In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Grandi Opere, Grandi Truffe. Attivisti in azione al casello: L’unica Grande Opera che vogliamo è casa e reddito per tutti
22/02/2014EcoMagazine
Il braccio ad ombrello, insomma, non sarà elegante ma certo comprensibile. Come comprensibili e sono state le tante richieste di “venite anche domani, per favore?” Ma l’azione degli ambientalisti aveva solo lo scopo di far riflettere gli automobilisti e la cittadinanza per far capire che non è con le Grandi Opere che si risolvono i problemi ma, al contrario, queste sono solo strumenti per devastare e mercificare il territorio convergendo denaro pubblico nelle tasche di pochi privati.
Concetto questo ribadito anche nelle tre interviste realizzate durante l’iniziativa di ieri al casello di Mestre che vi proponiamo qui sotto.
Grandi Navi. Le Compagnie preparano la controffensiva di primavera. Chi ha a cuore Venezia ne discuta oggi per non farsi trovare impreparato domani
18/02/2014EcoMagazine
Tre consiglieri comunali, Beppe Caccia, Camilla Seibezzi e Sebastiano Bonzio, hanno appena denunciato in un incontro con la stampa, vedi il mio l’articolo su Eco Magazine, che l’assessore Ugo Bergamo ha stipulato un accordo con l’autorità portuale ben diverso da quello che era stato proposto dal consiglio e che riapre alle Grandi navi la possibilità di rioccupare la Marittima. E’ vero che in Senato, grazie ad una mozione presentata da Felice Casson, il Governo si è impegnato ad evitare la temuta scorciatoia della legge Obiettivo che avrebbe bypassato tutte le valutazioni ambientali e ha promesso di discutere sulle possibili alternative senza forzature. Ma è anche vero che, come temevamo, le compagnie di navigazione non hanno nessuna intenzione di giocarsela lealmente e stanno già battendo i media e le televisioni come cassa di risonanza per denunciare le presunte ricadute occupazionali che si riverserebbero sul porto con le porte della laguna chiuse.
Inutile nascondercelo. Siamo di fronte al grande rischio che una vittoria possa trasformarsi in una sconfitta. Tra qualche mese tutto potrebbe tornare come prima. Anzi peggio. Tutto come prima ma con una “grande opera” in più a devastare la nostra povera laguna: lo scavo del canal Contorta. Canale che permetterebbe alle Grandi Navi, gettate fuori dalla porta di rientrare dalla finestra. Col risultato che a Venezia rimarrebbe lo stesso inquinamento di prima con, in più, un’altra cementificazione di cui non se ne sentiva di sicuro la mancanza.
Ora, è chiaro come il sole che, a Venezia, lo scavo del Contorta non lo vuole nessuno. Non lo vogliono gli ambientalisti, non lo vogliono i veneziani. Non lo vuole l’amministrazione comunale. Il sindaco Giorgio Orsoni è stato chiaro in proposito. Non lo vogliono i deputati che hanno aderito alla sopracitata mozione lanciata dal senatore Felice Casson. Non lo vogliono nemmeno i portuali pro Grandi Navi che hanno osservato, non senza qualche ragione, che se gli ambientalisti non avessero sollevato tanto casino Venezia non rischierebbe di ritrovarsi tra qualche mese col problema di prima e con un scavo in più.
Ma allora chi è che vuole scavare il Contorta? Lo vuole, è presto detto, il partito delle Grandi Opere. Quel grande e trasversale partito senza tessere che continua a macinare ambiente (e diritti) per ricavare reddito per pochi, in nome di una economia che ha causato la crisi e della crisi ha fatto una giustificazione per qualsiasi scempio.
Perché, proprio sull’onda delle crisi, ci scommettiamo?, marcerà assieme ai primi tepori della primavera e al conseguente riaprirsi della stagione delle crociere, la controffensiva della compagnie di Crociere. Denunceranno la perdita di clienti, invocheranno la necessità di ridurre stipendi e personale, pregheranno il Governo di sostenere l’occupazione con misure straordinarie, piangeranno sulle famiglie ridotte in miseria, ragioneranno sul senso di colpire, in piena crisi, uno dei pochi settori in crescita, prometteranno di sistemare filtri sui loro puzzolenti camini per ridurre gli inquinanti, giureranno sulla sicurezza dei loro sistemi di navigazione.
E noi allora cosa risponderemo? Noi che ci siamo buttati in acqua, che ci siamo presi le multe, che abbiamo manifestato in tutti i modi possibili, che abbiamo organizzato assemblee, che ci siamo documentati e che abbiamo scritto decine di articoli. Noi che sappiamo che la crisi, la povertà, le devastazioni ambientali, l’inquinamento, non sono imputabile alle nostre idee ma proprio di chi ragiona come ragionano loro, sui binari di una economia di rapina. Noi, cosa risponderemo allora?
In rete sta maturando un grande dibattito a proposito. Le risposte che sono state date sono tante. C’è chi propone Marghera come terminal (ma le Grandi Navi continuerebbero a passare per la laguna, attraverso il canale dei Petroli, ed inoltre c’è il problema delle petroliere in transito), chi preferisce un porto off shore al di là delle dighe del Mose (roba da farsi togliere il saluto dagli amici ambientalisti del Cavallino). C’è chi sostiene che le Grandi Navi debbono traslocare a Trieste (ma questo comporterebbe sul serio un problema occupazionale per tanti lavoratori del porto ed inoltre nessuno ha chiesto l’opinione dei triestini) oppure chi pensa che la costruzione delle Grandi Navi, figlie di un concetto “sviluppista” dell’economia, non dovrebbe neppure essere autorizzata (ma neanche la guerra in Siria o lo Stato di Israele, se è per questo). Poi ci sono quelli che affermano che non spetta a noi trovare le soluzioni. Tutto ci va bene, purché le Grandi navi se ne stiano al largo dalla laguna (ma quante battaglie abbiamo perso per essere saliti solo sulle barricate del No a tutti i costi?)
Ed intanto che l’arcipelago, variegato e qualche volta anche astioso, degli ambientalisti discute a che santo votarsi, quelli del partito delle Grandi Opere non se ne stanno con le mani in mano. Pianificano in stanza chiuse e in uffici paralleli a quelli istituzionali. Poi brigano per velocizzare le pratiche, per bypassare i (pochi) vincoli di tutela ambientale che abbiamo. Loro non si fanno tutte le nostre paturnie. Non ragionano come noi e se ne fregano delle conseguenze a lungo termine. Hanno uno scopo solo: scavare subito, cementare, “mettere in moto l’economia”, devastare, fare reddito veloce col collaudato sistema che le spese ce le mette lo Stato e i guadagni se li pigliano loro.
Che fare, quindi? La proposta che lancio è di usare Eco Magazine come una piattaforma di confronto per schiarirci le idee. Ho pensato ad una griglia di domande da porre ad esperti, politici, intellettuali, ambientalisti... a quanti abbiano qualcosa di intelligente da dire in merito al problema. Un modo come un altro per ragionarci su e contribuire ad un dibattito serio.
Cominceremo a breve a pubblicare le prime interviste. C’è spazio per tutti (è il bello del web giornalismo!) e anche per i commenti che abiliteremo in calce all’articolo.
Perché, se non ci schiariamo le idee tra di noi adesso e ci diamo una bella svegliata, a Primavera ci sveglieranno loro. E non sarà un risveglio piacevole.
Pendolari vs Regione. Quando prendere il treno diventa una battaglia
15/02/2014EcoMagazine
Inutile entrare nel dettaglio di queste faccende che l’assessore regionale alla Mobilità, Renato Chisso, ha definito la “rivoluzione dei trasporti del Veneto”, perché chiunque abbia tentato la sorte di prendere un treno sa di cosa stiamo parlando.
Vediamo piuttosto di buttarla sul positivo. Perché di positivo c’è che i tanti comitati di pendolari sparpagliati in tutta la Regione si sono finalmente trovati insieme per mettere a punto una piattaforma di richieste comune. “Cerchiamo di uscire dalla logica del proprio giardino - ha spiegato in apertura Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto - per capire che il problema non sta nel ottenere un treno in più sulla propria linea ma di ripensare in termini di servizio tutta la mobilità pubblica”. L’associazione del cigno verde si è fatta promotrice di questa iniziativa che potremmo scherzosamente chiamare “Pendolari di tutto il Veneto, unitevi”. Andrea Ragona, responsabile per il trasporto pubblico, spiega come l’incontro di questa mattina sia nato dopo un anno di lavoro con i tanti comitati regionali stufi di venire singolarmente “presi in giro dalla Regione Veneto”.
Il problema, spiega il portavoce di Legambiente, si è creato con l’istituzione dell’orario cadenzato che Chisso, come abbiamo scritto in apertura, ha definito la “rivoluzione del trasporto regionale”. Ricordiamo che per “orario cadenzato” si intende un orario in cui (come avviene per i vaporetti e i bus) le partenze avvengono sempre a minuti fissi di ogni ora. Il problema sta nel fatto che mentre di vaporetti ce n’è uno ogni dieci minuti, di treni uno ogni due ore se butta bene. In poche parole, con la scusa della “rivoluzione”, sono state fatte scomparire linee intere di treni per pendolari.
“Non si può fare la rivoluzione dei trasporti senza investire soldi - ha commentato Ragona -. La Regione Veneto cui spetta la gestione del nostro sistema di trasporto è quella che ci investe meno: lo 0,3 per cento del proprio bilancio contro l‘1,2 della Lombardia o il 2 per cento della provincia autonoma di Bolzano. Chiaro che senza investimenti il settore è penalizzato e a pagarne le spese sono gli utenti più frequenti: i pendolari”. Col risultato, come ha spiegato al microfono un incazzatissimo pendolare, che “per andare a lavorare siamo costretti a prendere l’auto”.
In conclusione dell’incontro, è stata predisposta una piattaforma comune in cui si chiede alla nostra “rivoluzionaria” Giunta regionale di facilitare l’intermodalità, aumentare il numeri di treni pendolari e, soprattutto, di investire più risorse sui trasporti pubblici, magari dirottandoci qualcuno di quei miliardi che così generosamente spende e spande per le autostrade e le Grandi Opere.
Per ultimo, segnaliamo la pagina di Facebook dedicata ai disastri di Trenitalia, “Pendolaria Veneto”. Per gente che ama il genere horror.
L’accordo “truffa” di San Basilio. Caccia: “Un inaudito ed inaccettabile regalo al Porto”
6/02/2014EcoMagazine, In Comune
Che la rete tramviaria dovesse avere come capolinea l’area attualmente occupata dalle attività portuali, è cosa risaputa. Nel gennaio 2013 il Consiglio comunale aveva approvato in questa prospettiva una bozza di accordo che contemplava, come la città chiede da vent’anni e come da dieci anni prevede la pianificazione urbanistica del Comune di Venezia, che la zona di San Basilio fosse gradualmente restituita dal Porto, sdemanializzata e integrata nel tessuto urbano del popoloso quartiere di Santa Marta, sviluppando le attività universitarie e completando la passeggiata delle Zattere.
Il testo dell’accordo, trattato direttamente dall’assessore Ugo Bergamo (UDC) con l’Autorità Portuale e reso pubblico oggi, si rivela invece, per dirlo con le parole del consigliere della lista In Comune Beppe Caccia, come “un inaudito regalo al Porto. In pratica, si consente all’Autorità Portuale di confermare tutta l’area di San Basilio come terminal marittimo, di ampliare le strutture già esistenti, per far spazio alle grandi navi anche lungo il canale della Giudecca. Con un regalino da 8 milioni di euro.”
Caccia ha incontrato la stampa a Ca’ Farsetti assieme ai colleghi Camilla Seibezzi (lista In Comune) e Sebastiano Bonzio (Rifondazione). Tre consiglieri, come ha notato Bonzio, che sono “sufficienti a far mancare la maggioranza necessaria a far passare in Consiglio comunale un tale accordo.” Un accordo che farebbe ritornare indietro Venezia di una decina di anni, quando cominciarono le trattative per cercare di restituire alla città l’area portuale di San Basilio e la riva che corre lungo il canale della Scomenzera.
In quest’ottica, con la delibera del 14 gennaio 2013, il Consiglio comunale prevedeva, tra le altre cose, anche la costruzione di un parcheggio multipiano su uno dei moli della Marittima, con almeno il 30% dei posti auto destinato ai veneziani, nella prospettiva di definire l’uso dell’area sulla base dell’art. 35bis del PAT (Piano di assetto del territorio) che definisce l’obiettivo dell’estromissione dalla Laguna delle navi di dimensioni “incompatibili”.
All’assessore alla Mobilità Bergamo era stato dato l’incarico di trattare con l’Autorità Portuale e stabilire il testo definitivo dell’accordo di programma. Il problema sta tutto qua. L’accordo che Bergamo ha firmato a nome del Comune, hanno spiegato Bonzio, Seibezzi e Caccia carte alla mano, dice tutt’altro! Il parcheggio sarà a raso e riservato, in pratica, a forze dell’ordine, dipendenti del porto e turisti. Le stesse destinazioni d’uso degli edifici, già magazzini, che ospitano le aule didattiche delle università Ca’ Foscari Iuav vengono riclassificate come “attività portuali”. E il Porto vuole mantenere il controllo di tutte le banchine per far posto alle grandi navi, quanto queste non trovano spazio sufficiente per ormeggiare nel solo bacino della Marittima. Viene inoltre cancellato il contributo che il Porto dovrebbe versare al Comune per le opere accessorie, ma l’accordo impegna anzi proprio l’Amministrazione comunale a pagare 8 milioni di euro di canoni per il transito del tram in area portuale.
“Approvare questo accordo - conclude Beppe Caccia – significherebbe una resa alla lobby delle crociere: altro che tram, questo è un cavallo di Troia per lasciare per sempre le grandi navi tra Marittima e San Basilio. Il sindaco e gli altri consiglieri di maggioranza abbiano ben chiaro che, quando arriverà in aula per l’approvazione, noi non lo faremo passare. A qualsiasi costo.”
Una Carta dal valore sconfinato
4/02/2014Il Manifesto
La sera di sabato un lungo applauso aveva salutato la chiusura dell’ultimo paragrafo della Carta dopo dieci ore di discussioni intense, accese, ma proprio per questo vere. Così la mattina di domenica lo spazio è stato dedicato all’agenda programmatica. Hanno raggiunto la sala riunioni a drappelli, sotto la pioggia, stanchi ma soddisfatti. Ad attenderli hanno trovato le donne dell’isola, che hanno aperto l’assemblea plenaria mescolando le loro voci a quelle dei parenti delle vittime dei migranti scomparsi in mare nel 2011, a quelle degli attivisti europei, a quelle di tante e tanti che hanno preso parola. «Chi abita a Lampedusa non può esercitare il diritto alla salute e all’istruzione al pari degli altri — hanno detto le mamme lampedusane –, non ci sono diritti per noi e neppure per chi sbarca. Per questo un incontro così è per noi una manna dal cielo».
Ora che il testo definitivo è pronto, grazie a un grande sforzo collettivo, il primo punto all’ordine del giorno è diventato l’allargamento di chi ne condivide i contenuti. Chi ha scritto la Carta ha voglia di trasformarla in uno strumento per incontrare altri, ma anche e soprattutto per costruire iniziativa. Il testo è pubblicato su www .mel ting pot .org e sui molti altri portali che hanno partecipato alle giornate di Lampedusa con tutte le indicazioni per sottoscriverla, ma già nelle prossime settimane sarà pronto un blog su cui poter aderire al documento. Poi la discussione si è spostata sul terreno delle proposte. Le prime, quelle dei movimenti romani e siciliani che il 15 e 16 febbraio daranno vita a due manifestazioni al Cie di Ponte Galeria e al Mega Cara di Mineo, per chiederne l’immediata chiusura. Proprio quella dei Cie, è stato più volte ribadito, sembra essere la prima questione su cui misurare la capacità di costruire iniziativa comune. L’attualità lo rende necessario proprio ora che le tante rivolte hanno più che dimezzato il numero di centri di detenzione in attività.
Poi lo sguardo si è spostato sull’appuntamento del prossimo primo marzo, un’occasione, dicono in molti, per guardare alla costruzione di uno spazio europeo dei movimenti. L’appello è arrivato dai migranti di «Lampedusa in Hamburg» e dagli attivisti tedeschi che li sostengono. Il primo marzo saranno in piazza ancora una volta. Ma non saranno gli unici. Anche a Niscemi il movimento No Muos, nell’iniziativa contro l’installazione dell’impianto militare, porterà i temi della Carta che riconosce un nesso inscindibile tra la gestione dei confini e la loro militarizzazione.
Ma non si è discusso solo di mobilitazioni e cortei. Perché la Carta di Lampedusa nasce proprio come tentativo di costruire convergenze e intrecciare diversi linguaggi. È Progré, una rete di supporto legale attiva a Bologna, a proporre, proprio sul terreno dell’attività giuridica, di costruire un percorso comune intorno ai punti messi nero su bianco nella Carta di Lampedusa. Dalla Coalizione Ya Basta e Un Ponte Per la proposta di costruire per la prossima primavera le carovane sulle rotte dell’Euromediterraneo, in Libano, Tunisia e Turchia, per raccontare ciò che accade lì dove l’Europa esternalizza le sue frontiere e dove oggi arriva chi tenta di fuggire da guerre e conflitti.
L’orizzonte dei prossimi mesi guarda al post elezioni europee, quando il nuovo parlamento che siederà a Bruxelles dovrà fare i conti con la questione delle politiche migratorie dell’Unione. L’invito è a una mobilitazione europea prima e dopo la scadenza elettorale, per portare le battaglie dei migranti e quelle contro i confini lì dove i governi europei discuteranno di Frontex, asilo e politiche comuni.
La Carta di Lampedusa muove insomma i primi passi: non un’organizzazione, tengono a sottolineare i partecipanti, ma un patto costituente tra tanti e diversi, un modo per condividere percorsi nei territori e su scala euromediterranea.
Questi giorni a Lampedusa. L’isola dei diritti
3/02/2014Global Project
In serata il collettivo Askausa - che significa “senza scarpe” - ha invitato tutti gli attivisti all’inaugurazione del loro nuovo spazio dedicato alle vittime del mare. Una lunga sala in cui i ragazzi di Lampedusa hanno raccolto tutto ciò che il mare ha restituito dopo i naufragi. Nel soffitto dell’entrata sono appese le scarpe. Grandi, piccole, da uomo e da donna da bambino, tante... Un tavolo raccoglie dei sacchetti di plastica con dentro della terra. Un modo come un altro per esorcizzare la nostalgia della casa natia. Portarsi appresso un po’ della terra sulla quale sei cresciuto. Poi quel che resta di bibbie, corani, calendari e libri di poesie divorati dall’acqua salata. Sui muri, le mensole erano riempite di piatti, scodelle, pentole... e ancora tanti oggetti personali come lamette da barba, spazzole, giocattoli, collanine e bracciali... Mi è tornato in mente un ricordo che credevo assopito: il museo dello sterminio che ho visto al campo di concentramento di Auswitch. Nel lager come nei barconi. Vite spezzate dalla violenza di un sistema delirante.
Domenica mattina, sempre sotto una pioggia battente, l’ultima assemblea. Quella programmatica. Gli attivisti prendono il microfono per spiegare come intendono mobilitarsi per far sì che la Carta di Lampedusa non rimanga solo una carta. Ciascuno a partire dai linguaggi e dalle sensibilità che gli sono propri. Voci che si mescolano a quelle dei migranti che raccontano le loro aspettative ed a quelle degli abitanti di Lampedusa che sono intervenuti numerosi per raccontare come tocca vivere sotto la cappa di una continua emergenza militare.
Chiudiamo la sera tardi appena in tempo par fare una visita al Cara, prima che tramonti il sole. Non ci sono “ospiti” forzati in questo momento. E’ solo un grande e freddo edificio di cemento armato vuoto. Eppure le forze dell’ordine e l’esercito lo presidiano come se fosse l’ultimo bastione strategico di chissà quale guerra. Gli giriamo attorno e i militari ci seguono passo dopo passo, segnalando i nostri spostamenti con le trasmittenti. Vado a vedere il famoso buco sulla recinzione sud e che fungeva da “porta secondaria”, ipocritamente tollerata dalle autorità che preferivano far finta di non vedere per non scatenare rivolte. E’ ancora là a testimoniare quanto sia assurdo, oltre che inumano, il voler pretendere di risolvere una questione sociale con criteri militari.
Non è un bel vedere il Cara di Lampedusa. Nessun Cie, nessun Cara lo è. Più volte negli incontri di stesura della Carta è stato ribadito, dagli attivisti della campagna LasciateCientrare come da tutti gli altri, che queste prigioni di cemento armato non possono essere umanizzate ma solo abbattute. Chiudere i Cie ancora attivi ed impedire che vangano riaperti quelli chiusi sarà una delle prima battaglie da fare. Perché l’avventura della Carta di Lampedusa, statene certi, è solo cominciata.
“Libertà di movimento e chiusura dei Cie”, approvata la Carta di Lampedusa
3/02/2014Frontiere News
Sono tanti però. Almeno trecento, forse trecento e cinquanta. E ognuno di loro è un’isola nel variegato (e qualche volta pure rissoso) arcipelago associativo che spazia dall’antirazzismo all’accoglienza passando per i diritti umani. Sono arrivati a Lampedusa dopo viaggi con tre o anche quattro scali aerei. Alcuni vengono dall’Olanda, dall’Inghilterra o dalla Germania, come gli attivisti di “Lampedusa in Hamburg”. Altri anche dal nordafrica. La maggior parte però, per una questione di vicinanza, sono italiani.
Tutti hanno accolto l’appello lanciato dal Progetto Melting Pot appena dopo la tragedia del 3 ottobre di ritrovarsi a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per disegnare assieme le “frontiere” di una Europa senza frontiere. Una Europa che garantisca il diritto d’asilo ai profughi e il diritto di tutti alla libera circolazione.
Perché proprio a Lampedusa? Lo ha spiegato bene Giusi Nicolini. Lampedusa, ha commentato la sindaca intervenendo all’assemblea, è un perfetto paradigma di come l’attuale politica sulle migrazione violi non solo i diritti dei richiedenti asilo ma anche delle popolazione costrette a vivere l’eterna emergenza delle aree di confine. “Non c’è una sola Lampedusa in Europa e neanche nel mondo. Sono tante le Lampeduse nel mare Mediterraneo, così come tra l’Australia e le Filippine. Tutte queste Lampeduse vogliono che il diritto di asilo diventi effettivo, che la tratta venga combattuta da un modo diverso di affrontare le politiche migratorie. Tulle le lampeduse del mondo chiedono di rovesciare un linguaggio politico che continua ad essere imprigionato dentro le gabbie sicurtarie. Non ci sarebbe bisogno di Mare Nostrum se ci fossero forme diverse e più agili per concedere il diritto di asilo”.
Nelle sala dell’aeroporto di Lampedusa, la sola in tutta l’isola abbastanza ampia per provare a contenere tutti i partecipanti, le assemblee si sono susseguite dalla mattina presto a notte fonda. Sono stati, diciamocelo pure, tre giorni duri anche perché non è stato affatto facile tenere insieme realtà vicine nei principi ma lontane per provenienza, non solo geografica.
Sabato sera però, la Carta di Lampedusa è diventata una realtà. La sua versione definitiva, frutto di un percorso partecipato lungo circa tre mesi e costruito via web attorno ad un documento wiki di scrittura condivisa, la potete scaricare dal sito meltingpot.it.
“E’ importante sottolineare che la stesura della Carta non esaurisce il nostro cammino, anzi - ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot, appena dopo la chiusura definitiva del documento - E’ stato un lavoro collettivo ma eccezionale. Un testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica. Il frutto di uno sforzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre in tanti e diversi, a partire da quelle per l’immediata chiusura dei pochi centri di detenzione ancora attivi in Italia. Ma anche un periodo in cui affrontare l’Europa e le politiche che ha costruito nel Mediterraneo. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere”.
"L'accoglienza che vogliamo non è una utopia"
2/02/2014Il Manifesto
La grande partecipazione, sostiene la sindaca, dimostra che la Carta di Lampedusa ha già raggiunto il suo primo obiettivo e si è rivelata un utile strumento per aggregare “un mondo di persone che su temi come le migrazioni, la lotta alle mafie e le battaglie per i diritti umani ha fatto una ragione di vita”.
L’unicità dell’isola, continua Giusi Nicolini, non sta solo nella sua geografia ma anche e soprattutto nel coraggio con cui ha affrontato situazioni difficili. “Anche il papa, quando è venuto a trovarci, non ha cessato di stupirsi nel constatare cosa ha saputo donare in termini di accoglienza questa piccola comunità. Credete che non è retorica o vanagloria affermare che la nostra isola, così piccola e così sola, ha saputo affrontare flussi per noi enormi di migrazioni. Lampedusa ha dimostrato quando sia cinico, ipocrita e pure falso sostenere che la grande Europa non possa accogliere le persone che sono passate di qua. Lampedusa ha saputa far cadere il velo della menzogna di politiche sicurtarie che alimentano e allo stesso tempo si nutrono di paure ingiustificate. Quelle stesse politiche che hanno fatto scempio dell’immagine che aveva la mia bella isola. Lampedusa ha saputo accogliere e come lo ha fatto in passato, lo saprà fare anche in futuro. Ma deve essere chiaro che anche l’Europa lo può e lo deve fare”.
Chiudersi in una fortezza, avverte la sindaca, non servirà a difendere e a far sopravvivere una economia in profonda crisi. “Così come non servirà negare il diritto all’accoglienza a coloro che prima di tutto sono naufraghi delle politiche di sviluppo che l’Europa ha scelto per il loro Paese”.
Le frontiere, continua Giusi Nicolini, non possono limitare il diritto ad una vita degna. “Non c’è una sola Lampedusa, in Europa e nel mondo. Sono tante le Lampedusa nel mare Mediterraneo così come tra l’Australia e le Filippine. Tutte queste Lampedusa vogliono che il diritto di asilo diventi effettivo, che la tratta venga combattuta e resa inutile da un modo diverso di affrontare le politiche migratorie. Non ci sarebbe bisogno di Mare Nostrum se ci fossero forme diverse e più agili per concedere il diritto di asilo”.
Lampedusa quindi come perfetto paradigma per rovesciare un linguaggio politico che continua ad imprigionarsi dentro gabbie sicurtarie. “Lampedusa deve trasformarsi in quel modello che in nuce già è. Non più una frontiera militarizzata, sostenuta da navi cisterna e sotto il giogo di una continua emergenza, ma un luogo che possa dimostrare a tutte le Lampeduse del mondo come potrebbero essere: la porta di ingresso per un accoglienza dignitosa in cui anche i diritti degli abitanti siano rispettati. Se solo imparassimo a guardare al fenomeno della migrazione in modo diverso, basandosi più sui dati che sulle nostre paure...”
La Carta di Lampedusa, afferma la sindaca, ha tutte le potenzialità per dare le ali a questa che non è solo una utopia. “Noi che viviamo in questo piccolo scoglio perso in mezzo al mare - conclude tra gli applausi sia degli attivisti che dei residenti - sappiamo bene che non ci sono sogni impossibili. E se siete venuti sino a qua, lo sapete bene anche voi. Per questo, sono sicura che ci sorprenderete”.
Il patto solidale di Lampedusa
2/02/2014Il Manifesto
Solo venerdì, durante la riunione introduttiva dei lavori, i partecipanti registrati erano oltre trecento. Questo primo incontro ha fornito una importante occasione di confronto con gli abitanti desiderosi di raccontare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si trasforma in emergenza. L’intervento della sindaca, Giusi Nicolini, di cui raccontiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rappresentanti degli imprenditori e di alcune associazioni locali.
“La gente di Lampedusa non ne può più di tutti quei politici che vengono qui a far passerella: promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi - confessa Angelo Mandracchia, portavoce degli imprenditori -. Il vostro approccio però è diverso. Non pretendete di insegnarci come fare accoglienza. Non promettete niente. Criticate queste politiche migratorie che scaricano tutto il problema sulle piccole comunità di frontiera. E noi di Lampedusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratorie sono inutili, costose e sconfitte in partenza. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo realizzare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, se fossero invece investiti per una vera accoglienza e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?”
La straordinaria partecipazione con la quale i lampedusani hanno accolto gli attivisti sbarcati nella loro isola da tutta Italia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nordafrica, è proprio la prima nota da sottolineare. Le iniziali diffidenze sono state superate in tanti incontri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavolini dei bar e delle pasticcerie. Un confronto utile per capire come Lampedusa stia vivendo questa sua altalenante e schizofrenica condizione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo.
Perché la bella Lampedusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la presenza militare in città è a dir poco asfissiante. Le strada principale che attraversa il paese, la pedonale via Roma, è continuamente attraversata in senso perpendicolare da camionette e da blindati dei carabinieri. Sui muri, si contano a decine e decine i cartelloni con la scritta “Zona militare. Vietato l’accesso”. E poi elicotteri, militari in assetto da guerra, guardie di finanza, polizia di frontiera. Impossibile anche fotografare il “cimitero” dei relitti, quanto resta cioè dei barconi che trasportavano i profughi, che ha subito qualche giorno fa un tentativo di incendio da parte di ignoti. L’area è presidiata da militari che allontanano immediatamente i curiosi. E se spieghi che sei un giornalista ti rispondono: “Proprio per questo”.
Sabato invece è stato il giorno della scrittura della Carta, iniziata in una sala sempre più stretta che non ha smesso di riempirsi per tutta la mattinata e che faticava a contenere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma definitiva tutti i capitoli che costituiranno la Carta di Lampedusa e sui quali, vale la pena ricordarlo, è stato svolto nei mesi precedenti un grande lavoro di scrittura collettiva sul web. Una lunga e faticosa giornata di discussioni e di aggiustamenti, tanto per chi forniva il suo contributo alla stesura del documento che dei tanti attivisti impegnati sul fronte della comunicazione per aggiornare blog, siti e social network.
Anche perché, le realtà presenti erano davvero tante. Ed è proprio questo il secondo punto da evidenziare. La grande mobilitazione creatasi attorno all’appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa. Associazioni, italiane ma anche europee e nordafricane, laiche e cattoliche, movimenti, sindacati, media indipendenti, singoli cittadini ma anche inviati di amministrazioni comunali sensibili al tema... praticamente l’intero arcipelago antirazzista che ruota intorno ad un Euromediterraneo disegnato sulle “frontiere” della libera circolazione.
“E’ importante sottolineare che la stesura della Carta non esaurisce il nostro cammino, anzi - ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot, appena dopo la chiusura definitiva del documento - E’ stato un lavoro collettivo ma eccezionale. Un testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica. Il frutto di uno sforzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre in tanti e diversi, a partire da quelle per l’immediata chiusura dei pochi centri di detenzione ancora attivi in Italia. Ma anche un periodo in cui affrontare l’Europa e le politiche che ha costruito nel Mediterraneo. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere”.
Questi giorni a Lampedusa. L’isola dell’accoglienza
1/02/2014Global Project
All’aeroporto di Lampedusa, ci hanno dato la più grande che avevano a disposizione ma ancora non basta. Solo ieri, giornata introduttiva dedicata alla presentazione delle tantissime associazioni presenti e al saluto della sindaca, si sono registrate oltre 250 persone. Altre se ne stanno aggiungendo ora, altre ancora arriveranno sugli aerei del pomeriggio per l’incontro conclusivo sulla Carta e partecipare l’assemblea programmatica che si svolgerà domani mattina.
La prima nota da sottolineare quindi, è la grande mobilitazione che si è creata attorno all’appello di Melting Pot, cui va dato il merito di aver saputo interpretare e dare voce al diffuso disagio provocato dal fallimento delle attuali politiche migratorie.
Il secondo punto che vogliamo evidenziare è la straordinaria accoglienza riservataci degli abitanti di Lampedusa inizialmente, diciamocelo pure, quantomeno scettici di fronte all’ennesima “invasione” della loro bella isola. Niente battaglioni di giornalisti al seguito di politici non richiesti, ma decine e decine di “strani” personaggi, attivisti giovani e meno giovani, provenienti da tutta Europa per lo più con un sacco a pelo sulle spalle.
E’ bastato qualche volantinaggio la diffusione della lettera ai residenti e, più di tutto, le chiacchierate che in questi ultimi giorni abbiamo fatto ai tavolini dei bar e delle pasticcerie, per far capire a tutti chi eravamo e cosa volevamo.
“Eravamo pronti a contestarvi perché non ne possiamo più di gente che viene qui a far passerella, promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi - confessa un rappresentante degli imprenditori dl Lampedusa - Ora invece siamo pronti a collaborare alla stesura della Carta e anche a metterci la firma. Siamo i primi a poter dire, proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratoria sono sconfitte in partenza, scaricano tutto il problema su pochi posti di confine come la nostra Lampedusa ed inoltra sono costosissime. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo fare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, non solo nell’accoglienza ma anche per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?”
Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’intervento della sindaca Giusi Nicolini che ha aperto l’assemblea ringraziando i presenti. “Questa piccola isola così piccola e così sola ha saputo affrontare emergenze indescrivibili. Noi, più di tutti, possiamo affermare quando sia ipocrita e falso dire che l’Europa, così grande, non possa accogliere degnamente queste persone costrette a scappare da Paesi in guerra. Lampedusa l’ha fatto e lo farà. L’Europa lo può e lo deve fare”.
Adesso, mentre scrivo, al tavolino delle registrazioni continuano ad arrivare persone. Dentro procede la discussione e gli attivisti di Melting hanno approntato un servizio di traduzione simultaneo in francese e uno in tedesco, mentre sul muro viene proiettato il testo in inglese.
Entro sera bisogna arrivare alla stesura finale della Carta e alla sua ratifica.