In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
La laguna in un clic
8/02/2011TerraTutta la laguna in un click. Nell’auditorium di Santa Margherita, nel centro storico di Venezia, l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin ha presentato giovedì 3 febbraio, nella mattinata, il progetto “Atlante della Laguna”. Nato nel 2002 con lo scopo di mettere a disposizione di un pubblico quanto più vasto possibile, tutte le informazioni ambientali sul sistema lagunare, il suo bacino scolante e la zona costiera prospiciente.
Il progetto è nato da una collaborazione tra vati enti e associazioni, coordinati dall’Osservatorio Naturalistico della Laguna che fa riferimento al Comune di Venezia e dal Cnr – Ismar (istituto scienze marine). Il primo obiettivo raggiunto dai ricercatori è stata la pubblicazione nel 2006, per i tipi della Marsilio, del volume “Atlante della laguna, Venezia tra terra e mare” ma il passo fondamentale del progetto è stata la realizzazione di un sito internet di nuova concezione che ha messo in rete, non soltanto la versione digitale del libro, ma una suo versione “dinamica” che è costantemente aggiornata dai tecnici dell’Osservatorio e dell’Ismar. Il principio su cui si basa il progetto è che la laguna è un “bene comune” e in quanto tale va tutelato grazie alla trasparente cooperazione tra tutti gli enti che producono informazioni ambientali e alla massima diffusione dei dati scientifici che riguardano questo particolarissimo ecosistema creatosi nel corso dei millenni sino a raggiungere un difficile equilibrio tra intervento umano e movimenti naturali. Equilibrio sempre di più messo a rischio da opere devastanti come il Mose e le barene artificiali che avranno come unico effetto quello di trasformare sempre di più quella che un tempo era laguna dei Dogi, difesa come una “cosa viva” che regalava la vita alla città di Venezia, in un braccio di mare aperto. L’augurio espresso da tutti i relatori intervenuti alla presentazione del progetto è che la diffusione dei dati ambientali riguardanti la laguna possa sensibilizzare la cittadinanza sulle tematiche relative alla sua tutela e, soprattutto, fornire indicazioni utili e incontrovertibili a quanto hanno la facoltà di operare scelte politiche. Da sottolineare che dal portale dell’Atlante della laguna, è possibile scaricare mappe aggiornate, anche in alta definizione, e i dati sono strutturati in maniera tale da potervi accedere a vari livelli, a seconda dell’interesse specifico dell’utente che può essere un semplice curioso ma anche un ricercatore universitario o un amministratore pubblico. Una specifica sezione del sito, è dedicata alle osservazioni dei lettori che hanno la possibilità di entrare nella banca dati, segnalando aree a rischio o altre osservazioni naturalistiche. L’indirizzo del sito, realizzato interamente con programmi open source, è www.silvenezia.it. E credeteci se vi assicuriamo che vale la pena di cliccarci sopra.
Il progetto è nato da una collaborazione tra vati enti e associazioni, coordinati dall’Osservatorio Naturalistico della Laguna che fa riferimento al Comune di Venezia e dal Cnr – Ismar (istituto scienze marine). Il primo obiettivo raggiunto dai ricercatori è stata la pubblicazione nel 2006, per i tipi della Marsilio, del volume “Atlante della laguna, Venezia tra terra e mare” ma il passo fondamentale del progetto è stata la realizzazione di un sito internet di nuova concezione che ha messo in rete, non soltanto la versione digitale del libro, ma una suo versione “dinamica” che è costantemente aggiornata dai tecnici dell’Osservatorio e dell’Ismar. Il principio su cui si basa il progetto è che la laguna è un “bene comune” e in quanto tale va tutelato grazie alla trasparente cooperazione tra tutti gli enti che producono informazioni ambientali e alla massima diffusione dei dati scientifici che riguardano questo particolarissimo ecosistema creatosi nel corso dei millenni sino a raggiungere un difficile equilibrio tra intervento umano e movimenti naturali. Equilibrio sempre di più messo a rischio da opere devastanti come il Mose e le barene artificiali che avranno come unico effetto quello di trasformare sempre di più quella che un tempo era laguna dei Dogi, difesa come una “cosa viva” che regalava la vita alla città di Venezia, in un braccio di mare aperto. L’augurio espresso da tutti i relatori intervenuti alla presentazione del progetto è che la diffusione dei dati ambientali riguardanti la laguna possa sensibilizzare la cittadinanza sulle tematiche relative alla sua tutela e, soprattutto, fornire indicazioni utili e incontrovertibili a quanto hanno la facoltà di operare scelte politiche. Da sottolineare che dal portale dell’Atlante della laguna, è possibile scaricare mappe aggiornate, anche in alta definizione, e i dati sono strutturati in maniera tale da potervi accedere a vari livelli, a seconda dell’interesse specifico dell’utente che può essere un semplice curioso ma anche un ricercatore universitario o un amministratore pubblico. Una specifica sezione del sito, è dedicata alle osservazioni dei lettori che hanno la possibilità di entrare nella banca dati, segnalando aree a rischio o altre osservazioni naturalistiche. L’indirizzo del sito, realizzato interamente con programmi open source, è www.silvenezia.it. E credeteci se vi assicuriamo che vale la pena di cliccarci sopra.
Interventi di pace
27/01/2011Terra“La sola risposta possibile in caso di conflitto e una soluzione concreta ai mali del nostro tempo come il nazionalismo, la xenofobia, l’individualismo e la corsa agli armamenti”. Così Alexander Langer definì i corpi civili di pace in quel documento istitutivo che, come deputato dei verdi, depositò al parlamento europeo nel 1995.
Non riuscì ad assistere all’approvazione della sua proposta di legge perché la sua vita si interruppe improvvisamente il 3 luglio di quello stesso anno. Erano i tempi della guerra dei Balcani e della crisi del movimento pacifista. Da allora molte cose sono cambiate. Il muro di Berlino che divideva il mondo in blocchi contrapposti non esiste più ma questo non ha portato alla cessazione dei conflitti e neppure ad un’epoca di pace, condivisione e democrazia. Anzi. Guerra dichiarate e, soprattutto, guerre dimenticate, ce ne sono come e più di prima. Come se non bastasse, il movimento pacifista si trova di fronte ad altre e nuove sfide come il controllo delle risorse energetiche e alimentari, le migrazioni, i cambiamenti climatici, i movimenti dal basso. Insomma, oggi più che ieri c’è bisogno di imparare ad intervenire nei conflitti mediandoli al di là del “gioco a somma zero”, peculiare dell’intervento militare, e superando la logica del “vincere o perdere” perché, rendiamocene conto, nel mondo globalizzato abbiamo tutti tutto da perdere e niente da vincere. Grazie ad una grande mobilitazione popolare, nel 2001, in Italia, è stata approvata la legge 64 che, riprendendo l’articolo 11 della Costituzione oltre a varie direttive Onu ed europee in materia, ha istituito la “difesa civile nonarmata e nonviolenta”. Una sorta di servizio civile volontario completamente autonomo dall’esercito col duplice obiettivo di intervenire pacificamente all’estero nelle zone di conflitto e rispondere al dovere costituzionale di difendere la patria con mezzi non militari. Tra gli obiettivi stabiliti dalla legge, figurano anche la promozione di solidarietà e cooperazione con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, la partecipazione alla tutela del patrimonio ambientale e culturale, la protezione civile. Punto focale del progetto, rimane comunque la cooperazione internazionale in zone di guerra e la mediazione tra le parti in conflitto.
In paesi come la Germania i corpi civili di pace sono oramai una realtà consolidata. In Italia, la legge 64 e le direttive europee in materia, sono rimaste tutte sulla carta. Certo, difficile aspettarsi un qualche stimolo da parte di un governo che, quanto meno, è ben lontano dall’inserire la parola “pace” nei primi posti della sua agenda politica. Ed è per questo che le associazioni pacifiste hanno deciso di autoconvocarsi a Firenze per stilare un documento per il riconoscimento della figura professionale dell’operatore civile di pace, l’inserimento collettivo in un’organizzazione nazionale ed europea legalmente riconosciuta e stabilire luoghi e tempi per i primi interventi all’estero. Gli incontri si svolgeranno nei giorni di sabato 29 a domenica 30 gennaio nella sede dei Missionari Comboniani in via Giovanni Aldini. Scopo dell’incontro sarà anche quello di definire uno standard per gli interventi civili di pace. Un punto questo assai delicato perché l’etica dell’operatore civile tende spesso a collidere con quella del militare e del poliziotto per i quali, alla fin fine, tutto si risolve con l’obbedire agli ordini. Al contrario, si legge nel documento inviato ai partecipanti al meeting, “la nuova professione dell’operatore di pace deve essere creativa e costruttiva, incoercibile ed imprevedibile, fino ad un certo punto, anche per le stesse istituzioni”. Non c’è altro da dire. Alex ne sarebbe stato contento.
Non riuscì ad assistere all’approvazione della sua proposta di legge perché la sua vita si interruppe improvvisamente il 3 luglio di quello stesso anno. Erano i tempi della guerra dei Balcani e della crisi del movimento pacifista. Da allora molte cose sono cambiate. Il muro di Berlino che divideva il mondo in blocchi contrapposti non esiste più ma questo non ha portato alla cessazione dei conflitti e neppure ad un’epoca di pace, condivisione e democrazia. Anzi. Guerra dichiarate e, soprattutto, guerre dimenticate, ce ne sono come e più di prima. Come se non bastasse, il movimento pacifista si trova di fronte ad altre e nuove sfide come il controllo delle risorse energetiche e alimentari, le migrazioni, i cambiamenti climatici, i movimenti dal basso. Insomma, oggi più che ieri c’è bisogno di imparare ad intervenire nei conflitti mediandoli al di là del “gioco a somma zero”, peculiare dell’intervento militare, e superando la logica del “vincere o perdere” perché, rendiamocene conto, nel mondo globalizzato abbiamo tutti tutto da perdere e niente da vincere. Grazie ad una grande mobilitazione popolare, nel 2001, in Italia, è stata approvata la legge 64 che, riprendendo l’articolo 11 della Costituzione oltre a varie direttive Onu ed europee in materia, ha istituito la “difesa civile nonarmata e nonviolenta”. Una sorta di servizio civile volontario completamente autonomo dall’esercito col duplice obiettivo di intervenire pacificamente all’estero nelle zone di conflitto e rispondere al dovere costituzionale di difendere la patria con mezzi non militari. Tra gli obiettivi stabiliti dalla legge, figurano anche la promozione di solidarietà e cooperazione con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, la partecipazione alla tutela del patrimonio ambientale e culturale, la protezione civile. Punto focale del progetto, rimane comunque la cooperazione internazionale in zone di guerra e la mediazione tra le parti in conflitto.
In paesi come la Germania i corpi civili di pace sono oramai una realtà consolidata. In Italia, la legge 64 e le direttive europee in materia, sono rimaste tutte sulla carta. Certo, difficile aspettarsi un qualche stimolo da parte di un governo che, quanto meno, è ben lontano dall’inserire la parola “pace” nei primi posti della sua agenda politica. Ed è per questo che le associazioni pacifiste hanno deciso di autoconvocarsi a Firenze per stilare un documento per il riconoscimento della figura professionale dell’operatore civile di pace, l’inserimento collettivo in un’organizzazione nazionale ed europea legalmente riconosciuta e stabilire luoghi e tempi per i primi interventi all’estero. Gli incontri si svolgeranno nei giorni di sabato 29 a domenica 30 gennaio nella sede dei Missionari Comboniani in via Giovanni Aldini. Scopo dell’incontro sarà anche quello di definire uno standard per gli interventi civili di pace. Un punto questo assai delicato perché l’etica dell’operatore civile tende spesso a collidere con quella del militare e del poliziotto per i quali, alla fin fine, tutto si risolve con l’obbedire agli ordini. Al contrario, si legge nel documento inviato ai partecipanti al meeting, “la nuova professione dell’operatore di pace deve essere creativa e costruttiva, incoercibile ed imprevedibile, fino ad un certo punto, anche per le stesse istituzioni”. Non c’è altro da dire. Alex ne sarebbe stato contento.
L'acqua pubblica di Venezia
21/01/2011TerraI
n attesa che il consiglio dei ministri fissi, in un periodo compreso tra i prossimi mesi di aprile e giugno, la data dei due referendum per la ri pubblicizzazione dell’acqua, Venezia si sta già mobilitando per raggiungere il quorum indispensabile per validare la consultazione. Alle associazioni, ai comitati e ai movimenti che in questo ultimo anno si sono battuti per raggogliere le firme e sensibilizzare l’opinione pubblica si aggiungerà da domani, lunedì, anche un partner ufficiale del calibro del Comune di Venezia. Un primo passo era già stato compiuto un anno fa in occasione di una modifica dello Statuto comunale, quando la maggioranza approvò una proposta avanzata dai due consiglieri della lista “In Comune con Bettin”, Camilla Seibezzi e Beppe Caccia, che ha inserito nel documento il principio dell'acqua come “diritto umano universale e bene comune a gestione pubblica". Un esempio di buone pratiche che in seguito fu imitato da tanti altri Comuni italiani.
Adesso che la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità di due quesiti, la città lagunare si candida a diventare la prima realtà metropolitana ad aderire ufficialmente e con convinzione alla campagna referendaria per il Sì.
“Oggi si apre una fase nuova - ha commentato il consigliere ambientalista Beppe Caccia -. Sappiamo che è davvero possibile riuscire a bloccare il
meccanismo perverso, previsto dai decreti Ronchi del 2009, che, nel caso della nostra città, costringerebbe l’ente pubblico a quotare in borsa e a cedere forzatamente a investitori privati entro la fine del 2011 una quota significativa della azioni Veritas, la multiutility a capitale interamente pubblico che gestisce la risorsa idrica in gran parte dei Comuni della gronda lagunare. Il raggiungimento del quorum e il conseguente e prevedibile successo dei Sì, sono quindi due condizioni necessarie per difendere questo patrimonio comune rappresentato dalla gestione pubblica del servizio idrico integrato da parte di Veritas”.
Non va neppure dimenticato, hanno spiegato Caccia e Seibezzi, che Veritas offre un servizio di altissima qualità e a tariffe tra le più contenute del Paese (Venezia è, per costo al metro cubo, seconda solo a Milano). E tutto questo, anche senza voler considerare i costi suppletivi di depurazione e di diffusione legati alla particolarissima morfologia del territorio lagunare. La qualità indiscussa dell’acqua erogata inoltre, è una prova tangibile di come un servizio idrico pubblico possa funzionare egregiamente anche senza bisogno di “sostegni” privati.
“Per queste ragioni e per gli enormi interessi che sono in gioco - conclude il consigliere della lista In Comune con Bettin -, abbiamo proposto al consiglio Comunale di discutere e approvare un ordine del giorno che impegni l'amministrazione, cito letteralmente, « a promuovere e organizzare una vasta e capillare campagna di informazione e sensibilizzazione sui contenuti dei quesiti e la rilevanza delle conseguenze, finalizzata ad ottenere la massima partecipazione informata dei cittadini alla consultazione referendaria» e a raggiungere così l'obiettivo del quorum che renderà valido il voto nel referendum”.
Un esempio di buone pratiche che Caccia e Seibezzi si augurano venga presto seguito da altri Comuni italiani perché l’acqua rimanga, per l’appunto, un bene comune.

Adesso che la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità di due quesiti, la città lagunare si candida a diventare la prima realtà metropolitana ad aderire ufficialmente e con convinzione alla campagna referendaria per il Sì.
“Oggi si apre una fase nuova - ha commentato il consigliere ambientalista Beppe Caccia -. Sappiamo che è davvero possibile riuscire a bloccare il
meccanismo perverso, previsto dai decreti Ronchi del 2009, che, nel caso della nostra città, costringerebbe l’ente pubblico a quotare in borsa e a cedere forzatamente a investitori privati entro la fine del 2011 una quota significativa della azioni Veritas, la multiutility a capitale interamente pubblico che gestisce la risorsa idrica in gran parte dei Comuni della gronda lagunare. Il raggiungimento del quorum e il conseguente e prevedibile successo dei Sì, sono quindi due condizioni necessarie per difendere questo patrimonio comune rappresentato dalla gestione pubblica del servizio idrico integrato da parte di Veritas”.
Non va neppure dimenticato, hanno spiegato Caccia e Seibezzi, che Veritas offre un servizio di altissima qualità e a tariffe tra le più contenute del Paese (Venezia è, per costo al metro cubo, seconda solo a Milano). E tutto questo, anche senza voler considerare i costi suppletivi di depurazione e di diffusione legati alla particolarissima morfologia del territorio lagunare. La qualità indiscussa dell’acqua erogata inoltre, è una prova tangibile di come un servizio idrico pubblico possa funzionare egregiamente anche senza bisogno di “sostegni” privati.
“Per queste ragioni e per gli enormi interessi che sono in gioco - conclude il consigliere della lista In Comune con Bettin -, abbiamo proposto al consiglio Comunale di discutere e approvare un ordine del giorno che impegni l'amministrazione, cito letteralmente, « a promuovere e organizzare una vasta e capillare campagna di informazione e sensibilizzazione sui contenuti dei quesiti e la rilevanza delle conseguenze, finalizzata ad ottenere la massima partecipazione informata dei cittadini alla consultazione referendaria» e a raggiungere così l'obiettivo del quorum che renderà valido il voto nel referendum”.
Un esempio di buone pratiche che Caccia e Seibezzi si augurano venga presto seguito da altri Comuni italiani perché l’acqua rimanga, per l’appunto, un bene comune.
Se l'assessore alla cultura manda i libri al rogo
18/01/2011TerraLa cosa peggiore è che la notizia sia passata quasi inosservata. D’accordo, se ne sentono tante e che al peggio non ci sia mai fine non è più solo un luogo comune. Ma quando leggiamo che un assessore alla cultura stila la lista di proscrizione dei libri non possiamo non pensare alla Notte dei Cristalli. E’una notizia che fa paura. Viene voglia di ignorarla, di classificarla come una delle tante “sparate mediatiche” di questo sfinente e mortificante dibattito politico. Siamo tentati di riderci sopra.
Magari confezionarci qualche facile battuta. Ma sarebbe un errore gravissimo perché dalla storia dovremmo aver imparato che le dichiarazioni di chi sta al potere vanno prese sempre per oro colato e non possono mai essere liquidate come gli sproloqui del pazzoide di turno. Le persone abituate a riflettere hanno la tendenza a sottovalutare il peso degli ignoranti e degli stupidi. Eppure le tante dittature che abbiamo visto al mondo ci insegnano che essere ignoranti e stupidi, e possibilmente pure un po’ carogne, aiuta a scalare la piramide del potere. La cultura non ti è alleata se vuoi combattere la democrazia. Svuotare le biblioteche dei libri “sbagliati” è una operazione che i dittatori – nessuno escluso - hanno sempre effettuato. Pretesti, se ne trovano a iosa. C’è sempre qualche “complotto ebraico” che ti viene in aiuto. Perché il punto focale di questa storia non è il caso Battisti e l’opinione che ciascuno di noi ne ha. Leggiamo cosa ha dichiarato l’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, la scorsa settimana: «Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del veneziano perché questi scrittori siano dichiarati sgraditi e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista. Chiederò inoltre di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità». Le persone sgradite a Speranzon (politico di lunga data, oggi del Pdl, prima alleanza nazionale, prima ancora fascista dell’Msi) sono tutti gli scrittori che hanno firmato nel 2004 la petizione per la liberazione di Cesare Battisti. C’è gente del calibro di, ne citiamo solo alcuni, Tiziano Scarpa, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Daniel Pennac, Nanni Balestrini, Giuseppe Genna, Lello Voce, Pino Cacucci, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, Vauro, Sandrone Dazieri, Gianfranco Manfredi, Stefano Tassinari. Vien da chiedersi cosa intenda Speranzon quando minaccia i bibliotecari che non si allineano e che dovranno “assumersene le responsabilità”. Toglie i fondi che già non ci sono (“finanziamenti alla cultura” nel Veneto significa pagare manifestazioni come “la festa dello spritz padano” o la “sagra dei cacciatori”)? Oppure ci manda direttamente gli squadristi con olio di ricino e lanciafiamme? Come dicevamo in apertura, quello che più preoccupa è che sono stati pochissimi ad indignarsi per questo rogo di libri tutt’altro che simbolico e sarà presumibilmente esteso a tutto il Veneto per merito dell’assessore regionale Elena Donazzan. Un’altra che ha fatto lo stesso percorso politico di Speranzon - fascio Msi, An e Pdl - e che da ragazzina devastava e “svasticava” le biblioteche delle scuole vicentine. Non sappiamo quanto resisteranno (è proprio il caso di usare questo verbo) i responsabili delle nostre biblioteche, ma certo nelle sale di lettura sotto casa e negli scaffali delle scuole troveremo ancora il Mein Kampf - ed è giusto così – ma imbattersi in un titolo del mio amato Cacucci diventerà un terno al lotto. Questo, va detto chiaro, significa già regime. Trattandosi di Speranzon, ci aggiungiamo pure regime fascista. Ultima nota. A benedire il rogo ci ha subito pensato Franco Maccari, segretario del sindacato di polizia Coisp, che ha invitato a non comprare le opere degli autori sgraditi commentando: “Il nostro Paese ne esce con le ossa rotte sul caso Battisti. L’aspetto più grave è che sia stata messa in dubbio la democrazia in Italia”. Vien da chiedersi come mai.
Magari confezionarci qualche facile battuta. Ma sarebbe un errore gravissimo perché dalla storia dovremmo aver imparato che le dichiarazioni di chi sta al potere vanno prese sempre per oro colato e non possono mai essere liquidate come gli sproloqui del pazzoide di turno. Le persone abituate a riflettere hanno la tendenza a sottovalutare il peso degli ignoranti e degli stupidi. Eppure le tante dittature che abbiamo visto al mondo ci insegnano che essere ignoranti e stupidi, e possibilmente pure un po’ carogne, aiuta a scalare la piramide del potere. La cultura non ti è alleata se vuoi combattere la democrazia. Svuotare le biblioteche dei libri “sbagliati” è una operazione che i dittatori – nessuno escluso - hanno sempre effettuato. Pretesti, se ne trovano a iosa. C’è sempre qualche “complotto ebraico” che ti viene in aiuto. Perché il punto focale di questa storia non è il caso Battisti e l’opinione che ciascuno di noi ne ha. Leggiamo cosa ha dichiarato l’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, la scorsa settimana: «Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del veneziano perché questi scrittori siano dichiarati sgraditi e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista. Chiederò inoltre di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità». Le persone sgradite a Speranzon (politico di lunga data, oggi del Pdl, prima alleanza nazionale, prima ancora fascista dell’Msi) sono tutti gli scrittori che hanno firmato nel 2004 la petizione per la liberazione di Cesare Battisti. C’è gente del calibro di, ne citiamo solo alcuni, Tiziano Scarpa, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Daniel Pennac, Nanni Balestrini, Giuseppe Genna, Lello Voce, Pino Cacucci, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, Vauro, Sandrone Dazieri, Gianfranco Manfredi, Stefano Tassinari. Vien da chiedersi cosa intenda Speranzon quando minaccia i bibliotecari che non si allineano e che dovranno “assumersene le responsabilità”. Toglie i fondi che già non ci sono (“finanziamenti alla cultura” nel Veneto significa pagare manifestazioni come “la festa dello spritz padano” o la “sagra dei cacciatori”)? Oppure ci manda direttamente gli squadristi con olio di ricino e lanciafiamme? Come dicevamo in apertura, quello che più preoccupa è che sono stati pochissimi ad indignarsi per questo rogo di libri tutt’altro che simbolico e sarà presumibilmente esteso a tutto il Veneto per merito dell’assessore regionale Elena Donazzan. Un’altra che ha fatto lo stesso percorso politico di Speranzon - fascio Msi, An e Pdl - e che da ragazzina devastava e “svasticava” le biblioteche delle scuole vicentine. Non sappiamo quanto resisteranno (è proprio il caso di usare questo verbo) i responsabili delle nostre biblioteche, ma certo nelle sale di lettura sotto casa e negli scaffali delle scuole troveremo ancora il Mein Kampf - ed è giusto così – ma imbattersi in un titolo del mio amato Cacucci diventerà un terno al lotto. Questo, va detto chiaro, significa già regime. Trattandosi di Speranzon, ci aggiungiamo pure regime fascista. Ultima nota. A benedire il rogo ci ha subito pensato Franco Maccari, segretario del sindacato di polizia Coisp, che ha invitato a non comprare le opere degli autori sgraditi commentando: “Il nostro Paese ne esce con le ossa rotte sul caso Battisti. L’aspetto più grave è che sia stata messa in dubbio la democrazia in Italia”. Vien da chiedersi come mai.
Se questa รจ Caritas...
18/01/2011TerraSono anni difficili. Troppo difficili per “potersi permettere” di accogliere più migranti di quanto si possa accoglierne. Questo è il sunto di quanto ha dichiarato don Dino Pistolato, direttore della Caritas veneziana in una conferenza stampa per presentare la 97esima giornata del rifugiato svoltasi domenica scorsa.
Le affermazioni dell’alto prelato, comunque più puntate a chiedere un pronto riconoscimento dei migranti già sono presenti nel nostro territorio piuttosto che ad invocare muri o rimpatri coatti, hanno suscitato un vespaio di reazioni nel Veneto. Il Pdl e la lega in particolare, non hanno peso l’occasione di cogliere la palla al balzo rilanciando allarmismi e invocando muri e rimpatri coatti. “Manipolazioni facili, strumentali e irresponsabili” le ha definite in una nota la rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa tutte le realtà associative che nel veneziano lavorano per l’integrazione e l’accoglienza.
“In Italia esistono centinaia di migliaia di nuovi schiavi costretti a lavorare a nero da anni a causa di leggi ipocrite e crudeli come la Bossi-Fini – ha dichiarato Alessandra Sciurba, portavoce della rete – Gli stessi meccanismi della crisi richiedono sempre di più una forza lavoro flessibile a cui possono essere strappati anche i più elementari diritti e sulla base delle cui condizioni potere poi ricattare anche i lavoratori italiani formalmente più tutelati. Le attuali leggi sull'immigrazione non permettono alcuna regolarizzazione di chi lavora da anni. Su questo punto ha ragione chi dice che vanno riconosciuti, immediatamente e senza alcun compromesso o discriminazione, i diritti dei lavoratori migranti già presenti. Bisogna aggiungere però, che da quasi 10 anni, i decreti flussi e le quote di ingresso hanno rappresentato semplicemente delle sanatorie nascoste. Chiunque ha potuto vedere con i propri occhi gli stessi migranti che avrebbero dovuto teoricamente trovarsi nei loro paesi d'origine e lì venire raggiunti da una chiamata del datore di lavoro, fare le file davanti la posta per consegnare i propri dossier. E chi, del resto, assumerebbe mai qualcuno che non ha conosciuto prima? Si è arrivati al paradosso di persone costrette a uscire dall'Italia clandestinamente per poi rientrarvi su falsa chiamata e tornare a occupare i posti di lavoro che già avevano prima, dopo avere rischiato la vita in viaggi a ritroso pericolosissimi”.
Non si può parlare delle nuove quote di ingresso, spiega la rete, senza dire anche che esse rappresentano in gran parte la sola maniera per decine di migliaia di persone per regolarizzare la propria posizione. Una ipocrisi che è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Quasi tutti i migranti che oggi hanno un permesso di soggiorno sono stati costretti ad attraversare anni di irregolarità, umiliazioni e ricatti. Conclude Alessandra Sciurba: “Il problema non è quindi, che « gli immigrati ci rubano il lavoro » o altre affermazioni grottesche, populiste e a sfondo razzista, che i dati oggettivi possono smentire in ogni momento, ma è piuttosto quello di smascherare un sistema che si regge sulla finzione e che è volto alla creazione di una categoria di popolazione da schiavizzare e sfruttare”.
Le affermazioni dell’alto prelato, comunque più puntate a chiedere un pronto riconoscimento dei migranti già sono presenti nel nostro territorio piuttosto che ad invocare muri o rimpatri coatti, hanno suscitato un vespaio di reazioni nel Veneto. Il Pdl e la lega in particolare, non hanno peso l’occasione di cogliere la palla al balzo rilanciando allarmismi e invocando muri e rimpatri coatti. “Manipolazioni facili, strumentali e irresponsabili” le ha definite in una nota la rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa tutte le realtà associative che nel veneziano lavorano per l’integrazione e l’accoglienza.
“In Italia esistono centinaia di migliaia di nuovi schiavi costretti a lavorare a nero da anni a causa di leggi ipocrite e crudeli come la Bossi-Fini – ha dichiarato Alessandra Sciurba, portavoce della rete – Gli stessi meccanismi della crisi richiedono sempre di più una forza lavoro flessibile a cui possono essere strappati anche i più elementari diritti e sulla base delle cui condizioni potere poi ricattare anche i lavoratori italiani formalmente più tutelati. Le attuali leggi sull'immigrazione non permettono alcuna regolarizzazione di chi lavora da anni. Su questo punto ha ragione chi dice che vanno riconosciuti, immediatamente e senza alcun compromesso o discriminazione, i diritti dei lavoratori migranti già presenti. Bisogna aggiungere però, che da quasi 10 anni, i decreti flussi e le quote di ingresso hanno rappresentato semplicemente delle sanatorie nascoste. Chiunque ha potuto vedere con i propri occhi gli stessi migranti che avrebbero dovuto teoricamente trovarsi nei loro paesi d'origine e lì venire raggiunti da una chiamata del datore di lavoro, fare le file davanti la posta per consegnare i propri dossier. E chi, del resto, assumerebbe mai qualcuno che non ha conosciuto prima? Si è arrivati al paradosso di persone costrette a uscire dall'Italia clandestinamente per poi rientrarvi su falsa chiamata e tornare a occupare i posti di lavoro che già avevano prima, dopo avere rischiato la vita in viaggi a ritroso pericolosissimi”.
Non si può parlare delle nuove quote di ingresso, spiega la rete, senza dire anche che esse rappresentano in gran parte la sola maniera per decine di migliaia di persone per regolarizzare la propria posizione. Una ipocrisi che è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Quasi tutti i migranti che oggi hanno un permesso di soggiorno sono stati costretti ad attraversare anni di irregolarità, umiliazioni e ricatti. Conclude Alessandra Sciurba: “Il problema non è quindi, che « gli immigrati ci rubano il lavoro » o altre affermazioni grottesche, populiste e a sfondo razzista, che i dati oggettivi possono smentire in ogni momento, ma è piuttosto quello di smascherare un sistema che si regge sulla finzione e che è volto alla creazione di una categoria di popolazione da schiavizzare e sfruttare”.
Fiaccole di pace
11/01/2011Terra
Il presidio invita quindi tutti i cittadini ad illuminare Vicenza con una grande fiaccolata, la sera di sabato prossimo, portando in piazza la stessa dignità e la stessa indignazione di quattro anni fa e di far sentire forte la voce di un movimento tutt’altro che sconfitto ma cresciuto e maturato in anni duri ma anche straordinari. Un movimento che ha contribuito a cambiare il linguaggio della politica strutturando e riempiendo di significati concetti come “beni comuni” e democrazia dal basso”, e ottenendo anche importanti risultati. Ne sia un esempio, si legge in un comunicato del presidio, il Parco della Pace. I primi progetti della base prevedevano il passaggio dell’intero perimetro del Dal Molin all’esercito Usa. Se oggi questa prospettiva è cambiata, sottraendo spazio alla base militare per destinarlo ad un uso pubblico verde, è solo grazie alla mobilitazione dei vicentini. “Per questo – conclude Olol Jackson – in occasione della fiaccolata chiederemo che il Parco della Pace venga consegnato al più presto alla comunità vicentina. Su questo punto, come sui reali danni al territorio che la costruzione della base sta causando, dobbiamo pretendere verità e giustizia, consapevoli del fatto che nessuno ci regalerà nulla ma tutto ce lo dovremo conquistare con le nostre mobilitazioni”.
Nasce a Venezia l'Osservatorio contro la Discriminazione
23/12/2010TerraL’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, Unar, ha sottoscritto un protocollo d'intesa con il Comune di Venezia che prevede l’istituzione di un osservatorio contro il razzismo nella città lagunare. L’annuncio è stato dato dal direttore dell’Unar, Massimiliano Monnanni, in occasione dell’incontro “Io non discrimino”, organizzato dalla rete Tuttiidirittiumanipertutti lunedì 20 dicembre nella scoletta dei Calegheri. L’accordo tra l’ufficio del ministero per le Pari opportunità e il Comune è stato fortemente voluto dall’assessore alla pace, Gianfranco Bettin. Sarà, questo di Venezia, un osservatorio atipico per due motivi principali. Il primo, lo ha sottolineato lo stesso Monnanni, sta nel fatto che, per la prima volta, un osservatorio Unar avrà una dimensione comunale e non regionale.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Foreste certificate
21/12/2010TerraIl tavolo di legno che avete a casa non è soltanto un semplice pezzo di legno lavorato. Neanche la credenza, le travi del soffitto, le porte, gli infissi delle finestre, la vostra biblioteca e i libri della vostra biblioteca. La carta, ricordiamocelo, è anch’essa un prodotto ligneo. E neppure le “bricole” che, nella mia città, Venezia, delimitano i canali navigabili dalle secche, sono solo pezzi di legno piantati in acqua. Perché, la prima cosa da mettere in chiaro, è che c’è legno e legno. E non è una sottigliezza da poco. Uno studio commissionato dalla Comunità europea ha dimostrato che oltre il 35% del legno che circola in Europa proviene da fonte illegale. Che significa “fonte illegale” nel caso di un’asse di legno da lavorare?
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Trieste: Sandro Metz candidato sindaco
14/12/2010TerraFosse al potere la fantasia, “Sandrone” Metz sarebbe il candidato sindaco del centro sinistra alle prossime amministrative di Trieste. Non fosse altro per la campagna elettorale tutta al contrario che si era inventato: “Io non voto Alessandro Metz perché…” e a seguire video, fotografie e mail di personaggi noti ma anche di persone comuni, tutti a spiegare sorridendo che un tipo così non lo avrebbero mai votato perché “preferisco una triste inquinata e un po’ mafiosetta” oppure perché “ci ha un cognome da extracomunitario clandestino!” Invece l’avventura del candidato sindaco Alessandro Metz termina alle 21 di domenica 12 dicembre, quando si aprono le urne e i risultati parlano chiaro: il 56 per cento degli elettori del centrosinistra ha scelto Roberto Casolini.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Zaher, due anni dopo
14/12/2010TerraDue anni fa un ragazzino afghano moriva stritolato dalle ruote di un camion in manovra nella banchina del porto di Venezia. Si chiamava Zaher Rezai, aveva appena 12 anni e scriveva poesie. “Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi o dio, che non lascerai che finisca la mia primavera” troveremo scritto nel suo taccuino sporco del suo sangue. Zaher era sbarcato da una di quelle grandi navi traghetto che percorrono incessantemente la rotta Patrasso – Venezia. Aveva attraversato l’Adriatico nascosto in uno dei tanti container, così come fanno tutti gli altri profughi che sbarcano nel porto lagunare.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.