In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

In nome del popolo asfissiato

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Titola la Tribuna “Pm10: l’aria di Treviso quasi pari a quella di Marghera”. Occhiello: “E il resto del Veneto non va certo meglio”. A veneziani e margheritini non farà piacere che l’aria che si trovano a respirare tutti i giorni sia considerata un metro di paragone per la tossicità e non sarà neppure di consolazione sapere che oramai tutto il Veneto, ma potremmo dire tutta la pianura padana, sia diventata una gigantesca “Marghera”.
L’allarme, si legge sempre sulla Tribuna, è stato dato dall’ambientalista Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità di Marghera, dalla sua pagina Facebook il 31 dicembre. Ultimo giorno di un anno, tra l’altro, superiore alla media in quanto piovosità. In questa prima quindicina di gennaio, caratterizzate da una marcata siccità, la situazione è alquanto peggiorata. Gli sforamenti dei limiti di sicurezza delle polveri sottili registrati dalle centraline Arpav in tutta la Regione sono oramai una norma. E la cosa più grave è che tutto ciò avviene nella completa indifferenza dei nostri amministratori. “Speriamo che piove presto - si è limitato a dichiarare il governatore veneto, Luca Zaia -. Questo è l’unico rimedio”.
Certo. La pioggia è un rimedio. Ma starsene con le mani in mano in attesa della pioggia è un delitto. Ci sono tanti provvedimenti che si possono, che si debbono prendere. Provvedimenti, lo sappiamo bene, anche assai impopolari per l’elettore medio come il blocco della circolazione, ad esempio, ma indispensabili in un momento in cui la salute di tutti è messa a rischio. Provvedimenti che, chi governa, non può esimersi dal varare.


Ci sono cose da fare subito a livello locale, e cose da fare subito a livello nazionale. Ci sono cosa da fare a lungo termine a livello locale, e cose da fare a lungo termine a livello nazionale.
Ma, sempre e comunque ci sono “cose” da fare, se non vogliamo asfissiare.
Ci sono interventi contingenti ed urgenti, ed interventi strutturali a lungo termine. Interventi di competenza dei Comuni, delle Regioni e, per quanto riguarda una strategia d’insieme, anche del Governo.

A livello locale, bisogna bloccare le fonti di emissione più impattanti, organizzare un lavaggio quotidiano delle strade più trafficate, mettere mezzi pubblici gratuiti o a prezzo ridotto, limitare il traffico ordinario.
A livello regionale e nazionale, bisogna avviare una radicale conversione energetica, proprio come prevedono gli accordi di Cop21: incentivare auto e mezzi elettrici, ed il riscaldamento con più metano e più solare e meno biomassa e meno carbone, chiudere gli inceneritori e le centrali a carbone più vecchie (come è stato fatto a Marghera dalla precedente Giunta) e ambientalizzare le più moderne con una conversione dell'apparato produttivo in chiave meno impattante, limitare l'impatto di aerei e navi (quelle “grandi” prima di tutto!), potenziare nelle città la mobilità ciclopedonale, espandere le grandi aree verdi intorno alla città come il bosco di Mestre, ed i parchi ed i giardini interni, offrire incentivi e obblighi per mutare il sistema di riscaldamento dei condominii e degli uffici, delle scuole, degli ospedali.

“Sperare che piova”, non serve a niente. Situazioni come questa che stiamo vivendo sono entrate oramai nella normalità.
“L'emergenza era prevedibile”, ha commentato Bettin su Fb. “Bisognava creare i tavoli regionali e nazionale di coordinamento e predisporre i piani integrati già da settembre o ottobre. Tutto questo va coordinato e predisposto per tempo: perciò è indecente, ai limiti del crimine, che siano passati quaranta giorni senza che il governo centrale e i governi regionali si muovessero. Incompetenti, negazionisti della crisi climatica e complici dei peggiori interessi, però, non potranno mai farlo. Ed infatti…”

Se non si muovono gli amministratori, si muove la gente. Ecco perché il
comitato Marghera libera e pensante, ha invitato la cittadinanza alla mobilitazione.
L’appuntamento è per sabato prossimo, 23 gennaio, alle ore 11, davanti alla sede dell’Arpav, cavalcavia Giustizia.

Non sono tollerabili, afferma il comunicato dell’associazione, “oltre 70 sforamenti dei limiti massimi in un anno e nessun straccio d'intervento da parte della Regione del Veneto e Comune di Venezia”.
“Non è possibile avere centraline come quella di via Beccaria - si legge - che rilevano giorno dopo giorno sforamenti dei PM10 e non aver nessun intervento che ne riduca la produzione”.

Italia in stile gruviera. Il Governo apre la porta alle trivellazioni e rinnega Cop21

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Dimenticate Parigi. Dimenticate la Cop 21 e il documento conclusivo dell’assemblea delle nazioni che decreta la fine dell’epoca dei combustibili fossili. Dimenticate tutte le promesse di ministri e capi di governo di tutto il mondo. Dimenticate soprattutto, le sparate di Matteo Renzi che giurava di come l’Italia fosse pronta ad investire sulle rinnovabili. Dimenticate tutto questo.
Facciamo finta che i cambiamenti climatici siano il parto di un fecondo scrittore di fantascienza, che i combustibili fossili non siano in via di esaurimento e che l’inquinamento atmosferico sia l’ultimo dei problemi dall’umanità. Immaginate anche, se ci riuscite, che le emissioni di scarico siano un toccasana per la salute. Immergetevi in questo scenario idilliaco e converrete che la sola idea di trivellare mezza Italia per cavarne qualche goccia di petrolio è ugualmente - per dirla come ebbe a dirla Fantozzi della Corazzata Potëmkin - una cagata pazzesca.

I 114 permessi di ricerca ( 90 di terra e 24 di mare) e le 212 concessioni di estrazione di idrocarburi (143 di terra e le rimanenti 69 di mare) rilasciati dal ministero per lo Sviluppo economico con un provvedimento che - guarda caso! - portano date da ferie natalizie come il 24 e il 31 dicembre, sono una follia sotto tutti i punti di vista. Quello economico compreso. Lo ha messo bene in evidenza il verde Angelo Bonelli che ha fatto due conti alla concessione che il Governo ha assegnato alla Proceltic Italia, aggiudicatasi il lotto adiacente alle Tremiti per la modica cifra di 5 euro e 16 centesimi al metro quadrato. Come dire che la devastazione di un’area unica al mondo per la biodiversità, come quella che arricchisce queste isole, porterà nelle casse dello Stato la miseria di mille 928 euro e 3 centesimi (arrotondati per eccesso!) all’anno. Se questa non è follia…


In totale, le concessioni rilasciate dal nostro poco attento all’ambiente Governo, riguardano un’area che equivale pressapoco alla Campania e alla Lombardia messe insieme. In un Paese ricco di storie,di arte e, per quel che ne resta, di bellezze ambientali come l’Italia, pare superfluo sottolineare che le trivellazioni saranno per forza di cose adiacenti - quando non proprio sopra - aree di pregio.
Le isole Tremiti, Pantelleria, la costa della Sardegna, sono solo alcuni esempi che gridano vendetta al cielo. Per tacere del mare antistante Venezia, anch’esso finito nell’elenco delle aree “legalmente devastabili”. Ma la nostra laguna, oramai lo abbiamo imparato, è già diventata da tempo “carne di porco”. Proprio sui nostri lidi, quotidianamente massacrati dalle Grandi Navi, è stata avviata col Mose la prova generale di quella politica delle Grandi Opere - imposta a furia di leggi liberticide, prima ancora che devastanti, come la berlusconiana Legge Obiettivo e la renziana Sblocca Italia - che hanno cambiato volto al nostro Paese.
Nel prosieguo di questa politica che non dà futuro e nel mantenimento di una economia predatoria di ambiente e di democrazia, va interpretata la voglia del Governo di trasformare l’Italia in un gruviera.

Eppure… eppure esiste una differenza sostanziale tra le tante Grandi Opere che hanno massacrato la Penisola e queste disgraziatissime concessioni di idrocarburi. Le trivelle non hanno nessuna giustificazione.
Intendiamoci: neppure il Mose ne aveva una, neppure la Tav ce l’ha. Eppure, in questi casi, i sostenitori della shock economy, qualche motivazione che non fosse quella vera “dobbiamo pur finanziare le mafie, o no?”, riuscivano comunque a tirarla fuori. Salvare Venezia dalle acque alte, velocizzare il trasporto… Bugie, certo. Lo scrivevamo all’epoca, e tutti gli accadimenti successivi - non di rado giudiziari - ce lo hanno confermato. Ma erano comunque motivazioni sulle quali risultava difficile far ragionare una opinione pubblica mainstream stregata dai miti in stile Canale 5 dello “sviluppo” illimitato.
Con le trivelle invece, non ci sono argomentazioni a favore. Ci sono solo argomentazioni contrarie. Pure se, come abbiamo scritto in apertura non avessimo la testa sotto la mannaia dei cambiamenti climatici.
L’Italia non è una terra ricca di idrocarburi. Estrarli non è un affare per nessuno. Non lo è mai stato e non lo sarebbe neppure oggi se, per le aziende concessionarie, non fossero spuntati i soliti “aiutini miliardari” da parte dello Stato. E non ci raccontino che lo si fa per favorire l’occupazione o la “ripresa” (altro mito dei nostri giorni). La devastazione di intere aree che oggi campano di turismo, pesca o agricoltura porterà solo miseria culturale, povertà e ulteriore disoccupazione.
L’area critica del dissenso, stavolta, non è limitata ai “soliti” ambientalisti, a quelli che urlano No a tutto. Lo dimostra la radicale contrarietà con la quale non solo tutti i sindaci e le organizzazioni di categoria dei territori interessati, ma anche Regioni per le quali “ecologia” è un termine desueto, come il Veneto o la Lombardia, hanno accolto le aperture del Governo.

Ecco perché questa delle trivelle è una battaglia che possiamo vincere. Nessuna faccia di palta, nessun opinionista venduto, stavolta, potrà andare in televisione per giustificare una scelta che non ha giustificazioni e che, per di più, si lancia in direzione opposta agli accordi della Cop21 sul cambiamento climatico. Accordi sui quali il Governo si è formalmente impegnato.
E se non lo faranno i nostri ministri, dovranno essere i cittadini a farli rispettare.
Parigi non va dimenticata.

“Circenses” senza “panem”. Tutto qua il bilancio della Giunta Brugnaro

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A sentire il sindaco di Venezia che in conferenza stampa show racconta ai giornalisti come “è riuscito a riuscito a mettere in sicurezza il bilancio del Comune” in soli 6 mesi di lavoro matto e disperatissimo, “sabati e domeniche compresi”, viene in mente Gesù Cristo. Quella volta che sulle sponde del mar di Galilea moltiplicò i pani e i pesci e, con un colpo di magia, riuscì a sfamare le oltre 5 mila persone che lo avevano seguito per bearsi dei suoi insegnamenti.
Ma bisogna fare dei distinguo. Gesù Cristo, secondo alcuni perlomeno, era abilitato dal padreterno a fare i miracoli. Non doveva, lui, fare i conti col patto di stabilità. Il Comune di Venezia invece sì. Inoltre, questione da non sottovalutare, i “miracoli” con i bilanci è meglio non farli. Se sono privati rischi che arrivi la Finanza. E vagli a spiegare tu, che è come per i pani e per i pesci! Se sono pubblici, prima o poi i tarocchi vengono scoperti. Perché se li hai messi su quella voce, i soldi, vuol dire che li hai tolti da quell’altra, se non ci sono non te li puoi inventare - come fanno le banche -, e se li fai apparire come i pesci e i pani, vuol dire che te li ha dati o il Governo o i cittadini (tasse) o hai svenduto qualche bene pubblico. Altre alternative non ci sono neanche a farsi miracolare.
Ha un bel dire quindi Brugnaro Luigi sindaco che i soldi ci sono, che il patto di stabilità (forse) non verrà sforato, che non ha tagliato niente ma solo “ottimizzato le spese”.
Conti alla mano, si annuncia un carnaio sociale come Venezia non ha mai visto dalla Liberazione in poi. A farne le spese saranno le categorie più deboli. Meno 700 mila euro ai servizi destinati agli anziani. L’assessorato parla di un indispensabile “turn over” agli assistiti. La gente dovrà imparare ad avere bisogno quando è il turno giusto. Per il sociale, in generale, saranno spesi un milione e mezzo di euro di meno. Inevitabile che i servizi ne risentiranno. Inevitabile che saranno i più poveri a pagarne le spese. Inevitabile non sottolineare la perfetta continuità con l’infausta gestione del commissario.

In compenso, per ogni vigile sono stati stanziati 5 mila euro per le divise. La “sicurezza” per Brugnaro è un capitolo importante e la si ottiene non intervenendo nelle sacche di degrado e di povertà, ma vestendo di fino la polizia. D’altra parte, non può mica essere sempre lui a correre dietro ai delinquenti come ha fatto il primo giorno di sindaco!
Tagli a parte, anche il capitolo “entrate” di questo bilancio è quanto meno fumoso. Giocassimo a poker, potremmo dire che i nostri amministratori hanno una bella faccia da bluff. I soldi ci sono, dicono. Anche i dipendenti possono stare tranquilli per il loro fondo, dicono, e andare a fare il trenino alle feste che il sindaco, a sue spese, magnanimamente gli concede. Panem et circenses. Solo che non hanno spiegato “dove” hanno trovato i soldi. Il “circenses” non manca. Manca il “panem”. Non arriveranno fondi da quei contratti che il sindaco in campagna elettorale vantava come già firmati con le compagnie di crociera, non arriveranno finanziamenti per Venezia dalle grandi aziende che si arricchiscono col turismo. Tutte promesse elettorali, perché in questo capitolo, l’amministrazione deve ancora mettere parola.
E fosse solo una questione di soldi! Il vero, profondo deficit della Giunta Brugnaro sta nella democrazia, che il resto alla fin fine viene da sé. Nella democrazia interna, innanzitutto. Gli assessorati sono solo dei passacarte delle ordinanze partorite dal Gabinetto del Sindaco. In consiglio, i “fedelissimi” fanno gruppo come neanche una mischia di rugby. Ma così si amministra una azienda. Non una città. Brugnaro, semplicemente, non è in grado di cogliere la differenza.
Poi c’è una questione, ancora più grave di democrazia esterna di cui la ventilata proposta di spogliare le municipalità di tutte le loro deleghe è solo l’ultimo esempio. Non ce la raccontano che è un provvedimento dettato dalla necessità di smagrire le spese. Gli enti più vicini al cittadino sono quelli che investono meglio, in maniera più efficace e meno dispendiosa. Piuttosto, è il colore politico delle municipalità, che non è certo fucsia, ad infastidire l’amministrazione.
Una amministrazione che governa la nostra città con poca democrazia, zero lungimiranza, nessun progetto ma tanta “furbizia”. La “furbizia” del pizzicagnolo disonesto che ruba sul peso e tarocca la merce. La “furbizia” che fa dichiarare “siamo stati talmente bravi che ‘forse’ il patto di stabilità non verrà sforato” e intanto pensa a chi dare la colpa quando, inevitabilmente, verrà sforato. Già. perché Venezia sorge sulle rive della laguna e non del mar di Galilea.

Fatti contro bufale? Vince la disinformazione

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Smentire le bufale? Tutta fatica sprecata. Anzi. C’è il serio rischio di ottenere l’effetto opposto e di “confermare”, sia pure involontariamente, il “complotto” che abbiamo sbugiardato. Come dire che nel mare magnum di internet le bugie navigano molto meglio delle verità. Proprio così. Per quanto ci si sforzi, una prova scientifica, un fatto conclamato, una notizia basata sulla sostanziale verità dei fatti, non potrà mai reggere il confronto con una bugia ben confezionata. E’ la fantasia al potere, di cui scrivevo nei muri ai tempi dell’università, pur se con un significato ben diverso.
Facciamo un esempio. Il quotidiano la Stampa ha raccontato, qualche tempo fa, il caso emblematico della legge proposta dal senatore Cirenga che mirava a stanziare 134 miliardi di euro nel nobile intento di trovare un posto di lavoro per gli ex-deputati non eletti nel 2013. Detta legge, approvata dal senato con 257 voti a favore,165 astensioni e nessun contrario, ha sollevato il comprensibile furore del popolo del web: post infuocati contro la “casta” (“E’ tutto un magna magna”), denunce del malcostume in tanti blog, addirittura una pagina Facebook contro il truce Cirenga. Peccato solo che Cirenga non esista. Non c’è nessun senatore con questo nome. Non c’è mai stato in tutta la storia della Repubblica. I voti al Senato sono al massimo 315, difficile quindi approvare una legge con 422 voti in aula. Di tale legge non c’è traccia, e non dico nel Bollettino ufficiale, ma anche in tutto il sito del Senato.
Inoltre, 134 miliardi di euro… sono un po’ tantini. O no? Miliardi, non milioni, eh! Ti ci compri il Milan, la Juve, tutto l’esercito italiano in blocco e avanzano pure soldi per fare una offerta per la Moldavia. Insomma, per dirla come il ragionier Fantozzi ebbe a dire della corazzata Potëmkin, la faccenda altro non è che una cag… pazzesca. Una bufala, tra l’altro, facilissima da sbugiardare anche senza grandi inchieste. Basta fare quella cosa strana che dovremmo fare sempre: tenere attaccato il senso critico al cervello. E invece – fatevi un giro per la rete – c’è chi ancora spreca energie, degne di miglior causa, a postare contro il bieco senatore Cirenga!

Come sia possibile tutto ciò, ce lo spiega uno studio dal significativo titolo “L’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione”. Ve lo potete godere tutto cliccando su questo link sul sito della Cornell University. Il lavoro è frutto di una équipe internazionale di studiosi tra i quali l’italiano Walter Quattrociocchi del CSSLab dell’IMT di Lucca, esperto di scienze sociali computazionali.
In sintesi, lo studio afferma che fare debunking va dall’inutile al controproducente, e ci spiega perché. L’équipe di studiosi ha preso in esame due gruppi di utenti Facebook. Nel primo c’erano persone abituate a interagire con siti seri come questo che state leggendo… Scherzo! Diciamo meglio che gli utenti del primo gruppo si appoggiavano ad una informazione con basi scientifiche e su un giornalismo professionale. Il secondo gruppo, invece, raggruppava complottisti vari, dai “credenti” nelle scie chimiche ai fedeli rettiliani del settimo giorno. Ebbene, questi due gruppi non interagivano mai fra di loro. Ciascuno rimaneva all’interno del proprio… ceppo tribale, trovando conforto e conferma delle proprie convinzioni. Quelle poche volte che i, chiamiamoli, “disinformati” incocciavano in una smentita proveniente dal gruppo degli “informati”, si guardavano bene dal cambiare opinione. Anzi. L’effetto finale era proprio quello di rafforzare le teorie sostenute, indipendentemente dal loro grado di verità e insensatezza. Facebook, insomma, così come Twitter e gli altri social, hanno il potere (diabolico!) di costruire “tribù” chiuse nelle loro credenze e refrattarie a qualsiasi assalto di scetticismo. L’eccessivo proliferare di “notizie” che vengono smerciate come vere, se non addirittura inventate di sana pianta per guadagnare qualche clic – vedi il caso di alcuni siti xenofobi e nazistoidi del tipo “i crimini dei clandestini” -, comporta un abbattimento del nostro senso critico. Qualsiasi bufala trova “conferma” in blog o pagine che si citano reciprocamente come “fonte della prova”. Siccome la notizia X la riportano in tanti, finiamo per pensare che sia anche vera.
E questo è un problema col quale tutti quanti dobbiamo imparare a fare i conti, compresi noi giornalisti che mai abbiamo collezionato tanti “granchi” da quando internet è entrato nelle nostre redazioni. Ma è soprattutto tra i complottisti che vengono mietute più vittime, perché per principio rifiutano le fonti di informazione tradizionali. Per questa categoria di persone (tribù) vale il principio secondo il quale più una notizia è smentita e più deve essere vera. Addirittura il debunking stesso, viene letto come prova provante!
Spiega Quattrociocchi che questo effetto contro-intuitivo va imputato al fatto che contesti come Facebook e la rete in generale consentono agli utenti di “modellare” quanto leggono sulle loro preferenze. Insomma, l’utente può costruirsi, senza filtro alcuno, un mondo a sua misura dove tutti i “clandestini” sono dell’Isis, stuprano le donne bianche e ci rubano il lavoro, oppure dove il Pentagono ha realizzato la macchina che scatena i terremoti ma nessuno lo dice perché sono tutti pagati dalla Cia.
Capirete che tutto ciò è molto, molto pericoloso. Conclude Quattrociocchi: “Facebook e Twitter hanno creato un canale diretto attraverso cui i contenuti arrivano dai produttori ai consumatori, da chi scrive a chi legge, cambiando il modo in cui gli utenti si informano, discutono le idee e danno forma al loro punto di vista sul mondo. Questo scenario potrebbe generare confusione su cosa causa i problemi globali e sociali, incoraggiando così un senso di paranoia basato su false voci”.
Uno scenario, lo ammetterete, un po’ deprimente per chi, come noi del Cicap, crede ancora al valore di quel “vero” che Galileo stimava più che il “disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna”. Sarebbe più saggio, piuttosto che lottare contro i mulini a vento, dedicarci al gioco degli scacchi o alla fabbricazione della birra in casa? Forse sì. O forse anche no. Se ci sono i mulini, c’è bisogno anche di un Don Chisciotte che parta alla carica. Senza dimenticare come si risponde in una difesa siciliana e neppure quel tino di birra che sta fermentando allegramente nella mia cantina.

Parigi, il vertice è finito. Ora cominciamo a fare sul serio

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Si spengono i riflettori sulla Cop21. Il summit di Parigi è concluso e l’accordo firmato. Abbiamo salvato il mondo? No, naturalmente. Ma neppure ce lo aspettavamo. Non c’è, e non poteva starci dentro il documento conclusivo, la reale volontà dei Paesi industrializzati di avviarsi verso quella nuova forma di economia reale che, sola, potrebbe contenere l’aumento della temperature sotto i 2 gradi, ma che avrebbe come inevitabile conseguenza l’accantonamento di un sistema capitalistico predatorio ed una radicale destrutturazione verso il basso di quella che è attualmente la piramide del potere.
Alla fin fine, l’unica strada davvero risolutiva del problema clima, era quella prospettata dal signor Raoni Metuktire, cacique del popolo amazzonico kayopo, nel suo intervento davanti ai leader della terra: “Europei e nordamericani dovrebbero imparare a mangiare solo quello che producono sotto le loro case”.
L’avesse detto Obama, non sarebbe più potuto tornare negli States.
Come valutare allora l’accordo di Parigi? Non certo con lo stesso tono col quale lo ha promosso Laurent Fabius, presidente della Cop21: “Giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”. Ma neppure come lo ha liquidato al Guardian James Hansen, uno degli scienziati che per primi hanno denunciato il pericolo del cambiamento climatico. “Porsi l’obiettivo di stare sotto i 2 gradi con un piano di verifiche quinquennali per cercare di migliorare un po’ alla volta è una cosa ridicola, uno scherzo”. In conclusione, ha tagliato corto lo scienziato, l’accordo siglato a Parigi “It’s just a bullshit”. Frase che il traduttore di google fa finta di non capire ma che azzardo a tradurre con “E’ solo una stronzata”. (Se sbaglio correggetemi…)
Eppure, per quelli che, come noi, dal vertice francese si aspettavano poco o niente, va detto che qualcosa di buono è venuto fuori. E per “buono” intendo strumenti che potremo utilizzare nelle nostre battaglie ambientaliste.


Entriamo velocemente nei termini dell’accordo. L’articolo 2 fissa il limite massimo dei 2 gradi con l’obiettivo ideale di mantenersi entro il grado e mezzo. Il che significa, secondo i dati dell’Ipcc, tagliare le emissioni tra il 40 e il 70 per cento rispetto al 2010 entro il 2050. Tra il 70 e il 95 per cento, se puntiamo ad un aumento contenuto entro il grado e mezzo. Bene. Il problema è che per non scontentare petrolieri, multinazionali e governi, il testo non specifica come e dove. Tutto viene demandato alle Indc, le Intended Nationally Determined Contribution, cioè alle misure che ogni Stato intende volontariamente adottare.

Dal testo iniziale dell’accordo è stato stralciato tutto quanto poteva penalizzare le grandi corporation finanziarie. Desaparecido anche il concetto di decarbonizzazione, che implicava il completo abbandono di carburanti fossili, per fare spazio ad una ipotesi di “bilancio energetico” che non sta a significare niente se non che si continuerà ad usare il petrolio (fin che ce n’è, e fin che questo sarà economicamente vantaggioso). Anche i famosi 100 miliardi di dollari annui da stanziare per i Paesi non industrializzati sono solo fumo. Non è stato stabilito come, quando, con quali criteri e con quali vincoli saranno stanziati. Inoltre, questione non da poco, non è stato neppure precisato se stiamo parlando di finanziamenti a fondo perduto o… prestiti!
Conclusione: il testo finale partorito dalla Cop21 è debole, imperfetto, facilmente aggirabile, non vincolante né per i Governi né per le multinazionali. Prospetta e auspica un contenimento utopistico di 1,5 gradi ma non detta quei severissimi vincoli e quei drastici cambiamenti indispensabili di rotta per raggiungerlo. Come possedere la mappa del tesoro ma non sapere su quale isola andare a scavare.

Eppure… eppure questo accordo ha anche una lettura positiva. Quella di relegare definitivamente l’industrializzazione, così come l’abbiamo concepita sino a oggi, nei libri di storia del Novecento. A Parigi è stata chiusa l’era del petrolio e dei grandi consumi. Il futuro passerà per le rinnovabili.
Perché rispettare l’obiettivo dei 2 gradi, significa senza se e senza ma, tenere gas, petrolio e carbone là dove Madre Natura ce lo ha messo: sotto terra.
Questo è l’impegno che gli Stati, Italia compresa, hanno preso a Parigi. Un impegno che presto proveranno a disattendere facendo leva su tutte quelle deficienze del testo cui abbiamo accennato. Un impegno che sicuramente cercheranno di farci dimenticare con la scusa del terrorismo (che non a caso introita dal mercato del petrolio) o altre invenzioni.
Fateci caso. A poche ore dalla firma - fatta salva qualche rara eccezione - la Cop21 è già sparita dalle home dei siti di informazione e pochissimi quotidiani gli hanno dedicato la prima pagina. Tutti a sbavare su truculenti fatti di cronaca, a commentare fuffe bancarie o a sbavare su quella stramenata da infarto cosmico che è la Leopolda.

Toccherà ai movimenti sociali e ambientali, alle loro lotte, ricordare che c’è una emergenza clima e pretendere che Cop21 venga rispettato. Dopo Parigi, possiamo scriverlo senza tema di smentita: trivellare l’Adriatico va contro l’accordo sul clima che l’Italia ha sottoscritto. Questa è una verità che nessun politico, nessun amministratore, nessun petroliere, neppure un Salvini (tanto per dire la cosa peggiore che mi viene in mente), potrà negare. Questa è una verità sulla quale chi dice No ad Ombrina deve battere, ribattere ed ancorarsi senza far sconti a nessuno. Lo stesso lo possiamo ribadire per la Tav, le industrie cancerogene come l’Ilva, la Pedemontana e tutte le Grandi e devastanti Opere che hanno partorito crisi sociale, economica, ambientale e, adesso è ufficiale, anche climatica.
Pure le Grandi Navi, viste sotto i criteri dell’accordo parigino, navigano verso la parte sbagliata della storia. Fuori dalla laguna? No, fuori dal mondo le vogliamo!

Cop21. I limiti della conservazione di un sistema

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L'accordo perde pagine. Dalle 55 compilate nella riunione preliminare alla Cop21, siamo arrivati in prossimità del traguardo (il testo definitivo dovrebbe essere approvato entro domani a mezzogiorno, salvo ulteriori imprevisti) con solo 27 pagine. Il che non è necessariamente una buona notizia. Un certo “smagrimento” dell’accordo era necessario ed inevitabile. In fondo, il summit parigino è stato organizzato proprio per mettere d’accordo i tanti Governi su un testo condiviso capace di vincolare gli esecutivi a mantenere l’economia entro determinati binari di sostenibilità, o meglio di “non troppa devastazione”, climatica.
Il rischio è che l’accordo resti solo una bella carta di intenti senza nessun potere sanzionatorio e priva di qualsiasi capacità di incamminare il mondo lungo quella strada che rimane l’unica davvero in grado di salvare il pianeta, così come noi o conosciamo: ribaltare l’attuale “economia predatoria” in una economia slegata dalla finanza, a misura d’uomo e di ambiente.
Non è un caso che nessuno dei ministri presenti a Parigi metta in discussione l'articolo 2 de testo che fissa la soglia di aumento della temperatura "ben al di sotto dei 2 gradi”, possibilmente entro al soglia del grado e mezzo.
Il problema sta in tutti gli altri articoli che dovrebbero spiegare “come” rimanere entro questo limite!
Un po’ come impegnarsi a debellare la fame, la guerra e le ingiustizie sociali senza spiegare come, e, soprattutto, senza sognarsi di mettere in discussione l’ordine costituito. Un traguardo utopistico. Esattamente come molti commentatori hanno giudicato il limite del grado e mezzo auspicato dall’articolo 2.
Motivi del contendere, e del conseguente ritardo nell’approvazione del documento, è soprattutto la parte finanziaria. Ovvero come e quanto compensare i danni ambientali irreversibili che sono la causa delle migrazioni climatiche. Oppure, se preferite, quanto i Paesi ricchi devono dare ai Paesi poveri per poter continuare a comportarsi come si comportano adesso.

C’è anche da dire che molti Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” si sono avvicinati alla Cop21 solo con la mera intenzione di ottenere più finanziamenti possibile e vedono di traverso se questo denaro viene vincolato ad uno “sviluppo” diverso da quello che, ahimè, ammirano guardando verso i Paesi europei o nordamericani.
E che siano proprio coloro che hanno causato la crisi climatica (oltre che quella economica che le cammina a fianco) a salire sul pulpito per dare lezioni su come si deve fare economia pulita, è una cosa non prima di sarcastiche contraddizioni.
Dopo i finanziamenti, il secondo punto critico è quello delle sanzioni. Senza “multe” non c’è normativa che tenga. Tanto nella circolazione stradale, quanto negli accordi transnazionali. Non è un caso che la Cina, che se ne è stata buona a zitta per tutto il vertice, sia saltata come una tarantolata e abbia alzato barricate appena è stata prospettata l’ipotesi di una revisione sanzionatoria quinquennale dei risultati ottenuti nell’abbattimento delle emissioni e sul rispetto dei vincoli dell’accordo. Il che la dice tutta sulla volontà del Governo comunista cinese di spendersi a difesa del clima.
Ultima menzione al merito per il governo dell’Arabia Saudita. Gli emiri nutrono verso il clima lo stesso delicato sentimento che nutrono nei confronti delle donne, degli oppositori politici e dei diritti in generale. I portavoce del Regno saudita se ne sono usciti per tutto il vertice con affermazioni pubbliche atte a screditare come “nemica dell’ambiente” l’ipotesi di un azzeramento, anche a lungo termine, delle emissioni imputabile all’uso dei combustibili fossili.
Finanziare gli integralismi servirà anche a far alzare il prezzo del petrolio, ma non a farlo ricomparire nei pozzi che si stanno esaurendo. Non mancano troppi decenni che non ne avranno neppure per riempirsi il serbatoio della Rolls Royce.

Cop21. Il mondo non è project

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Che si possa saltare sul palco della Cop 21 e dar aria ai denti per dire qualsiasi sciocchezza ti passa per la testa, al di là di qualsiasi riscontro con la verità dei fatti, ce lo dimostra il nostro premier, Matteo Renzi, che si spertica a lodare quanto fatto in Italia per le energie alternative (siamo ultimi in Europa sul fotovoltaico ma in compenso ci sono ricchi incentivi per chi realizza inceneritori) ed elenca le “buone pratiche” di Enel ed Eni in Africa e Sudamerica (dove ho visto ettari di foresta amazzonica spianati per le loro ricerche petrolifere). Ma la Cop21 di Parigi non poteva che aprirsi così, come si apre una fiera delle buone intenzioni. “Sfida”, “cambiamento”, “svolte ecologiche” le parole più usate e abusate dai leader mondiali che si sono avvicendati nel palco, dopo la foto di rito in stile club vacanze “Salviamo la Terra”.
A starli a sentire, pare davvero che i cambiamenti climatici siano in cima alle loro preoccupazioni. Proprio come il terrorismo. Solo che i cambiamenti climatici non li puoi bombardare, e le soluzioni capaci di fermare il riscaldamento globale - le soluzioni vere, intendo - passano attraverso la realizzazione di una democrazia dal basso e di un cambiamento radicale del nostro modello di civiltà, non più basato sul consumo ma sui diritti, di cui sono loro il primo ostacolo. I leader mondiali riescono a contraddire se stessi anche solo passando da un microfono all’altro; da una conferenza stampa dove annunciano svolte green e quella dove spiegano la necessità di combattere il terrorismo distribuendo bombe e democrazia sui vari califfati. Senza considerare che guerre e bombardamenti sono tutto tranne che… eco compatibili! Oltre che morti, fame e povertà producono pure Co2 e finanziano una industria bellica che non gode certo del bollino verde!
Il problema è, che nessuno di quei politici che oggi sono lì “per decidere come salvare la terra”, per dirla col francese François Hollande, ha una aspettativa di vita (politica) superiore ai due o tre, massimo, mandati. Le decisioni che la storia li chiamerebbe a prendere risulterebbero decisamente impopolari ed in aperto contrasto con quegli stessi poteri forti che li hanno messi sulla poltrona. Nessuno di loro ha voglia, o levatura politica e culturale, di giocarsi le prossime elezioni sostenendo, al di là delle dichiarazioni di intenti, le battaglie necessarie a contenere la temperatura mondiale entro i 2 gradi entro anno 2070.

Alla fine dei conti, la strategia economica delle grandi potenze, fatto salvo qualche concessione alle Green Economy (finché il settore “tira”), non è poi così distante da quella dell’Isis, l’ultima reincarnazione del braccio violento del capitalismo: vendere e acquistare petrolio, fin che ce n’è. E se le riserve sono in scadenza… motivo di più per farne alzare il prezzo. Economico, politico e militare.
E qui ci sta tutto il divario tra chi gioca in borsa e chi no, tra i ricchi ed i poveri della terra, tra chi ha e chi non ha. I primi sono i principali responsabili delle emissioni che stanno massacrando tutto il vivente di questa terra. I secondi ne pagano le conseguenze e non hanno nessuna intenzione di fermarsi, senza adeguata contropartita, sulla strada per quel modello di “sviluppo” del quale abbiamo già visto gli effetto e che, loro credono o sperano, li porterà prima o poi ad entrare nel club dei ricchi.
Il problema è stabilire il prezzo. L’inquinamento è una merce come le altre. Questo è l’unico accordo che verrà siglato a Parigi: quanto i Paesi ricchi daranno ai Paesi poveri per poter continuare ad inquinare come prima. Perché nessuno del membri dell’esclusivo Vip Club, mette realmente in discussione lo stile di vita proprio e dei propri elettori.
Mettiamoci in testa che quello che sta passando per Parigi, non è l’ultimo treno per fermare i cambiamenti climatici. Quello è già partito venti o trent’anni fa e non è più passato per nessuna stazione. Oggi, la mutazione del clima è una realtà con la quale bisogna convivere. Il punto della questione è quanto salato sarà il conto e chi dovrà rimetterne le spese. E facciamo attenzione che il conto potrebbe essere così salata da rivelarsi insostenibile per l’intera civiltà umana, oltre che per tante altre specie animali e vegetali della terra. Siamo alla svolta: apocalisse o rivoluzione. E’ su questo treno che dobbiamo salire. Come ha affermato il presidente boliviano, Evo Morales, una delle poche voci fuori dal coro “aspetta e spera” dei leader mondiali, è la shock economy, l’economia che trasforma i disastri in capitale, e non il clima, che dobbiamo combattere. “Il capitalismo - spiega il presidente indigeno - provocherà la scomparsa della vita sul pianeta”.
A Parigi si cercano soluzioni, ma l’unica soluzione è quella di riscrivere il significato del concetto di “economia” allacciandolo a vincoli di sostenibilità e di giustizia. Perché, come sostiene Naomi Klein, la crisi climatica è anche una crisi morale. “Ogni volta che i governi dei paesi ricchi evitano di affrontare il problema, dimostrano che il nord del mondo sta mettendo i suoi bisogni e la sua sicurezza economica davanti alla sofferenza di alcuni dei popoli più vulnerabili della Terra”. Non è un caso quindi che a Parigi nessun microfono sia stato offerto e nessun palco abbia ospitato i portavoce di quei popoli che già subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici e che già hanno pagare le spese di un nuovo stile di vita: i migranti climatici. Loro - gli unici che avrebbero avuto tutte le carte in regola per spiegare perché è necessario costruire una diversa economia - non hanno avuto voce nei palchi parigino.
Chi ha provato a manifestare in nome loro, è stato picchiato ed arrestato. Come se fossero loro, gli ambientalisti, gli amici dei “terroristi islamici” e non piuttosto questa economia capitalista che alza il prezzo dei combustibili fossili proprio perché sono in esaurimento, invece di puntare a nuove energie rinnovabili e pulite ma che non danno gli stessi interessi in borsa.

La scuola #ClimateChaos. Democrazia climatica tra pinguini stanchi ed orsi impagliati

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“Se pianti un ramo, cresce una pianta”
il Corano


“Cambiano i venti, si riduce la neve, la fauna marina è a rischio, e ancora ci decantano il pollice opponibile”
Lercio


Orsi polari impagliati. Qui, sulla costa che guarda verso il mar Artico dell’Islanda dove si gela anche in estate, tutti i musei ne espongono uno. In quest’isola civile che è riuscita a far arrestare i suoi banchieri, ogni “grande” città (200 o addirittura anche 250 abitanti!) ha il suo bravo museo. Non hanno niente da esporre, poveretti!, se non vecchi arnesi per la pesca o coperte tarlate, ma l’orso bianco impagliato con la dentatura feroce non manca mai. Son tutte new entry dell’ultimo ventennio. Non che in Islanda ci siano gli orsi, eh? Son venuti tutti dal polo nord a cavallo di un iceberg. Il bestione gironzolava per la banchisa artica in cerca di qualche pesce per riempirsi la pancia quando - patatrack - un pezzo di pack grande come tutta Venezia, si è staccato dalla banchisa e se ne è andato per i fatti suoi con lui sopra.
Trascinato verso sud, sopra quella traballante isoletta di ghiaccio che rimpiccioliva di minuto in minuto, il bestio è approdato - incazzato ed affamato come solo un orso polare sa esserlo - sulle coste islandesi dove è stato immediatamente preso a fucilate dai villici locali. Quindi impagliato e sistemato a far bella mostra di sé su un bel museo locale, moderno, interattivo e con tanto di “spazio bimbi”. L’ho già detto che è gente civile, no?
Sì, va ben: povero orso. Ma povero anche l’islandese che incappa nell’orso senza il suo fucile.

Dall’altra parte del mondo, ai pinguini le cose vanno meglio. Sette anni fa, ha fatto il giro del mondo la notizia di una quarantina di pinguini della Patagonia che si son fatti più di 3 mila chilometri a nuoto per andare ad approdare ad Ipanema. Non che la loro intenzione fosse quella di andare in vacanza a Rio per farsi una caipirinha e salire in teleferica sul Pão de Açúcar. Quegli elegantoni in frac si son fatti fottere da una corrente oceanica che da una milionata di anni li portava dalle coste della Terra del Fuoco all’Antartide ma che, nell’ultimo decennio, ha deviato verso le assolate spiagge brasiliane.
Ai pinguini è andata meglio che agli orsi. Salvati dai surfisti, ingozzati con aringhe e sardine dai bagnanti, quindi rimpatriati a furor di popolo in terre più adatte alla loro gelida costituzione.

Pinguini senza bussola. Orsi accolti a fucilate. E’ tutta qua la questione sui cambiamenti climatici? No. Spiace per i pinguini. Spiace ancora di più per gli orsi. Ma quello dei cambiamenti climatici è un problemaccio che va ben oltre le pur pittoresche conseguenze come queste che ho raccontato dei pinguini e degli orsi o del fatto che, se va avanti così, resteremo senza cacao per farci la cioccolata!
Da quando ha cominciata la rivoluzione industriale (secondo alcuni addirittura con la nascita dell’agricoltura. ma in ogni modo la tendenza ha subito una fortissima impennata nell’ultimo secolo), l’uomo ha avviato un sistematico processo, una sorta di esperimento in stile mad doctor, che non era mai stato fatto prima - e che non potrà essere ripetuto in un prossimo futuro! -: prelevare tutto il combustibile fossile presente sulla terra e travasarlo nell’atmosfera, alterando tutti gli equilibri che avevano permesso la nascita della vita sul pianeta. Vien da dire: e pretendevamo che non succedesse nulla?
Una cosa da pazzi, a ragionarci adesso, e che investe non solo la questione della sopravvivenza dell’umanità ma anche di tutte le altre specie, animali e vegetali, che hanno avuto la sfortuna di svilupparsi in un mondo dove era presente il virus homo sapiens.

Un processo, questo dell’uso e abuso di risorse non rinnovabili, che per forza di cose è a scadenza. Nessuno può farci nulla. Solo gli economisti sono talmente coglioni da credere che in un sistema limitato come è la terra, si possa avviare uno sviluppo illimitato e, per di più, basato su risorse finite.
Che le cose cambieranno quindi, è sicuro. Resta da vedere in che condizioni lasceremo la terra alle future generazioni. Soprattutto, resta de decidere come (e se) governeremo questo cambiamento.
E’ su questo capitolo che va inserita la questione della democrazia climatica. Democrazia che non vuol dire fare quello si vuole, certamente, ma che non significa neppure delegare ogni decisione alla maggioranza. Democrazia, intendo, come regole da seguire. Dobbiamo scrivere una sorta di Costituzione terrestre per il clima. Oppure, se preferite, ogni singola Costituzione di ogni singolo Paese dovrebbe avere un articolo 0 che recita pressapoco: quando si scrive una legge o si progetta qualsiasi cosa, è necessario tener conto delle inviolabili leggi fisiche che regolano l’ambiente. Ci vogliono paletti precisi su quello che si può fare e quello che non si può più fare. Questo è un campo che sposa politica e scienza ma lascia a casa l’economia così come l’abbiamo intesa sino ad oggi.

La democrazia climatica quindi è una questione totalizzante, perché investe, stravolge e cambia i nostri primitivi punti di vista su tutte le questioni aperte dall’umanità nel suo cammino. Saperne di più, informarci, studiare, quindi, sono passi che non possiamo esimerci dal fare. Questo è il motivo per il quale, come EcoMagazine, abbiamo lanciato la scuola #ClimateChaos.
Anche soltanto nel buttare giù la lista dei relatori da invitare alle lezioni, abbiamo subito constatato come qualsiasi problema che abbiamo affrontato come attivisti, dalle migrazioni al lavoro, dai beni comuni alla democrazia dal basso, possa essere riletto sotto la lente dei Cambiamenti Climatici. Un esempio per tutti. Le Grandi Navi.
Potrei elencare perlomeno un ventina di motivi per i quali questi condomini galleggianti devono starsene fuori dalla laguna. La democrazia climatica semplifica il problema perché ti spiega, con la massima coerenza scientifica, che non è più tempo di gigantismi. Il futuro del turismo non passa sui ponti lustrati a specchio di questi centri commerciali del divertimento idiota. L’inquinamento che producono, il consumo energetico, la loro stessa “filosofia” dell’intrattenimento, non è compatibile con le necessità della terra. Fuori quindi le Grandi Navi, non solo dalla laguna, ma dal mondo.

La questione, a questo punto, sta tutta nel far entrare questo concetto nelle zucche di politici ignoranti (per non dir di peggio) o di arraffatori di beni pubblici abituati a programmare, ragionare e far di conto in uno spazio temporale che non si allarga mai oltre il decennio. In questo atomo di tempo, i cambiamenti climatici, per loro natura epocali, non sono una variabile cui tener conto. Anzi, i disastri, come ha spiegato Naomi Klein, rappresentano solo altre occasioni di “sviluppo”. Se le statistiche dicono che nei prossimi cinque anni ci saranno più uragani… investiamo nelle imprese immobiliari! Se l’acqua comincerà a scarseggiare, privatizziamola! Ma queste non sono soluzioni.
Tutto il contrario.
E’ su questo punto che si aprono spazi per i movimenti e per l’attivismo politico che non si è adagiato in partecipazione alla cosa pubblica basata esclusivamente sul voto e sulla rappresentanza. Le Costituzioni, lo sappiamo bene, nascono solo dopo le rivoluzioni. Le Costituzioni non ce le ha mai regalate nessuno. Sempre, abbiamo dovuto conquistarcele sulle barricate. Così dovrà essere anche per la Costituzione climatica.

Perché una scuola di formazione sui Cambiamenti Climatici. Ovvero: perché noi non possiamo sottometterci all’effetto Dunning-Kruger

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Cominciamo con lo spiegare chi sono David Dunning e Justin Kruger. I signori in questione sono due ricercatori in psicologia della Cornell Unversity di New York che nel 2000 si sono aggiudicati il prestigioso premio Ignobel dedicato agli scienziati autori degli studi più… “originali” dell’anno. Dunning e il collega Kruger, infatti, sono riusciti a dimostrare con criteri sperimentali e clinici quello che tutti noi già avevamo già intuito da un pezzo. E cioè che più uno è imbecille e più è sicuro nelle sue convinzioni. Contrariamente a quanto affermava Carlo Marx (che sbottava picchiando con i pugni sul tavolo della biblioteca: “L’ignoranza non ha mai aiutato nessuno”) nella nostra società impigliatasi nelle rete globale, essere idioti e sparare cazzate aiuta ad aumentare i “mi piace” sulla propria bacheca di Fb e, di conseguenza, a rafforzare le proprie convinzioni.
In sostanza, la distorsione cognitiva sulla quale i nostri due scienziati hanno speso anni di studio, è pressappoco questa: mentre le persone intelligenti e competenti su una determinata questione dimostrano una forte tendenza a mettersi in discussione ed a sottovalutarsi, i coglioni partono dal presupposto di avere ragione e, smanettando in rete, cercano – e trovano, perché in rete si trova di tutto – solo conferme delle proprie tesi, rafforzando le proprie sballate tesi.

C’è da dire che ci sono personaggi politici che idioti non sono (fetenti sì, però) che su questo effetto costruiscono le loro fortune e capitalizzano milionate di voti grazie a siti ed a pagine Fb becere che pubblicano “notizie” inventate di sana pianta ma che trovano mutue “conferme” rimbalzando l’una sull’altra. L’ignoranza, in questo caso, aiuta e come Consideriamo, a titolo di esempio, tutte le pagine Fb che elencano “crimini” di migranti alloggiati in lussuosi hotel a cinque stelle e retribuiti come pascià a spese degli italiani poveri. Consideriamo anche quanta gente, ahimè, abbia finito per crederci sul serio e quanto sia difficile far cambiare loro idea, anche basandosi su quelle strane cose, sempre più avulse dal giornalismo televisivo, che sono i “fatti”.
Adesso il punto è: perché anche noi non possiamo fare i cazzari e, proprio su un tema complesso come i Cambiamenti Climatici, occorre tornare nei banchi di scuola?
Le risposte sono tante. Prima di tutto siamo minoranza e quello che dobbiamo percorrere è sempre un cammino in salita. Tocca a chi ha proposte concrete, l’onere di dimostrare tutto. Chi ha una visione alternativa della società (ma potrei dire anche dell’arte o della scienza) sa, fin dall’inizio, che dovrà abbattere a testate muri di cemento. E la conoscenza, in questo caso, sarà la sua unica arma. Un altro punto è che con la cialtroneria non si vincono le battaglie. L’ignoranza è utile solo al mantenimento dello status quo. Anche quando parla di “rivoluzione”, l’ignorante fa solo il gioco del potente che afferma di voler cambiare tutto per non cambiare niente. Sono i sognatori capaci di concretizzare i sogni, quelli che hanno il potere di cambiare il mondo. Studiare ed informarsi è un dovere per tutti coloro che vogliono uscire dal gregge.
Infine, avremo anche altri difetti, ma cazzari proprio non lo siamo. Movimenti come i No Tav o i No Mose hanno maturato negli anni conoscenze e competenze scientifiche di prim’ordine che li hanno portati a surclassare sul piano dialettico gli avversari, forti di slogan varati da quotati studi pubblicitari e di manganellate celerine, ma assolutamente deficitari sul piano politico, strategico e tecnico (per tacer sul versante della democrazia che proprio non è mamma loro).
Fateci caso. Mai, dico mai e ripeto mai, il Consorzio Venezia Nuova ha accettato un confronto sull’efficacia delle paratie mobili con tecnici e idraulici terzi, lontani cioè dal loro libro paga. Non lo hanno fatto e non lo fanno ora per il semplicissimo motivo che il risultato sarebbe scontato. Il Mose non serve se non a riempire le tasche di faccendieri in odor di mafia e di politici corrotti. Tra l’altro, proprio le previsioni dell’Ipcc, anche quelle meno impattanti, rendono inutile l’intero progetto che, pure, continua ad avanzare.
In questi giorni che precedono la Cop21 di Parigi, abbiamo deciso quindi di tornare sui banchi di scuola. Questa è la strada vogliamo e dobbiamo percorrere per prepararci alla battaglia più importante che dobbiamo combattere: quella sui Cambiamenti Climatici. Una battaglia che, come spiega il documento pubblicato su Global Project “Apocalisse o rivoluzione, cambiamo tutto per non cambiare il clima”, sarà una battaglia globale, perché investe ed illumina di una nuova luce, tutte le lotte che abbiamo sostenuto sino ad ora: dall’ambiente alle migrazioni, dai beni comuni alla democrazia.
La scuola di formazione politica #ChaosClimate che EcoMagazine propone in collaborazione con Global Project sarà aperta a tutti coloro che vorranno partecipare, e punta a restituire la complessità di un tema sul quale niente è scontato, per fornire strumenti scientifici di comprensione del problema ed un bagaglio di conoscenze da tradurre in azioni.
Il calendario completo degli incontri, i relatori e le modalità di iscrizione saranno pubblicati  presto sul nostro sito. Il primo appuntamento si svolgerà al Morion di Venezia, domenica 15 novembre alle ore 16 con la lezione d’apertura del fisico triestino Luca Tornatore.
Vi aspettiamo. Perché questa è una battaglia che non ha alternative. Bisogna cambiare tutto per non

AAA bella città lagunare svende il suo welfare

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La chiamano “riorganizzazione”. Ma di altro non si tratta che di pesanti tagli al welfare. La Giunta Brugnaro si appresta a calare la mannaia, non soltanto per demolire i servizi essenziali alle fasce più disagiate, ma anche per colpire tutto quel sistema sociale che costituiva l’eccellenza di Venezia, come testimonia una recente indagine del Sole 24 Ore. Il sindaco manager lo farà attaccando gli amministratori che lo hanno preceduto al governo della città. Dichiarerà, barcamenandosi alla meno peggio nell’oceano a lui sconosciuto dei congiuntivi, che si era speso troppo e troppo male. Che non ci sono più soldi perché quelli di prima se li sono mangiati tutti, che un elefantiaco sistema di assistenza come quello costruito a Venezia non è in linea con la modernità, che queste cose bisogna farla fare ai privati e non al pubblico. La chiamerà, come abbiamo scritto, “riorganizzazione dei servizi”. Un nome come un altro per nascondere una politica di smantellamento sistematico di quanto cittadini e associazioni erano riuscite ad ottenere in anni di lotta (perché nessuno ti regale niente, neppure le più illuminate amministrazioni).

Il dipendente / assessore Simone Venturini se è già uscito allo scoperto con alcune recenti dichiarazioni. Intendiamoci, nella Giunta / azienda del Brugnaro Luigi, gli assessori contano come un due a briscola. La famosa “riorganizzazione” passa tutta per la capace scrivania del padrone della baracca. Quello che vuole vendere i quadri che non sono neppure suoi! E questo eccesso di personalismo sarà il primo problema da affrontare quando la cittadinanza vorrà far sentire la sua voce e difendere le sue conquiste. Chi sarà l’interlocutore delle richieste? Gli assessori / dipendenti… lasciamoli anche stare, per quel che contano. L’uomo solo al comando è solo lui, il sindaco manager che non dorme la notte - così racconta - per la preoccupazione dei debiti ereditati con la sua nuova azienda (il Comune di Venezia). E non sarà facile fare politica - perché difendere il welfare è “fare politica” - con uno che ne ignora anche il significato della parola!
Come saranno “riorganizzati” i servizio poi, è presto detto. Il Brugnaro Luigi intende scrollarsi di dosso tutto il peso del welfare per scaricare tutto lo scaricabile sull’Usl. Scelta infelice e perdente perlomeno per tre motivi. Il primo è che l’Usl, per sua costituzione, si occupa di malati. Un povero, un senzatetto, o anche una persona che ha raggiunto la terza età, ha altri problemi e necessità che quello della salute. Secondo, l’Usl, purtroppo, ragiona oramai con una ottica aziendale. Bisogna far quadrare i bilanci e dai disgraziati c’è ben poco da tirare fuori.Terzo, l’Usl non è un Comune. Non è una amministrazione col compito di programmare politiche sociali e neppure ti ci puoi rivolgere per protestare o per chiedere servizi che non contempla. Oltre a tutto, i manager che la dirigono non hanno neppure la spada di Damocle delle elezioni a far paura e possono tranquillamente continuare ad erogare prestazioni di merda, purché il bilancio non sia in passivo. Chi non ci sta, si rivolga al mercato privato, come per i dentisti.
Scelta infelice e perdente quindi, quella di passare il testimone all’Usl. Ma attenzione, sarà una scelta infelice e perdente soltanto per i cittadini! Non certo per il Brugnaro Luigi che potrà addossare le colpe dei disservizi ad altri e concentrarsi finalmente su quello che gli preme di più: assecondare la svendita della città e della sua laguna ai poteri forti.
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