In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Satellite comunicazione

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Da Padova a Lampedusa in auto. Le nuove frontiere della comunicazione sono anche questo: attraversare la penisola con un' antenna satellitare sul tetto dell'auto, per consentire a chi non potrà raggiungere l'isola di seguire le giornate della Carta di Lampedusa.
Sono partiti lunedì da Padova per raggiungere Napoli ed imbarcarsi per la Sicilia. Poi in auto da Palermo a Porto Empedocle per prendere un'altra nave fino all'isola.
I nuovi strumenti di comunicazione hanno avuto fin dall'inizio un ruolo fondamentale per la Carta di Lampedusa. Ma le assemblee on-line ed il documento scritto collettivamente attraverso il docuwiki pubblico sono stati solo il preludio. E' intorno alla tre giorni sull'isola che la comunicazione indipendente cercherà di spingersi oltre, con una connessione satellitare messa a disposizione da Sherwood.it.



La diretta delle assemblee potrà essere seguita in streaming su www.meltingpot.org, mentre sabato 1 e domenica 2 febbraio, alle 21.30, andranno in onda due trasmissioni dedicate all'isola di Lampedusa ed ai confini dell'Europa. Due grandi co-produzioni lanciate da Sherwood che raccoglieranno i contributi e le immagini messe a disposizione da ZaLab e moltissimi artisti, seguite dallo visione gratuita di “Mare Chiuso” di Andrea Segre e Stefano Liberti e del film/documentario “I nostri anni migliori” di Matteo Calore e Stefano Collizzolli.
Chi poi vorrà seguire approfondimenti, interviste e commenti potrà farlo attraverso i tanti media indipendenti e non che saranno sull'isola. Globalproject, Dinamopress, Amisnet, Qcode Magazine, Radio Onda D'Urto, Radio Roarr, Left Avvenimenti, Corriere delle Migrazioni, solo per citarne alcuni. Ed ovviamente dalle pagine di questo giornale. Tutti impegnati a dare voce a questa sfida lanciata contro i confini dell'Europa. Insomma, chi non è riuscito a raggiungere l’isola può stare tranquillo. “Stay tuned”, resti connesso e non si perderà una parola.

Cie. La mappa del fallimento

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L'ingresso immediato e sicuro di chi fugge dai conflitti, la necessità di uno stravolgimento delle politiche di accoglienza a livello comunitario, l'azzeramento delle risorse destinate alle operazioni militari/umanitarie di controllo dei confini, il completo rovesciamento delle condizioni che legano il soggiorno al lavoro, la libertà di circolazione interna allo spazio europeo. Sono questi alcuni dei punti cardine della Carta di Lampedusa. La sfida più importante è però quella che comincerà alla conclusione dei lavori sull'isola, quando questi nodi si dovranno trasformare in agenda programmatica su scala euromediterranea. Certamente uno dei temi più caldi su cui si misureranno movimenti e associazioni è quello della detenzione amministrativa in Italia. Secondo il Viminale sono 13 i centri in esercizio sul territorio nazionale. Quelli di Serraino Vulpitta, Brindisi, Crotone e Bologna, sono ufficialmente chiusi in attesa di riaprire.

Il Cie di Modena è stato definitivamente cancellato, mentre la struttura di Lamezia Terme (Cz) non è operativa perché i locali non risultano idonei alla destinazione d'uso. A questi si aggiunge la recente chiusura temporanea del centro di Gradisca d'Isonzo (Go) e lo svuotamento, nei fatti, del Cie di via Corelli, a Milano, dove i posti disponibili sono ormai ridotti all'osso. Quelli costruiti nel 2011 a Santa Maria Capua Vetere e Palazzo San Gervaso, pur attivi, sono in attesa del completamento dei lavori di adeguamento, mentre per il Cie di Milo si prospetta la chiusura definitiva. Tutti gli altri operano invece con capienza ridotta a seguito dei danneggiamenti prodotti dalle rivolte. La prima scommessa per i movimenti che si ritrovano a Lampedusa si gioca proprio intorno a questa mappa, che rappresenta il fallimento delle politiche europee in materia di immigrazione. Le occasioni non mancheranno già nelle prossime settimane. I fronti caldi saranno Ponte Galeria e via Mattei a Bologna, dove si riaprirà la partita per la chiusura del primo e per la dismissione definitiva del secondo. E poi ancora al Mega Cara di Mineo, simbolo di un sistema di accoglienza disastroso e speculativo che, su tutto il territorio nazionale, dopo i nuovi arrivi dalla Siria e dal Corno d'Africa, rischia di gonfiare nuovamente le tasche di speculatori ed affaristi sulla pelle dei migranti.

A Lampedusa per cambiare l'Europa

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Quanta gente è passata da Lampedusa in questi anni. Tanti turisti, tanti migranti, ma anche tante persone indesiderate seguite da scorte e da giornalisti, pronte a versare lacrime davanti alle telecamere e a dispensare promesse mai mantenute. Ma questa volta no. Questa volta, in quest'isola al centro delle rotte forzate del Mediterraneo, si respira un'altra aria. E' gennaio ma sono arrivati a Lampedusa in tanti, giovani e meno giovani, donne e uomini. Vengono da tutta Italia, ma ci sono anche greci, francesi, tedeschi, nordafricani. E' impossibile confonderli con dei turisti. Hanno scelto di incontrarsi qui perché, nonostante la strage del 3 ottobre scorso, l'Europa non ha smesso di investire miliardi nella politica del confine. Sullo sfondo rimane così una vera e propria geografia della morte, disegnata con il denaro di tutti, che negli ultimi venticinque anni ha causato perlomeno ventimila vittime. Da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio Lampedusa sarà però al centro di un'altra storia. Tre giorni di lavoro intensi, fatti di assemblee ed incontri, di discussioni e confronti, per scrivere quella che si chiamerà “la Carta di Lampedusa”. Un patto Euromediterraneo che proprio a partire da questo luogo condannato e abbandonato dai governi di ogni colore, lancia la sfida ai confini dell'Europa.


Tra i promotori della Carta di Lampedusa c'è Melting Pot. Incontriamo Nicola Grigion che da qualche giorno è sull'isola. “Questa è una grande occasione per ripartire insieme – ci dice. La Carta nasce dopo una tragedia, ma è frutto di un decennio di battaglie antirazziste, un patrimonio costruito dalle lotte dei migranti e da chi si è opposto all'uso del diritto come uno strumento da imporre con arbitrio. E può diventare un vero e proprio patto costituente, un orizzonte comune dentro cui muoversi in molti e diversi.” I temi scottanti ci sono tutti. La bozza di documento che verrà discussa non lascia spazio ad ambiguità e combina spinte utopiche ad una giusta dose di concretezza. Non è però una proposta di legge. Apre dei campi di tensione che nei prossimi mesi saranno al centro dell'agenda dei movimenti e probabilmente anche della politica. Ci sono le elezioni europee e per forza di cose tutti dovranno fare i conti con la questione migrazioni. “Il periodo elettorale rischia di regalarci una sequenza di annunci e retoriche – continua Grigion. “Ma può essere anche una grande occasione per i movimenti di aprire varchi. Le forze che governano l'Unione non possono cedere su questi temi. Al massimo cercano di trovare nuovi modi per rilegittimarne la gestione dei confini. Perché per l'Europa, così come l'abbiamo conosciuta finora, i confini sono un punto cardine. Ma noi non possiamo più accettare uno spazio europeo in cui esiste una gerarchia della cittadinanza, perché in questa vicenda vengono meno i diritti di tutti”.
L'appuntamento sull'isola raccoglie un ampio spaccato del variegato arcipelago dei movimenti e dell'antirazzismo. Una composizione meticcia, fatta di piccole e grandi associazioni, di centri sociali ed altre realtà auto-organizzate, di movimenti per la casa e sindacati, di Ong e centri culturali, di media indipendenti e collettivi studenteschi. Ci sono i rifugiati che da mesi sono accampati in piazza ad Amburgo ed i parenti delle vittime dei naufragi del 2011, c'è il mondo laico e quello cattolico, ci sono docenti e giuristi. Sono tanti, diversi, ma anche in questi giorni in cui la politica italiana discute l'ipotesi di cancellazione del reato di clandestinità, non sembrano aver voglia di accontentarsi delle briciole. Vogliono andare fino in fondo. Come Pamela Marelli, dell’Associazione Diritti per Tutti. In questi anni, a Brescia, è stata al fianco dei migranti che hanno lottato contro la sanatoria truffa e per il diritto alla casa. Trova che l'evento sia un fatto inedito. “Ricordo che, dopo la strage, tutti i politici giuravano che la Bossi Fini sarebbe affondata assieme a quel barcone. Ed invece siamo ancora qui ad aspettare qualcosa di concreto. Ora tocca a noi dare un segnale forte. Un segnale dal basso e allargato. “Finalmente, Lampedusa non sarà più solo l’isola delle emergenze ma un vero e proprio trampolino per una nuova Europa”. Anche il processo che ha portato alla costruzione dell'incontro ha avuto risvolti innovativi. Nulla a che vedere con la democrazia della rete tanto cara al M5S. Le assemblee si sono svolte on-line grazie ad un sistema di web-conference messo a disposizione da Global Project. E da oltre settanta città italiane centinaia di persone, in carne ed ossa, hanno partecipato a discussioni accese per preparare l'evento. La stessa bozza della Carta è stata redatta da un'infinità di mani attraverso una piattaforma di scrittura condivisa. La tre giorni si aprirà venerdì pomeriggio con Giusi Nicolini che insieme agli studenti, alle associazioni ed agli abitanti dell'isola, racconterà la vita quotidiana di un luogo dimenticato da tutti, dove in pochi giorni può nascere una struttura miliare ma non c'è modo di sistemare la scuola o di costruire un vero ospedale. Sabato invece l'intera giornata sarà dedicata alla stesura definitiva della Carta, mentre per domenica mattina è prevista l'assemblea plenaria in cui si discuterà una possibile agenda comune per i mesi futuri. Ed è proprio la ricerca di un orizzonte unitario ad essere il vero punto centrale della Carta di Lampedusa. Perché se la tragedia del 3 ottobre ha reso evidente il fallimento e la violenza delle politiche in materia di immigrazione, ha anche imposto un nuovo inizio ai movimenti che contro quelle politiche si sono battuti. “Da vecchio comboniano - dice Alberto Biondo dei Laici Missionari di Palermo - lasciatemi dire che trovo questo progetto sacro. Se la politica si permette di fare le porcherie che fa, e prendere in giro i cittadini, è perché siamo disgregati. Uniti invece facciamo paura”. Ed anche Edda Pando di Arci Todo Cambia e Prendiamo la Parola è sulla stessa lunghezza d'onda. “Dobbiamo uscire da questo eterno essere minoranza e costruire un pensiero che diventi maggioranza. Il problema è quello di trovare delle convergenze. Il che non significa giocare al ribasso. Ma sono vent’anni che non vinciamo niente e, anche al di là delle tragedie che si susseguono, le condizioni dei migranti peggiorano di giorno in giorno”. Ma come accoglierà la gente dell’isola l’invasione di questa moltitudine di persone che non ha timore di dire che vuole cambiare l'Europa? “Nel 2006 arrivammo a Lampedusa in 600 e gli isolani non volevano farci sbarcare – racconta Alfonso Di Stefano della Rete antirazzista catanese - “dopo dieci giorni di lavoro e confronto si unirono a noi nel corteo contro il CIE. Capirono che i loro diritti e quelli dei migranti non sono contrapposti, anzi”. Tra i temi caldi c'è quello della militarizzazione dei territori che, a Lampedusa come nel resto della Sicilia, è all'ordine del giorno. “Credo sia importante dire questo: accogliamo i migranti ed espelliamo le basi” - aggiunge l'attivista di Catania.
Ognuno con il suo punto di vista, ognuno con la sua ambizione, tutti con un' incredibile voglia di rimettersi in gioco in quello che si candida ad essere un nuovo possibile spazio pubblico per la sinistra. Ma se qualcuno pensa a questo documento come una tra le tante dichiarazioni dei diritti scritte nel secolo scorso e poi rimaste sulla carta, si sbaglia di grosso. La sfida più importante è proprio quella che si giocherà nei prossimi mesi, quando la Carta di Lampedusa dovrà misurarsi con la sua possibilità di essere realizzata. “Nessuno ci regalerà nulla – conclude Grigion. La Carta di Lampedusa non è una sintesi, ma un motore. Il nostro futuro è fatto di battaglie concrete contro i confini, quelli che uccidono, come a Lampedusa, ma anche quelli che costringono tutti noi a vivere in un' Europa fatti di ricatti, austerity ed esclusione. Si apre un terreno di ricerca vero e collettivo. Tutti dicono di volere un'altra Europa ma non ci sono scorciatoie. Per costruirla dobbiamo essere in tanti e noi iniziamo a farlo da Lampedusa.

Condannato attivista. Aveva pulito una discarica in un parco naturale “patrimoniio dell’umanità”

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Cinque giorni di galera per aver ripulito un parco da una discarica abusiva! Avete presente il principio “Chi inquina, paga”? Beh, ad un attivista del comitato in difesa della valle del Mis è accaduto il contrario. Due mesi dopo l’iniziativa che ha visto un centinaio di attivisti entrare e ripulire l’ex cantere della ditta Eva Valsabbia, ridotto oramai ad una vera e propria discarica aperta sotto il bel cielo delle Dolomiti, è arrivato un decreto penale di condanna disposto dal Giudice per le Indagini Preliminari Vincenzo Sgubbi che prevede l’arresto per una durata di cinque giorni corrispondente alla pena pecuniaria di 1.360 euro. Una vicenda che ha dell’incredibile. La stessa Corte di Cassazione ha definito quel cantiere illegittimo in quanto, sorge su terreni che si sono dimostrati legati ad uso civico e che la ditta ha acquistato senza i relativi permessi edilizi. Terreni, quindi, inalienabili ma che sono stati ugualmente per costruire una centrale idroelettrica, opera tra l’altro vietata all’interno di un Parco Nazionale. Un parco che, tra le altre cose, è stato anche dichiarto dall’Unesco “Patrimonio mondiale dell’Umanità”.


Eppure, nonnostante la sentenza della cassazione che dà ragione agli ambientalisti, l’area non è ancora stata bonificata: la spazzatura rimane abbandonato lungo le aree del cantiere in balia degli agenti atmosferici col rischio che il materiale possa disperdersi nell’ambiente.
L’iniziativa degli attivisti aveva proprio lo scopo di sollecitare le autorità ad accelerare la procedura di ripristino dei luoghi. Teniano anche presente che esiste il rischio che dalla commissione ambiente del Senato arrivi qualche Legge in deroga” (escamotage per la quale il nostro Paese è tristemete famoso in tutta Europa) che modifichi la legge quadro sulle Aree Protette, mercificandole e consentendo, se non addiruttura incentivando, la realizzazione di centrali idroelettriche. E ci va bene che il nucleare lo abbiamo respinto con un referendum altrimenti…
Fatto sta l’operazione di bonifica non è piaciuta alla magistratura che, notizia recente, ha provveduto ad incriminare un attivista.
Immediata la solidarietà del comitato Bene Comune di Belluno che ha ribadito la corresponsabilità collettiva. Come dire: se ne incrimitate uno, dovete incriminarci tutti.
“Paradossalmente, - leggiamo in una nota diffusa dal comitato - i primi a pagare rispetto a questa vicenda non sono coloro che hanno contribuito, con violenza, a deturpare irrimediabilmente una parte di quella valle unica al mondo, ma coloro che hanno e stanno lottando per difenderla. Ma continueremo questa battaglia contro gli speculatori dell’acqua e tutte le sue forme di privatizzazione con sempre maggiore determinazione, consapevoli delle nostre ragioni e forti di un ampio consenso che accompagna il nostro percorso”.
L’Europa intanto non sta a guardare. La Commissione Europea, a seguito del ricorso degli ambientalisti che hanno denunciato l’iper-sfruttamento idroelettrico delle valli bellunesi, ha ufficialmente richiesto chiarimenti alle autorità italiane sui loro iter procedurali quantomeno “originali”.

Porto Tolle, vittoria degli ambientalisti. I periti del tribunale chiedono all’Enel 3,6 miliardi di euro di risarcimento

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Abbiamo vinto. Non ci capita spesso di vincere, diciamocelo pure, ma stavolta abbiamo proprio vinto. L’Enel, sulla sua centrale a carbone “pulito” nel cuore del parco del Delta, ci può anche mettere una pietra sopra. E, oltre alla pietra, dovrà anche mettere una mano in tasca per tirare fuori il portafoglio, se il tribunale confermerà la perizia dei tecnici del’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che hanno quantificato in 3 miliardi e 600 milioni i risarcimenti per danni ambientali e sanitari causati da questo suo impianto di Porto Tolle.
La perizia è stata richiesta dal Tribunale di Rovigo che ha messo a processo il colosso energetico con l’accusa di disastro ambientale. L’enorme importo risarcitorio che non ha precedenti in Italia e che, per la prima volta si attiene al principio “chi inquina, paga”, è stato calcolato quantificando in 2,6 miliardi per la mortalità in eccesso e nel rimanente miliardo i danni ecologico per mancata ambientalizzazione. Le emissioni di anidride solforosa rilasciate dalla centrale di Porto Tolle, che da sola copriva un decimo di tutte le emissioni italiane, sono state ritenute una causa scatenate di danni all’apparato respiratorio e di malattie anche mortali dei residenti nelle vicinanze, in particolare dei bambini. Per quanto riguarda la mancata ambientalizzazione, l’Enel è accusata di non aver mai provveduto a modernizzare i vetusti impianti di combustione a olio per ricondurre le emissioni entro i limiti stabiliti dalle normative anti inquinamento, sforando le prescrizioni contente nel decreto ministeriale del 12 luglio del ’90 grazie a deroghe e scappatoie.



La sentenza di questo processo che è stato chiamato dalla stampa “Enel bis” è prevista per il prossimo marzo. Secondo il legale di tante associazioni ambientaliste che si sono costituite parte civile, Matteo Ceruti, il caso potrebbe creare un importante precedente per tanti altri procedimenti ambientali pendenti nel territorio italiano che riguardano riconversioni e ambientalizzazione mai avvenuti, così come per il risarcimento delle vittime dei disastri ecologici.
“Chi inquina, paga” insomma, non sarà più solo una utopia.
E la sconfitta per l’Enel non arriva solo dal tribunale. Il Ministero ha confermato che le osservazioni depositate dagli ambientalisti in merito alla incompatibilità del progetto di conversione a carbone con le norme comunitarie che tutelano il Delta del Po, sono state ritenute valide. Sui siti della rete Natura 2000 come è appunto il Delta del Po non ci sono alternative all'ipotesi di “minor impatto” ambientale per quanto viene là realizzato. E “minor impatto”, nel caso di una centrale, significa solo metano. Non certo, l’ossimoro preferito dei dirigenti Enel: “carbone pulito”!
“Se l’Enel vorrà riaprire a carbone la centrale di Porto Tolle - ha dichiarato Eddi Boschetti, presidente provinciale del Wwf di Rovigo - dovrà ripartire da zero, presentando un progetto completamente diverso da quello che prevedeva l’uso del carbone”. Come dire che per i prossimi vent’anni possiamo stare tranquilli: la centrale di Porto Tolle non inquinerà più né il parco del Delta, né la nostra salute. “A conti fatti, potremmo anche ringraziare l’Enel - continua l’ambientalista - che non ascoltò mai i nostri moniti. Se ci avesse dato retta avremmo da anni a che fare con una centrale a turbogas che di impatti ne avrebbe comportati comunque più di una centrale spenta definitivamente”.
Un grazie sincero invece a quanti - associazioni, movimenti e cittadini - si sono mobilitati, rischiando anche denunce e ritorsioni, per difendere il Delta. Non fosse stato per loro, ora avremmo nel bel mezzo di un parco naturale, un mostruoso impianto che brucia carbone.
“Resta sullo sfondo - conclude Boschetti - la triste constatazione che senza la lotta serrata di associazioni e comitati a livello tecnico e legale, le norme vigenti non avrebbero avuto nessun altro difensore. Comune, Provincia, Regione, persino vari ministri di colore politico diverso in tutti questi anni non si sono mai avventurati oltre la dichiarazione populista, guardandosi bene dall'entrare nel merito delle elementari violazioni di legge che erano evidenti fin dall'inizio”.
Come diceva Che Guevara, quello che non facciamo da noi, nessuno lo farà per noi.

Rilanciare il “30 novembre. Comitati da tutto il Veneto in assemblea a Padova

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Tanti cuori per un solo obiettivo: rilanciare in positivo quello che oramai è stato chiamato “movimento del 30 novembre” e trovare una strada condivisa per imprimere una sterzata ambientalista ad un governo regionale che, anche nelle ultime scelte politiche in tema di viabilità, si riconferma più che mai legato a vecchi schemi di sfruttamento e mercificazione del territorio e dei beni comuni.
L’incontro dei comitati - il primo dopo la manifestazione di fine novembre - si è svolto sabato pomeriggio, nella sede patavina dei Beati Costruttori di Pace. Più di un centinaio i presenti, in rappresentanza del variegato arcipelago ambientalista e movimentista del Veneto. La prima parte dei lavori è stata dedicata ad una valutazione a freddo dell’iniziativa del 30. Valutazione considerata per lo più positiva da tutti. Superata la fase delle polemiche sulla gestione del corteo, è apparso chiaro che il percorso che si vuole intraprendere dovrà essere sì condiviso nei fini, ma rispettare le specificità di ogni singola associazione, i suoi tempi, il suo linguaggio e il suo stare in piazza. Piuttosto il, continuiamo a chiamarlo così , “movimento del 30 novembre” dovrà mostrarsi il più possibile inclusivo, allargando i temi ambientali a quelli del lavoro, considerando che alla fin fine, diritti e ambiente sono due facce della stessa medaglia che un certo tipo di “sviluppo” vorrebbe macinare per ricavare reddito. O meglio. quella famosa “rendita” che, come ha osservato l’architetta Luisa Calimani, portavoce di Città Amica, sta alla base di questo capitalismo predatorio che ha inventato parole come “austerity” e concetti come “crisi”.



E, a proposito di concetti, tanto per ribadirne uno che troppo spesso cercano di farci dimenticare - intendo “la lotta paga” - riportiamo una osservazione di Beppe Caccia. “La manifestazione del 30 ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito politico temi che erano nella nostra piattaforma di lotta. Pensiamo solo al problema dei pedaggi autostradali di cui ora si fa un gran discorrere. Sono convinto che sia anche merito delle nostre mobilitazioni se ora due miti che ci erano stati inculcati come quello che il project financing non ci costa nulla e che le autostrade risolvono il nodo della viabilità, hanno mostrato tutta la loro inconsistenza”.
Archiviato quindi il bilancio positivo dell’iniziativa di novembre, resta da decidere quali strumenti utilizzare per buttare ancora una volta il cuore al di là della barricata. Per Oscar Mencini, che ha auspicato uno “svecchiamento” del sindacato sui temi ambientali, non è mai troppo tardi, ha sottolineato la necessità di “diffondere saperi e conoscenze, incrociando saperi sociali con conoscenze scientifiche” allo scopo di allargare la base critica. “E’ importante includere ma anche evitare di radicalizzare lo scontro” ha sostenuto. Una strada interessante, pur se non pare abbia suscitato grandi applausi in sala, è stata quella per così dire “istituzionale” avanzata dall’urbanista Carlo Giacomini che ha proposto ad usare ancora l’arma del referendum regionale e della proposta di legge di iniziativa popolare su tutti i temi sui quali si battono i comitati, dalle cave agli inceneritori, dalla tutela delle acque a quella de paesaggio. Se è vero che tutti quelli che erano in sala possono chiamarsi a buon diritto “figli” della grande battaglia referendaria per l’acqua pubblica, è anche vero che questa strada giuridica a livello regionale potrebbe rivelarsi tecnicamente impervia, costosa e difficile da percorrere. Per ottenere inoltre risultati quantomeno incerti. (Chi scrive ricorda ancora un paio di legge di iniziativa popolare personalmente depositate 4 o 5 anni fa di cui e che sono ancora ad ammuffire in qualche armadio di palazzo Ferro Fine, sempre che l’acqua alta non se li sia ancora mangiati).
Ma il vero punto dolente di tutta la discussione di sabato è stato il rapporto tra movimenti e partiti che è come parlare di thè col latte: c’è chi non riesce a berlo senza e chi si sente venire la pelle d’oca al solo pensiero di mescolarli. Detto subito che nessuno in sala è schizzato di matto al punto di proporre di costituire un altro partito di sinistra e neppure una sorta di “comitato dei comitati”, il problema di come affrontare le prossime amministrative c’è ed è inutile nascondercelo. Cristiano Gasparetto di Ambiente Venezia, ha messo in guardia l’assemblea dal “continuare a votare gli stessi sindaci e assessori che ci hanno preso in giro e che sono causa del disastro” proponendo di costituirsi in “una lista di partecipazione”. Proposta che non ha sollevato grandi entusiasmi in sala. Gli ha risposto Mattia Donadel di Opzione Zero, ricordandogli che “oramai le decisioni non vengono più prese nei luoghi istituzionali” e che “la questione qui non è sostituire un assessore ma un intero sistema di sfruttamento dei ben comuni”.
Chiudiamo restando sul concreto con la proposta operativa avanzata da Beppe Caccia che sarà, immaginiamo, uno degli argomenti che verranno affrontati nelle prossime assemblee. In sostanza, Caccia ha proposto di organizzare una “due o tre giorni” di lotta e di informazione, che ogni comitato dovrebbe gestire nel proprio territorio con le modalità e i linguaggi che più gli sono consueti: dai gazebi al volantinaggio, dai blocchi ai sit in. Rispettando quindi specificità e sensibilità di ogni associazione. Lo scopo è quello di informare la cittadinanza nelle zone “calde” con l’accortezza di legare sempre e comunque la questione locale ad un più ampio discorso globale. Perché, se c’è una cosa che la manifestazione del 30 novembre ha insegnato a tutti è che la sindrome di Ninby è perdente e si può vincere solo se cominciamo a pensare più in grande dei nostri avversari.

La Europa de abajo busca reescribir los derechos de los migrantes

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Italia. Nadie ha olvidado aquel 3 de octubre de 2013. A pocas millas de la playa de Lampedusa, Italia, se ahogaron 368 personas. Hombres, mujeres y niños que huyeron de guerras, hambre y violencias. Todos eran refugiados de norte de África: Eritrea, Ghana e Somalia, en particular, pero también de Etiopía y Túnez. Salieron dos días antes desde el puerto libio de Misurata, en un pesquero de unos 20 metros de ancho. Estaban sólo a media milla marítima de la costa de la isla italiana, cuando un incendio en el barco -encendido probablemente para pedir ayuda a la Guardia Costera-, causó la más grande tragedia marítima del Mediterráneo desde el fin de la Segunda Guerra Mundial: 368 muertos y unos 20 desaparecidos cuya suerte todavía hay que aclarar.
Al enorme luto, el Estado italiano respondió con la vergüenza de demandar los 155 sobrevivientes, entre los cuales hay 41 menores, acusándolos de haber entrado ilegalmente en Italia, de acuerdo con las actuales leyes de inmigración. Además, no se realizó ni una sola investigación sobre los eventuales retrasos en la ayuda a los náufragos.



Aquel 3 de octubre 2013, frente a la playa de Lampedusa encontraron la muerte en el mar hombres, mujeres y niños. Se trata de migrantes en fuga que sólo buscaban un futuro, pero que encontraron una frontera. Es la frontera de guerra de una Europa militarizada que, aún después de esta tragedia, sigue invirtiendo miles de millones de euros en políticas de exclusión forzada en Lampedusa, en Melilla, con el muro de Evros y los patrullajes de la agencia Frontex; hasta invadir la soberanía de Estados terceros, exteriorizando hasta el corazón del desierto libio sus dispositivos de control.
Las fronteras sirven para dividir y nunca “pesan” sólo a una parte. También quien nació en la que puede parecer la parte “correcta” es diariamente humillado por una política cada vez más lejana de aquella idea de democracia directa y participativa que está en la base de nuestra Constitución. La marginación de grupos cada día más amplios de nuevos pobres, así como la mercantilización de los derechos laborales y de ciudadanía golpean a los migrantes en fuga, así como a quien trae en su bolsillo un pasaporte europeo en plena vigencia.
Esta no es la Europa que queremos. Este no es el futuro que soñamos. Por eso surgió la convocatoria lanzada por Melting Pot para realizar, como se lee en su sitio web, “un pacto constituyente entre muchos y diversos, un camino colectivo, un espacio común en el que cada uno tendrá la responsabilidad de preservar, cada quien con sus prácticas y sus modos, una ocasión para empezar a entender colectivamente cómo construir una geografía del cambio que vaya más allá de los confines impuestos por Europa, para transformar este manifiesto en realidad”.
Centenares son las asociaciones, italianas pero también de países de Europa y norte de África, que ya se adhirieron a la iniciativa. La cita será en Lampedusa, y se extenderá del viernes 31 de enero del 2014 al domingo 2 de febrero. El objetivo es escribir la Carta de Lampedusa y “contraponer a este estado de cosas un otro derecho, escrito desde abajo. Un derecho a la vida que ponga en el primer lugar a las personas, su dignidad, sus deseos y sus esperanzas, un derecho que ni una institución hoy logra garantizar, un derecho que hay que defender y conquistar, un derecho de todos y para todos”.
Asociaciones, movimientos y ciudadanos – la lista de quienes se adhirieron es verdaderamente muy larga como para reproducirse – están trabajando en esta iniciativa incluso desde el día después de la tragedia. Para que el proyecto se mueva en los carriles de la democracia y la participación, se usará una plataforma wiki que permite que todos puedan participar en la redacción de los documentos finales. Además, ya se realizaron varios encuentros, muchos de ellos en por conferencias web.
No hay ninguna pretensión, subrayan los organizadores, de imponer a Europa un rápido cambio de dirección sobre política migratoria. La cita de Lampedusa hay que entenderla como una ocasión de “volcar los lenguajes y los institutos impuestos por las políticas del confín” y poner las bases de un “manifiesto colectivo, un nuevo derecho que nace desde abajo”.
Un punto de salida, pues. Un trampolín para volver a escribir la geografía de Europa. Y con ella, el mapa de nuestros derechos, que son derechos de todos.

A Lampedusa per riscrivere la geografia dei diritti

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Nessuno se l’è dimenticato, quel 3 ottobre. A poche miglia dalla spiaggia di Lampedusa affogavano 368 persone. Uomini, donne e bambini in fuga da guerre, fame e violenze. Uomini, donne e bambini che cercavano solo un futuro e che hanno trovato una frontiera. La frontiera di guerra di una Europa militarizzata che, anche dopo la tragedia, continua ad investire miliardi di euro in politiche di esclusione forzata a Lampedusa come a Melilla, con il muro di Evros, i pattugliamenti di Frontex, fino ad invadere la stessa sovranità di Stati terzi, esternalizzando sino al cuore del deserto libico i suoi dispositivi di controllo.
Le frontiere servono a dividere e non “pesano” mai solo da una parte. Anche chi è nato dalla parte “giusta” del confine viene giornalmente umiliato da una politica oramai sempre più lontana da quell’idea di democrazia diretta e partecipata che stava alla base della nostra Costituzione. L’esclusione di categorie sempre più ampie di nuovi poveri, la mercificazione dei diritti del lavoro e della cittadinanza colpiscono i migranti in fuga come colpiscono chi in tasca ha un passaporto europeo in piena regola.
Non è questa l’Europa che vogliamo. Non è questo il futuro che sogniamo.



Ed è qui che nasce l’appello lanciato da Melting Pot a realizzare insieme, come leggiamo nel sito meltingpot.org, “un patto costituente tra molti e diversi, un processo collettivo, uno spazio comune che sarà responsabilità di ognuno preservare, ciascuno con le sue pratiche e le sue modalità, un’occasione per iniziare a capire collettivamente come costruire una geografia del cambiamento che vada oltre i confini imposti dall’Europa per trasformare questo manifesto in realtà”.
Sono centinaia le associazioni, italiane ma anche del resto d’Europa e dal nord Africa, che hanno già aderito all’iniziativa. Ci troveremo tutti insieme a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per scrivere quella che è stata chiamata la Carta di Lampedusa e “contrapporre a questo stato di cose un altro diritto, scritto dal basso. Un diritto alla vita che metta al primo posto le persone, la loro dignità, i loro desideri e le loro speranze, un diritto che nessuna istituzione oggi riesce a garantire, un diritto da difendere e conquistare, un diritto di tutti e per tutti”.
A questa iniziativa, associazioni, movimenti, cittadini - la lista di chi ha aderito è davvero troppo lunga per essere riportata ed inoltre è in continuo aggiornamento, ma la potete trovare facilmente nel sito di Melting Pot come nelle pagine di tutte le realtà che si sono mobilitando - stanno già lavorando sin dal giorno dopo la tragedia. Per mantenere il progetto nei binari della democrazia e della partecipazione, è stata usata una piattaforma wiki che permette a tutti di contribuire alla stesura dei documenti finali. Inoltre, sono già stati svolti svariati incontri, molti dei quali in web conference. Segnaliamo solo il prossimo appuntamento che si svolgerà materialmente a Palermo, mercoledì 18 a Diaria Didattica, via Venezia, alle ore 19.
Anche il programma della “tre giorni” di Lampedusa è in fase di definizione. Per ulteriori informazioni vi invito a raggiungerci sulla pagina Facebook “La Carta di Lampedusa”.
Nessuna pretesa, sottolineano gli organizzatori, di imporre all’Europa un repentino cambiamento di rotta sulla politica migratoria,. L’appuntamento di Lampedusa deve essere inteso come un’occasione di “ribaltare i linguaggi e gli istituti imposti dalle politiche del confine” e gettare le basi di un “manifesto collettivo, un nuovo diritto che nasce dal basso”.
Un punto di partenza, dunque. Un trampolino per riscrivere insieme la “geografia” dell’Europa. E con essa la mappa dei nostri diritti che sono i diritti di tutti.

In fondo alla speranza

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La storia inizia là dove finisce. Sotto l’albero di albicocco dove, quel 3 luglio del ’95, Alex Langer decise di farla finita. “I pesi - scriverà nell’ultima lettera - mi sono diventati davvero insostenibili”. Proprio le lettere sono le vere protagoniste del racconto a fumetti - o, per dirla all’americana, graphic novel - scritto da Jacopo Frey e disegnato da Nicola Gobbi, intitolato “In fondo alla speranza” per l’editore Comma 22. Quelle lettere che l’ambientalista e fondatore dei verdi italiani trasportava nelle sua borsa in luoghi devastati dalla guerra. Lettere di profughi, di assediati, di combattenti, di morti, di assassini, di gente in fuga. Lettere alle quali Langer continuava ad affidare la speranza di un dialogo impossibile.


In tutto il volume, Frey e Gobbi non fanno nessun accenno alla guerra dei Balcani anche se possiamo dare per scontato che la storia che si dipana attorno a questo personaggio metà reale e metà immaginato di Alex Langer si svolga proprio tra Sarajevo, riconoscibile dal tunnel attraverso il quale i suoi cittadini riuscivano a superare le linee serbo bosniache, e i villaggi in macerie della Bosnia Erzegovina. “In fondo alla speranza” non è una biografia e nemmeno prova ad esserlo. Gli autori si sono avvicinati ad Alex Langer e all’ultima tragica stagione della sua vita, con ammirabile rispetto e delicatezza. Non a caso il sottotitolo del libro è “Ipotesi su Alex Langer”. Attraverso la lettura dei suoi scritti e i racconti e le testimonianze di quanti hanno conosciuto Langer, i due giovani fumettisti esordienti - che con quest’opera si sono meritati il premio Komikazen per il fumetto di realtà - ci hanno i restituito un Alex Langer credibile, sia pure inserito in una vicenda di fantasia. Un Alex Langer che porta nella sua sacca, sempre più pesante, pacchi di lettere e sulle sue spalle i dubbi e le incomprensioni di un arcipelago pacifista in cui si riconosceva ma del quale riconosceva anche i limiti, adagiato su una sorta di “tifo sportivo” se non addirittura di colpevole neutralità, incapace di proporre concrete soluzioni alla guerra.
Il montaggio cinematografico delle tavole a fumetti e i tratti realistici della matita di Nicola Gobbi (tutto avrei detto meno che questo autore è un esordiente!) lasciano spazio, man mano che la storia scorre, alle irreali e drammatiche visioni di morte del protagonista, e ci regalano una atmosfera autunnale e pesante dove sembra che la neve debba cadere da un momento all’altro. Ma invece della neve, nelle ultime tavole del racconto, vedremo cadere solo le lettere che Alex portava nella sua sacca. Sino a quell’ultima tragica ed inevitabile lettera con destinatario “Alex Langer” che ancora mancava all’appello. “Non siate tristi e continuate in ciò che è giusto”.
La storia inizia là dove finisce. Sotto l’albero di albicocco, a pochi passi da un pozzo. Chiusa l’ultima pagina, il lettore rimane là a fissare commosso il vuoto, ed a domandarsi se, nel fondo di quel pozzo, si possa trovare ancora una speranza.

Da Mestre ad Orte. Tre giorni in bici con Opzione Zero per dire No all'autostrada

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Da Mestre ad Orte, per dire No al cemento.
In bicicletta con Opzione Zero
giovedì 5 dicembre
Domani si parte. Di buon’ora e in bicicletta. Leggeri d’animo e di bagaglio. Proprio come si conviene a dei veri viaggiatori.
Si parte per ricordare a tutti che non è la strada che fa il viaggio ma chi la percorre e come la percorre. E la strada che abbiamo scelto di percorrere è una strada che, nelle intenzioni del Governo, domani non ci sarà più. Una strada in “pericolo di estinzione” come tante specie animali gli ambientalisti stanno difendendo a denti stretti. I paesaggi, i sentieri, i corsi d’acqua, i paesi che incontreremo infatti sono minacciati dal cemento e da una politica di “sviluppo” che devasta e macina i beni di tutti in nome del profitto di pochi. Tutto questo è la nuova autostrada Mestre Orte. Una brutta storia cominciata 12 anni fa, pensata apposta per essere inserita nell’elenco dei famigerati “interventi strategici” previsti dalla legge Obiettivo appena varata dal governo Berlusconi, e quindi affidata ai soliti noti “amici degli amici” per la spartizione.



All’inizio, la Grande Opera contro la quale si era immediatamente schierato l’intero arcipelago ambientalista italiano, si era arenata per totale mancanza di copertura economica (una decina i miliardi previsti). Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo che il Governo Letta - il Governo del “fare” - ci risolve la questione e il Cipe approva l’opera. I finanziamenti che non ci sono per le scuole, per la sanità, per la ricerca o per la cultura, vengono qui recuperati a vantaggio del costruttore/politico Vito Bonsignore con la formula del Project Financing e dell’abbuono sulle tasse valido per una ventina di anni. Questo infatti è il periodo ritenuto sufficiente e necessario per completare la Grande e devastante Opera. E nel frattempo? La vagonata di miliardi sarà volentieri anticipata dalle banche. Tanto, a coprire gli interessi, ci penseranno le casse statali. Inutile che stia qui a spiegarvi dalle tasche di chi preleveranno i soldi le casse statali.
Una spesa, tra interessi e interessi sugli interessi, praticamente infinita in cambio di una strada inutile se non a cementificare da nord a sud mezzo Paese.
“L’autostrada Mestre Orte sarà lunga 396 chilometri, attraverserà cinque Regioni distruggendo territori, campagne e ambienti di pregio come la Riviera del Brenta, il Delta del Po, le Valli di Comacchio, intere vallate dell’Appennino; incalcolabili i danni in termini di consumo di suolo, aumento di frane e alluvioni, inquinamento atmosferico“ spiega Mattia Donadel, presidente dello storico comitato della Riviera del Brenta Opzione Zero che sin dall’inizio si batte contro il progetto. “Consideriamo anche che, anche a voler prescindere dall’impatto ambientale, è contestabile anche l’utilità dell’opera, considerato che il progetto non prevede la messa in sicurezza della statale Romea e che i flussi di traffico sulla SS 309 e sulla E-45 non giustificano la realizzazione di una infrastruttura da oltre 10 miliardi di euro!”
Ed è per ricordare tutto questo che gli ambientalisti di Opzione Zero e degli altri comitati che hanno aderito all’iniziativa - molti dei quali ci attendono lungo il percorso - raggiungeranno Orte in bicicletta, toccando simbolicamente tutti i 48 Comuni che rischiano di essere sventrati dalla super strada.
Ecomagazine li accompagnerà lungo tutta la strada per documentare la loro avventura con reportage giornalieri.
Domani mattina quindi tutti i bicicletta, leggeri d’animo e di bagaglio. Si parte dal municipio di Mestre alle 7 di mattina perché a gente come noi il freddo non fa paura. E nemmeno i 396 chilometri da pedalare da un Appennino all’altro. Quello che davvero ci spaventa, questo sì, è quella grigia e triste colata di cemento che non finiremo più di pagare in denaro, salute e ambiente.


Da Mestre a Cesena in bici per la prima tappa della carovana di Opzione Zero.
Tra comitati in lotta e lagune che non meritano il cemento

venerdì 6 dicembre
Cesena - Alle 5 della mattina puoi vedere lastre di ghiaccio galleggiare nelle acque scure dei canali di Venezia. In laguna è ancora buio e tira un freddo polare. Mestre non è di meno. La partenza è per le sette della mattina dalla piazzola davanti al municipio ma è meglio arrivare una mezz’ora prima per la conferenza stampa e le foto di rito. Mentre la città si illumina sotto un pallido sole che non scalda per niente, i ciclisti arrivano alla spicciolata. Gigi di Legambiente è il primo ad arrivare sopra una assurda bici ultra pieghevole con due ruote che sembrano quelle di un triciclo. Ci seguirà soltanto per una decina di chilometri. Gli altri che arrivano dalla Riviera sono più attrezzati. Il gruppo più consistente è quello al seguito di Opzione Zero, lo storico comitato della Riviera del Brenta che ha lanciato questa pazza biciclettata da Mestre ad Orte (quasi 400 chilometri in tre giorni!) per denunciare lo scempio ambientale legato alla costruzione dell’autostrada, una ennesima Grande Opera inutile e devastante. C’è anche un camper a sostegno e penso a quanto sono fortunato a dovermici sedere dentro per tutta la strada con la scusa di dover fare da ufficio stampa. Si parte alle 7 in punto con la benedizione e il sostegno, tutto morale, di Beppe Caccia, consigliere comunale della lista In Comune e unico politico venuto sino a Mestre a quell’ora infame per impartirci la sua paterna benedizione. “La battaglia dei comitati contro la realizzazione di questa autostrada in project financing è anche una battaglia di Venezia perché l’opera porterebbe altro traffico e ancora più inquinamento su tutto il nodo di Mestre”.
I ciclisti in partenza dietro a Mattia Donadel, presidente di Opzione Zero oltre che provetto ciclista, sono una mezza dozzina. Ma per tutto il percorso se ne aggiungeranno altri. Una staffetta continua e spontanea. Si comincia già a Marghera, dove un attivista dei No Grandi Navi, si accoda al gruppo e ci segue per vari chilometri sventolando la bandiera del suo (nostro) comitato. “Questa biciclettata serve anche a questo - ha commentato Mattia (senza smettere di pedalare) -: farci capire che le tante lotte dei tanti comitati sono parte della stessa battaglia”. Concetto che ritorna su ogni paese che incontriamo. Oriago, Mira, San Bruson, Campagna Lupia, Codevigo... in ogni piazza troviamo decine di cittadini che ci attendono pronti a darci sostegno con focacce, panini e bevande calde. Ci consegnano anche bottiglie di vino fatto in casa, birre artigianali, ceste natalizie con panettoni, cioccolate e torroni. Non siamo ancora arrivati a Cavazere che il nostro camper condotto da Fabrizio è più pieno della slitta di Babbo Natale. Ma non è solo la cittadinanza attiva ad attenderci. A Mira, a Codevigo, a Comacchio, a Campagna Lupia anche sindaci e assessori ci accolgono per denunciare l’assurdità dell’opera, così come la scarsa considerazione in cui, nelle sedi decisionali, vengono tenuti i pareri delle amministrazioni locali.
Il camper viaggia lento dietro ai ciclisti seguendo il corso tortuoso di canali ghiacciati, superando lagune dove svernano tante specie di uccelli e attraversando grandi campi agricoli coperti di brina sulla quale i raggi solari accendono brevi arcobaleni. Terre di incomparabile bellezza che minacciano di essere devastata da una assurda colata di cemento. Comprensibile la preoccupazione dei tanti comitati ambientalisti che incontriamo a Comacchio per l’inquinamento e la deturpazione che l’autostrada Orte Mestre causerebbe in quelle valli tutelate purtroppo, spiegano, solo a parole.
Arriviamo in Romagna che sono le 4 del pomeriggio. Il sole invernale ha già dato quello che poteva dare e sulla nostra strada si allungano le ombre della notte. Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia ed occorre fare presto. Il gelo comincia a pestare sul serio. Qualche ciclista chiede asilo e sale sul camper. I chilometri oramai sono più di cento e le gambe non sono sempre sufficientemente allenate. Da Ravenna e poi da Cesena, gruppetti di ambientalisti ci vengono incontro sulla strada. Alcuni in auto, altri in bici. La carovana aumenta di numero. Onore al merito: Mattia e Marino saranno gli unici due a portare a termine, dalla partenza all’arrivo, questa prima tappa di oltre 210 chilometri. Roba da giro d’Italia. E con la media non sottovalutabile di 25 - 30 chilometri all’ora. L’ultimo traguardo della giornata è la piazza di Cesena. Mattia ha ancora fiato per rispondere alle domande di un paio di giornalisti locali. Ammirevole! Sono le nove della sera. I compagni romagnoli ci hanno preparato una cena annaffiata da Sangiovese (che altro, se no?) Ci spiegano che fanno parte del Comitato Difesa Sociale e che si occupano più che altro degli sfratti. “Qui a Cesena - mi racconta Alessandro - almeno 200 famiglie all’anno finiscono sulla strada e l’amministrazione non vuole investire sulle case popolari”. Scambiamo qualche idea e mi chiedono notizie sulla nascente esperienza veneta dell’Agenzia Sociale per la Casa. Ecco a cosa serve la biciclettata, mi viene da pensare. Forse le idee girano più velocemente dietro ad un bicchiere di Sangiovese che su Facebook e Twitter. Poi, finalmente, vanno tutti a nanna mentre io mi attardo ancora un po’ a scrivere sul camper. Mezzanotte è passata da un pezzo.

Da Mestre a Cesena in bici per la seconda tappa della carovana di Opzione Zero.
Pedalando in Umbria, tra strade franate, opere incomplete e devastazioni programmate

sabato 7 dicembre
Ponte San Giovanni, Perugia - Stavolta ci va di lusso. Sveglia “solo” alle sei di mattina. Si parte ancora col buio. I chilometri da macinare sono tanti anche quest’oggi per i nostri ciclo attivisti: non meno di 180. Sempre ammesso che imbrocchiamo tutte le strade perché noi siamo gente che viaggia ancora con la carta in mano chiedendo indicazioni alle persone che incrociamo. Fuori, la colonnina del termometro segna meno 3 gradi. E’ tutto gelato. I nostri ciclisti inforcano le selle e cominciano a pedalare di buona voglia anche per scaldarsi. Lasciamo Cesena e la Romagna per inerpicarci sull’Appennino. Nelle nostre tabelle di marcia, i paesi umbri sono costellati di punti interrogativi. Conosciamo le altezze ma non conosciamo quanti dislivelli sia necessario affrontare per raggiungerli.
Alle 10,30 siamo a Bagno di Romagna che ci accoglie con la neve ai bordi delle strade e il pungente odore sulfureo delle sue terme. Pausa pranzo a Pieve Santo Stefano, la “città del diario”, la cui biblioteca dal ’84 raccoglie i quaderni, le epistole e i memoriali di chiunque desideri affidarglieli. Qui veniamo raggiunti da una coppia di attivisti in auto che si riveleranno utilissimi per la logistica della spedizione, precedendo i nostri ciclisti nei centri abitati per volantinare, consegnare l’appello ai sindaci e incontrare le associazioni ambientaliste. Il camper intanto fa da “ammiraglia” al gruppo in bici, seguendolo passo per passo, pronto all’assistenza e all’incoraggiamento. Le salite a tratti sono dure ma riusciamo a toccare tutti i paesi previsti: San Sepolcro, Città di Castello, Umbertide. In tutte le piazze, veniamo accolti da gruppetti di ambientalisti con i quali scambiamo opinioni, indirizzi mail e volantini. Poco fuori Umbertide, in particolare, lungo la strada che porta a Gubbio, incontriamo un folto gruppo di attivisti di Genuino Clandestino con i quali ci intratteniamo per una bicchierata.
Una frana ci costringe a cambiare percorso. “Qui le strade sono in uno stato di manutenzione pessima - ci dirà la sera un attivista umbro di nome Moreno - eppure non spendono un soldo per la messa in sicurezza. Anche i collegamento con le Marche sono difficili perché le strade sono state tutte piantate a metà percorso. Non sarebbe più utile finire queste invece di progettare autostrade che non faranno altro che devastare la montagna e seminare altro traffico?”
Il manto delle strade che collegano i veri paesi sono in effetti pieni di buche e sventrati dalle frane. I ciclisti procedono a fatica e debbono rallentare. Verso le 5 di sera, assieme al buio scende anche una nebbia degna della val Padana. Adesso la partita si fa dura. Abbiamo accumulato un’ora circa di ritardo. Dalle parti di Casa del Diavolo - nome che è tutto un programma - smarriamo la strada. I ciclisti tengono botta ma si capisce che sono provati. Per fortuna ci viene incontro un’auto con dei compagni di Perugia. Ci hanno trovato un rifugio a Ponte San Giovanni e nel centro sociale locale ci aspetta una dozzina di rappresentanti dei vari comitati contro la Orte Mestre. C’è da notare che rispetto ai romagnoli i compagni umbri sono meno festaioli ma molto più organizzativi. Neanche il tempo di festeggiare l’arrivo della “tappa” o di togliersi le tute sudate che siamo già in assemblea. Una mezz’ora d’ora dopo, hanno già stabilito le date dell’incontro che radunerà tutti gli attivisti contro l’autostrada Orte Mestre della Regione per la costituzione di un unico comitato e la successiva conferenza stampa. “L’Umbria sarà la nuova Val di Susa” ci garantisce Moreno. Andiamo a cena con la soddisfazione di aver acceso una miccia.

Terza e ultima tappa della carovana di Opzione Zero.
Da Mestre ad Orte e non è finita. Tutti pronti per ripartire ancora

domenica 8 dicembre
Orte - Ultima tappa. Se tutto andrà bene, taglieremo l’ultimo traguardo nel primo pomeriggio. Da Perugia ad Orte ci saranno un centinaio di chilometri o poco più. Quasi tutti in salita, ma le gambe oramai sono allenate. Si parte ad un ora più tranquilla stavolta, verso le sette della mattina. Perugia e gli Appennini che la circondano sono avvolti da una fitta nebbia. Ed è un peccato perché il paesaggio sul quale viaggiamo deve essere stupendo. La nebbia non ci permette solo di scorgere oltre il primo filare di ulivi che accompagna la strada. Il raccolto di olive è già stato ultimato e sui rami sono rimaste solo le piccole foglie gelate dalla brina invernale. I ciclisti pedalano di buona lena immersi in un ambiente dove si fatica a ritrovare i consueti contorni della realtà.
Solo verso le 10 della mattina riusciamo a scorgere il blu del cielo. Siamo oramai ad Acquasparta, in perfetta tabella di marcia, e pedaliamo verso San Gemini dove sorge la nota fonte termale. L’appuntamento più importante della giornata ci attende a Terni dove arriviamo poco prima di mezzogiorno. Gli ambientalisti ci aspettano nella piazza principale della città dove hanno approntato un banchetto informativo sulla Mostre Orte e ci offrono torte, biscotti e pan pepato, un dolce tipico dell’Umbria.
Ad attenderci c’è anche l’assessore alla cultura, Simone Guerra, di Sel, che si complimenta per la nostra impresa e concorda sul devastante impatto nel territorio, e in particolare su quello dell’Appennino umbro, che la Orte Mestre porterebbe con sé. “Purtroppo non tutti la pensano come me - spiega -. Molte amministrazioni hanno già votato delibere che aprono la porta a questa ennesima Grande Opera. Noi faremo di tutto per contrastarla ma anche a Terni siamo in giunta con un Pd che non sente ragioni. Vi confesso che è un rapporto questo, che ci va sempre più stretto”.
Lasciamo l’assessore ai suoi problemi e risaliamo in bici e in camper per Orte. L’ultima tappa. I chilometri sulla carta sono pochi ma tutte le strade passano per la E45. Strada poco sicura per le bici. Cerchiamo una alternativa e ci perdiamo alla grande nello sterrato collinare, tra salite a muro e discese rompicollo, consolati solo dall’incomparabile bellezza del paesaggio. Pedala e pedala, arriviamo proprio sopra la città ma troviamo il tratto finale sbarrato da una azienda venatoria. “L’unica strada alternativa alla E45 passa per il paese di Amelia e comporta un giro dell’oca di decine di chilometri ed inoltre tocca zone che non sono interessate dalla Orte Mestre - spiega Mattia Donadel -. Le colline che saranno sventrate e cementificate sono proprio queste su cui siamo saliti”. E’ proprio questo il posto migliore per l’intervista conclusiva ai nostri ciclo attivisti, dietro boschi di ulivi centenari che non meritano di morire sotto una colata di cemento.
“E’ stata una bellissima avventura - conclude Mattia - Abbiamo trovato tanti amministratori e tantissimi comitati ambientalisti che sono contrari a questa inutile autostrada. Tutti si sono detti disposti a intraprendere una battaglia comune perché questo è il solo modo che abbiamo per vincere. Abbiamo trovato anche tante persone che non sapevano nulla di cosa si sta progettando sopra la loro terra e abbiamo dato loro un motivo per informarsi. Sono semi questi che, ne sono sicuro, daranno i loro frutti. Tutti ci hanno chiesto di ripetere la carovana in primavera, per offrire anche a persone non allenatissime la possibilità di partecipare. Ed è quello che faremo. Credeteci... siamo solo all’inizio!”
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