In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Zaher, due anni dopo

Due anni fa un ragazzino afghano moriva stritolato dalle ruote di un camion in manovra nella banchina del porto di Venezia. Si chiamava Zaher Rezai, aveva appena 12 anni e scriveva poesie. “Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi o dio, che non lascerai che finisca la mia primavera” troveremo scritto nel suo taccuino sporco del suo sangue. Zaher era sbarcato da una di quelle grandi navi traghetto che percorrono incessantemente la rotta Patrasso – Venezia. Aveva attraversato l’Adriatico nascosto in uno dei tanti container, così come fanno tutti gli altri profughi che sbarcano nel porto lagunare.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.

L'Italia che parte da un sogno. Intervista con Michele Dotti

Difficile presentare Michele Dotti. Scrittore e giornalista ma anche educatore e formatore, collabora con il Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo ed è volontario, da oltre 16 anni, dell'associazione Mani Tese. Ha lanciato l'appello nazionale "Abbiamo un sogno" per avviare un cambiamento sociale e politico "dal basso" che in breve mesi ha raccolto migliaia di adesioni e ha scritto con Marco Boschini “L’anticasta. L’Italia che funziona”, editrice Missionaria Italiana. Gli chiediamo come mai ha scelto un titolo così controcorrente.

Perché credo che l'Italia reale non sia quella che ci mostrano ogni giorno i mass media, ma abbia un valore molto più grande al quale occorre dare visibilità. In questo senso, forse, il sottotitolo de "L'anticasta" ("L'Italia che funziona") è ancora più importante de titolo stesso ed esprime perfettamente lo spirito con cui, Marco ed io, abbiamo concepito questo libro. Noi pensiamo che "denunciare" gli sprechi, i privilegi e tutte le vergogne della Casta sia necessario e indubbiamente Rizzo e Stella lo hanno fatto con coraggio e grande lucidità nel loro splendido libro, ma forse questo non è sufficiente. Occorre in parallelo anche saper "annunciare" le alternative possibili, concrete e già realizzate con successo in tanti Comuni del nostro paese, che potrebbero diffondersi ancora più rapidamente di quanto già non stia avvenendo se solo avessero la visibilità che meritano. Ecco perché abbiamo scelto di dare loro voce, affinché queste esperienze virtuose possano replicarsi ovunque con grandi benefici da tutti i punti di vista: ecologico, economico, sociale, occupazionale, culturale... Questo è il nostro futuro!
 
Hai presentato questo volume in tante parti d’Italia, hai incontrato tanta gente e tante associazioni, cosa ti ha suscitato questa esperienza?
Sono sempre più ottimista, mano a mano che prendo consapevolezza del valore e della forza della società civile del nostro paese! Girando l’Italia per i miei numerosi incontri respiro una crescente sete di verità. La stanchezza e lo scoraggiamento che hanno paralizzato il nostro paese negli ultimi anni si stanno rapidamente trasformando in una straordinaria energia di rinnovamento dal basso, capace di mobilitare le parti più attente e sensibili della nostra società e anche di coagulare ampi consensi quando sa mostrarsi credibile nelle proposte. Backminster Fuller scrive: "Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta". E' questo che sta avvenendo nel nostro paese, nonostante l’assordante silenzio delle tv al proposito!
 
Esiste davvero “un’altra Italia”?
Questo è sicuro!!! E non mi riferisco solo ai 4 milioni e 400mila attivisti che operano nel volontariato e che con il loro impegno quotidiano tengono in piedi questo paese nonostante le scelte scellerate della nostra classe dirigente. Credo che anche fra la gente comune non ci sia bisogno di andare tanto lontano per trovare persone che sognano un paese più onesto, accogliente, solidale. Proviamo a guardarci intorno e magari proprio dietro di noi, o al nostro fianco ne troveremo già qualcuna... Il fatto che i grandi media spesso non li mostrino non significa che queste persone oneste non esistano e non stiano già creando un cambiamento concreto con le loro scelte quotidiane; io sono fermamente convinto che essi rappresentino la maggioranza dei nostri concittadini!
 
“Dudal Jam, a scuola di pace” è il tuo nuovo libro, presto partirai per l’Africa, quanto ami questo continente e quali emozioni ti suscita?
L'esperienza di volontariato in Burkina Faso mi ha cambiato profondamente. Ho imparato dai miei fratelli africani che è possibile prendere il proprio avvenire in mano e unendo le forze costruire un domani migliore, nonostante tutte le difficoltà possibili. Come dice un proverbio burkinabé: "Quando le formiche uniscono le loro bocche possono trasportare un elefante!" Io ho visto degli autentici miracoli, ho visto tanti sogni diventare realtà, sono testimone di innumerevoli percorsi concreti partiti dal basso che hanno cambiato la storia di intere comunità, coinvolgendole attivamente e riportando dignità, autonomia e speranza a centinaia di migliaia di persone. E' un'esperienza straordinaria, che mi lega al continente nero in modo saldo e profondo. E ora sto cercando di portare questa esperienza anche nel mio impegno qui in Italia.
 
“Abbiamo un sogno” e “Io Cambio” per la costituente ecologista: due appelli ma anche due speranze per cambiare l’Italia dal basso, possono avere una strada in comune?
Dobbiamo riuscirci! Io lo spero vivamente, perché la frammentazione è uno dei principali problemi che hanno afflitto il nostro paese in questi ultimi decenni. Occorre unire tutte le forze, con fiducia e rispetto reciproco, lavorando sui contenuti con pazienza e umiltà, cercando i punti comuni su cui costruire insieme il cammino condiviso. E' indispensabile un processo partecipativo assolutamente trasparente, democratico e inclusivo. Se sapremo fare questo e farlo insieme, sono certo che scriveremo una pagina di storia per il nostro paese. C'è una grandissima sete di cambiamento a cui noi dobbiamo dare una risposta chiara e coraggiosa.
 
Come vedi la situazione politica italiana e quanto questi appelli possono incidere davvero per cambiare le cose e riavvicinare la gente comune e i giovani alla politica?
La situazione italiana è difficilissima. L'Italia è un paese in ginocchio, con problemi difficili da risolvere perché frutto di scelte folli stratificatesi nei decenni. Basti pensare alla cementificazione selvaggia che devasta il nostro territorio, alla disoccupazione giovanile che è ormai al triplo della media europea, all'assurdità delle enormi spese militari a fronte di tante emergenze sociali... La politica ha perso ogni credibilità, ma questo non significa che le cose non possano cambiare e che la gente, specialmente i govani, non possano riavvicinarsi all'impegno e alla passione civile. Tocca a noi mostrare una via credibile per uscire dalla crisi, attraverso un progetto che offra una visione a medio e lungo termine di una società desiderabile, che punti alla qualità di vita, al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona, che veda la sostenibiltà ambientale come una opportunità e non come un problema. Di questo parlano i nostri appelli! E credo che questo possa essere fatto solo coinvolgendo attivamente tutta la società civile, nelle sue diverse anime ecologista, pacifista, della solidarietà e della legalità, per ridare voce e speranza alla parte sana del nostro paese. E' quello che stiamo cercando di fare, insieme.

Quiz contro la Gelmini

Proviamo anche con l’arma dell’ironia - si devono essere detti studenti e ricercatori di Ca’ Foscari -. Vediamo se così riusciamo a far capire anche a chi non vive nel mondo dell’istruzione, che catastrofe si abbatterà sulla scuola e sul libero sapere italiano con l’uragano Gelmini. E così hanno chiamato “’15 – ‘18” gli anni della grande guerra, la grande mobilitazione svoltasi proprio nella settimana a cavallo tra il 15 e il 18 novembre, in difesa della scuola. La scuola pubblica, intendiamo. Quella privata ci ha già pensato a difenderla il governo.
Nelle varie manifestazioni e iniziative che sono state organizzate a Venezia, studenti e docenti – per una volta dalla stessa parte del banco – hanno distribuito un “quiz a risposta multipla senza premi per aspiranti studenti dopo la riforma Gelmini”. Una mezza dozzina di domande con tre o quattro possibili risposte ciascuna. Proprio come un test universitario. Il tutto a cura dei ricercatori della Rete 29 aprile e dal coordinamento degli studenti universitari di Venezia. Ve ne propongo qualcuno così vediamo se passate l’esame.
Amministrazione efficiente. Secondo l’articolo 2, comma 1, il consiglio di amministrazione di una università statale diverrà: a) simile al Cda di una azienda privata con manager che rispondono agli azionisti del loro operato; b) simile al Cda di una Usl con manager esterni provenienti dalla politica; c) simile all’attuale con rappresentanze di studenti e ricercatori. (Risposta esatta la b).
Onore al merito. Secondo l’articolo 4, quale tra i seguenti metodi di finanziamento contribuirà al fondo per le borse di studio per gli studenti meritevoli: a) una parte del 5% versato al fisco per il rientro dei capitali illegalmente detenuti all’estero mediante lo scudo fiscale 2010; b) una parte del 5% irpef versato dai contribuenti alle associazioni senza scopo di lucro; c) tasse aggiuntive pagate dagli studenti che, ritenendosi meritevoli, chiedono di partecipare alle prove di valutazione de merito: d) tasse aggiuntive richieste agli studenti meno meritevoli. (Risposta esatta la c).
Mai più concorsi ad personam. Secondo l’articolo 17, per ogni posto di professore bandito dall’università: a) sarà una commissione indipendente a decidere il vincitore; b) si assume il primo in ordine di merito da una lista di candidati giudicati idonei da una commissione indipendente; c) il dipartimento potrà assumere un candidato qualsiasi da una lista di candidati non ancora assunti. (Risposta esatta la c).
Onore al merito 2. Ricercatori. Secondo l’articolo 21, il passaggio di un ricercatore a tempo determinato a professore associato una volta ottenuta l’idoneità: a) sarà automatico; b) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università; c) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università e dai blocchi di turn over, sospensioni e limiti decisi dal Governo. (Risposta esatta la c).
Avrete capito che… basta rispondere il peggio e ci si azzecca sempre!
“La riforma colpisce l’intera università e in particolare i suoi settori più deboli – spiega Marta Canino portavoce del coordinamento studenti -. Non intacca i poteri dei baroni, riduce il ruolo del senato accademico e individua in un Cda a nomina politica e controllato dal governo, l’organo decisionale non solo per le questioni economiche ma per la stessa didattica. Aziende private e partiti al governo potranno decidere il futuro del sapere in Italia. La riforma Gelmini è una attacco diretto alla libera cultura”.

La battaglia per l'acqua attraversa la Biennale

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Vento umido di scirocco, mare mosso, acqua alta la mattina e un altro picco la sera, pioggia battente tutto il giorno. Non possiamo certo scrivere che quella di domenica scorsa era la giornata ideale per discorrere di acqua. Eppure, nonostante l’inclemenza del tempo, almeno un centinaio di persone si è recato alla Biennale di Architettura di Venezia per partecipare ad un incontro sull’acqua pubblica. L’appuntamento era per le 16,30 nel padiglione inglese messo gentilmente a disposizione dalla curatrice, Vicky Richardson. “La battaglia per difendere il diritto all’acqua è una battaglia universale – ha spiegato -. Tentativi di privatizzare questo bene comune sono in atto anche in Inghilterra e volentieri abbiamo concesso l’uso di un palcoscenico internazionale come il nostro padiglione ai movimenti italiani per l’acqua”.



L’incontro è stato promosso dal comitato Abc, acronimo di Acqua Bene Comune “ma abc sono anche le prime lettere dell’alfabeto – ha commentato il portavoce Francesco Penzo – perché è da queste lettere che rappresentano i beni comuni che bisogna ripartire per riscrivere il vocabolario politico della partecipazione e della democrazia nel nostro Paese”. Ospite d’onore dell’iniziativa, un applauditissimo Marco Bersani, ricercatore, saggista e uno dei promotori del referendum. “Non era mai successo in Italia che un movimento raccogliesse oltre un milione e 400 mila firme per un referendum. Firme raccolte a testa alta, da un movimento dal basso senza finanziatori e senza partiti politici a sostegno – ha commentato Bersani – Questo è indubbiamente un qualcosa di nuovo in un Paese come il nostro dove la cultura e la politica stagna. Significa che ci sono persone, e non sono poche, che hanno avuto il coraggio di dire che non tutto va lasciato al mercato. La crisi che attraversa l’Italia come il mondo non è solo economica ma anche di democrazia, perché per sopravvivere questo sistema in crisi non ha altro modo che mettere sul mercato i beni comuni e i diritti. La nostra battaglia per l’acqua non è soltanto per l’acqua”. Molte delle domande che il pubblico ha rivolto a Marco Bersani riguardava l’iter del referendum, appeso agli ultimi rantoli della crisi di governo. “Non abbiamo ancora certezze – ha risposto l’ambientalista – ma di sicuro le firme depositate non bastano a garantircelo. La politica dei palazzi non ha nessuna intenzione di farlo passare. Dovremo conquistarcelo, il nostro referendum, mantenendo alta la mobilitazione. E ricordiamoci che il referendum è anche un fine in sé. Tutti devono avere la possibilità di dire la loro su temi che sono di tutti come i beni comuni e la democrazia”. Le conclusioni le ha tirate Valter Bonan, battagliero portavoce dei comitati veneti. “Nella nostra regione abbiamo raccolto 130 mila firme anche allargando il tema della ripubblicizzazione al ciclo integrato dell’acqua, dalla cementificazione degli argini alla gestione dei fiumi e della risorsa idrica, tutt’ora a rischio di un devastante sfruttamento idroelettrico. Argomenti di cui la politica non parla. A Venezia si sta discutendo lo statuto regionale. In consiglio, si fa un gran discorrere di un inno veneto ma nessuno parla di democrazia partecipativa e i comitato che hanno proposto di introdurre un riferimento statutario al diritto all’acqua come bene comune, non sono stati neppure invitati in commissione per una consultazione”. Anche per questo il Veneto si mobiliterà, sabato 4 dicembre, in concomitanza con le altre regioni italiane per il referendum sull’acqua e con le giornate di Cancun per ribadire che non tutto si compra e non tutto si vende. L’appuntamento è in piazzale della stazione a Venezia, alle ore 14, con due cortei di terra e un corteo lungo il canal Grande. Un corteo d’acqua, per l‘appunto.

Giù le mani da pediatria

Quattrocento agguerriti genitori che si mobilitano per contestare la chiusura di un servizio sanitario, non si erano mai visti a Venezia. E’ accaduto sabato 23 ottobre e accadrà ancora sabato, prossimo, 13 novembre. “E ancora il sabato successivo e quello ancora successivo – ha spiegato una signora con braccio una bambina di pochi mesi e un cartello con la scritta ‘Giù le mani da pediatria’ – sino a che non verrà ripristinato un servizio essenziale per la cura dei nostri figli”.
Motivo del contendere, la chiusura del servizio di pronto soccorso pediatrico a Venezia e a Mestre.

Chiusura che è avvenuta questa estate con una modalità oramai consueta per la sanità veneta: prima il servizio viene interrotto per una pausa estiva, poi l’apertura viene via via posticipata sino a che un comunicato dell’Asl fa sapere che “per motivi di bilancio” la struttura non sarà più aperta.
“Non ci vengano a dire che il buco nei conti della sanità regionale l’hanno provocato i nostri bambini – ha spiegato la consigliera della lista in Comune, Camilla Seibezzi, che con il collega Beppe Caccia ha animato la protesta -. E non ci vengano neppure a raccontare che il servizio non era indispensabile e che i bambini malati possono mettersi in fila al pronto soccorso come gli adulti. La straordinaria partecipazione al sit-in dimostra il contrario. Il servizio di pronto soccorso pediatrico in questi anni è stato utilizzato da centinaia di genitori cui veniva garantita una continuità di cure e di assistenza per i loro figli che altre strutture non possono dare”. A tutela del servizio sanitario, su richiesta dei due consiglieri della lista In Comune, si è mobilitato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, prima in Conferenza dei sindaci e poi incontrando il Direttore generale dell’Asl 12 Antonio Padoan. “Intanto migliaia di famiglie continuano ad essere ostaggio dell'assurdo braccio di ferro tra la direzione generale dell'azienda sanitaria e i pediatri di base. – conclude Camilla Seibezzi - Bambine e bambini, mestrini e veneziani, sono privi della copertura di un servizio di assistenza pediatrica di base, la cui necessità e' particolarmente sentita nei giorni festivi e prefestivi, quando gli spazi del Pronto Soccorso, già alle prese con pesanti problemi di organico, sono ingolfati di piccoli pazienti. Così non può continuare. Sino a che Asl e medici non troveranno un accordo, noi saremo tutti i sabati a manifestare davanti all’ospedale civile, in campo San Giovanni e Paolo. Il tempo della pazienza è scaduto".

Solidarietà vicentina

In tanti, in tantissimi, hanno risposto all’appello del presidio permanente contro la base Dal Molin e si sono rimboccati le maniche per aiutare tutti coloro che sono stati colpiti dall’alluvione. Considerando tutti i vari coordinamenti, perlomeno quattrocento volontari da tutto il Veneto sono confluiti a Vicenza tra giovedì e venerdì. Più di duemila – per l’esattezza 2230 persone – si sono aggiunte tra sabato e domenica.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.

Mediatori di pace

Fornire gli strumenti di base per intervenire in zone internazionali di conflitto attraverso lo strumento dei Corpi Civili di Pace. Questo è quanto si propone il corso organizzato dall’Alon – Ganfc, l’associazione locale Obiezione e nonviolenza gruppo azione nonviolenta, di Forlì (Cesena). L’obiettivo del seminario è quello di offrire gli strumenti di base a persone interessate a studiare e sperimentare modalità di soluzione nonviolenta dei conflitti intervenendo in aree di crisi con azioni pianificate nonviolente, come ad esempio la prevenzione, il monitoraggio, la mediazione, l’interposizione, la riconciliazione.
Il corso comincerà giovedì 2 dicembre 2010 con l’accoglienza e la registrazione dei corsisti presso la sala del Rivellino del centro congressi residenziale universitario del Comune di Bertinoro, vicino a Forlì, in via Frangipane 6. Il seminario di studio si articola su tre giorni - venerdì, sabato e domenica dal 3 al 5 dicembre - con modalità formative interattive e partecipative e comprende una serata, quella del venerdì sera, aperta all’intera. Il corso costituisce un titolo preferenziale, pur se non esclusivo, per la partecipazione ad iniziative in zone di guerra predisposte da alcune delle associazioni aderenti alla rete nazionale dei corpi civili di pace, quali: Berretti Bianchi di Lucca, Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) di Rimini, Gavci-Cefa di Bologna, Peace Brigades International Italia, associazione per la pace di Roma, Servizio Civile Internazionale Italia. Tra i qualificati relatori segnaliamo: Michele Di Domenico, Alessandra Antonelli, Riccardo Prati, Carlo Schenone, Silvio Masala, Fabiana Bruschi, Massimo Tesei, Deema Darawshy, Yahav Zohar. I corpi civili di pace, risalgono ad una proposta di legge portata in parlamento europeo ai tempi della guerra nei Balcani da Alexander Langer che aveva ipotizzato la creazione di un contingente civile misto di professionisti e volontari, addestrati e fortemente motivati, da impiegare in operazioni di mantenimento e costruzione della pace, ricostruzione post-bellica, dialogo e riconciliazione, dentro o i confini europei. Questo il programma di massima del corso. Venerdì: Teoria e pratica della nonviolenza, Simulazione di un conflitto, visita al museo Interreligioso, in serata dibattito aperto al pubblico su “Perché è così difficile fare la pace in Palestina?”. Sabato: la gestione dei conflitti con modalità nonviolente, simulazione in gruppi, verifiche collettive, video “Azioni Dirette Nonviolente”, testimonianza dirette di esperienze in zone di conflitto. Domenica: i corpi civili di pace come prospettiva di innovazione nella soluzione dei conflitti nell’ambito della politica estera dell'Unione Europea, quale rapporto con la politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, gestione umanitaria e gestione dei conflitti, prospettive e operative e lavorative nel campo degli aiuti umanitari e degli interventi civili di pace. Il corso è a numero chiuso. Massimo 30 partecipanti. Per ulteriori informazioni o per iscrivervi collegatevi al sito www.alon.it.

Non lasciamoli soli. Intervista con Nicola Grigion

Più che una associazione Melting Pot Europa è un vero e proprio progetto operativo che dal ’96, anno della sua nascita, si è evoluto al passo con la società e le nuove esigenze, da semplice trasmissione telefonica, sino a diventare una sorta “servizio pubblico” rivolto tanto ai suoi originari utenti - i migranti - quanto agli amministratori locali, agli operatori sociali, alla stampa e a quanti sono interessati alle tematiche dell’integrazione. Nicola Grigion, trentenne padovano, è il direttore di Melting Pot anche se, per non fare troppo “giacca e cravatta” preferisce farsi chiamare portavoce o responsabile. Ai giornalisti che gli chiedono quale mondo ci sia dietro le statistiche stilate dalla Caritas risponde invitandoli a passare una mattinata dietro gli sportelli dell’associazione dove ogni giorno centinaia di migranti si mettono in fila per avere informazioni, consigli e assistenza.

Il dossier mette in evidenza come la crisi economica stia colpendo in maniera particolare i migranti. Questo perché occupano il gradino più basso nella scala occupazionale?
Direi che non è questo il motivo. E’ vero che i migranti per un buon 90 per cento fanno i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono fare” ma dobbiamo tener presente che, specie in tempo di crisi, le aziende hanno un gran bisogno proprio di bassa manovalanza che si accontenta di salari minimi. Il problema vero è che a questi lavori sono associati minori diritti. Sono occupazioni più precarie e più facilmente derogabili. Pensiamo ad esempio a quanto avviene per le cooperative di logistica e di trasporto che nella nostra regione che è il crocevia verso l’Europa dell’est. I lavoratori, migranti e non, hanno contratti a tempo indeterminato, anzi, sono addirittura “soci” della cooperativa. Ma questo comporta una condizione generale per quanto riguarda i diritti del lavoro, molto peggiore. Basta un semplice cambio di appalto per trovarsi spasso. La spada di Damocle del licenziamento è costante.

Licenziamento che significa anche la perdita del permesso di soggiorno...
Che a sua volta significa diventare irregolari. Un reato penale, per la nostra legislazione. Come se essere licenziati fosse un delitto! Tutto questo ha fatto sì che i migranti diventassero lavoratori estremamente ricattabili: una merce appetibile per le aziende. I dati sull’aumento generico di assunzioni di migranti che ha riportato la Caritas, oltre a non considerare che molte cooperative operano a nordest ma hanno sede legale a sud, non tengono conto di fattori comunque determinanti. Di che posto di lavoro stiamo parlando, mi chiedo? E fuori dalle statistiche rimane l’esercito dei cosiddetti invisibili, che poi invisibili non sono. Sappiamo tutti come l’assistenza domestica, la raccolta nei campi e l’edilizia si basi sul loro sfruttamento. La crisi si nutre di lavoratori non in regola. Ha tutto l’interessa a relegarli in un limbo e a concedere loro permessi saltuari, facilmente revocabili, per tenerli in un continuo fluttuare tra regolarità e irregolarità.

Il rapporto della Caritas sottolinea l’apporto di ricchezza portato dai migranti. Anche i giornali locali hanno battuto questo aspetto. Ma è possibile che il problema possa essere confinato all’economia?
Certo che no. Si rischia di fare un discorso del tipo: benvenuti perché ci siete utili. E quando non ci sarete più utili, arrivederci. Sotto sotto qualcuno pensa che sono utili sino a che lavorano duro, non pretendono diritti, non protestano... Invece il problema non può essere letto solo sotto le lente dell’economia. Tutti i rapporti statistici ci dicono che i migranti portano ricchezza. La stessa Inps ci spiega che senza l’apporto dei lavoratori stranieri non potrebbe pagare le pensioni. Giusto. Ma se confrontiamo il grande apporto economico dei migranti con il prezzo più alto da loro pagato in questa la cosiddetta crisi, si capisce che l’importanza del loro ruolo è soprattutto sociale. E’ a questo livello, quello sociale, che producono la vera ricchezza. Il che ci fa anche capire quanto sia allucinante, oltre che ingiusto, legare il permesso di soggiorno all’occupazione.

Perché allora il migrante continua ad essere percepito come un problema?
Perché lo è, per certi versi. Solo che non sono i problemi di cui parlano certa stampa e il Governo. Un problema lo portano prima di tutto a noi stessi: quello di cominciare a costruire una ipotesi di mondo diverso da quello che ci stanno imponendo. Vedi, quando parliamo di migrazioni, anche all’interno dei movimenti, giochiamo fuori casa. Vince sempre l’autorità e non riusciamo a costruire percorsi di lotta che portino a risultati concreti. Prendi ad esempio, Terzigno. La gente scende in piazza contro la discarica e, dopo le inevitabili lotte, riesce a mettere in scacco il governo. Pochi giorni dopo, arriva un gruppo di rifugiati a Catania e, alla faccia di tutti i diritti costituzionali e internazionali, la polizia li rispedisce indietro senza se e senza ma, tra le inutili proteste della comunità europea per un rimpatri eseguito al di fuori di ogni procedura legale. Anche gli osservatori dell’Onu vengono lasciati fuori dei cancelli dell’aeroporto. Mi chiedo, come possiamo intervenire in casi come questo?

Senza scendere sino a Catania, basta assistere a quanto succede al porto di Venezia, per quel che riguarda i respingimenti illegali. Le mobilitazioni della rete Tuttiidirittiumanipertutti sono servite perlomeno a portarli alla luce.
Già. Ma siamo ancora lontani dal portare i diritti all’interno del porto, purtroppo. Il fatto è, come ti dicevo, che i migranti innescano una questione di identità. Mettono in discussione chi siamo. C’è il rischio che facciano scattare meccanismi frammentativi invece che ricompositivi. Sono il capro espiatorio di una crisi che fa paura. Addossare tutte le colpe ai migranti è più facile che individuare il nemico comune in una economia dove a dettar legge è il capitalismo predatorio. In altre parole, il vero problema che ci portano i migranti è questo: ci obbligano ad intraprendere un percorso e a compiere una scelta: quella di innescare una guerra tra i poveri o quella di costruire insieme un mondo diverso.

Un problema di democrazie e diritti, dunque?
Sì. Noi di Melting Pot ce ne accorgiamo nel nostro quotidiano rapporto con questure ed enti locali. Non serve a niente agitare la legge o la Costituzione. Il rilascio di un documento, anche se il migrante ne ha diritto, comporta una stressante contrattazione e negoziazione. Assistere i migranti significa condurre una battaglia continua contro l’arbitrarietà e in alcuni casi anche l’illegalità. E qua bisogna fare attenzione. La deroga dei diritti che nel caso dei migranti viene tanto facile accettare, non si ferma in nessun confine e alla fine colpisce la democrazia, l’ambiente, la scuola, il lavoro... i diritti o sono di tutti o non ce n’è per nessuno.

Come possiamo far capire che la lotta dei migranti è una lotta di tutti?
Il punto è proprio questo. Credo che non dobbiamo mai lasciarli soli, anzi non dovremmo neppure considerarli una categoria a parte. Non lasciamoli all’auto organizzazione non perché non ne siano capaci, ci sono esperienze bellissime a questo proposito, ma avrebbero di fronte una battaglia senza orizzonte. A meno che non pensiamo che sia un orizzonte comune.

Ricchezza migrante. Il dossier Caritas

Sara ha 14 anni e frequenta una scuola media della provincia di Venezia. Ha sempre vissuto tra Milano e Mestre. I suoi si sono trasferiti dal capoluogo lombardo alle sponde della laguna due anni dopo la sua nascita. Sara è una ragazzina come tante altre se non fosse che appartiene a quella categoria chiamata “migranti di seconda generazione”. Mamma e papà sono nativi di Isfahan e in tasca hanno un passaporto iraniano. Due mesi fa, Sara è andata a Madrid con la scuola. All’aeroporto, i suoi compagni di classe hanno passato la dogana senza la minima formalità, Sara no.
L’hanno fermata, le hanno rovistato nel bagaglio, hanno chiamato un ufficiale che ha posto un sacco di domande sia a lei che ai suoi professori. Eppure Sara non porta neppure il velo. I suoi genitori l’hanno educata alla fede bahai. Ma non è tutto. Nel caso il padre perdesse il lavoro, Sara rischia l’espulsione. Lei, nata e cresciuta in Italia, potrebbe essere costretta a migrare in un paese che conosce solo dai racconti dei genitori, un paese di cui parla poco la lingua e non legge la scrittura. Perché l’Italia è l’unico paese europeo dove la cittadinanza si acquisisce dai genitori e non dal luogo in cui si è nati. Cosi che un canadese col nonno di Genova è considerato più italiano di Sara, nata a Milano e cresciuta a Mestre. “Sono italiana o sono iraniana? - ha scritto Sara in una lettera ad un quotidiano locale -. I miei amici mi hanno detto che sono una italiana del futuro. Che tantissimi bambini che ora crescono in Italia hanno i genitori con passaporti stranieri e un domani saranno tutti ‘italiani’ come me. Il problema non sta qui, però. Sta nell’Italia che dobbiamo cominciare a costruire per far stare bene tutti questi bambini, qualunque cosa siano”.
Questa di Sara è una delle tante, tantissime storie che si possono leggere tra i numeri e le percentuali presentate dalla Caritas nel suo ultimo rapporto che fotografa lo stato dell’immigrazione nelle nostre città. Il dossier è stato presentato martedì 26 ottobre, nell’aula magna del Laurentianum, in centro a Mestre. Al di là dei numeri, già abbondantemente riportati da siti e giornali locali e che sono sostanzialmente quelli degli anni scorsi con la sola sottolineatura che i migranti sono stati i primi ad essere colpiti dalla crisi, sono le storie come quella di Sara che ci aiutano a farci un quadro più chiaro di cosa sia in realtà il fenomeno della migrazione. Un fenomeno che, dati alla mano, rappresenta una risorsa insostituibile per la nostra economia ma che al contrario viene percepito come un pericolo. “Certe campagne politiche che puntano sulla paura del diverso per ritorni elettorali - ha commentato don Elia Ferro, delegato della Caritas nella consulta regionale per l’immigrazione - confondono ad arte il micro con il macro. I dati parlano di una comunità migrante ben diversa da quella stereotipata dipinta da certa stampa”. “Bisogna essere ciechi, o chiudere gli occhi apposta, per non vedere le ricchezze sia economiche che sociali che l’immigrazione porta con se - ha concluso monsignor Dino Pistolato direttore della Caritas di Venezia -. Soprattutto in questi tempi di crisi, l’apporto dato dai migranti è fondamentale. In particolare se teniamo presente che sono loro i primi a pagare i costi di questa crisi. Ma in una situazione critica, in cui ai poveri si aggiungono i nuovi impoveriti, il rischio è che aumentino le frizioni sociali tra italiani e stranieri. Per questo, la politica sull’immigrazione dovrebbe al più presto uscire dai luoghi comuni e dalla logica dell’emergenza e affrontare la situazione con criteri basati più sui fatti concreti che sulle paure insulse”.

Quella centrale da bocciare

Un mero business per la società proponente. Nessun beneficio per la comunità locale che paga il prezzo in termini di qualità ambientale e sicurezza. Così il Wwf seppellisce il progetto avanzato dalla Lucchini Energia di realizzare una centrale elettrica da 400 megawatt nell’area industriale del porto di Trieste. La società con sede legale a Brescia e controllata dal colosso russo Severstal, aveva presentato un progetto di un impianto termoelettrico a ciclo combinato nel novembre del 2008, suscitando sin dall’inizio le perplessità non solo delle associazioni ambientaliste ma anche degli stessi amministratori locali, sia a livello comunale che regionale.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
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