In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

AAA bella città lagunare svende il suo welfare

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La chiamano “riorganizzazione”. Ma di altro non si tratta che di pesanti tagli al welfare. La Giunta Brugnaro si appresta a calare la mannaia, non soltanto per demolire i servizi essenziali alle fasce più disagiate, ma anche per colpire tutto quel sistema sociale che costituiva l’eccellenza di Venezia, come testimonia una recente indagine del Sole 24 Ore. Il sindaco manager lo farà attaccando gli amministratori che lo hanno preceduto al governo della città. Dichiarerà, barcamenandosi alla meno peggio nell’oceano a lui sconosciuto dei congiuntivi, che si era speso troppo e troppo male. Che non ci sono più soldi perché quelli di prima se li sono mangiati tutti, che un elefantiaco sistema di assistenza come quello costruito a Venezia non è in linea con la modernità, che queste cose bisogna farla fare ai privati e non al pubblico. La chiamerà, come abbiamo scritto, “riorganizzazione dei servizi”. Un nome come un altro per nascondere una politica di smantellamento sistematico di quanto cittadini e associazioni erano riuscite ad ottenere in anni di lotta (perché nessuno ti regale niente, neppure le più illuminate amministrazioni).

Il dipendente / assessore Simone Venturini se è già uscito allo scoperto con alcune recenti dichiarazioni. Intendiamoci, nella Giunta / azienda del Brugnaro Luigi, gli assessori contano come un due a briscola. La famosa “riorganizzazione” passa tutta per la capace scrivania del padrone della baracca. Quello che vuole vendere i quadri che non sono neppure suoi! E questo eccesso di personalismo sarà il primo problema da affrontare quando la cittadinanza vorrà far sentire la sua voce e difendere le sue conquiste. Chi sarà l’interlocutore delle richieste? Gli assessori / dipendenti… lasciamoli anche stare, per quel che contano. L’uomo solo al comando è solo lui, il sindaco manager che non dorme la notte - così racconta - per la preoccupazione dei debiti ereditati con la sua nuova azienda (il Comune di Venezia). E non sarà facile fare politica - perché difendere il welfare è “fare politica” - con uno che ne ignora anche il significato della parola!
Come saranno “riorganizzati” i servizio poi, è presto detto. Il Brugnaro Luigi intende scrollarsi di dosso tutto il peso del welfare per scaricare tutto lo scaricabile sull’Usl. Scelta infelice e perdente perlomeno per tre motivi. Il primo è che l’Usl, per sua costituzione, si occupa di malati. Un povero, un senzatetto, o anche una persona che ha raggiunto la terza età, ha altri problemi e necessità che quello della salute. Secondo, l’Usl, purtroppo, ragiona oramai con una ottica aziendale. Bisogna far quadrare i bilanci e dai disgraziati c’è ben poco da tirare fuori.Terzo, l’Usl non è un Comune. Non è una amministrazione col compito di programmare politiche sociali e neppure ti ci puoi rivolgere per protestare o per chiedere servizi che non contempla. Oltre a tutto, i manager che la dirigono non hanno neppure la spada di Damocle delle elezioni a far paura e possono tranquillamente continuare ad erogare prestazioni di merda, purché il bilancio non sia in passivo. Chi non ci sta, si rivolga al mercato privato, come per i dentisti.
Scelta infelice e perdente quindi, quella di passare il testimone all’Usl. Ma attenzione, sarà una scelta infelice e perdente soltanto per i cittadini! Non certo per il Brugnaro Luigi che potrà addossare le colpe dei disservizi ad altri e concentrarsi finalmente su quello che gli preme di più: assecondare la svendita della città e della sua laguna ai poteri forti.

Ladro di democrazia, devastatore di ambiente. Il sistema Mose messo a giudizio dal Tribunale di Popoli

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Il Mose e tutta la cupola mafiosa che ruotava - e tutt’ora ruota - attorno al Consorzio Venezia Nuova è stata portata a giudizio del tribunale permanente dei Popoli. Oggi, 22 ottobre, nell’aula magna del liceo artistico Guggenheim di Venezia, si è svolta la prima fase, aperta al pubblico, delle audizioni. Dal 5 al 8 novembre, a Torino, sono in programma le udienze finali alla fine delle quali, il tribunale si pronuncerà sulla violazione dei diritti democratici in base alla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli proclamata ad Algeri nel 1976.
Il tribunale permanente dei Popoli nasce come ideale continuazione del tribunale Russell che a sua volta deriva dall’esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra fondato dal filosofo Bertrand Russell e dallo scrittore Jean-Paul Sartre nel novembre del 1966 con lo scopo di fare luce sui crimini commessi dall'esercito statunitense nella guerra del Vietnam.

Dalla sua fondazione, nel 1979, il tribunale dei Popoli si è espresso in numerosi casi di violazione di diritti fondamentale di popolazioni in tutto il mondo, dai mari d’Indonesia alle coste del Salvador. Si tratta naturalmente, di un tribunale di “opinione”, di natura associativa con giudici volontari, ma comunque dotato di una copertura mediatica internazionale.
Il tribunale interviene in tutti quei casi nei quali le legislazioni nazionali risultino inadeguate, se non addirittura complici dei violatori, nel difendere i diritti dei popoli. In Italia, il tribunale è stato chiamato a giudicare le violazioni legate alle Grandi Opere, come la Tav, il Muos e, grazie all’associazione AmbienteVenezia che si è costituita parte civile, il Mose.


Le inchieste della magistratura che hanno messo a nudo il sistema di tangenti e di corruzione legato all’ecomostro lagunare, portando all’arresto e al rinvio a giudizio di imprenditori, funzionari pubblici e politici di tutti i livelli, si sono rivelati assolutamente insufficienti a spiegare come un tale sistema di malaffare abbia potuto inquinare Venezia, tanto da portare alla realizzazione di un sistema di dighe mobili che non solo è 20 volte più costoso di qualsiasi altra soluzione, non solo non risolverà il problema dell’acqua alta, ma ha comportato una devastazione senza precedenti in un fragile ecosistema unico al mondo violando tutte le leggi di salvaguardia. Non soltanto: le inchieste della magistratura e gli arresti eccellenti che ne sono derivati, si sono rivelate assolutamente inutili a porre un rimedio al problema. Tanto è vero che il Consorzio è ancora là, forte del suo regime di “concessionario unico” - che è un po’ come la licenza di uccidere per l’agente 007 - e il Mose ancora in fase di perenne costruzione, a divorare miliardi ed a continuare a massacrare quella che un tempo era la laguna dei dogi.

Il sistema di corruzione “legale” portato avanti dal Consorzio che non era finalizzato tanto a pagare tangenti per gli appalti (di cui era, alla faccia di qualsiasi principio di trasparenza e di democrazia) quanto a corrompere commissioni di salvaguardia, comprare consenso in città e a mettere a tacere le pur qualificate voci dei tanti tecnici che sottolineavamo la criticità non ancora risolte del sistema di dighe mobili, oltre a quelle degli ambientalisti preoccupate di salvare la laguna e la città.

Proprio il pericolo insito nell’opera che, tanto per fare un esempio, non tiene conto dei nuovi valori di marea dovuti ai cambiamenti climatici, la sua inutilità ai fini di fermare le “acque alte” e il continuo degrado cui sottopone la laguna, anche senza considerare le opere complementare e di compensazione (che non compensano un bel niente ma, essendo pure loro appaltate al Consorzio, sono solo un’altra occasione di corruzione e devastazione), sono tutti fattori che le inchieste della magistratura non hanno neppure sfiorato. Nè potevano farlo perché spettano alla politica. La magistratura può arrestare le mele marce. Quando è il sistema che fa marcire le mele, allora deve intervenire la politica imponendo regole più democratiche e trasparenti.

Ed è proprio su questo punto che il tribunale permanente dei Popoli è stato chiamato a pronunciarsi. E sulla sentenza finale, noi non nutriamo il minimo dubbio. Il sistema Mose ha violato il diritto dei veneziani a decidere della loro laguna, a difendere la loro città, a salvaguardare il loro ambiente. Perché, quello che quei mascalzoni ci hanno davvero rubato non è qualche miliardata di euro, ma la stessa democrazia.

L’Ordine dei Giornalisti apre la mostra Grandi Navi. Presidio degli ambientalisti e show di Brugnaro

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Il titolo è tutta retorica: “Danno o risorsa per Venezia?” La risposta è tutta in quelle 27 spettacolari gigantografie che raccontano in maniera inequivocabile il devastante impatto che queste speculazioni edilizia galleggianti chiamate“Grandi Navi” hanno nel delicato ecosistema lagunare. Non c’è storia, non c’è paragone e non c’è neppure spazio per il punto di domanda, tra le due posizioni, pro e contro, davanti a queste immagini che raccontano il quotidiano stupro di meganavi grandi cinque volte il Titanic forzate a passare in un ecosistema idrico a misura di gondola.
E d’altronde, guardando dietro l’obiettivo della reflex, chi voleva documentare il danno o la bruttura di una ingombrante presenza che non ha nulla a che vedere né con la storie né con la morfologia della laguna, ha giocato facile. E non me ne vogliano i bravissimi autori delle foto se scrivo questo. Intendo solo considerare che, volendo sostenere la tesi “pro grandi navi”, cosa c’era da immortalare? La faccia beota di qualche turista da comitiva a prezzo fisso che saluta dal ponte del condominio, pensando di viaggiare sul praho di Sandokan e che invece si ritrova su un centro commerciale galleggiante? Che è come farsi le vacanze all’Auchan?


No, no, hanno ragione i pro grandi navi a sostenere che la mostra, inaugurata questo pomeriggio nella sede dell’Ordine dei Giornalisti - e che là rimarrà sino al 16 ottobre - è tutta di parte. Proprio come dalla parte degli ambientalisti sta la verità sostanziale dei fatti. Possiamo discutere sulle possibili e ragionevoli soluzioni - tra le quali non c’è quella terrificante di scavare e distruggere ancora la laguna per farci passare ‘ste Love Boat da grande magazzino! - ma non sul fatto che le Grandi Navi siano mostruosamente brutte, inquinanti oltre ogni dire e omicide per l’ecosistema che sostiene Venezia. E taccio sul rischio di trovarcene prima o poi, una spampanata sulla basilica, come già successo a Genova e in altre parti d’Italia.

Certo, non si può pretendere, né sarebbe giusto pretendere, che l’Ordine dei Giornalisti del Veneto che ha ospitato la mostra realizzata dei reporter veneziani tra i quali Marco Secchi del collettivo Awakening, prenda posizione su un tema come questo. Va bene allora anche il punto di domanda retorico sul titolo. E va bene anche il comunicato diffuso dall’Ordine secondo il quale la mostra ha come obiettivo quello di “offrire ai veneziani e al mondo un panorama il più ampio possibile su una problematica di estrema complessità e delicatezza”.
Ma la vera spiegazione del perché l’esposizione sia stata organizzata dall’Ordine e proprio dentro i locali dell’Ordine sta tutta nella premessa del detto comunicato: “Dopo le polemiche innescate dalla decisione del sindaco di Venezia di sospendere la prevista mostra del fotografo Gianni Berengo Gardin…” In altre parole, i giornalisti veneziani hanno voluto rispondere ad un sindaco come il Brugnaro Luigi, abituato a comandare da padrone in Comune come nella sua azienda, tanto da mortificare assessori (uno dei quali si è già dimesso), dirigenti e consiglieri, che l’informazione non sta alle dipendenze di nessuno. Il sindaco del fare - e che nei suoi primi cento giorni ha fatto due delibere e una ordinanza, peggio del Milan in campionato - non può pretendere e permettersi di trattare i giornalisti come suoi dipendenti o suoi portavoce. Può trasformare le sue conferenze stampa in uno spettacolo di Carlo e Giorgio, ma non può chiedere ai giornalisti di fargli da spalla.

Che il Brugnaro Luigi sindaco abbia recepito il messaggio poi, è tutto da vedere. Di sicuro, il problema dell’indipendenza dell’informazione non è tra le sue priorità. “Con la maggioranza che ho, faccio quello che voglio” ripete sempre. E anche ieri ha regalato agli spettatori - un nutrito gruppo di No Grandi navi venuti ad assistere all’apertura della mostra - il suo show quotidiano. Ha accettato una bandiera No Grandi Navi, ha passato in rassegna le gigantografie commentando come fosse davanti ad una pizza Quattro Stagioni che “c’è chi le Grandi navi piacciono e c’è chi non piacciono. A me piacciono. Guarda qua che belle!” Inutile chiedergli come intende muoversi per tutelare la laguna perché altrimenti ti tira un pistolotto da 40 minuti in dialetto spiegandoti che lui è contrario alla teoria del gender, sia nelle scuole che nell’ambiente. Si è guardato bene dall’affrontare la questione dello scavo del Vittorio Emanuele ma ha dichiarato che “le grandi navi sono la storia di Venezia. Oh? Lo sapete o no che un ingegnere ci impiega 50 anni per costruirne una?” E poi, tra lo sconcerto generale, ha abbandonato la sala indirizzando ai presenti un’ultima appassionata esortazione: “Ma venite a Mestre che è più bella e si sta meglio che Venezia!”
Mah? Mestre no. Ma sto seriamente pensando a Reykjavík che ha per sindaco uno come Jón Kristinsson Gnarr. Il dubbio è che non sia abbastanza distante.

La Venezia ambientalista in riva per dire No ad altri scavi. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna

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Domenica di lotta e di festa a Venezia. Domenica di orgoglio cittadino. La Venezia che non ci sta a veder trasformare in merce la laguna che le ha dato vita, è scesa in riva per ribadire il suo No alle Grandi Navi ed a tutto quello che queste portano con sé, dall’inquinamento dell’aria alla devastazione dei fondali.
Parecchie centinaia di cittadini hanno accolto l’appello del movimento contro le Grandi Navi e si sono radunate questo pomeriggio alle Zattere, proprio davanti a quel canal della Giudecca dove sfilano impuniti queste brutte speculazioni edilizie galleggianti che sbandierano nomi come Preziosa o Deliziosa.

Una manifestazione riuscita che ha ridato voce alla Venezia ambientalista dopo una tornata elettorale nella quale i temi ecologisti non sono mai stati al centro della discussione e che, per di più, ha visto la vittoria di un sindaco che se gli chiedi quali siano i suoi programmi per tutelare l’ecosistema lagunare ti risponde che è contrario alle teorie gender nelle scuole come nell’ambiente.
Non è un caso che alla bocciatura da parte del Tar del progetto dello scavo del canal Contorta per farci passare le Grandi Navi evitando la rischiosa passerella davanti alla basilica, Comune e Autorità Portuale abbiano subito presentato la proposta di scavare il Vittorio Emanuele.
Per chi ragiona con la logica delle Grandi Opere infatti, scavare qua o là non fa nessuna differenza. Son comunque fondi pubblici da deviare a mafie e appaltatori. Per chi ragiona con l’ottica della salvaguardia, sono invece milioni di metri cubi di fondale da buttare in pattumiera col risultato di lasciare il problema dell’inquinamento da fumi come sta, ed impoverire una laguna che oramai altro non è che un braccio di mare.
“Il problema delle Grandi Navi - hanno dichiarato gli organizzatori - non può essere circoscritto al passaggio davanti a San Marco perché l’inquinamento che producono e la devastazione dell’ecosistema causato dallo spostamento d’acqua rimane tale anche se il percorso viene deviato. La soluzione non può essere lo scavo di un altro canale, che sarebbe un rimedio peggiore del male. La soluzione è solo una: fuori le Grandi Navi dalla laguna di Venezia”.

Inutile, devastante, costosissimo: ecco il Mose. La prova generale per il sistema di tangenti legato alle Grandi Opere. #CementoArricchito #Venezia

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Tutto cominciò con la grande alluvione del ’66. In una sola giornata, la Venezia dei Dogi, la Serenissima Repubblica, la Dominante dei mari, apparve agli occhi del mondo per quello che effettivamente era: la città più fragile di questa terra. Quella stessa laguna che per secoli l’aveva cullata e protetta, adesso, devastata e stravolta dalle grandi manomissioni d’inizio secolo – come gli interramenti di Porto Marghera e lo scavo del canale dei Petroli – si era trasformata in una nemica mortale ed implacabile. L’antico patto tra l’uomo e il mare, che il Doge celebrava ogni anno gettando tra le onde un anello d’oro, era infranto.



Il progetto di una “linea Maginot” – come la definì il ministro Antonio Di Pietro (che evidentemente ignorava quele fine fece l’autentica linea Maginot) – di grandi dighe mobili per tenere a freno le ondate di marea in entrata e “risolvere definitivamente il problema dell’acqua alta”, nasce proprio dall’idea che la laguna sia un elemento da dominare e non più da tutelare, da artificializzare e non da riequilibrare.

L’impatto mediatico dell’acqua granda che il 4 novembre 1966 sommerse Venezia sotto quasi due metri di marea (194 cm) ebbe comunque un effetto positivo, perlomeno all’inizio. La salvaguardia della città fu dichiarata “di preminente interesse nazionale” e nacque la prima Legge Speciale per Venezia, n. 171 del 1973, che apri spazi per una gestione partecipata della tutela della laguna e riuscì a fermare il prosieguo degli interramenti industriali, che nel progetto iniziale, avrebbero dovuto arrivare quasi sino a Chioggia.
Ma proprio in questo spazio, pensato per la salvaguardia dell’ambiente lagunare, si fece largo il Mose. E lo fece con un iter che sarà poi ricalcato da tutte le Grandi Opere che successivamente assassineranno l’Italia sotto una coltre di cemento mafioso. Prima la dichiarazione di emergenza, poi la gestione affidata ad un unico soggetto, l’affidamento dei lavori senza gare d’appalto a ditte legate alla malavita organizzata, quindi la spaventosa lievitazione dei costi coperta da ricche tangenti elargite a 360 gradi.
Ma per intraprendere questa strada, la legge Speciale doveva essere riformata. A portare il Mose in laguna tocca alla seconda legge speciale, la 798 del 1984, col Bettino Craxi presidente del Consiglio, che affida la salvaguardia ad un committente unico: il Consorzio Venezia Nuova.

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Il Mose divenne un grande laboratorio su come dirottare vagonate di denaro dal pubblico al privato (non di rado, mafioso), comprando politici e giornalisti, devastando l’ambiente che doveva tutelare e mercificando la democrazia. Così, nella laguna dei Dogi venne sperimentato quel modus operandi che poi fu seguito da tutte le Grandi Opere, dalla Tav alle mega autostrade. Perché se si riesce a realizzare un progetto distruttivo ed irreversibile come questo in una città fragile e sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
Nel 1989, Il Consorzio avviò la stesura del progetto preliminare orientandosi subito verso il sistema più costoso ed impattante (il Mose ha avuto una sola Via e negativa, inoltre sono state aperte varie procedure di infrazione nei confronti dell’Italia dal’Unione Europea), senza curarsi di rispondere alle critiche e alle osservazione che il mondo scientifico gli muoveva, forte di una disponibilità di denaro praticamente illimitata e slegata da ogni controllo democratico.  Così, il Consorzio, padre e padrone del Mose e del suo sistema di tangenti, cominciò ad assorbire tutti i fondi destinato alla salvaguardia di Venezia, ed a trasformarsi in un bancomat per, quasi, tutti i partiti sia di Governo che di opposizione.

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I lavori conclusivi delle barriere furono avviati nel 2003, grazie anche alla Legge Obiettivo fortemente voluta dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con l’apertura dei cantieri alle tre bocche di porto.
Sin dall’inizio, le critiche degli ambientalisti si concentrarono su tre punti.
Il Mose non servirà a risolvere il problema dell’acqua alta, casomai lo peggiorerà aumentando la sezione dei canali di sbocco (e questo lo verificheremo solo vivendo)
il Mose devasterà la laguna (e puntualmente tutta la laguna sud si è trasformata in un braccio di mare aperto)
il Mose serve solo a chi lo fa. Ovvero: tutta la baracca altro non è che una gran macchina da tangenti e non ha altra ragione di esistere che questa.




A dimostrazione del terzo punto, su cui ci soffermeremo in questo articolo, sono stati sottolineati due fattori. 1) La continua proroga dei tempi: l’opera come presentata nel ’90 doveva essere terminata nel ’95. 2) L’esplosone dei costi: dai preventivati 3 mila e 200 miliardi di lire (avete letto bene, lire!) nell’89, il Consorzio ha “sforato” un tantinello, spendendo sino ad oggi 5 miliardi e 267 milioni di euro (sì, euro!). Ancora adesso non si sa bene quando le dighe saranno completate e quanto costeranno definitivamente (per non parlare dei  successivi e altissimi costi di manutenzione  e gestione che sono tutta un’altra storia).
Durante una delle ultime “inaugurazioni” l’ex ministro Maurizio Lupi, dimissionario in seguito allo scandalo delle Grandi Opere, ha pomposamente dichiarato che il Mose “sarà tassativamente ultimato nel 2016” e costerà attorno ai 6 miliardi di euro. Se voi volete crederci…
Chi proprio non gli ha voluto credere, tanto per dirne uno, è il presidente dell’’Anticorruzione, Raffaele Cantone, che ha dichiarato alla Nuova Venezia che i lavori certo non saranno finiti neppure per il giugno del 2017! In quanto ai costi finali, il magistrato ha preferito non esprimersi.
A dare sostanza – sia pur col senno del poi – alle tesi degli ambientalisti secondo i quali il Mose altro non è che una enorme tangente, ci ha pensato la magistratura quando ha cominciato a scoperchiare la Tangentopoli Veneta. Il  28 febbraio 2013, la procura di Venezia ha  spiccato un mandato di arresto per frode fiscale nei confronti di Piergiorgio Baita e di altri amministratori della società Mantovani, la dita incaricata di realizzare le paratoie mobili. La frode si basava su un sistema di false fatturazioni e di finte compravendite tra finte aziende canadesi e croate. Quattro mesi dopo, altre 14 persone finiscono in manette per la scoperta di un giro di fondi neri austriaci. Tra loro c’è Giovanni Mazzacurati, già presidente e direttore generale del Consorzio.
Ma la botta grossa arriva il 4 giugno 2014. La guardia di finanza, nelle prime ore del mattino, arresta 35 persone accusate di vari reati tra i quali corruzione, concussione e finanziamento illecito. Sono tutti nomi di spicco nel panorama politico ed imprenditoriale. Ci sono amministratori regionali come Renato Chisso, assessore alle Infrastrutture, e Giancarlo Galan, già presidente della Regione (che evita le manette in quanto deputato), il tesoriere del Pd veneto Giampiero Marchese, l’europarlamentare del PdL Lia Sartori, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, e tre deputati del Pd: l’ex Presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia, Michele Mognato e Sergio Reolon. Vengono fermati anche il vicecomandante nazionale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, e due Magistrati alle Acque, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta.
Il nome che desta più scalpore è comunque quello di Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, accusato di avere accettato un finanziamento illecito di 250 mila euro da parte del Consorzio durante la campagna per le primarie del centrosinistra, utilizzato per battere l’ambientalista (e no Mose) Gianfranco Bettin.
Lo scandalo portò alle dimissioni del sindaco e alla caduta della Giunta comunale, pur se gli altri amministratori risultavano estranei alla vicenda. Uguale sorte non seguì la Regione amministrata dal centro destra.



Un mese dopo, finiscono nei guai anche Marco Milanese, ex deputato PdL e braccio destro dell’allora ministro Giulio Tremonti, accusato di aver incassato una tangente di 500 mila euro dal Consorzio per far sbloccare al Cipe i finanziamenti necessari per il Mose, e Altiero Matteoli, già ministro dell’Ambiente e delle Infrastrutture e dei Trasporti con l’accusa di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri.
Intanto che le inchieste proseguono, il Mose continua ad avanzare, come quei tumori per i quali non c’è chemioterapia che tenga. Gli arresti hanno fatto gridare allo scandalo, alla necessità di liberare le amministrazioni dalle mele marce, alla desolante richiesta di un “nuovo” in politica che poi altro non è che la continuità gattopardesca del vecchio. Pochi sono coloro che hanno messo in dubbio la validità strutturale di un’opera che ha nel finanziamento illecito la sua sola ragione di esistenza. Una Grande Opera voluta solo dal partito trasversale degli affari sporchi e fatta avanzare con prepotenza, nonostante tutti i pareri negativi della comunità scientifica. Le barriere mobili, tra l’altro, non tengono conto dei nuovi parametri imposti dai cambiamenti climatici.
Nel migliore dei casi, il Mose sarà inutile.
Quella che, come il Vajont prima della catastrofe, è stata definita ‘l’orgoglio dell’ingegneria italiana” è un’opera nata sul binario sbagliato, partita male e proseguita peggio. Una soluzione rigida ed irreversibile in una laguna fluida e in continuo mutamento.
Le tangenti, a questo punto, sono solo la preoccupazione minore.


Dietro le Grandi Opere. Enzo Guidotto denuncia mafia e corruzione. #CementoArricchito

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Il primo campanello d’allarme, racconta Enzo Guidotto, oggi presidente onorario dell’osservatorio veneto sul fenomeno mafioso e già consulente della commissione parlamentare antimafia, è squillato circa venticinque anni fa, quando la sopracitata commissione cominciò ad indagare nella finanza veneta, scoprendo una forte penetrazione di capitali provenienti dal malaffare organizzato. Un campanello che rimase inascoltato. La politica preferì guardare da un’altra parte lasciando spazi grandi come praterie a quella corruzione che, come già avvertiva Paolo Borsellino, è l’humus ideale per far attecchire le attività mafiose. Quelle stesse attività che oggi si alimentano di Grandi Opere, devastando l’ambiente ed inquinato a tal punto la politica da aver mercificato la stessa democrazia.


In questo intervento, Enzo Guidotto, fa nomi e cognomi di personaggi che ancora oggi sono ai vertici del governo regionale e dell’imprenditoria e denuncia gli intrecci tra ministri, casalesi, appalti e assessori regionali, da Bernini a Galan, dalla Valdastico Sud alla Pedemontana.
La mafia non esiste solo quando spara.




L’intervento di Enzo Guidotto è tratto dal convegno Veneti e Mafia, svoltosi a Resana di Treviso il 31 maggio 2013

La Goletta Verde lancia la campagna “Don’t waste Venice”

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Una "scoassa" ogni tredici metri di canale è decisamente troppo. Senza contare che là, dietro al barena, dove butta la corrente, le stesse "scoasse" formano delle vere e proprie isola galleggianti. Regni incontratati di pantagane e di "magoghe" sparpagliarifiuti.
Più al largo, dopo le dighe delle bocche di porto, la situazione non migliora. In ogni chilometro quadrato di Adriatico galleggiano 27 rifiuti vari. Un buon 90 per cento dei quali composto da plastiche non biodegradabili. E sotto il mare? Ancora peggio! Qui le "scoasse" si accumulano formando delle sottospecie di "tegnue" di immondizia di cui solo chi si immerge conosce il segreto della loro esistenza.
Il tutto va a finire, prima o poi, nelle nostre pance, considerato che siamo una delle specie ai vertici della catena alimentare. "Pochi lo sanno ma le plastiche sono delle vere e proprie spugne che assorbono l'inquinamento del mare - spiega Giulio Pojana, chimico e responsabile per Ca’ Foscari del progetto Defishgea -. Tutta la plastica che buttiamo a mare, finisce con lo sgretolarsi sino a particelle grandi pochi micron, praticamente invisibili all'occhio umano ma che rimangono comunque nell'ambiente marino e vengono filtrate dai mitili o assorbite al pari del plancton da altre specie animali. In poche parole, tutta la sporcizia che gettiamo a mare, prima o poi, ce la ritroviamo a tavola".
A presentare il progetto internazionale di cooperazione Defishgea volto a raccogliere dati sul marine litter in tutta la regione Adriatico-Ionica, è stata la Goletta Verde di Legambiente che, dopo la tappa a Rovigno per denunciare l'affaraccio brutto delle trivellazioni, ha approdato in Riva Sette Martiri. Il progetto promosso dalla Comunità Europea è stato tradotto in veneziano come la campagna "Don’t Waste Venice" (non sporcate Venezia). Che la nostra non sia una città come tutte le altre, non lo scopriamo oggi. Anche le "scoasse" qua parlano il veneziano e, invece di sporcare le rive dei fiumi o gli angoli delle strade, finiscono tutte a ciondolare per i canali.

Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, ha trascorso il fine settimana in barca, a gironzolare per le nostre vie d'acqua, con un retino in mano a raccogliere rifiuti in compagnia di un nutrito gruppo di volontari del Cigno Verde. "Don't waste Venice - spiega - è una campagna che si è prefissa il compito di monitorare scientificamente i rifiuti galleggianti nei canali di Venezia e portare all’attenzione della popolazione, dei turisti e dei media non solo il problema dei rifiuti abbandonati in città ma soprattutto la possibilità di contribuire alla loro riduzione tramite alcune semplici buone pratiche".
Perché i nostri canali sono depositi di immondizia, si chiede Gigi Lazzaro. Perché ci sono persone distratte e poco attente al problema, perché ci sono altre persone incivili, ma anche perché la città ha una sua conformazione tutta particolare (vedi ad esempio l'invasione turistica da fine Impero Romano cui è vittima) e, sono necessarie pratiche tutte particolari per risolvere il problema.
Diamoci da fare quindi. Don't waste Venice. Non devastiamo noi Venezia. Che, se tanto mi dà tanto, abbiamo eletto un sindaco che ci metterà del suo to waste Venice.

Il clima del cambiamento. #OltreEconomia Festival

dibattito
Duecento metri più in là, dietro un cordone di polizia da 800 mila euro (tanto è costata la protezione della sua persona nell'ultima visita a Venezia), c'era il premier Matteo Renzi. Il presidente del consiglio era a Trento per parlare di economia. E a Trento ci siamo andati anche noi, per parlare di economia. Ma dai luccicanti saloni del Festival dello Scoiattolo ci siamo tenuti lontano, e gli abbiamo preferito il prato del parco Santa Chiara e le tavolate sotto il tendone sistemato dagli organizzatori dell'OltrEconomia Festival. Perché, al di là del casinò truccato della finanza mondiale, capace solo a parlare di recessione e di crisi, c'è l'economia vera, quella dei movimenti, quella delle produzioni dal basso, di chi recupera le fabbriche e occupa la terra. Quella di chi chiede democrazia, difende l'acqua come bene comune e si oppone alla mercificazione di ambiente e diritti.
Tutte cose che, se ieri erano solo giuste, oggi sono anche necessarie. Perché nella scena mondiale è intervenuto un grande attore che, non per caso, non ha trovato spazio dalla parte renziana del cordone di polizia: il clima. O, per essere più precisi e per dirla all'inglese, il Climate Change. Il primo attore dei cambiamenti che avverranno su questo nostro pianeta ma che il circo degli economisti di regime continua ad ignorare.
Proprio con i cambiamenti climatici, il festival OltrEconomia ha voluto aprire i suoi dibattiti, invitando un meteorologo di fama coma Luca Lombroso. Applauditissimo il suo intervento, ieri mattina al parco Santa Chiara all'incontro sul tema "Cambiamenti climatici, conflitti ambientali e grandi opere inutili. Verso il Cop 21 di Parigi".

"Questi incontri mondiali mi trovano pessimista - ha commentato -. Nonostante nessun scienziato ponga in discussione la realtà dei cambiamenti climatici e che a produrli l'inquinamento, trovare un accordo appare sempre più difficile".
Ancora, ha spiegato Lombroso, si continua a perseguire una economia fallimentare. Un esempio sono le trivellazioni in Adriatico. "Una scelta insostenibile non solo per i costi ambientali ma anche per quelli economici. Una scelta inoltre, fallimentare anche dal punto di vista energetico. Dovremmo spendere 50 barili di petrolio per estrarne cento. Inoltre, la produzione intera non basterebbe che per sei mesi, lasciandoci in eredità un'altra ferita alla terra per la produzione di gas. Oramai l'atmosfera è una discarica abusiva. Non so se le trivellazioni provocano terremoti, ma di sicuro a lungo andare causano inondazioni, fenomeni atmosferici estremi e maremoti".
Per Lombroso la parola d'ordine, più che sostenibilità, è resilienza. "Mi spiego. La raccolta differenziata va bene. Certo, meglio degli inceneritori. Ma a alla lunga si spende energia e si inquina anche con la differenziata, Il futuro è semplicemente quello di imparare a riciclare ed a non produrre più rifiuti".
Con Lombroso, sul palco del dibattito condotto da Stefano Bleggi, redattore del nostro giornale web, anche Gianfranco Poliandri, NoTav Brennero, che ha spiegato come funziona la scatola cinese delle grandi opere, e Tommaso Cacciari del comitato No Grandi Navi di Venezia, che ha raccontato fatti e misfatti di quei centri commerciali galleggianti che devastano e inquinano la laguna di Venezia. Chiusura per Renato de Nicola del forum abruzzese dei comitati per l'acqua. "Rischiamo di andare a Parigi per non ottenere una cippa! Dobbiamo capire, mantenendo e anzi rafforzando la specificità, che tutte le nostre lotte ambientali hanno a che fare con i cambianti climatici. Dobbiamo capire che lottare contro i cambiamenti climatici significa lottare contro lo Sbloccaitalia, le Grandi Opere e tutta un sistema economico folle che viene finanziato rubando dalle nostre tasche soltanto per mantenere alto il profitto bancario. La strada per cambiare l'economia e non il clima, è sempre quella: radicalità di scontro e lotta di massa".

Sirat Al Bunduqiyyah, ovvero di come Venezia non è e non può essere uguale alle altre città. Un dibattito a Ca’ Sagredo

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Alzare il tiro, allargare gli orizzonti, porgere tutte le vele al vento. E mi fermo qua per non annegarvi nelle metafore. Il fatto è che abbiamo bisogno di tirare sù la testa perché non ne possiamo più di una campagna elettorale che potremmo definire “minimalista” solo per non dire che son ben pochi gli stracci di candidarti che possono offrirci una visione strategica di dimensione mondiale - e non esageriamo - della Venezia che si affaccia al 2020. Una visione che vada oltre i problemi contingenti. “Problemi” da scrivere tra le virgolette, poi. Provate a chiedere alla Zaccariotto la questione del decoro e vi parlerà delle cacche dei cani in piazza, provate a pronunciare la parola (parolaccia) “sicurezza” davanti a Brugnaro e vi sparerà un pippone da infarto sui “pericolossissimi” centri sociali. Ma davvero la Venezia del 2020 si ferma qua? Noi crediamo di no. Ed ecco perché, tra le tante, troppe, iniziative elettorali che vanno in scena in questi giorni piovosi, ci fa piacere segnalare un dibattito d’altri tempi, e svoltosi ieri sera in una sala d’altri tempi, il salone della Musica dell’hotel Ca’ Sagredo. Il tema, che era già una dichiarazione di intenti, recitava “Riconquistiamo la civiltà di Venezia” e, in una campagna in cui tengono banco argomenti come il plateatico di via Paraponzipà, già aprire un dibattito del genere è una riconquista.
“E’ giusto parlare anche del plateatico, come dei tanti problemi che abbiamo in città, naturalmente - spiega Gianfranco Bettin - ma tutto dovrebbe essere inglobato in un progetto più grande, in una idea che abbiamo della nostra città e che parta dal passato per arrivare al futuro”. Venezia, ha spiegato l’ambientalista, ha saputo nel suo passato coniugare ambiente e vivibilità. trattando le sue acque come soggetto attivo e come parte integrante della sua specificità. Una civiltà mercantile e diplomatica, più che un impero militare, che dialogava col mondo intero. Così, come tutt’oggi la nostra città è sotto gli occhi del mondo. Per questo non esageravano quando, in apertura, abbiamo scritto che la visione strategica della Venezia del 2020 deve essere di dimensioni mondiali. Anche questa deve essere una nostra riconquista. Ed è questo il decoro che vogliamo. Altro che le cacche dei cani in piazza! “Ricostruire il futuro partendo dalla nostra antica vocazione di città Stato, aperta al mondo e in simbiosi con l’ecosistema lagunare. Questo deve essere il nostro obiettivo - ha concluso Bettin - e per questo è necessario restituire a Venezia tutti quei poteri decisionali sul suo territorio che oggi non ha”.


Una visione rimarcata anche dall’altro relatore delle serata, Franco Avicolli. Uno che ti racconta di Lev Trotsky, di Garcia Marquez o di architettura contemporanea con la stessa competenza. “Parlare di come riconquistare la civiltà di Venezia significa rimettere al centro del dibattito la questione fondamentale: quale deve essere il ruolo e la struttura di una città in un mondo malato che ha perso ogni rapporto col territorio. Per questo, salvare Venezia significa salvare l’idea stessa di città. E questo lo possiamo fare solo noi: perché a Venezia è possibile realizzare idee ed opere che altrove sono impossibili”. Conclusione questa, che sarebbe sottoscritta immediatamente anche da un certo Corto Maltese, marinaio e gentiluomo di fortuna.

I tanti livelli della corruzione. Intervista con Gianfranco Bettin

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La devastazione di Venezia e della sua laguna, con la quale abbiamo aperto il nostro viaggio inchiesta sui conflitti ambientali del Nordest, comincia ben prima del Mose. Da un secolo a questa parte, per cementificatori e “sviluppisti” la Città dei Dogi è stato un grande laboratorio di sperimentazione che ha aperto la strada a tutte le Grandi Opere, inutili e distruttive, che hanno afflitto il Paese. Perché se riesci a far approvare un progetto come il Mose in una città che è sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare tutto dappertutto.
E’ anche vero comunque che, il “sacco di Venezia” ha avuto delle caratteristiche uniche, come unica è la nostra città. Ne parliamo con una persona che questo “sacco” lo ha seguito, denunciato e combattuto sulle barricate degli ambientalisti sin dal suo primo approccio con la politica: Gianfranco Bettin.

A Venezia non si può fare speculazione edilizia, come in terraferma. Tutta città storica è vincolata. La sua cementificazione è stata l'alterazione dell'equilibrio idrogeologico ed idrodinamico della laguna con le grandi manomissioni del 900: lo scavo dei canali come quello dei Petroli l’interramento di una larga percentuale della laguna per realizzare Porto Marghera, l’aeroporto e altri imbonimenti. Non potendo attaccare la città storica, la speculazione si è scaricata sulle sue acque, stravolgendone il delicato equilibrio ecologico. Pochi purtroppo avevano chiaro il concetto che la laguna è una parte imprescindibile di Venezia.



Poi arrivò, l’Acqua Granda…
L’alluvione del ’66 è stata campanello d’allarme. Tutti hanno capito che l'ecosistema lagunare, negli anni precedenti, era stato manomesso talmente tanto da farlo… impazzire. Questo comunque non ha impedito il prosieguo dello scavo del canale dei Petroli che era in fase di completamento. Ma di positivo c’è l’arrivo, nel ’73, della legge Speciale in cui, per la prima volta, viene colta la necessità di fermare lo stravolgimento dell’ecosistema e si pone la questione di interventi di salvaguardia e di interventi di natura eccezionale. Fu un inizio promettente perché questa legge ferma la realizzazione della terza zona industriale. Ricordo che la Porto Marghera storica ha due zone industriali realizzate coprendo le barene con quello che veniva estratto dallo scavo dei canali. La terza zona industriale, che doveva sorgere da Fusina a Chioggia, era progettata per essere più vasta delle due precedenti messe insieme. Oggi, di questa follia, è stata realizzata solo una piccola fase iniziale con le casse di colmata. 

Un inizio promettente, quindi. Ma poi cosa è successo?
Che la legge speciale viene stravolta. I cosiddetti “interventi straordinari” vengono intesi non come opere di manutenzione e di riequilibrio per combattere le acque alte intervenendo sulle loro cause, ma come lavori di tipo ingegneristico per contrastarne gli effetti. Il primo progetto, che non a caso chiamato Progettone, parla di dighe fisse. Questa idea viene poi superata con quello che sarà il Mose ma contraddicendo, anzi tradendo, il mandato della legge speciale che parla di interventi graduali, reversibili, non impattanti. Tutte caratteristiche che il Mose certo non possiede. 

Come è stato possibile che un progetto così devastante e contrario alla legge venisse approvato?
Quello che avete chiamato “sacco di Venezia” è stato attuato attraverso una vasta opera di concussione e di prosciugamento delle risorse destinate alla rigenerazione socioeconomica e alla manutenzione diffusa. I finanziamenti che dovevano essere destinati alla città e alla salvaguardia vengono addirittura spesi contro di essa. A spianargli la strada ci ha pensato il primo governo Berlusconi con la legge Obiettivo. In questo modo il Mose è stato divento una sorta di paradigma per tante oltre opere simili. Penso al ponte di Messina, a certi tratti di Tav, a tante autostrade inutili. 

Ma la corruzione, ha avuto un peso determinate? Il Mose poteva essere realizzato da persone oneste?
La corruzione è stata un elemento in più. L’opera sarebbe stata ugualmente sbagliata ma nulla impediva che fosse realizzata in modo onesto. Il fatto è che la corruzione è un problema italiano diffuso e avviene sia con le procedure semplificate che con le procedure… complicate. Nel caso del Mose, la corruzione è stata indispensabile a superare una serie di scogli. Ricordo che il Mose ha avuto una sola Via e negativa, e negativo era anche il parere del consiglio superiore dei Lavori Pubblici. Ma tutte le volte che c'è stata qualche complicazione è intervenuta la corruzione a semplificare e a mandare avanti l'opera. Possiamo quindi dire che la corruzione è un elemento costitutivo del Mose, come di tante altre Grandi Opere. Ma non cadiamo nella trappola degli ultimi fautori del Mose che sostengono che l’opera è eccellente ma la realizzazione avvelenata da qualche mela marcia. L’opera rimane comunque sbagliata. 

Come funzionava la corruzione? A leggere il libro “La Grande Retata”, scritto dai giornalisti del Gazzettino, pare che tutta la città fosse corrotta.
Non tutti erano corrotti. Ma va dato atto al Consorzio di essersi mosso in maniera molto molto spregiudicata. Operavano una corruzione a 360 gradi che non investiva solo la destra. Ci sono anche persone di sinistra e di estrema sinistra che sono finite nel libro paga del consorzio. Certo, magari non hanno fatto perizie false, come altri hanno fatto, ma comunque hanno lavorato sotto l'ombrello vasto del Consorzio Venezia Nuova che aveva messo in atto una strategia mirata ad ingraziarsi la città, coinvolgendo anche gente che non era d'accordo col Mose ma che, grazie a questa strategia, finiva per starsene tranquilla pur di mantenere buoni rapporti con loro

Un sistema corruttivo a più strati, quindi…
Sì, c’era la corruzione vera e propria per cui quel funzionario, quell'esperto, sanciva che l'opera andava bene, o addirittura si faceva scrivere i referti dal consorzio e lui poi li sottoscriveva, come stato documentato. Poi c'era il politico corrotto che prendeva i soldi e sapeva che in ogni caso doveva difendere il Consorzio. Poi c'era la “corruzione”, da scrivere tra virgolette, di scienziati, periti ed esperti che facevano consulenze magari su aspetti marginali o addirittura del tutto irrilevanti. Magari erano perizie sane ma che non toccavano il cuore della questione. In questo modo anche queste persone entravano nell'orbita del Consorzio.
Poi c'era un altro tipo di “corruzione”, questa da scrivere con quattro virgolette, con cui giornalisti, scrittori, intellettuali venivano coinvolti in attività pulite e prendevano qualche cachet dal Consorzio per qualche iniziativa, anche benemerita, come la scrittura di un libro. Penso a ottimi scrittori come Acheng, Brodskij e altri. Tutto faceva immagine e creava relazioni. Intendiamoci, io penso che un'impresa fa bene a sponsorizzare attività sportive, culturali o di beneficenza, perché è un modo per ricambiare la città del fatto che ha ricevuto dei lavori da realizzare. Ma nel caso del Consorzio Venezia Nuova tutto questo faceva parte di un sistema in cui tutto era teso ad assumere un controllo egemonico che andava dalla corruzione vera e propria al semplice accattivarsi le simpatie.


Un sistema che presuppone molto denaro a disposizione.
Certamente avevano bisogno di rubare molto. Se voglio oliare meccanismi, corrompere a largo raggio, avere nel mio libro paga politici potenti e funzionari di grado elevato ho bisogno di un sacco di soldi e quindi debbo fare creste enormi sulle spese. Ma tutto questo è un “di più” odioso rispetto un'opera che sarebbe comunque stata sbagliata
Di fronte a questo strapotere non solo economico ma anche mediatico, che spazio veniva lasciato ai pochi oppositori?
Questa è un altro punto dolente della questione. Una tale potenza di fuoco ha messo a tacere tutto il dibattito sulle possibili alternative. Non è potuta crescere una seria discussione sulla salvaguardia o maturare ipotesi su come realizzare una città sostenibile. Soprattutto non è stata fatta crescere l’idea che si possa salvare la laguna e progettare un futuro per Venezia anche senza Grandi Opere. Questi sono percorsi che avrebbero avuto bisogno di dibattiti e di discussioni che non ci sono stati. I guasti compiuti dal Mose sono molto profondi e non si fermano alla devastazione ambientale. 


Aprire un dibattito sul futuro della laguna era anche lo scopo del Parco per il quale ti sei tanto speso?
Già. In quel mese e mezzo che mancava per concludere il percorso di istituzione del parco e avviare la discussione su quello che sarebbe diventato il piano socioeconomico, stava proprio per venir fuori questo discorso. Il punto è porsi finalmente la domanda “quale laguna vogliamo?” Il disastro provocato dal coinvolgimento del sindaco nello scandalo Mose - il sindaco solo, perché la procura ha escluso qualsiasi coinvolgimento del resto dell’amministrazione - ha fermato tutta la discussione. Adesso è un anno che non si parla del parco. 

Un argomento fuori anche dalla campagna elettorale?
Sì, a parte qualche domanda che viene posta a me negli incontri a sostegno di Felice Casson. Ma l’unico a parlare ancora del parco è Brugnaro. Ma solo per assicurare che, se sarà eletto, la prima cosa che farà sarà di abrogare tutto.
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