione energetica, proprio come prevedono gli accordi di Cop21: incentivare auto e mezzi elettrici, ed il riscaldamento con più metano e più solare e meno biomassa e meno carbone, chiudere gli inceneritori e le centrali a carbone più vecchie (come è stato fatto a Marghera dalla precedente Giunta) e ambientalizzare le più moderne con una conversione dell'apparato produttivo in chiave meno impattante, limitare l'impatto di aerei e navi (quelle “grandi” prima di tutto!), potenziare nelle città la mobilità ciclopedonale, espandere le grandi aree verdi intorno alla città come il bosco di Mestre, ed i parchi ed i giardini interni, offrire incentivi e obblighi per mutare il sistema di riscaldamento dei condominii e degli uffici, delle scuole, degli ospedali.
“Sperare che piova”, non serve a niente. Situazioni come questa che stiamo vivendo sono entrate oramai nella normalità.
“L'emergenza era prevedibile”, ha commentato Bettin su Fb. “Bisognava creare i tavoli regionali e nazionale di coordinamento e predisporre i piani integrati già da settembre o ottobre. Tutto questo va coordinato e predisposto per tempo: perciò è indecente, ai limiti del crimine, che siano passati quaranta giorni senza che il governo centrale e i governi regionali si muovessero. Incompetenti, negazionisti della crisi climatica e complici dei peggiori interessi, però, non potranno mai farlo. Ed infatti…”
Se non si muovono gli amministratori, si muove la gente. Ecco perché il comitato Marghera libera e pensante, ha invitato la cittadinanza alla mobilitazione.
L’appuntamento è per sabato prossimo, 23 gennaio, alle ore 11, davanti alla sede dell’Arpav, cavalcavia Giustizia.
Non sono tollerabili, afferma il comunicato dell’associazione, “oltre 70 sforamenti dei limiti massimi in un anno e nessun straccio d'intervento da parte della Regione del Veneto e Comune di Venezia”.
“Non è possibile avere centraline come quella di via Beccaria - si legge - che rilevano giorno dopo giorno sforamenti dei PM10 e non aver nessun intervento che ne riduca la produzione”.