In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Manganellate e 59 denunce
4/10/2011Terra
Aggiungendo: “Ci sono dati oggettivi di un’aggressione preordinata”. Quindici giorni di studio dei filmati – molti dei quali sono visibili su You Tube, casomai qualcuno dei lettori volesse farsi una idea personale su “chi ha picchiato chi” e di come anche i consiglieri regionali che avanzavano con le mani in alto siano stati brutalmente manganellati – non sono comunque stati sufficienti alla Digos per riuscire ad individuare gli agenti responsabili della brutale aggressione a Beppe Caccia. Durante la seconda carica, anche in questo caso i filmati sono reperibili su You Tube, il consigliere comunale della lista In Comune è stato deliberatamente e ripetutamente colpito al capo dai manganelli sino a provocare un trauma cranico commotivo e il ricovero d’urgenza.
Un pestaggio sul quale anche il consiglio comunale di Venezia è prontamente intervenuto, votando a maggioranza un documento di esplicita condanna delle scelte compiute dal ministro Maroni e del Prefetto di vietare un pacifico corteo programmato da oltre un mese. Un atteggiamento, si legge, “non coerente con i principi costituzionali e con il diritto a manifestare le proprie idee”.
“Sabato 17 settembre – ha commentato Beppe Caccia - la città è stata di fatto commissariata e le sue istituzioni democratiche scavalcate. Senza insistere sulla ricostruzione di quanto accaduto davanti al ponte degli Scalzi e che è verificabile da chiunque possa collegarsi ad internet, il punto è come si è arrivati a vietare una manifestazione, quella a difesa di Venezia Bene Comune contro l'annuale parata leghista, che non a caso era stata convocata per il giorno prima e non per il giorno stesso, proprio per evitare contrapposizioni fisiche con il raduno padano di domenica e il cui percorso era stato notificato in Questura addirittura il 3 agosto scorso”.
Ancora più esplicito il documento con il quale le associazioni promotrici della manifestazione hanno commentato il giro di vite della questura. “Si tratta, evidentemente, del tentativo di rispondere alle critiche, giunte da ogni parte, per la gestione dell’ordine pubblico” si legge. “Le accuse di violenza a carico di alcuni tra i manifestanti cercano di nascondere una verità che è sotto gli occhi di tutti: il 17 settembre fino all’ultimo, con un incontro in prefettura alle 11 del mattino, i promotori hanno proposto soluzioni e percorsi anche diversi pur di garantire il pacifico svolgimento del corteo comunicato alla questura ai primi di agosto, ma si sono scontrati con una decisione, evidentemente già presa a livello politico e gravissima, che aveva l’obiettivo di impedire il diritto di manifestare, svilire la democrazia, ferire e umiliare la città di Venezia. La Questura impedendo il diritto di manifestare si è prestata ad un attacco senza precedenti all’esercizio dei diritti costituzionali nel nostro territorio per ragioni esclusivamente politiche e direttive che provengono dal ministro dell’Interno Maroni, preoccupato solo di tamponare la crisi di consenso e di immagine del suo governo e del suo partito”.
Conclude Dolores Viero della rete Tuttiidirittiumanipertutti: “Semplicemente non si volevano cortei di protesta in città il giorno prima dell’adunata leghista. Ma le denunce, come i manganelli, non riusciranno a farci stare zitti e rivendichiamo oggi come ieri il nostro diritto a manifestare. Ci assumeremo collettivamente l’onere della difesa di tutte le persone denunciate, certi che saranno tutte prosciolte dalle accuse e ci impegniamo a denunciare con ancora maggior forza le gravi responsabilità politiche per quanto accaduto lo scorso 17 settembre”.
No Lega Day
20/09/2011Terra
“Abbiamo depositato la richiesta di fare un corteo sino a piazza San Marco con un mese d’anticipo – tuona Tommaso Cacciari, portavoce del laboratorio Morion – Abbiamo scelto sabato proprio per evitare problemi di ordine pubblico con la Lega che arriverà a Venezia solo domani. La sera prima della manifestazione ci telefona la questura per dirci che la manifestazione non si poteva fare. Al massimo potevamo restare in piazzale stazione o andare in campo santo Stefano (piazza non esattamente centralissima.ndr). Che libertà è questa? Sabato con le botte e le cariche ci hanno impedito di manifestare. Una violenza che ha colpito non solo noi ma tutta la città. Perché Venezia non è leghista. Non lo è né culturalmente né politicamente. La nostra città non appartiene a Bossi”.
Che le cose si stavano mettendo sulla lunghezza d’onda del manganello lo si era intuito sin da mercoledì con la denuncia da parte di alcuni consiglieri del Pdl, dei rischi di “dare la città in mano ai centri sociali”. Accuse cui lo stesso Beppe Caccia ha ribadito ricordando che alla manifestazione hanno aderito sindacati come la Fiom, associazioni come Emergency e la rete Tuttiidirittiumani, e anche partiti politici dell’arco costituzionale come Rifondazione e la stessa lista In Comune. Vien da chiedersi, considerato come si fosse esposto prima per promuovere la manifestazione e poi per difendere il diritto al corteo, se sia davvero un caso che proprio Beppe Caccia sia stato il più colpito dalla carica della Celere.
“E’ stata comunque una bella manifestazione – ha commentato Caccia, appena dimesso dall’ospedale dove è stato costretto a trascorrere una notte sotto osservazione per traumi cranici -. Oltre un migliaio di persone si è mobilitato per ricordare che Venezia è un bene comune e rifiuta la demagogia dell’odio razziale e della xenofobia”.
Parole che invece sono risuonate il giorno dopo dai palchi della Lega dopo il trito rito celtico (che i celti non hanno mai fatto) dello sversamento dell’acqua del Po in una laguna già inquinata di suo. Inni alla secessione e alla razza padana “che esiste e paga per tutto questo schifo di Paese”. E poi il consueto richiamo ai “milioni di persone disposte a combattere per la libertà”. Persone che ieri sono rimaste tutte a casa, considerato che siamo oramai ben lontani dalle radunate oceaniche di 4 o 5 anni fa. Tanto per fare un esempio, i pullman arrivati ieri a piazzale Roma erano solo 30. Un migliaio di lumbard precettato contro i trentamila di “un governo” fa. Bossi e Calderoli sul palco hanno fatto finta di non accorgersene. Il mitico Trota non se ne sarà accorto sul serio, impegnato come era a far uscire l’acqua dall’ampolla sacra senza travasarsela sui pantaloni verdi. Lega nord, la commedia è finita. "Oramai è tornato il Fascismo con altri nomi" ha detto Bossi. E se lo dice lui…
Un Veneto No Lega
23/08/2011Terra
"Siamo di fronte all'ennesimo colpo di teatro di Bossi & C. teso a riaffermare una fantomatica Padania per distrarre l'attenzione dalla dura realtà di tutti i giorni e soprattutto dai pesanti sacrifici che, con la manovra economica, il Governo Pdl e Lega sta per scaricare sui lavoratori, sui pensionati e sulle famiglie" spiega Olol Jackson portavoce del presidio. Montecchio Maggiore, si legge nel comunicato del Presidio e sottoscritto da anche dalla Fiom, dovrebbe diventare il palcoscenico di un supposto Giro della Padania, presentato come una gara ciclistica importante, ma altro non è che l'ennesimo tentativo di far passare in modo subdolo nell'immaginario collettivo il concetto che la padania sia qualcosa di più che una farneticazione storica e politica. Per far questo non si fanno scrupoli di usare uno sport nobile e popolare come il ciclismo il cui momento più significativo è invece proprio il Giro d'Italia che unisce, nel suo passaggio tutto il Paese.
"Non basta più agitare la bandiera della padania per lavarsi la coscienza e la reputazione – conclude Jackson -. Le responsabilità della Lega, i suoi insuccessi al governo, le sue, la sua fame di potere e denaro stanno ormai diventando evidenti anche per sostenitori storici del carroccio e non serve distogliere l'attenzione attraverso l'idea di questa inesistente nazione padana, o individuando di volta in volta nuovi nemici su cui scaricare le colpe siano essi i meridionali o i migranti". "Lega Nord, la commedia è finita" è finita sarà lo slogan della manifestazione che si svolgerà, il sabato seguente a Venezia, proprio il giorno prima della consueta sceneggiata del travaso dell'acqua del Po in canal Grande. "Venezia, una città dove non a caso la Lega non ha mai piantato radici, non ne può più di assistere passivamente ogni settembre a questo teatrino scemo – spiega Michele Valentini del Rivolta – Soprattutto in tempi come questi. Cosa avranno da vantarsi i suoi dirigenti sul palco della riva Sette Martiri? da tre anni ormai, determinanti per il sostegno parlamentare al decotto Berlusconi, al governo di "Roma ladrona" ci sono proprio loro. Occupano prestigiose poltrone ministeriali e fanno parte, a pieno titolo, della Casta mentre nel Paese crescono di giorno in giorno le difficoltà a mettere insieme un reddito dignitoso. Al posto del promesso federalismo arrivano i tagli alla sanità e al welfare. Al posto dell'autonomia impositiva, ticket e nuove tasse". Sabato a Venezia soffierà il vento dell'alternativa. "La commedia è finita - conclude Valentini -. Basta con gli slogan e la retorica xenofoba. E' ora di alzare forte la voce per i diritti, la dignità, la democrazia".
L’accoglienza indegna
23/08/2011TerraE questa la Caritas e la Regione Veneto la chiamano accoglienza! Nascosti e isolati da tutto e da tutti: lontani dalla città, senza mezzi per muoversi e senza nessun referente o operatore che fornisca loro delle informazioni. Assistenza medica quasi inesistente. Corsi di italiano e supporto legale? Nemmeno a parlarne.
Molti di loro vorrebbero fare richiesta d’asilo ma non trovano uno straccio di referente disposto ad ascoltarli. A parte il vitto e l’alloggio non hanno niente. E i luoghi in cui dormono, nella periferia veneziana, consistono in un capannone e in un piccolo edificio assolutamente inadeguati. E poi si viene a sapere di malattie, problemi respiratori, traumi psico-fisici in seguito alla traversata coi barconi verso Lampedusa. Gli attivisti delle varie associazioni per la tutela dei diritti umani che sono riusciti ad entrare in contatto con loro, raccontano di persone abbandonate a se stesse.
E’ toccato proprio a questi ragazzi - a loro che dalla Prefettura si sono visti sdegnosamente rifiutare qualsiasi proposta di collaborazione sull’accoglienza dei migranti - raccogliere le richieste di assistenza dei profughi, ascoltare i loro comprensibili sfoghi, offrire informazioni legali, corsi di italiano e accompagnarli dai medici messi a disposizione da Emergency. I pochi operatori preposti, spiegano gli attivisti, passano velocemente per lo stanzone, senza mai soffermarsi, con la scusa che debbono occuparsi di troppe strutture in tutta la Regione. Intanto, ci sono stati anche casi di molestia sessuale, come quello compiuto al porto da un italiano nei confronti di un ragazzo ghanese, per non parlare di altri “approcci” insistenti da parte di gruppi di individui appostati nell’area portuale.
Il calvario, per queste persone che hanno vissuto la guerra, la fuga, la traversata e la detenzione a Manduria o in altri centri, continua anche qui, al porto di Venezia. D’altronde, la vicenda era già partita col piede sbagliato sin dall’inizio. Dal governatore Luca Zaia che prima parla di “civile accoglienza” ma immediatamente, di fronte alla levata di scudi della sua stessa base leghista, delega tutto alla Prefettura di Venezia, assolutamente impreparata a gestire politicamente e operativamente la faccenda. Il quadro nazionale non è migliore. Rinominati, su richiesta europea, “profughi” invece di “clandestini”, i migranti in arrivo dalla Libia, perlomeno teoricamente, sono promossi “degni di essere accolti” nel nostro paese, sfuggendo al triste destino dei tanti respinti che pure non erano diversi da loro. Accoglienza, quindi. Ma di quale accoglienza stiamo parlando? Da un lato, il governo ha volutamente creato uno “stato d’emergenza” che ha condotto a pratiche di accoglimento (spesso tradotte in pratiche di detenzione) in deroga all’ordinamento giuridico portando avanti al tempo stesso – attraverso i mass media – una retorica della paura e una “teoria dell’invasione” che continua a permeare il dibattito pubblico. Dall’altro lato, a livello di gestione locale, nella Regione Veneto hanno regnato confusione, incompetenza e propaganda politica con derive xenofobe su cui la Lega l’ha fatta da padrona a casa nostra. La Prefettura, presa tra l’incudine e il martello, si è limitata a redarre convenzioni ad hoc con associazioni e vari enti locali. Nella Provincia di Venezia la gestione dell’accoglienza dei profughi è in gran parte in mano alla Caritas. Ma si può parlare di “accoglienza” stipare delle persone in un capannone e portargli da mangiare due volte al giorno? Il tutto in un clima assurdamente “top secret” considerando che Regione e Prefettura hanno sempre risposto picche alle richieste di sapere dove e come è gestita questa famosa accoglienza. La presenza dei migranti al porto di Venezia è stata segnalata solo grazie ad alcuni lavoratori dei cantieri navali che avevano notato dei ragazzi africani vicino alla dogana portuale di Marghera. E’ bastata una breve (e non autorizzata) ispezione degli attivisti dei diritti umani per far esplodere il caso sui giornali locali. Il referente Caritas, don Dino Pistolato, ha immediatamente negato la veridicità delle affermazioni e respinto le proteste di tutti i migranti intervistati. Ma poi ha ammesso che “siamo ad agosto” e che “gli operatori hanno il diritto alle ferie”. Con loro, evidentemente, se ne sono andati in ferie anche i diritti umani.
Molti di loro vorrebbero fare richiesta d’asilo ma non trovano uno straccio di referente disposto ad ascoltarli. A parte il vitto e l’alloggio non hanno niente. E i luoghi in cui dormono, nella periferia veneziana, consistono in un capannone e in un piccolo edificio assolutamente inadeguati. E poi si viene a sapere di malattie, problemi respiratori, traumi psico-fisici in seguito alla traversata coi barconi verso Lampedusa. Gli attivisti delle varie associazioni per la tutela dei diritti umani che sono riusciti ad entrare in contatto con loro, raccontano di persone abbandonate a se stesse.
E’ toccato proprio a questi ragazzi - a loro che dalla Prefettura si sono visti sdegnosamente rifiutare qualsiasi proposta di collaborazione sull’accoglienza dei migranti - raccogliere le richieste di assistenza dei profughi, ascoltare i loro comprensibili sfoghi, offrire informazioni legali, corsi di italiano e accompagnarli dai medici messi a disposizione da Emergency. I pochi operatori preposti, spiegano gli attivisti, passano velocemente per lo stanzone, senza mai soffermarsi, con la scusa che debbono occuparsi di troppe strutture in tutta la Regione. Intanto, ci sono stati anche casi di molestia sessuale, come quello compiuto al porto da un italiano nei confronti di un ragazzo ghanese, per non parlare di altri “approcci” insistenti da parte di gruppi di individui appostati nell’area portuale.
Il calvario, per queste persone che hanno vissuto la guerra, la fuga, la traversata e la detenzione a Manduria o in altri centri, continua anche qui, al porto di Venezia. D’altronde, la vicenda era già partita col piede sbagliato sin dall’inizio. Dal governatore Luca Zaia che prima parla di “civile accoglienza” ma immediatamente, di fronte alla levata di scudi della sua stessa base leghista, delega tutto alla Prefettura di Venezia, assolutamente impreparata a gestire politicamente e operativamente la faccenda. Il quadro nazionale non è migliore. Rinominati, su richiesta europea, “profughi” invece di “clandestini”, i migranti in arrivo dalla Libia, perlomeno teoricamente, sono promossi “degni di essere accolti” nel nostro paese, sfuggendo al triste destino dei tanti respinti che pure non erano diversi da loro. Accoglienza, quindi. Ma di quale accoglienza stiamo parlando? Da un lato, il governo ha volutamente creato uno “stato d’emergenza” che ha condotto a pratiche di accoglimento (spesso tradotte in pratiche di detenzione) in deroga all’ordinamento giuridico portando avanti al tempo stesso – attraverso i mass media – una retorica della paura e una “teoria dell’invasione” che continua a permeare il dibattito pubblico. Dall’altro lato, a livello di gestione locale, nella Regione Veneto hanno regnato confusione, incompetenza e propaganda politica con derive xenofobe su cui la Lega l’ha fatta da padrona a casa nostra. La Prefettura, presa tra l’incudine e il martello, si è limitata a redarre convenzioni ad hoc con associazioni e vari enti locali. Nella Provincia di Venezia la gestione dell’accoglienza dei profughi è in gran parte in mano alla Caritas. Ma si può parlare di “accoglienza” stipare delle persone in un capannone e portargli da mangiare due volte al giorno? Il tutto in un clima assurdamente “top secret” considerando che Regione e Prefettura hanno sempre risposto picche alle richieste di sapere dove e come è gestita questa famosa accoglienza. La presenza dei migranti al porto di Venezia è stata segnalata solo grazie ad alcuni lavoratori dei cantieri navali che avevano notato dei ragazzi africani vicino alla dogana portuale di Marghera. E’ bastata una breve (e non autorizzata) ispezione degli attivisti dei diritti umani per far esplodere il caso sui giornali locali. Il referente Caritas, don Dino Pistolato, ha immediatamente negato la veridicità delle affermazioni e respinto le proteste di tutti i migranti intervistati. Ma poi ha ammesso che “siamo ad agosto” e che “gli operatori hanno il diritto alle ferie”. Con loro, evidentemente, se ne sono andati in ferie anche i diritti umani.
Montecchio vieta le lingue straniere
26/07/2011TerraL’aveva già fatta grossa, la sindaca di Montecchio, popoloso comune a ridosso di Vicenza, quando nel marzo scorso aveva messo a pane e acqua – letteralmente – alcuni bambini che avevano la sola colpa di avere dei genitori che non riuscivano a pagare le rette della refezione scolastica.
Un comportamento degno della più classica matrigna cattiva delle fiabe che l’aveva catapultata alla ribalta delle cronache nazionali. Senza voler ritornare sulla vagonata di polemiche che ne era scaturita, osserviamo solo che vale, sempre e comunque, la pena di tenere d’occhio le ordinanze firmate dalla nostra Milena Cecchetto perché le sorprese non mancano quasi mai. Ed infatti eccone un’altra che si appresta a brillare come una cometa nel firmamento delle notizie curiose (e magari pure un po’ xenofobe) di questa torrida estate italiana. Come dite? Volete sapere a che partito appartenga la sindachessa di Montecchio? Continuate a leggere e provate ad indovinare. Magari ve lo scrivo alla fine! Dovete sapere che in quel di Montecchio, d’oggi in avanti, è vietato, vietatissimo, pena una sanzione di 500 euro, attaccare, distribuire, scrivere, stampare e quant’altro vi viene in mente, volantini in una lingua che non sia l’italiano. Poniamo che siate senegalesi e volete avvisare i vostri amici senegalesi che il torneo di calcio si farà il giorno tal dei tali in dato luogo. Beh, dovete scrivere in italiano e non in wolof. Venite dall’india e avete appiccicato un post it in corretto konkani (lingua ufficiale del Goa) davanti alla porta di casa vostra per avvisare vostra moglie che farete tardi e che non vi aspetti per cena? E’ comunque un avviso pubblico perché la porta sta sulla strada. 500 euro di multa a meno che prima non siate passato dalla sindachessa a chiedere il permesso e a depositare copia ufficiale della traduzione (che deve comunque apparire nel vostro post it). E siccome a Napoli dicono “ca nisciuno è fesso”, il Comune effettuerà a campione traduzione dei testi depositati per evitare che qualche furbacchione scriva in hindi la sua opinione sull’amministrazione comunale sostenendo che si tratta di una innocua lista per babbo natale.
Unica eccezione a questa Babele al contrario sarà il dialetto veneto. Che in questo caso sta a significare la parlata vicentina. “Parcossa no i va a catar raiccio invense da far poitica” (perché non si dedicano al radicchio invece che alla politica) lo si può ancora scrivere. Per ora.
Capitolo a parte i militari statunitensi della vicina caserma Dal Molin che potranno continuare come prima ad usare la lingua dello Zio Sam. Con loro non c’è ordinanza che tenga. Ci si chiede se la franchigia per l’american english valga anche per i film. Il cinema locale potrà appendere le locandine di “Iron Man” senza un cartellino che specifichi “Uomo di Ferro”? Crediamo di sì. In fondo, quello che conta è lo spirito dell’ordinanza. "L'obiettivo – ha detto la sindaca - è monitorare incontri o altri momenti pubblici delle comunità straniere per evitare scontri violenti". Sicurezza innanzitutto. E con questa gente dalla pelle colorata che si ostina a parlare tra loro linguaggi extrapadani non si sa mai. Ma davvero serve che vi scriva che partito comanda in quel di Montecchio?
Un comportamento degno della più classica matrigna cattiva delle fiabe che l’aveva catapultata alla ribalta delle cronache nazionali. Senza voler ritornare sulla vagonata di polemiche che ne era scaturita, osserviamo solo che vale, sempre e comunque, la pena di tenere d’occhio le ordinanze firmate dalla nostra Milena Cecchetto perché le sorprese non mancano quasi mai. Ed infatti eccone un’altra che si appresta a brillare come una cometa nel firmamento delle notizie curiose (e magari pure un po’ xenofobe) di questa torrida estate italiana. Come dite? Volete sapere a che partito appartenga la sindachessa di Montecchio? Continuate a leggere e provate ad indovinare. Magari ve lo scrivo alla fine! Dovete sapere che in quel di Montecchio, d’oggi in avanti, è vietato, vietatissimo, pena una sanzione di 500 euro, attaccare, distribuire, scrivere, stampare e quant’altro vi viene in mente, volantini in una lingua che non sia l’italiano. Poniamo che siate senegalesi e volete avvisare i vostri amici senegalesi che il torneo di calcio si farà il giorno tal dei tali in dato luogo. Beh, dovete scrivere in italiano e non in wolof. Venite dall’india e avete appiccicato un post it in corretto konkani (lingua ufficiale del Goa) davanti alla porta di casa vostra per avvisare vostra moglie che farete tardi e che non vi aspetti per cena? E’ comunque un avviso pubblico perché la porta sta sulla strada. 500 euro di multa a meno che prima non siate passato dalla sindachessa a chiedere il permesso e a depositare copia ufficiale della traduzione (che deve comunque apparire nel vostro post it). E siccome a Napoli dicono “ca nisciuno è fesso”, il Comune effettuerà a campione traduzione dei testi depositati per evitare che qualche furbacchione scriva in hindi la sua opinione sull’amministrazione comunale sostenendo che si tratta di una innocua lista per babbo natale.
Unica eccezione a questa Babele al contrario sarà il dialetto veneto. Che in questo caso sta a significare la parlata vicentina. “Parcossa no i va a catar raiccio invense da far poitica” (perché non si dedicano al radicchio invece che alla politica) lo si può ancora scrivere. Per ora.
Capitolo a parte i militari statunitensi della vicina caserma Dal Molin che potranno continuare come prima ad usare la lingua dello Zio Sam. Con loro non c’è ordinanza che tenga. Ci si chiede se la franchigia per l’american english valga anche per i film. Il cinema locale potrà appendere le locandine di “Iron Man” senza un cartellino che specifichi “Uomo di Ferro”? Crediamo di sì. In fondo, quello che conta è lo spirito dell’ordinanza. "L'obiettivo – ha detto la sindaca - è monitorare incontri o altri momenti pubblici delle comunità straniere per evitare scontri violenti". Sicurezza innanzitutto. E con questa gente dalla pelle colorata che si ostina a parlare tra loro linguaggi extrapadani non si sa mai. Ma davvero serve che vi scriva che partito comanda in quel di Montecchio?
Ponte nelle Alpi è il Comune più Riciclone d’Italia
19/07/2011TerraE brava Ponte delle Alpi! Piccolo grande Comune (8500 abitanti circa) che sorge sulle sponde dell’alto Piave all’interno di quello spettacolare scenario naturale che sono le montagne bellunesi. Per la seconda volta consecutivamente, Ponte delle Alpi si è laureato il Comune più “riciclone” d’Italia. Da quando, nel ’94, Legambiente ha promosso questa speciale classifica che premia le amministrazioni che maggiormente si distinguo
no nella raccolta differenziata dei rifiuti, non era mai successo che un Comune si aggiudicasse per due volte consecutive il primo premio. E’ capitato a Ponte delle Alpi che nel 2011 ha bissato il successo ottenuto nel 2010 riconfermandosi - e con percentuali di differenziato ancora maggiori – il “Comune più Riciclone d’Italia”. Un successo che va senz’altro attribuito al sindaco Roger de Menech ma che ha come indiscutibile protagonista l’assessore all’ambiente Ezio Orzes. Di lui, Maurizio Pallante ebbe a dirmi in occasione di un convegno sulla decrescita organizzato, tra l’altro, proprio a Ponte delle Alpi: “Ezio non è un assessore. Lui è l’assessore. L’assessore per definizione. Perché è così che dovrebbero essere tutti gli assessori d’Italia. Ezio ci dimostra nei fatti e nelle pratiche amministrative di tutti i giorni che un altro mondo, o un altro Comune se preferisci, non solo è possibile ma fa funzionare le cose molto meglio per tutti!”
Un parere condiviso anche dalla giuria di Legambiente che tra i 1290 Comuni italiani in gara, tutti con una percentuale di differenziato superiore al 60%, ha premiato l’87,8% di Ponte delle Alpi, valutando complessivamente l’effettivo recupero dei materiali raccolti, l’efficacia e la qualità del servizio. Da sottolineare che il calcolo di Legambiente non ha potuto tener conto del riciclo effettuato dopo la raccolta delle immondizie nello speciale ecocentro voluto dall’assessore Orzes e che alza il totale complessivo di riciclato, per l’anno 2010, alla ragguardevole percentuale del 90,3%. Un risultato davvero sorprendente e che mette a tacere quanti considerano l’incenerimento la sola soluzione praticabile. “Si parlava di realizzarne anche uno qui da noi, tempo fa – ricorda Orzes -. La Regione ha cercato di convincerci che un inceneritore ci era indispensabile. Le abbiamo dimostrato con i fatti che si sbagliava”. Quale è il segreto di Ponte delle Alpi? “Un segreto solo non c’è. Se vogliamo, ce ne sono tanti: un servizio impeccabile e puntuale, un ecocentro gestito con grande accuratezza, costi di gestione contenuti e tariffe che premiano i comportamenti dei cittadini più virtuosi, educazione ambientale nelle scuole e poi tanta determinazione e la voglia condivisa di fare la cosa migliore per la propria comunità. Tutto qua. Da parte mia voglio solo ringraziare i cittadini di Ponte nelle Alpi che sono stati i veri protagonisti di questa rivoluzione culturale guardata con ammirazione da tutta l’Italia”. Siccome riciclare significa anche contribuire a ridurre le emissioni in atmosfera, secondo i calcoli di Legambiente nel 2010 ogni abitante di Ponte nelle Alpi, grazie alla raccolta differenziata e al recupero, ha contribuito a liberare la nostra atmosfera da ben 105.1 chili di emissioni di Co2. Si può ben dire che a Ponte nelle Alpi, piccolo grande Comune virtuoso di quell’Italia delle buone pratiche che non fa mai notizia nei giornali, ogni cittadino, grazie alla pratica quotidiana indirizzata da una amministrazione efficiente, ha fatto la sua parte per rispettare gli obiettivi di Kyoto. Ha fatto la sua parte per salvare il mondo.
no nella raccolta differenziata dei rifiuti, non era mai successo che un Comune si aggiudicasse per due volte consecutive il primo premio. E’ capitato a Ponte delle Alpi che nel 2011 ha bissato il successo ottenuto nel 2010 riconfermandosi - e con percentuali di differenziato ancora maggiori – il “Comune più Riciclone d’Italia”. Un successo che va senz’altro attribuito al sindaco Roger de Menech ma che ha come indiscutibile protagonista l’assessore all’ambiente Ezio Orzes. Di lui, Maurizio Pallante ebbe a dirmi in occasione di un convegno sulla decrescita organizzato, tra l’altro, proprio a Ponte delle Alpi: “Ezio non è un assessore. Lui è l’assessore. L’assessore per definizione. Perché è così che dovrebbero essere tutti gli assessori d’Italia. Ezio ci dimostra nei fatti e nelle pratiche amministrative di tutti i giorni che un altro mondo, o un altro Comune se preferisci, non solo è possibile ma fa funzionare le cose molto meglio per tutti!”
Un parere condiviso anche dalla giuria di Legambiente che tra i 1290 Comuni italiani in gara, tutti con una percentuale di differenziato superiore al 60%, ha premiato l’87,8% di Ponte delle Alpi, valutando complessivamente l’effettivo recupero dei materiali raccolti, l’efficacia e la qualità del servizio. Da sottolineare che il calcolo di Legambiente non ha potuto tener conto del riciclo effettuato dopo la raccolta delle immondizie nello speciale ecocentro voluto dall’assessore Orzes e che alza il totale complessivo di riciclato, per l’anno 2010, alla ragguardevole percentuale del 90,3%. Un risultato davvero sorprendente e che mette a tacere quanti considerano l’incenerimento la sola soluzione praticabile. “Si parlava di realizzarne anche uno qui da noi, tempo fa – ricorda Orzes -. La Regione ha cercato di convincerci che un inceneritore ci era indispensabile. Le abbiamo dimostrato con i fatti che si sbagliava”. Quale è il segreto di Ponte delle Alpi? “Un segreto solo non c’è. Se vogliamo, ce ne sono tanti: un servizio impeccabile e puntuale, un ecocentro gestito con grande accuratezza, costi di gestione contenuti e tariffe che premiano i comportamenti dei cittadini più virtuosi, educazione ambientale nelle scuole e poi tanta determinazione e la voglia condivisa di fare la cosa migliore per la propria comunità. Tutto qua. Da parte mia voglio solo ringraziare i cittadini di Ponte nelle Alpi che sono stati i veri protagonisti di questa rivoluzione culturale guardata con ammirazione da tutta l’Italia”. Siccome riciclare significa anche contribuire a ridurre le emissioni in atmosfera, secondo i calcoli di Legambiente nel 2010 ogni abitante di Ponte nelle Alpi, grazie alla raccolta differenziata e al recupero, ha contribuito a liberare la nostra atmosfera da ben 105.1 chili di emissioni di Co2. Si può ben dire che a Ponte nelle Alpi, piccolo grande Comune virtuoso di quell’Italia delle buone pratiche che non fa mai notizia nei giornali, ogni cittadino, grazie alla pratica quotidiana indirizzata da una amministrazione efficiente, ha fatto la sua parte per rispettare gli obiettivi di Kyoto. Ha fatto la sua parte per salvare il mondo.
3nd International conference on degrowth a Venezia
12/07/2011TerraNiente sprint. Si parte lenti, lentissimi. Non a caso, il logo sarà quello di una lumaca sorridente. In fondo, stiamo parlando di decrescita (felice) e non di olimpiadi. Niente “citius, altius, fortius” ma piuttosto, come scriveva Alex Langer, “lentius, profundius, soavius”. Il che non significa prendersela comoda o dedicarsi al beato ozio. Al contrario.
C’è tanto, tantissimo da fare per portare Venezia – e la sua laguna – all’appuntamento con la terza international conference of Degrowth for ecological sustainability, la terza conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica che, dopo Parigi nel 2008 e Barcellona nel 2010, si svolgerà proprio nella Città dei Dogi tra il 12 e il 23 settembre del 2012. Dodici giorni di convegni e dibattiti che vedranno salire sul palco delle aule messe a disposizione dallo Iuav o nelle sale preparate dal Comune, i più importanti studiosi mondiali promotori di una economia alternativa a quella che oggi macina e mercifica diritti e ambiente. Dodici giorni che, per Venezia, saranno soltanto un punto di arrivo di un lungo percorso che comincia domani stesso. Lo ha efficacemente spiegato l’assessore all’ambiente, Gianfranco Bettin, in occasione di un incontro con la stampa, svoltosi allo Iuav, giovedì scorso. “La terza conferenza internazionale sulla decrescita sarà un appuntamento importante per la nostra città – ha dichiarato l’ambientalista – ma sarà soprattutto una grande opportunità per noi che cominciamo oggi un lungo, e difficile per molti aspetti, percorso di avvicinamento che non sarà solo teorico. Venezia, la vecchia Venezia, è una città che nel suo complesso ha saputo resistere a pesanti attacchi portati dalle cosiddette ‘politiche di sviluppo’ come un livello insostenibile di turismo, l’industrializzazione incontrollata di porto Marghera, le devastazioni ambientali perpetrate nella sua laguna e altro ancora. Adesso è venuto il momento di ripensare al nostro modo di essere comunità, entrare in una fase successiva e avviarsi verso un nuovo livello di civiltà”. L’appuntamento non è quindi per il settembre del 2012 ma per domani stesso quando comincerà questo graduale cammino di azioni e di iniziative che, grazie anche alla collaborazione dell’università e delle vaste reti cittadine che operano per una economia sostenibile e solidale, l’assessorato metterà in cantiere con l’obiettivo di far recitare, tra un anno, gli apostoli della decrescita nel palcoscenico di una laguna già avviata in un processo di transizione verso l’economia del futuro. Una economia che non sarà quella del nucleare e neppure quella del petrolio. Questo percorso di transizione, denominato “Verso Venezia 2012”, ha come promotori, oltre al Comune, anche l’istituto di ricerche Research & Degrowth, l’associazione per la Decrescita, le università di Venezia e Udine, l’Arci, L’associazione Kuminda, Spiazzi Verdi e la cooperativa Sesterzio. Tante altre associazioni e istituzioni, contribuiranno in qualità di partner.
“Qualcuno ha detto che i maya avrebbero previsto la fine del mondo nel 2012 – ha scherzato, in conclusione, l’assessore Bettin -. Noi ci accontentiamo che questa data segni la fine del mondo impostato sulla crescita insostenibile”.
C’è tanto, tantissimo da fare per portare Venezia – e la sua laguna – all’appuntamento con la terza international conference of Degrowth for ecological sustainability, la terza conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica che, dopo Parigi nel 2008 e Barcellona nel 2010, si svolgerà proprio nella Città dei Dogi tra il 12 e il 23 settembre del 2012. Dodici giorni di convegni e dibattiti che vedranno salire sul palco delle aule messe a disposizione dallo Iuav o nelle sale preparate dal Comune, i più importanti studiosi mondiali promotori di una economia alternativa a quella che oggi macina e mercifica diritti e ambiente. Dodici giorni che, per Venezia, saranno soltanto un punto di arrivo di un lungo percorso che comincia domani stesso. Lo ha efficacemente spiegato l’assessore all’ambiente, Gianfranco Bettin, in occasione di un incontro con la stampa, svoltosi allo Iuav, giovedì scorso. “La terza conferenza internazionale sulla decrescita sarà un appuntamento importante per la nostra città – ha dichiarato l’ambientalista – ma sarà soprattutto una grande opportunità per noi che cominciamo oggi un lungo, e difficile per molti aspetti, percorso di avvicinamento che non sarà solo teorico. Venezia, la vecchia Venezia, è una città che nel suo complesso ha saputo resistere a pesanti attacchi portati dalle cosiddette ‘politiche di sviluppo’ come un livello insostenibile di turismo, l’industrializzazione incontrollata di porto Marghera, le devastazioni ambientali perpetrate nella sua laguna e altro ancora. Adesso è venuto il momento di ripensare al nostro modo di essere comunità, entrare in una fase successiva e avviarsi verso un nuovo livello di civiltà”. L’appuntamento non è quindi per il settembre del 2012 ma per domani stesso quando comincerà questo graduale cammino di azioni e di iniziative che, grazie anche alla collaborazione dell’università e delle vaste reti cittadine che operano per una economia sostenibile e solidale, l’assessorato metterà in cantiere con l’obiettivo di far recitare, tra un anno, gli apostoli della decrescita nel palcoscenico di una laguna già avviata in un processo di transizione verso l’economia del futuro. Una economia che non sarà quella del nucleare e neppure quella del petrolio. Questo percorso di transizione, denominato “Verso Venezia 2012”, ha come promotori, oltre al Comune, anche l’istituto di ricerche Research & Degrowth, l’associazione per la Decrescita, le università di Venezia e Udine, l’Arci, L’associazione Kuminda, Spiazzi Verdi e la cooperativa Sesterzio. Tante altre associazioni e istituzioni, contribuiranno in qualità di partner.
“Qualcuno ha detto che i maya avrebbero previsto la fine del mondo nel 2012 – ha scherzato, in conclusione, l’assessore Bettin -. Noi ci accontentiamo che questa data segni la fine del mondo impostato sulla crescita insostenibile”.
Quel pasticciaccio brutto del Lido di Venezia
12/07/2011Terra
Il pasticciaccio brutto del Lido di Venezia nasce, tanto per cambiare, sotto le urgenti stelle di una politica di “sviluppo economico” nel firmamento del Commissario di turno. A spalancare le porte dello “sviluppo” dell’isola è la Biennale che promuove un concorso per progettare un nuovo palazzo del Cinema. Cento milioni di euro il budget previsto. In cassa non c’è neppure uno di questi euro, ma il Governo ci mette la faccia e si impegna a realizzare l’opera per i 150 anni dell’Italia unita. E buonanotte. Tutt’oggi non ci sono neppure le fondamenta, del nuovo palazzo. Ma intanto si nomina un commissario col compito di ramazzare la cifra. Un commissario i cui poteri si estendono, vai a capire il perché, a tutta l’isola d’oro. Già da qui si capisce il binario che prenderà la questione. Un binario tutto sbagliato. Un appalto senza copertura, un commissario senza emergenze ma che può far di tutto, un palazzetto che non si farà ma per il quale serve una vagonata di soldi. Il tutto fuori dal controllo del Comune di Venezia e soprattutto, al di là dai più elementari controlli democratici e di impatto ambientale. Il resto è solo un elenco di devastazioni. La vendita a fini puramente speculativi dell’ospedale al Mare che era il fiore all’occhiello delle terapie di riabilitazione dell’Asl veneziana e che d’ora in poi verranno dirottata alle strutture private, l’avviata costruzione di una mega darsena per mega yacht di cui ben pochi lidensi sentono la necessità di ormeggiarci la barca, l’asfaltatura dello storico giardino chiamato Parco delle Rose che aveva la sola colpa di trovarsi sul Gran Viale dove il commissario ha deciso di realizzare due mastodontici edifici di cinque piani con tanto di altri due piani interrati e una torretta centrale dall’elegante tetto spiovente. Supermercato e garage annessi. E l’elenco potrebbe continuare ancora con la “scalinata monumentale” (tra l’altro, impraticabile per i disabili) da realizzare davanti al Casinò che adesso non pare abbastanza faraonico, e tutta la ristrutturazione dell’area davanti al palazzo del Cinema che ancora non si sa se si farà o no. Tutto qua? No. Macellare il lido pareva poco. I poteri del commissario, per grazia ministeriale, sono stati recentemente estesi a due malcapitate isole vicine: la certosa e il forte di Malamocco. Non basteranno i vincoli della soprintendenza a salvare i resti archeologici di quella che un tempo era l’antica Metamauco descritta da Plinio.
“Il nuovo palazzo del Cinema è stato il tumore che ha scatenato una serie impressionante di metastasi che stanno incancrenendo tutta la laguna” hanno scritto in un comunicato le associazioni ambientaliste del lido (www.unaltrolido.com) riunitesi in una rete per difendere quello che rimane da difendere dell’isola dell’oro sempre più svalutato. La scorsa settimana, una loro delegazione si è presentata in Comune dove ha incontrato i capogruppi di maggioranza e, in seguito, l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin e il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia. Proprio Caccia aveva appena depositato una interpellanza urgente in cui chiede al Comune di rinviare la vicina convocazione della conferenza servizi che rischia di trasformarsi in una ennesima “licenza di uccidere” nella mani del commissario. “Bisogna superare la politica del commissariamento che in questo stato delle cose non ha nessun senso se non altro perché non c’è nessuna emergenza – ha spiegato il consigliere ambientalista – e si ottiene solo che le decisioni sul lido vengano prese senza trasparenza e fuori da ogni percorso democratico. Non è neppure accettabile che, come è successo sino ad ora, con la scusa del commissariamento nessuno dei tanti progetti, preliminari e definitivi, operati nel nostro territorio e citati dalla conferenza dei servizi sia mai stato esaminato dal Comune di Venezia. Dove sta la democrazia i questo processo?”
Sulla gru per un permesso negato
21/06/2011TerraSono saliti sopra una gru. Su, in alto. Proprio sopra il tetto della prefettura di Padova. Eugene, John e Khalid. L’ultimo, disperato, tentativo di farsi riconoscere i loro diritti. Prima di arrampicarsi sopra la gru, Eugene, John e Khalid, hanno tentato tutte le altre strade. Quelle per così dire “istituzionali”. Hanno bussato alle porte del prefetto, del sindaco e persino del vescovo.
Tanta solidarietà, qualche mozione di sostegno in consiglio comunale ma nessun fatto concreto. Assieme ad altri migranti truffati dalla sanatoria, allora hanno organizzato un presidio ad oltranza, accampandosi mercoledì davanti a palazzo santo Stefano, sede della prefetture e della Provincia di Padova. “Nonostante la vittoria al Consiglio di Stato e le centinaia di denunce nei confronti dei truffatori – ha spiegato un portavoce dei migranti - il nostro permesso di soggiorno è ancora lontano. Nessuno ci sa dire neppure se e quando arriverà. Il ministro Roberto Maroni, come se non bastasse, ha diramato una circolare che sospende il rilascio dei documenti. In questo modo le stesse procure faticano a rilasciare i permessi di soggiorno che permetterebbero la protezione delle vittime e darebbero credito alle nostre testimonianze sulle truffe. Truffe che nella nostra regione sono state organizzate da una vera e propria associazione a delinquere legata alla camorra di cui ancora nessuno conosce i veri contorni e su cui forse qualcuno che sta in alto non vuole andare fino in fondo”. In alto allora hanno deciso di andarci i tre migranti che alle 15 di giovedì si sono arrampicati sopra una gru, replicando l’impresa di Brescia. Una iniziativa piuttosto pericolosa in quanto la gru in questione non era dotata di cabina di comando. I migranti quindi sono stati costretti a rimanere appesi alla struttura. Lassù, hanno resistito tutta la notte, grazie anche al sostegno dei tanti ragazzi che in quel momento erano impegnati a montare lo Sherwood Festival ma che hanno immediatamente smesso il lavoro per accorrere sotto la gru. Sostegno concreto quello delle Sherwood festival: coperte, cibi pronti, termos di bevande calde e un presidio di sostegno lungo tutta la nottata. La situazione si è sbloccata verso la mattina, quando prefettura e questura hanno deciso di accogliere le loro richiesto sbloccando circa 40 permessi di soggiorno per coloro che erano stati colpiti dalla doppia espulsione (così Maroni potrà dire un’altra volta che la “colpa è tutta dei giudici e non del ministero”) e aprendo un tavolo di trattativa con le vittime della truffa. “Nel Veneto ha operato una associazione di stampo camorristico e noi invece di aiutare le vittime e di valorizzare le loro testimonianze per ottenere giustizia, le perseguitiamo! – commenta amaramente Luca Bertolino dell’associazione Razzismo Stop. – Ma la cosa ancora più incredibile è che in Italia oramai tocca salire sopra una gru, mettendo a repentaglio la propria vita, non per sostenere una piattaforma sindacale o per ottenere più garanzie lavorative, ma per far rispettare una legge dello Stato e per chiedere che la polizia indaghi su un raggiro e smetta di perseguire il raggirato”.
Tanta solidarietà, qualche mozione di sostegno in consiglio comunale ma nessun fatto concreto. Assieme ad altri migranti truffati dalla sanatoria, allora hanno organizzato un presidio ad oltranza, accampandosi mercoledì davanti a palazzo santo Stefano, sede della prefetture e della Provincia di Padova. “Nonostante la vittoria al Consiglio di Stato e le centinaia di denunce nei confronti dei truffatori – ha spiegato un portavoce dei migranti - il nostro permesso di soggiorno è ancora lontano. Nessuno ci sa dire neppure se e quando arriverà. Il ministro Roberto Maroni, come se non bastasse, ha diramato una circolare che sospende il rilascio dei documenti. In questo modo le stesse procure faticano a rilasciare i permessi di soggiorno che permetterebbero la protezione delle vittime e darebbero credito alle nostre testimonianze sulle truffe. Truffe che nella nostra regione sono state organizzate da una vera e propria associazione a delinquere legata alla camorra di cui ancora nessuno conosce i veri contorni e su cui forse qualcuno che sta in alto non vuole andare fino in fondo”. In alto allora hanno deciso di andarci i tre migranti che alle 15 di giovedì si sono arrampicati sopra una gru, replicando l’impresa di Brescia. Una iniziativa piuttosto pericolosa in quanto la gru in questione non era dotata di cabina di comando. I migranti quindi sono stati costretti a rimanere appesi alla struttura. Lassù, hanno resistito tutta la notte, grazie anche al sostegno dei tanti ragazzi che in quel momento erano impegnati a montare lo Sherwood Festival ma che hanno immediatamente smesso il lavoro per accorrere sotto la gru. Sostegno concreto quello delle Sherwood festival: coperte, cibi pronti, termos di bevande calde e un presidio di sostegno lungo tutta la nottata. La situazione si è sbloccata verso la mattina, quando prefettura e questura hanno deciso di accogliere le loro richiesto sbloccando circa 40 permessi di soggiorno per coloro che erano stati colpiti dalla doppia espulsione (così Maroni potrà dire un’altra volta che la “colpa è tutta dei giudici e non del ministero”) e aprendo un tavolo di trattativa con le vittime della truffa. “Nel Veneto ha operato una associazione di stampo camorristico e noi invece di aiutare le vittime e di valorizzare le loro testimonianze per ottenere giustizia, le perseguitiamo! – commenta amaramente Luca Bertolino dell’associazione Razzismo Stop. – Ma la cosa ancora più incredibile è che in Italia oramai tocca salire sopra una gru, mettendo a repentaglio la propria vita, non per sostenere una piattaforma sindacale o per ottenere più garanzie lavorative, ma per far rispettare una legge dello Stato e per chiedere che la polizia indaghi su un raggiro e smetta di perseguire il raggirato”.
Welcome per una accoglienza degna
14/06/2011Terra
La prima risposta sbagliata è quella del governatore veneto, Luca Zaia, che, due giorni dopo aver assicurato che avrebbe gestito di persona l’afflusso dei profughi per trovare loro una dignitosa sistemazione, ha gettato la spugna scaricando il problema sulla prefettura di Venezia e saltando sulle barricate contro l’invasione islamica alzate a gare da tutti i sindaci del Carroccio.
Sindaci che – a proposito di risposte sbagliate – sono arrivati anche a giustificare come “logica conseguenza della cattiva gestione romana dell’emergenza” atti come la finta bomba che qualche demente ha pensato di piazzare davanti alla porta del centro di ospitalità di Asiago. La cosa ha suscitato la pronta reazione del sindaco del paese che si è detto enormemente preoccupato. Preoccupato per le possibili ripercussioni nella stagione turistica. Altra risposta sbagliata. Eppure un altro Veneto capace di tirare fuori la risposta giusta c’è. Un Veneto che non è razzista e crede ancora in valori come la solidarietà e in principi universali come i diritti umani. Il Veneto di Emergency, delle cooperative come la Caracol, di Amnesty International, dei centri sociali, delle scuole di italiano per stranieri, gratuite e aperte a tutti, di Comuni come quello di Venezia, di cittadini ancora capaci di indignarsi e di tantissime associazioni chi si sono raccolte in una rete chiamata dell’accoglienza degna. “Non si tratta solo di trovare una branda per queste persone, magari in un campo circondato dal filo spinato – spiega Vittoria Scarpa del cso Rivolta -, ma di costruire un percorso che preveda anche, per chi vuole, l’insegnamento della lingua italiana, l’assistenza sanitaria e quant’altro è funzionale all’inserimento sociale”. Con una formale lettera alla Prefettura di Venezia, l’intero arcipelago associazionista veneziano si è messo a disposizione di questo percorso, offrendo ognuno le specifiche competenze della propria associazione, dall’assistenza sanitaria di Emergency, ai 24 posti letto della cooperativa Caracol. La risposta che non è ancora stata data invece, è quella della prefettura. Solo informalmente, su un giornale locale, è apparsa una dichiarazione della prefetta, Luciana Lamorgese, che spiegava come “non fosse proprio il caso” di affidare dei profughi ad una cooperativa così vicina al Rivolta. Di fronte ad una chiusura ritenuta ingiustificata, le associazioni si sono riunite in assemblea a Marghera, mercoledì 8, e hanno deciso di mobilitarsi martedì 21 con una manifestazione in campo S. Tomà, a due passi da palazzo Balbi, sede della Giunta regionale, a Venezia. A sostegno dell’iniziativa, la rete Welcome ha promosso l’appello “Per un Veneto accogliente e degno” che ha avuto come primi firmatari Gianfranco Bettin e Gino Strada. L’arrivo dei profughi, si legge nel documento, è stato trattato solo “con il linguaggio dell'allarme e della paura. Sta prendendo forma un sistema parallelo di accoglienza in cui gli standard minimi previsti normalmente non vengono garantiti”. La nostra Regione, si legge, è stata l’unica a registrare e il rifiuto di alcuni amministratori di dare ospitalità, “la demagogia prende il sopravvento sulla dignità, ancora una volta l'abito del razzismo e della chiusura viene cucito addosso a questa terra”.
Ma c'è un Veneto che ha voglia di cambiare. Un Veneto che porta sulle spalle il peso di una crisi economica senza precedenti, senza per questo cercare di scaricarlo sui più deboli, sugli ultimi, sugli ‘altri’. Un Veneto che non ha paura di dire Welcome”.
Referendum, anche Venezia fa festa
14/06/2011Terra
E Venezia ci fa la sua figura con una affluenza superiore alla media nazionale e che, per ora, si aggira sul 60 per cento. Merito anche del Comune che soprattutto nella difesa dell’acqua pubblica si è speso in prima persona, promuovendo una rete di ammini- stratori per la difesa dei beni comuni. Adesso bisognerà attendere la conta dei sì. Ma la vera battaglia, nessuno lo nega, è stata quella per il raggiungimento del quorum. Una battaglia vinta. «Ci speravo ma non ci credevo - commenta Francesco Penzo, responsabile del comitato veneziano per l’acqua pubblica - prima di venire qui in municipio a vedere l’andamento dell’affluenza, ho spedito l’ultima mail alla nostra nutritissima mailing list ricordando le parole di Salvador Allende: la storia appartiene al popolo. Quello era un momento critico per la democrazia cilena. Ma non sono sicuro che la situazione ora sia così differente. Questo referendum, con questi risultati sarà una svolta per tutti». Una grande vittoria dei movimenti, del silenzio di tanta stampa e delle tv - commenta Tommaso Cacciari del laboratorio Morion di Venezia - che sia chiaro per tutti che non sono stati i risultati delle ultime amministrative a far da traino al referendum, ma il movimento referendario che ha trainato anche i candidati più sensibili ai nostri temi nelle elezioni. Insomma, non ha vinto il Pd, che fino a una settimana fa era per la privatizzazione! Hanno vinto i comitato che da soli hanno sostenuto tutta la battaglia, nonostante tanti partiti abbiano cercato all’ultimo momento di salire sul nostro carro». Gli straordinari risultati di questo referendum e il modo in cui sono stati costruiti, dal basso e coinvolgendo la società civile che sta fuori dai palazzi - conclude Michele Valentini del cso Rivolta - segnano una nuova stagione per questo nostro Paese. Queste percentuali sono uno schiaffo alle scellerate politiche del governo Berlusconi. Ma non solo. Sono anche un chiaro segnale a tutti coloro che, all’interno del centro sinistra pensa che si possano privatizzare e mercificare beni comuni come l’acqua e i diritti». Intanto, i dati scorrono sul mega schermo e le bandiere per l’acqua pubblica e contro il ritorno del nucleare sventolano sempre più in alto.
Referendum, ci siamo quasi
7/06/2011Terra
Altri marciatori partiti dalla valle di Rabbi, si sono uniti al gruppo seguendo il Rabbies e altri ancora camminando lungo le sponde del Novella, supportati dalle associazioni di rafting e di canoa.
Gli attivisti di Primiero hanno seguito il Vanoi e il comitato Abc delle Giudicarie ha percorso in bicicletta la val Rendena. Partiti chi il mercoledì e chi il giovedì, sono tutti confluiti sabato 5 a Trento per festeggiare in piazza Duomo.
A Venezia, come abbiamo già scritto su Terra, la notte prima della decisione della Corte di Cassazione di validare il quesito sul nucleare, una cinquantina di attivisti ha campeggiato con tanto di tende e sacchi a pelo in piazza San Marco. A Marghera, sabato scorso, i graffitari hanno colorato i grigi muri di piazza del Mercato per celebrare il Godzilla Day. Il fantascientifico mostro giapponese, ricordiamocelo, era proprio un prodotto delle radiazioni nucleari. Neanche la Biennale è rimasta fuori. Il giorno del vernissage, sabato, una barca a vela che batteva l’insegna di Emergency ha percorso il bacino di San Marco sventolando bandiere contro il nucleare e gridando slogan dai megafoni. Un altro gruppo di attivisti si è dato battaglia ai Giardini, davanti ai padiglioni, con pistole d’acqua.
Tra le tante prese di posizione, val la pena citare le monache del convento delle Carmelitane Scalze. Sì, proprio le suore di clausura che, crediamo, dal tempo dei dogi e anche prima, non avevano mai preso posizione su una qualsiasi faccenda terrena. Proprio loro, hanno scritto una lettera a tutti i preti della Diocesi di Venezia, invitandoli a pubblicizzare il referendum tra i fedeli. Le vie del Signore, ha osservato qualcuno, sono davvero infinite. La stessa rete interdiocesana, d’altra parte, si è formalmente schierata a tutela di un bene comune che è anche un dono di dio. “Può un credente – hanno scritto – accettare una economia che pretende di mercificare anche l’acqua del battesimo?”
Tra le tantissime iniziative che proprio non ci stanno in un solo articolo di giornale, scegliamo di chiudere con la storia di Francesca, giovanissima mamma che sale sui vaporetti di Venezia col piccolo ancora in fasce per distribuire volantini tra la gente. “Lo faccio per il futuro di mio figlio – mi spiega-. Tanti non sanno ancora che ci sarà un referendum. Molti mi ringraziano e mi dicono di risparmiare il volantino che già voteranno sì. Allora io gliene allungo 2 o 3 per aiutarmi nella distribuzione e loro accettano sempre volentieri. Capita che qualcuno mi dica che non vuole saperne di politica. Io apro un dialogo e tutto il vaporetto ascolta o partecipa. Alla fine tutti mi sorridono, si crea un legame, forse passa un po' di energia, cadono dei muri, non siamo più dei singoli viaggiatori in un vaporetto ma parte di una stessa comunità con obbiettivi comuni. Quando scendono mi salutano sorridendo e con una faccia meno spenta rispetto a quando sono saliti. Alle volte basta poco, vero?"
Camping No Nuke in piazza San Marco
1/06/2011Terra
“Abbiamo deciso di intraprendere una azione così spettacolare - spiega Beppe Caccia, consigliere comunale della lista In Comune con Bettin - per chiedere alla Corte di Cassazione di non defraudare gli italiani un loro diritto costituzionale come quello di potersi esprimere in un referendum. Ricordiamoci che il decreto Omnibus non comporta una vera rinuncia alla costruzione di centrali nucleari ma un semplice rinvio in attesa che l’opinione pubblica dimentichi il disastro di Fukushima. Come d’altra parte, ha ammesso lo stesso Silvio Berlusconi”.
Gli attivisti, una cinquantina circa, hanno cominciato a montare le tende all’ombra del campanile verso le 18 di martedì, srotolando lunghi striscioni e ricoprendo di bandiere gialle “Mai + Nucleare” le antiche colonne di Marco e Todaro. Il campeggio è continuato sino al mezzogiorno del giorno dopo, nonostante la sera si sia alzata un po’ di marea (ricordiamo che San marco è il punto più basso della città) e la mattina Venezia si sia svegliata sotto una fastidiosa pioggia.
Da rimarcare come il presidio anti nucleare sia stato accolto con favore e simpatia da tutti i turisti che hanno affollato la piazza. E che non sono mai pochi. E’ pur vero che per la grande maggioranza si tratta di cittadini stranieri e che di conseguenza non potranno influire sul raggiungimento del quorum ma rimane comunque un dato positivo le numerose dimostrazioni di solidarietà dimostrate agli attivisti da tanti giapponesi, inglesi e tedeschi in particolare. Menzione a parte per un gruppo di spagnoli “indignati” che si sono addirittura uniti all’iniziativa.
“Perché piazza San Marco? - risponde Beppe Caccia - perché questa piazza è il salotto buono d’Europa e, soprattutto in questi giorni in cui si aprono i padiglioni della Biennale d’Arte, è sotto i riflettori di tutto il mondo. Per squarciare quella cappa di silenzio mediatico con la quale le televisioni e la maggior parte dei mezzi di stampa stanno cercando di mettere a tacere tutto quello che riguarda i referendum, abbiamo scelto di occupare simbolicamente questa piazza per ricordare a tutti gli italiani e anche a tutto il resto del mondo che noi il referendum lo vogliamo. Vogliamo votare, vogliamo raggiungere il quorum e poi vogliamo anche vincere. Perché Chernobyl, Three Mile Island e Fukushima bastano e avanzano per farci capire che nel nucleare, l’unica cosa sicura sono i rischi”. Ultima nota per il Comune di Venezia che si sta impegnando in prima persona nella battaglia referendaria e si è speso per far ottenere agli attivisti tutti i permessi necessari per piantare le tende in piazza ed inoltre, tramite l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin, si è costituito capofila di una rete di Comuni veneti in difesa dell’acqua pubblica ed ha tappezzato le via della città con manifesti “Il 12 e il 13 giugno si vota”. E quel “si” non avrà l’accento ma è comunque scritto più in grande.
Emergency, attacco all'ambulatorio
31/05/2011Terra
Ricordiamo che l’ambulatorio situato in via Varè 6 è la seconda struttura che l’associazione ha aperto, per dirla con le parole di Gino Strada “in un Paese incivile in cui il diritto alle cure mediche non è accessibile a tutti: l’Italia”. Quello di Marghera infatti, è il secondo ambulatorio dopo Palermo.
Da quando ha iniziato la sua attività, il 2 dicembre scorso, il poliambulatorio che Padoan definisce “una delle tante strutture private” ha curato, gratuitamente e senza chiedere i documenti, quasi un migliaio di pazienti, elargendo circa 1800 prestazioni a persone indigenti, occupandosi soltanto della patologia e non del colore della pelle, del portafoglio o della regolarità del permesso di soggiorno. Il che, secondo Padoan, sarebbe una caratteristica di tutte le strutture di sanità private.
Ha dell’incredibile anche la motivazione adottata dal manager dell’Ulss 12, secondo il quale la struttura di Emergency è in “conflitto di interessi” con il pronto soccorso e farebbe da concorrenza alla sanità pubblica sottraendogli potenziali “clienti”. A parte il fatto che, se una “struttura privata” cura gratuitamente un indigente, per il pubblico questo può comportare solo un risparmio, in questa motivazione si legge chiaro l’idea privata che il direttore generale ha della sanità pubblica. “Proprio Padoan che gestisce un ospedale pubblico come quello dell’Angelo in modo privato, accusa noi che non ci guadagniamo un centesimo, di aver messo su una struttura privata? – si stupisce Gino Strada. – Il nostro ambulatorio è perfettamente in regola. L’Ulss ha già portato a termine tutte le ispezioni tecniche per verificare l’adeguatezza dei locali, ma evidentemente a Padoan non glielo hanno detto. Da parte nostra, non solo continueremo senza alcun dubbio a lavorare a Marghera, facendo quello che la sanità pubblica dovrebbe fare ma non fa, ma anzi, aumenteremo i servizi che la nostra struttura fornisce. E sottolineo, a tutti e in maniera assolutamente gratuita”. Tra le numerose voci che si sono levate in difesa di Emergency, c’è quella del sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni: “Emergency ha tutte le autorizzazioni necessarie. Trovo scandaloso il comportamento della Regione che, invece di facilitare una iniziativa del genere, fa di tutto per ostacolarla”.
Chioggia contro l'atomo
24/05/2011Terra
Una iniziativa pittoresca e di forte impatto che, tanto per cambiare, è stata quasi completamente ignorata dai media locali, tanto la stampa quanto le televisioni. Eppure, la stessa reazione positiva dei bagnanti che, non soltanto non hanno mostrato insofferenza ma hanno applaudito gli attivisti e in molti casi si sono aggiunti alla catena, dimostra che il pericolo di una deriva nucleare è fortemente sentito e il ricordo di Fukushima ancora vivo. “Io abito vicino a Costanza – mi ha spiegato un giovane studente rumeno in Italia per motivi di studio. Uno dei tanti bagnanti che si sono aggiunti alla manifestazione col costume addosso -. Il comunismo ci ha lasciato in eredità una centrale nucleare che non ha mai smesso di darci problemi e continua ancora oggi ad inquinare il Danubio e a devastare l’ecosistema del bel parco naturale realizzato nel delta. Cinque anni fa facevo il servizio militare, e per due settimane siamo stati tutti messi in allarme per un problema al reattore. Tutta la caserma con la tuta antiradiazione e fuori nessuno ne ha saputo mai niente. Neppure telefonare alle famiglie per avvertirle di allontanarsi, ci hanno lasciato. Alla fine ci è pure andata bene e i danni sono stati contenuti. Ma la prossima volta?”
“Un risultato straordinario” per Oscar Mancini, coordinatore veneto della campagna contro il nucleare, la manifestazione, “che fa ben sperare per il raggiungimento del quorum”. Soddisfatti anche i comitati “Due sì per l’acqua” che hanno partecipato alla manifestazione perché, come spiega Tommaso Cacciari, coordinatore per Venezia “acqua e nucleare due facce della stessa battaglia per l’ambiente, per un futuro desiderabile e per la stessa democrazia”. Insomma, una bella giornata di mare, di spiaggia, di attivismo e di alternativa politica. Lo stesso bel sole quasi estivo che ha accompagnato tutta la mobilitazione che si è conclusa la sera con un applaudito concerto di Caparezza al Rivolta, è stato la dimostrazione che sabato 12 e domenica 13 giugno si può tranquillamente programmare una gita al mare e passare prima per il seggio a mettere tre sì per ipotecare un futuro pulito.
Welcome, l'accoglienza degna
17/05/2011Terra
Chi, come Mani Tese e la cooperativa Il Villaggio, dispone di mezzi più limitati, si impegna nella raccolta di fondi. L’Agesci e gli scout si offrono per accompagnamento e assistenza. Anche gli ultras del Gate 22 sono scesi in campo per organizzare momenti di socialità allo stadio. Ognuno offre quello che ha. Come la cooperativa Il Fontego che mette a disposizione il suo collegamento internet, o il Magis che apre le porte per corsi formativi e condivisioni.
Tanti, dicevamo, da non poter fare un elenco completo. Anche perché all’appello per una “accoglienza degna” dei profughi provenienti dal nord africa, lanciato dalla Rete Tuttiidirittiumanipertutti si stanno aggiungendo una dopo l’altra tutte le isole del variegato arcipelago associazionista veneziano. Per non parlare dei singoli cittadini. Cito solo una delle tante mail arrivate alla Rete: “Sono una signora veneziana che vive sola. Ho una stanza vuota e la metto volentieri a disposizione per una donna o una ragazza. Non mi interessano i 40 euro al giorno. Li lascio a chi ha più bisogno di me”.
Una menzione a parte in questa gara di solidarietà, se la merita la cooperativa Caracol che a messo a disposizione della Prefettura il suo intero centro di accoglienza, all’interno del centro sociale Rivolta di Marghera, dove ogni inverno accoglie i senza fissa dimora della stazione: 24 posti letto divisi in camere da 4 posti. “E’ la nostra risposta a questa escalation di allarmi per l’arrivo dei profughi – spiega Vittoria Scarpa della Caracol -, una risposta a quanti creano emergenze ad arte col solo scopo di diffondere paure insensate, una risposta di civiltà ai tanti Muraro che parlano di respingere a mare quelle stesse persone che fuggono da una guerra e da un dittatore che sino a pochi mesi fa era armato dal nostro Paese”. Leonardo Muraro è il presidente leghista della provincia di Treviso che ha più volte dichiarato (in campagna elettorale) di essere “pronto a disobbedire allo stesso ministro Maroni pur di mantenersi fedele ai principi della lega e respingere i profughi”.
“Venezia non è Treviso e qui non si respinge nessuno. – ha commentato Alessandra Sciurba della Rete-. Non ci interessa se i profughi sono arrivati prima o dopo il 5 aprile. La solidarietà e i diritti non hanno scadenza. Noi vogliamo solo fare accoglienza. E vogliamo una accoglienza che sia degna. Non un tendone su un campo circondato di filo spinato. Una accoglienza che parta dal basso e capace di offrire futuro. Non possiamo lasciare che siano la Lega e la paura a dettar legge sul tema dei diritti fondamentali. C’è anche una società diversa che vuole costruire un altro mondo. Un mondo diverso. Un mondo migliore”.
La Costituente ecologista a Venezia
17/05/2011TerraLegambiente, Wwf, comitati referendari per l’acqua e contro il nucleare, associazioni di respiro nazionale come il Vas e il Cai e associazioni meno note al grande pubblico come i Pediatri per un mondo possibile, reti civiche, amministratori di Comuni virtuosi come il sindaco di Cassinnetta, Domenico Finiguerra, e l’assessore di ponte delle Alpi Ezio Orzes, e ancora rappresentanti del presidio permanente contro la base Dal Molin di Vicenza come Cinzia Bottene, e di tante altre realtà si impegnano su temi che spaziano dai diritti alla difesa del territorio e dei beni comuni.
Tutti hanno risposto con entusiasmo all’appello per avviare il percorso di una costituente ecologista nella nostra regione. L’incontro si è svolto nel pomeriggio di sabato 14 al municipio di Mestre. Sul tavolo dei relatori, oltre al già citato Domenico Finiguerra intervenuto come promotore dell’appello Stop al consumo del territorio, Luana Zanella, portavoce dei verdi del Veneto per la costituente, Guido Pollice, presidente nazionale Vas, Giannandrea Mencini per l’appello “Abbiamo un sogno”. A far gli onori di casa, l’assessore all’ambiente del Comune di Venezia, Gianfranco Bettin. Nel complesso, l’incontro ha fornito una utile occasione per scambiarsi idee operative su come procedere nel percorso costitutivo in un panorama come quello politico italiano dove l’anomalia è la norma. “La crisi del nostro sistema – ha sottolineato Luana Zanella – non è solo economica ma investe oramai tutti i settori della vita civile. L’unica strada per uscirne è la nascita di un forte movimento ambientalista che vada ben oltre quello che era il partitino dei verdi italiani, e che, come già avviene in Europa, possa incidere nella scelte politiche”. Il sindaco di Cassinnetta dal canto suo, ha applaudito “la scelta coraggiosa dei verdi che hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo, si sono sciolti e si sono lanciati in un salto senza rete come è questa avventura della costituente”. “Avventura che – dice – avrà senza dubbio buon fine perché, se c’è una cosa che mi hanno convinto i numerosi incontri che faccio in tutta l’Italia, è che lo spazio per creare una forza ambientalista anche nel nostro Paese, c’è”.
Applauditissimo anche l’intervento di Guido Pollice, uno che – pur se, sorridendo, giura di non crederci - non ha smesso di correre dietro ai sogni un solo istante della sua vita. “L’errore dei verdi è quello stato quello di essere un partito come tutti gli altri. La costituente invece deve essere capace di individuare temi sui quali morire. Deve uscire dalla logica staliniana di partito che fa da cinghia di trasmissione ai movimenti. Dovranno essere invece i movimenti stessi a fare da cinghia di trasmissione alla nuova costituente. Abbiamo davanti una opportunità meravigliosa: non facciamola diventare l’ennesimo partito di questo tristissimo panorama politico italiano”.
Panorama, dicevamo, dove le anormalità sono talmente tante da passare quasi inosservate. “Non mi riferisco solo a Berlusconi – ha dichiarato Gianfranco Bettin – o alla Lega, o a forze stravaganti come Grillo. L’anomalia italiana sta anche nella difficoltà di coagulare lo schieramento ambientalista e di farne una forza capace di condizionare la politica del Paese, anche dall’opposizione”. Un esempio, spiega Bettin, sono le recenti dichiarazioni del ministro Giulio Tremonti che dichiara che a lui delle spiagge non gliene frega niente perché pensa solo alla ripresa economica. In Europa nessun ministro potrebbe sparare una fesseria del genere perché gli ambientalisti lo farebbero subito tacere. E senza bisogno di essere al governo. “In Italia tutto ciò manca, ed è per questo che ci troviamo continuamente a combattere battaglie di retroguardia nel tentativo di limitare i danni e senza mai avere la forza per essere propositivi. – conclude Gianfranco Bettin - Oggi non c’è nessun partito che ponga l’ambiente al centro del suo programma eppure i movimenti ambientalisti non mancano e sono ricchi di combattività. Lo vediamo nella battaglia referendaria per l’acqua e contro il nucleare. Adesso, dobbiamo tradurre tutto questo in forza politica. Dobbiamo fare un salto in avanti e dobbiamo farlo ora perché non abbiamo più tempo. Ogni giorno che passa consuma luoghi e modi”.
Tutti hanno risposto con entusiasmo all’appello per avviare il percorso di una costituente ecologista nella nostra regione. L’incontro si è svolto nel pomeriggio di sabato 14 al municipio di Mestre. Sul tavolo dei relatori, oltre al già citato Domenico Finiguerra intervenuto come promotore dell’appello Stop al consumo del territorio, Luana Zanella, portavoce dei verdi del Veneto per la costituente, Guido Pollice, presidente nazionale Vas, Giannandrea Mencini per l’appello “Abbiamo un sogno”. A far gli onori di casa, l’assessore all’ambiente del Comune di Venezia, Gianfranco Bettin. Nel complesso, l’incontro ha fornito una utile occasione per scambiarsi idee operative su come procedere nel percorso costitutivo in un panorama come quello politico italiano dove l’anomalia è la norma. “La crisi del nostro sistema – ha sottolineato Luana Zanella – non è solo economica ma investe oramai tutti i settori della vita civile. L’unica strada per uscirne è la nascita di un forte movimento ambientalista che vada ben oltre quello che era il partitino dei verdi italiani, e che, come già avviene in Europa, possa incidere nella scelte politiche”. Il sindaco di Cassinnetta dal canto suo, ha applaudito “la scelta coraggiosa dei verdi che hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo, si sono sciolti e si sono lanciati in un salto senza rete come è questa avventura della costituente”. “Avventura che – dice – avrà senza dubbio buon fine perché, se c’è una cosa che mi hanno convinto i numerosi incontri che faccio in tutta l’Italia, è che lo spazio per creare una forza ambientalista anche nel nostro Paese, c’è”.
Applauditissimo anche l’intervento di Guido Pollice, uno che – pur se, sorridendo, giura di non crederci - non ha smesso di correre dietro ai sogni un solo istante della sua vita. “L’errore dei verdi è quello stato quello di essere un partito come tutti gli altri. La costituente invece deve essere capace di individuare temi sui quali morire. Deve uscire dalla logica staliniana di partito che fa da cinghia di trasmissione ai movimenti. Dovranno essere invece i movimenti stessi a fare da cinghia di trasmissione alla nuova costituente. Abbiamo davanti una opportunità meravigliosa: non facciamola diventare l’ennesimo partito di questo tristissimo panorama politico italiano”.
Panorama, dicevamo, dove le anormalità sono talmente tante da passare quasi inosservate. “Non mi riferisco solo a Berlusconi – ha dichiarato Gianfranco Bettin – o alla Lega, o a forze stravaganti come Grillo. L’anomalia italiana sta anche nella difficoltà di coagulare lo schieramento ambientalista e di farne una forza capace di condizionare la politica del Paese, anche dall’opposizione”. Un esempio, spiega Bettin, sono le recenti dichiarazioni del ministro Giulio Tremonti che dichiara che a lui delle spiagge non gliene frega niente perché pensa solo alla ripresa economica. In Europa nessun ministro potrebbe sparare una fesseria del genere perché gli ambientalisti lo farebbero subito tacere. E senza bisogno di essere al governo. “In Italia tutto ciò manca, ed è per questo che ci troviamo continuamente a combattere battaglie di retroguardia nel tentativo di limitare i danni e senza mai avere la forza per essere propositivi. – conclude Gianfranco Bettin - Oggi non c’è nessun partito che ponga l’ambiente al centro del suo programma eppure i movimenti ambientalisti non mancano e sono ricchi di combattività. Lo vediamo nella battaglia referendaria per l’acqua e contro il nucleare. Adesso, dobbiamo tradurre tutto questo in forza politica. Dobbiamo fare un salto in avanti e dobbiamo farlo ora perché non abbiamo più tempo. Ogni giorno che passa consuma luoghi e modi”.
Comuni a cinque stelle
10/05/2011TerraNon poteva essere che Ezio Orzes, assessore all’ambiente del Comune più “riciclone” d’Italia - Ponte delle Alpi nel bellunese - a presentare la quinta edizione del premio promosso dall’associazione Comuni Virtuosi, “Comuni a 5 Stelle”, ovvero: buone prassi per una decrescita felice. “L’obiettivo è quello di far entrare nelle amministrazioni pubbliche concetti che ora, per lo più, gli sono estranei, come la difesa dei beni comuni e il risparmio del territorio - ha spiegato Orzes -. Pratiche che non possono essere circoscritte nell’ambito della pur doverosa tutela dell’ambiente, ma che vanno allargate ai nostri ideali democrazia e di futuro desiderabile”.
Cinque stelle per cinque progetti da premiare: buona gestione del territorio come cementificazione zero e bioedilizia; raccolta differenziata; ecologia nella macchina comunale su temi come l’efficenza energetica e gli acquisti verdi; mobiltà sostenibile; nuovi stili di vita come la diffusione del commercio equo e solidale e la finanza etica. Il termine per presentare i progetti - progetti, si intende, già conclusi e i cui risultati sono quantificabili - per i Comuni che aspirano a giudicarsi una di queste stelle è il prossimo 30 giugno. La cerimonia di premiazione, che avverrà nell’ambito di una tre giorni di incontri dedicata ai temi della decrescita, si svolgerà sabato 17 settembre a Ponte delle Alpi. Per informazioni e per scaricare il bando, navigate sull’interessante sito dell’associazione: www.comunivirtuosi.org.
La presentazione dell’iniziativa che riguarda l’intero territorio azionale si è svolta a Venezia, giovedì 5 maggio, alla presenza dell’assessore all’ambiente del Comune lagunare, Gianfranco Bettin. Tra i partecipanti, anche Gianluca Fioretti, sindaco “virtuoso” di Monsano (Ancona) e presidente dell’associazione. “Fa piacere - ha commentato Bettin - trovare degli amministratori il cui obbiettivo non consiste solo nel far quadrare i conti del proprio municipio ma anche prestare attenzione alla buona modernità, che non consiste nel realizzare grandi opere ma nell’attenersi ai veri criteri che danno la misura della qualità della vita: il rinnovabile, il risparmio del territorio e l’equità sociale”.
L’associazione Comuni a 5 Stelle (che non ha niente a che vedere con il movimento lanciato da Beppe Grillo) è una rete di amministrazioni locali formatasi nel maggio del 2005 col proposito di cambiare la politica partendo dal basso tramite azioni concrete capaci di coinvolgere direttamente la comunità. “Il nostro motto – ha spiegato il presidente Gianluca Fioretti – è: investire per risparmiare in futuro. I nostri obiettivi sono sostanzialmente due: incentivare la macchina amministrativa a seguire le cosiddette buone pratiche, dal risparmio energetico alla gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, e, nello stesso tempo, raccogliere e mettere a disposizione degli amministratori interessati tutte le informazioni e le documentazioni utili ad avviare questi progetti, dalle delibere ai capitolati, dalle consulenze ai regolamenti. Le buone pratiche, perché siano davvero buone, debbono essere soprattutto concrete”.
Cinque stelle per cinque progetti da premiare: buona gestione del territorio come cementificazione zero e bioedilizia; raccolta differenziata; ecologia nella macchina comunale su temi come l’efficenza energetica e gli acquisti verdi; mobiltà sostenibile; nuovi stili di vita come la diffusione del commercio equo e solidale e la finanza etica. Il termine per presentare i progetti - progetti, si intende, già conclusi e i cui risultati sono quantificabili - per i Comuni che aspirano a giudicarsi una di queste stelle è il prossimo 30 giugno. La cerimonia di premiazione, che avverrà nell’ambito di una tre giorni di incontri dedicata ai temi della decrescita, si svolgerà sabato 17 settembre a Ponte delle Alpi. Per informazioni e per scaricare il bando, navigate sull’interessante sito dell’associazione: www.comunivirtuosi.org.
La presentazione dell’iniziativa che riguarda l’intero territorio azionale si è svolta a Venezia, giovedì 5 maggio, alla presenza dell’assessore all’ambiente del Comune lagunare, Gianfranco Bettin. Tra i partecipanti, anche Gianluca Fioretti, sindaco “virtuoso” di Monsano (Ancona) e presidente dell’associazione. “Fa piacere - ha commentato Bettin - trovare degli amministratori il cui obbiettivo non consiste solo nel far quadrare i conti del proprio municipio ma anche prestare attenzione alla buona modernità, che non consiste nel realizzare grandi opere ma nell’attenersi ai veri criteri che danno la misura della qualità della vita: il rinnovabile, il risparmio del territorio e l’equità sociale”.
L’associazione Comuni a 5 Stelle (che non ha niente a che vedere con il movimento lanciato da Beppe Grillo) è una rete di amministrazioni locali formatasi nel maggio del 2005 col proposito di cambiare la politica partendo dal basso tramite azioni concrete capaci di coinvolgere direttamente la comunità. “Il nostro motto – ha spiegato il presidente Gianluca Fioretti – è: investire per risparmiare in futuro. I nostri obiettivi sono sostanzialmente due: incentivare la macchina amministrativa a seguire le cosiddette buone pratiche, dal risparmio energetico alla gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, e, nello stesso tempo, raccogliere e mettere a disposizione degli amministratori interessati tutte le informazioni e le documentazioni utili ad avviare questi progetti, dalle delibere ai capitolati, dalle consulenze ai regolamenti. Le buone pratiche, perché siano davvero buone, debbono essere soprattutto concrete”.
La decrescita ad Este
19/04/2011TerraBuone pratiche e nuovi stili di vita per dare un futuro alla nostra terra. Un futuro “felice”, in cui l’uomo riprenda coscienza del suo ruolo affrancandosi dalle mistificazioni funzionali solo ad un mercato dove anche diritti e ambiente sono diventati merci da vendere e comprare in nome di un “dio sviluppo” la cui insostenibilità è oramai evidente a tutti. Ad Este, elegante cittadina medioevale immersa nell’incantevole cornice verde del parco dei colli Euganei, va in scena la Decrescita.
L’ospite d’onore di questo primo festival “Dal dire al fare sostenibile”, svoltosi venerdì 15 nelle sale dell’accademia dell’Artigianato, non poteva che essere Maurizio Pallante che ha aperto una serie di interventi che hanno avuto come protagonisti assessori come Ezio Orzes di Ponte delle Alpi e la stessa Beatrice Andreose di Este, organizzatrice del festival, che sulle buone pratiche e sull’Agenda 21 hanno incardinato le loro politiche ambientali. Eppure, la vera sorpresa del festival non sono stati i grandi nomi ma gli studenti delle scuole superiori estensi che hanno presentato una serie di lavori rileggendo con intelligenza e preparazione, attraverso la lente della decrescita, temi come la pace, il nucleare, gli stili di vita, il consumo del suolo, i beni comuni. Merito degli studenti certo, ma anche di quei professori che, tra tanti attacchi alla scuola pubblica, “continuano imperterriti ad inculcare idee sinistrose ai nostri figli”, come ha recentemente dichiarato il nostro presidente del consiglio.
Maurizio Pallante che ha ascoltato attentamente le relazioni dei ragazzi ha osservato: “Di solito, sono io che vado ai convegni per portare speranza, ma stavolta sono stati questi ragazzi a rincuorare me”. Dopo gli interventi di alcuni imprenditori come Pierluigi Perinello, che hanno dimostrato come si possa fare buona economia rispettando l’ambiente e i diritti dei lavoratori uscendo dalle gabbie dei marchi, il microfono è passata al fondatore del movimento per la decrescita felice. “Dire che la felicità di un Paese e dei suoi cittadini si misura col Pil e con i consumi - ha spiegato Pallante - è come dire che quando siamo malati e assumiamo tante medicine costose dobbiamo essere contenti perché mettiamo in moto l’economia”. Lo studioso ha quindi parlato di Fukushima raccontando di un elettrodomestico cui i giapponesi non sanno rinunciare: la tavoletta del water riscaldata. “Il problema dell’energia non è solo quello di passare dalle fossili alle rinnovabili ma soprattutto quello di ridurre gli sprechi. Un concetto questo, che sfugge anche a tanti ambientalisti. Dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare all’economia e ai consumi. L’epoca storica nata con la rivoluzione industriale sta finendo. Siamo in un momento di passaggio ed a noi tocca il difficile compito di ridisegnare un paradigma culturale”. Un concetto ribadito in chiusura del convegno anche da Beatrice Andreose, assessora all’ambiente di Este. “Le fonti rinnovabili, l’efficenza energetica, il riciclo totale, la salvaguardia del territorio, uno stile di vita più sobrio e solidale costituiscono la base per costruire un futuro diverso. L’unico futuro possibile. In gioco non ci sono solo le nostre città ma il destino dell’intera umanità”.
L’ospite d’onore di questo primo festival “Dal dire al fare sostenibile”, svoltosi venerdì 15 nelle sale dell’accademia dell’Artigianato, non poteva che essere Maurizio Pallante che ha aperto una serie di interventi che hanno avuto come protagonisti assessori come Ezio Orzes di Ponte delle Alpi e la stessa Beatrice Andreose di Este, organizzatrice del festival, che sulle buone pratiche e sull’Agenda 21 hanno incardinato le loro politiche ambientali. Eppure, la vera sorpresa del festival non sono stati i grandi nomi ma gli studenti delle scuole superiori estensi che hanno presentato una serie di lavori rileggendo con intelligenza e preparazione, attraverso la lente della decrescita, temi come la pace, il nucleare, gli stili di vita, il consumo del suolo, i beni comuni. Merito degli studenti certo, ma anche di quei professori che, tra tanti attacchi alla scuola pubblica, “continuano imperterriti ad inculcare idee sinistrose ai nostri figli”, come ha recentemente dichiarato il nostro presidente del consiglio.
Maurizio Pallante che ha ascoltato attentamente le relazioni dei ragazzi ha osservato: “Di solito, sono io che vado ai convegni per portare speranza, ma stavolta sono stati questi ragazzi a rincuorare me”. Dopo gli interventi di alcuni imprenditori come Pierluigi Perinello, che hanno dimostrato come si possa fare buona economia rispettando l’ambiente e i diritti dei lavoratori uscendo dalle gabbie dei marchi, il microfono è passata al fondatore del movimento per la decrescita felice. “Dire che la felicità di un Paese e dei suoi cittadini si misura col Pil e con i consumi - ha spiegato Pallante - è come dire che quando siamo malati e assumiamo tante medicine costose dobbiamo essere contenti perché mettiamo in moto l’economia”. Lo studioso ha quindi parlato di Fukushima raccontando di un elettrodomestico cui i giapponesi non sanno rinunciare: la tavoletta del water riscaldata. “Il problema dell’energia non è solo quello di passare dalle fossili alle rinnovabili ma soprattutto quello di ridurre gli sprechi. Un concetto questo, che sfugge anche a tanti ambientalisti. Dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare all’economia e ai consumi. L’epoca storica nata con la rivoluzione industriale sta finendo. Siamo in un momento di passaggio ed a noi tocca il difficile compito di ridisegnare un paradigma culturale”. Un concetto ribadito in chiusura del convegno anche da Beatrice Andreose, assessora all’ambiente di Este. “Le fonti rinnovabili, l’efficenza energetica, il riciclo totale, la salvaguardia del territorio, uno stile di vita più sobrio e solidale costituiscono la base per costruire un futuro diverso. L’unico futuro possibile. In gioco non ci sono solo le nostre città ma il destino dell’intera umanità”.
I danni del decreto Romani
5/04/2011Terra“Siamo incazzati neri. In azienda abbiamo dodici impiegati che si girano i pollici dalla mattina alla sera, una quindicina di tecnici che non ha niente da fare che guardare dalla finestra e, fuori delle porta, una trentina di persone che stavamo per assumere e alle quali abbiamo dovuto spiegare che non se ne faceva più niente perché il governo italiano ha deciso di stoppare un settore che qualsiasi altro paese d’Europa ritiene strategico alla crescita dell’economia del futuro.
Quindi non stupitevi se vi diciamo che siamo incazzati neri”. Il settore strategico cui parla Marco Fiorese, ingegnere e amministratore delegato della vicentina Bluenergy Control srl, è naturalmente quello del fotovoltaico. Un settore, rimarca Fiorese, florido come pochi altri e che dà (dava) lavoro in Italia a più di 120 mila lavoratori di circa 2 mila aziende. Un settore in piena crescita con 180 mila impianti installati per il 90% di piccole dimensioni, inferiori ai 20 kw, ma che nel loro insieme producono una potenza complessiva di 7 mila megawatt; pari a sette di quelle centrali atomiche che i nuclearisti vorrebbero realizzare. Un settore che il Governo ha deciso di affossare col noto decreto Romani, non per caso soprannominato “ammazza rinnovabili”. Marco Fiorese, assieme ai rappresentanti della rete Imprese Venete per il Solare, a Simone Tola dell'Agenzia Veneziana per l’Energia e all’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin, ha partecipato ad un incontro con la stampa per denunciare le gravi condizioni in cui si troveranno tanto le aziende legate al fotovoltaico quanto i cittadini che contavano sugli incentivi statali per coprire le spese dell’impianto. “Più che un atto irresponsabile – ha commentato Bettin – questo del governo è stato un tentativo di affossare il rinnovabile per spingere il Paese verso l’avventura nucleare. Fukushima ha impedito, per adesso, che il cerchio si chiudesse, ma il decreto era stato oramai varato. Col risultato di dare un colpo, speriamo non mortale, ad un settore che non solo rappresentava l’energia del futuro ma che era esso stesso un esempio dell’industria del futuro. Non parliamo del fotovoltaico delle gradi distese coperte da pannelli, ma degli impianti diffusi e capillari. Adesso tutto è stato messo a rischio da un decreto insensato”. Nella nostra regione, sono più di 24 mila gli impianti installati. Nella sola provincia di Venezia, circa 9 mila le famiglia si sono affidate al fotovoltaico. Nel chiedere che il Governo riproponga al più presto una politica di incentivi atta a far ripartire il settore, i portavoce della rete delle aziende del fotovoltaico non hanno potuto fare a meno di notare di come, in ogni caso, un danno sicuramente inevitabile sarà il crollo di fiducia dei potenziali investitori e dei clienti. Per non parlare dell’ennesima figura barbina che il nostro Paese sta facendo in Europa dove abbiamo sottoscritto pochi mesi fa un impegno per raggiungere il 17 per cento di rinnovabile entro il 2020. “Noi importavamo i nostri pannelli dall’estero – conclude Fiorese – quando gli ho spiegato che non ne potevo più acquistare perché il nostro governo ha deciso di bloccare i fondi al fotovoltaico, non mi hanno creduto. Han pensato che volessi cambiare fornitore. Non potevano credere che un governo, neppure quello italiano, potesse davvero voler affossare l’energia del futuro”.
Quindi non stupitevi se vi diciamo che siamo incazzati neri”. Il settore strategico cui parla Marco Fiorese, ingegnere e amministratore delegato della vicentina Bluenergy Control srl, è naturalmente quello del fotovoltaico. Un settore, rimarca Fiorese, florido come pochi altri e che dà (dava) lavoro in Italia a più di 120 mila lavoratori di circa 2 mila aziende. Un settore in piena crescita con 180 mila impianti installati per il 90% di piccole dimensioni, inferiori ai 20 kw, ma che nel loro insieme producono una potenza complessiva di 7 mila megawatt; pari a sette di quelle centrali atomiche che i nuclearisti vorrebbero realizzare. Un settore che il Governo ha deciso di affossare col noto decreto Romani, non per caso soprannominato “ammazza rinnovabili”. Marco Fiorese, assieme ai rappresentanti della rete Imprese Venete per il Solare, a Simone Tola dell'Agenzia Veneziana per l’Energia e all’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin, ha partecipato ad un incontro con la stampa per denunciare le gravi condizioni in cui si troveranno tanto le aziende legate al fotovoltaico quanto i cittadini che contavano sugli incentivi statali per coprire le spese dell’impianto. “Più che un atto irresponsabile – ha commentato Bettin – questo del governo è stato un tentativo di affossare il rinnovabile per spingere il Paese verso l’avventura nucleare. Fukushima ha impedito, per adesso, che il cerchio si chiudesse, ma il decreto era stato oramai varato. Col risultato di dare un colpo, speriamo non mortale, ad un settore che non solo rappresentava l’energia del futuro ma che era esso stesso un esempio dell’industria del futuro. Non parliamo del fotovoltaico delle gradi distese coperte da pannelli, ma degli impianti diffusi e capillari. Adesso tutto è stato messo a rischio da un decreto insensato”. Nella nostra regione, sono più di 24 mila gli impianti installati. Nella sola provincia di Venezia, circa 9 mila le famiglia si sono affidate al fotovoltaico. Nel chiedere che il Governo riproponga al più presto una politica di incentivi atta a far ripartire il settore, i portavoce della rete delle aziende del fotovoltaico non hanno potuto fare a meno di notare di come, in ogni caso, un danno sicuramente inevitabile sarà il crollo di fiducia dei potenziali investitori e dei clienti. Per non parlare dell’ennesima figura barbina che il nostro Paese sta facendo in Europa dove abbiamo sottoscritto pochi mesi fa un impegno per raggiungere il 17 per cento di rinnovabile entro il 2020. “Noi importavamo i nostri pannelli dall’estero – conclude Fiorese – quando gli ho spiegato che non ne potevo più acquistare perché il nostro governo ha deciso di bloccare i fondi al fotovoltaico, non mi hanno creduto. Han pensato che volessi cambiare fornitore. Non potevano credere che un governo, neppure quello italiano, potesse davvero voler affossare l’energia del futuro”.
Tra i senza dimora di Venezia
15/03/2011TerraL’ultimo treno della notte parte alle 12 e 47. Il primo treno è alle 4 e 24. In mezzo c’è solo freddo e disperazione. La sala d’aspetto, l’unico locale riscaldato della stazione, ha chiuso alle 9,30 e la trentina di senza dimora che vi aveva trovato rifugio si è trascinata davanti alla biglietteria. Non c’è impianto di riscaldamento qui, ma è comunque un luogo riparato. L’inverno e il gelo assassino rimangono al di là delle grandi vetrate. Ma con l’ultimo treno della notte anche quest’ultima trincea cade. Gli agenti della polfer sgomberano la sala e tocca accomodarsi fuori, sul marciapiede, con un cartone come lenzuolo. I più fortunati con una coperta lisa. Ed è a questo punto che alla stazione di Mestre arriva il furgoncino dei ragazzi della Caracol. Un nome che sventola come una bandiera. Caracol, che in castigliano significa “chiocciola”, è l’appellativo con il quale gli zapatisti del Messico indicano i loro municipi liberati. Tra i dodici ragazzi che compongono questa cooperativa cui il Comune di Venezia ha appaltato i servizi di prima linea nel campo del disagio sociale, non se ne trova uno che non abbia trascorso perlomeno un paio di estati nel Chiapas con le carovane solidali di Ya Basta.
Alla Caracol è stato affidato il compito più duro sul fronte dell’assistenza sociale del Comune lagunare. “Quando scende l’inverno il nostro lavoro è principalmente quello di contattare i senza dimora – mi spiega Vittoria Scarpa – cercandoli nei luoghi dove si rifugiano e di indirizzarli ai servizi di ospitalità e accoglienza che offre la città. Rimane comunque sempre uno zoccolo duro composto generalmente dai casi più disperati spesso vittime dell’alcolismo, della tossicodipendenza, con problemi psichici o tutto insieme. Quando arriva il grande freddo andiamo a prenderli col furgoncino e li portiamo al centro sociale Rivolta dove possiamo mettere a disposizione sei stanze da 24 posti letto. Purtroppo non sempre bastano a coprire il bisogno. E’ capitato che trovassimo in stazione anche una ottantina di persone bisognose. In questi casi diamo la precedenza alle donne o ai malati. Gli altri cerchiamo di arrangiarli con coperte e termos di tè bollente”.
Caracol fa parte del tavolo di coordinamento del progetto Senza fissa dimora del Comune di Venezia che raggruppa una dozzina di associazioni e che fu istituito una quindicina di anni fa dall’allora assessora Luana Zanella e in seguito portato avanti da altri assessori verdi come Beppe Caccia e Gianfranco Bettin. Attualmente, sommando le varie potenzialità messe a disposizione dai vari componenti del tavolo come la Caritas e i frati cappuccini, nel Comune di Venezia i posti letto per indigenti sono circa 400 e le mense popolari possono fornire almeno il doppio dei pasti. Vogliamo fare un raffronto con la leghista Treviso che ha 12 posti letto e una mensa da 30 pasti al giorno feste escluse? “E’ tutta una questione di scelte politiche – mi spiega Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, responsabile della Caracol-. A Treviso la lega e la destra hanno smantellato tutto quel che c’era. Semplicemente occuparsi di questa gente non fa parte del loro programma politico. La crisi non centra. Dicono che vogliono pensare alle sicurezza. Magari spendendo denaro nelle ronde padane. Eppure, mi chiedo, questa cha facciamo noi non è forse sicurezza? Se tutti, anche i più poveri, hanno un posto letto e qualcosa da mangiare non stiamo meglio tutti? Altrimenti che deve fare un disgraziato se non rubare? Dicono che bisogna pensare al decoro, che i poveri non son belli fa vedersi per le strade. Beh, io preferisco vedere loro che tante facce di m... incravattate che si vedono nei telegiornali”.
Momo, lo avrete capito, è uno che va senza paura controcorrente. Così come controcorrente è la politica sociale del Comune di Venezia in un Veneto dove la Lega la fa da padrona a casa nostra. Crisi o non crisi, i tagli della Regione cadono tutti qua. Dai 200 mila euro stanziati nel 2007 per gli interventi sociali siamo arrivati agli attuali 54 mila euro. Non è un settore questo che cattura voti come le politiche a favore dei cacciatori. E perché poi la Regione dovrebbe aiutare una città da sempre schierata a sinistra, le cooperative dell’area dei centri sociali e una politica che è la dimostrazione pratica di come si ottengano più risultati con l’accoglienza che con la cosiddetta “tolleranza zero”?
“Il Comune sta facendo i salti mortali per mantenere gli standard – conclude Momo – ma è sempre più dura. Guarda i miei ragazzi che distribuiscono le coperte e il tè. Sono tre mesi che non ricevono i contributi e sono ancora tutti qua. Adesso per fortuna la primavera sta arrivando e chiudiamo anche noi. Per le cento notti più fredde dell’anno la Caracol ha presidiato le strade e a Venezia nessuno è morto di freddo”.
Alla Caracol è stato affidato il compito più duro sul fronte dell’assistenza sociale del Comune lagunare. “Quando scende l’inverno il nostro lavoro è principalmente quello di contattare i senza dimora – mi spiega Vittoria Scarpa – cercandoli nei luoghi dove si rifugiano e di indirizzarli ai servizi di ospitalità e accoglienza che offre la città. Rimane comunque sempre uno zoccolo duro composto generalmente dai casi più disperati spesso vittime dell’alcolismo, della tossicodipendenza, con problemi psichici o tutto insieme. Quando arriva il grande freddo andiamo a prenderli col furgoncino e li portiamo al centro sociale Rivolta dove possiamo mettere a disposizione sei stanze da 24 posti letto. Purtroppo non sempre bastano a coprire il bisogno. E’ capitato che trovassimo in stazione anche una ottantina di persone bisognose. In questi casi diamo la precedenza alle donne o ai malati. Gli altri cerchiamo di arrangiarli con coperte e termos di tè bollente”.
Caracol fa parte del tavolo di coordinamento del progetto Senza fissa dimora del Comune di Venezia che raggruppa una dozzina di associazioni e che fu istituito una quindicina di anni fa dall’allora assessora Luana Zanella e in seguito portato avanti da altri assessori verdi come Beppe Caccia e Gianfranco Bettin. Attualmente, sommando le varie potenzialità messe a disposizione dai vari componenti del tavolo come la Caritas e i frati cappuccini, nel Comune di Venezia i posti letto per indigenti sono circa 400 e le mense popolari possono fornire almeno il doppio dei pasti. Vogliamo fare un raffronto con la leghista Treviso che ha 12 posti letto e una mensa da 30 pasti al giorno feste escluse? “E’ tutta una questione di scelte politiche – mi spiega Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, responsabile della Caracol-. A Treviso la lega e la destra hanno smantellato tutto quel che c’era. Semplicemente occuparsi di questa gente non fa parte del loro programma politico. La crisi non centra. Dicono che vogliono pensare alle sicurezza. Magari spendendo denaro nelle ronde padane. Eppure, mi chiedo, questa cha facciamo noi non è forse sicurezza? Se tutti, anche i più poveri, hanno un posto letto e qualcosa da mangiare non stiamo meglio tutti? Altrimenti che deve fare un disgraziato se non rubare? Dicono che bisogna pensare al decoro, che i poveri non son belli fa vedersi per le strade. Beh, io preferisco vedere loro che tante facce di m... incravattate che si vedono nei telegiornali”.
Momo, lo avrete capito, è uno che va senza paura controcorrente. Così come controcorrente è la politica sociale del Comune di Venezia in un Veneto dove la Lega la fa da padrona a casa nostra. Crisi o non crisi, i tagli della Regione cadono tutti qua. Dai 200 mila euro stanziati nel 2007 per gli interventi sociali siamo arrivati agli attuali 54 mila euro. Non è un settore questo che cattura voti come le politiche a favore dei cacciatori. E perché poi la Regione dovrebbe aiutare una città da sempre schierata a sinistra, le cooperative dell’area dei centri sociali e una politica che è la dimostrazione pratica di come si ottengano più risultati con l’accoglienza che con la cosiddetta “tolleranza zero”?
“Il Comune sta facendo i salti mortali per mantenere gli standard – conclude Momo – ma è sempre più dura. Guarda i miei ragazzi che distribuiscono le coperte e il tè. Sono tre mesi che non ricevono i contributi e sono ancora tutti qua. Adesso per fortuna la primavera sta arrivando e chiudiamo anche noi. Per le cento notti più fredde dell’anno la Caracol ha presidiato le strade e a Venezia nessuno è morto di freddo”.
Emergency apre un ambulatorio a Marghera
10/03/2011Terra
Le case di via Varè rispettano gli standard della periferia veneziana: villette mono o bifamiliari con un piccolo spazio verde che se una volta somigliava ad un giardino oggi è diventato il parcheggio dell’auto. Qua e là, sarà l’effetto della primavera, c’è anche qualche tentativo di fiore in sboccio. Tra le tante costruzioni ridipinte in grigio fumo dallo smog e incatramate da una serie di inquinanti che a fare l’elenco finiamo in fondo alla pagina, troviamo al numero 6, una quasi-palazzina dipinta di fresco.
E a colori vivaci per giunta: rosso fuoco, arancione energico e bianco splendente. In alto, nel muretto del terrazzino che sta sopra l’entrata, la scritta Emergency sventola come una bandiera. Sotto, con caratteri più minuti, leggiamo “Poliambulatorio di Marghera. Programma Italia”. Casomai qualcuno avesse qualche dubbio sugli scopi della struttura, basta che legga la scritta sulla cancellata che porta all’ingresso principale: Articolo 32 - La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo, e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Che bello, vien da pensare, la Costituzione! C’è qualcuno che se la ricorda (e che ci crede) ancora? Basta varcare la soglia dell’ambulatorio per respirare un’aria diversa. Più pulita. Non dal punto di vista chimico, intendiamoci, che il monossido di carbonio, il benzene e compagnia bella non praticano sconti a nessuno. Più pulita nel senso che qui ci lavora gente che ha chiaro in testa il concetto che un “otro mundo”, un altro mondo, non solo è possibile ma necessario ed inevitabile. Paure, insicurezze, razzismi, vigliaccherie e tutti quei sentimenti dettati dall’ignoranza e instillatici ad arte da una politica che ci ha trasformato in servi sempre consenzienti, sono rimasti al di là di quella cancellata con l’articolo 32 della Costituzione. Noi, si legge nel manifesto presentato da Gino Strada, fondatore dell’associazione "ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un'equa distribuzione delle risorse". Ecco perché qui l’aria è più pulita. Ed è un’aria che “contagia”. Quando, la scorsa estate, Emergency ha dichiarato che avrebbe aperto una nuova struttura ospedaliera per assistere i bisognosi in un’altro stato barbaro ed incivile, in cui la sanità non è garantita a tutti (l’Italia), la Lega e la destra urlarono allo scandalo, al pericolo, alla sicurezza, ai clandestini stupratori e agli extracomunitari assassini. Sciorinarono tutto il loro vocabolario di 50 parole per allertare i residenti dai delinquenti (tutti migranti) e dai migranti (tutti delinquenti) che sarebbero stati attirati dall’ambulatorio come mosche dalla merda. I fatti li hanno smentiti. Oggi, a distanza di neppure sei mesi, non soltanto non si è verificato un solo problema ma la struttura si è perfettamente integrata col quartiere ed è coccolata dai residenti che evitano pure di parcheggiarci davanti per lasciare il marciapiede a chi ci lavora (e da queste parti è una vera e propria dichiarazione d’amore). “Chi ci ha attaccato affermando che facciamo le cose solo per i migranti non ci conosce - spiega Rossella Miccio, responsabile nazionale progetti umanitari di Emergency -. Semplicemente noi non facciamo nessuna distinzione tra gli uomini. E poi, se vogliamo dirla tutta, il primo assistito dal personale dell’ambulatorio di Marghera è stato proprio un ‘indigeno’; un veneziano che non aveva i soldi per pagarsi le cure dentali. Ma ci vuol tanto per capire, dico io, che l’assistenza sanitaria, come i diritti, o è per tutti o non è per nessuno? Si fa presto, prima o poi, a passare dalla categoria di chi ha diritto a chi non ne ha”. Oggi l’ambulatorio di Emergency in questa nostra terra barbara ed incivile, conta cinque medici, una trentina di infermieri, una coordinatrice generale, tre mediatori culturali, un odontoiatra. Il responsabile sanitario è il dottor Guido Pullia. Cinque gli ambulatori specialistici: medicina generale, pediatria, odontoiatria, ginecologia e oculistica. “Negli ultimi anni sono stati capovolti concetti che prima erano chiari per tutti e ci è stata tolta una serie di diritti che davamo per acquisiti - continua Rossella Miccio - Intendo, tolti a noi indigeni come ai migranti. Inoltre è stato scientificamente scatenato un clima di paura ed è deprimente vedere come tutto questo è stato accettato senza che la società civile abbia tentato la minima reazione. Molti migranti sono terrorizzati dal rivolgersi alle strutture pubbliche anche se ne hanno diritto. Il nostro ambulatorio, il secondo in Italia dopo quello di Palermo, è diventato un punto di riferimento perché sanno che, legge o non legge, noi non denunciamo e non denunceremmo mai nessuno. Quando possiamo li accompagniamo noi stessi alla struttura pubblica, altrimenti abbiamo le strutture adatta a prestare le cure necessarie”.
Quindi dopo la Sierra Leone, l’Afganistan, l’Iraq e il Sudan, Emergency sbarca in Italia? “Cosa cambia? Tutti stati che negano il diritto alla salute. E uno stato che nega il diritto alla salute e uno Stato che fa la guerra ai suoi cittadini”.
La laguna di d'Alpaos
8/03/2011TerraA chi gli chiede da che parte sta, Luigi D’Alpaos risponde senza esitazione “Da quella della laguna”. Una laguna che non si può salvare, spiega - proprio lui che è uno dei più grandi ingegneri idraulici d’Europa – soltanto applicando tecniche ingegneristiche ma che va sempre inserita in un contesto più ampio di tutela, che tenga conto di tutta la complessa morfologia lagunare. E per ascoltare l’ingegner D’Alpaos, allievo prediletto di Augusto Ghetti, padre nobile della celebrata scuola idraulica del’università di Padova, almeno 300 persone, martedì scorso, hanno affollato palazzo Franchetti, uno dei salotti buoni di Venezia, in occasione della presentazione del suo ultimo libro “Fatti e misfatti di idraulica lagunare”, edizioni Ivsla.
E diciamo subito che i “misfatti” perpetrati nell’ultimo mezzo secolo, sono molti di più dei “fatti”. Il libro di D’Alpaos è un atto d’accusa senza scampo contro la politica del cemento e delle grandi opere che a devastato il delicato ecosistema lagunare. Uno atto di accusa tanto più spietato in quanto scritto col linguaggio tecnico dello scienziato più che con quello romantico dell’ambientalista. “Ci auguriamo che questo libro – ha spiegato Gianfranco Bettin, assessore all’ambiente del Comune di Venezia, prima di passare la parola a D’Alpaos - ci aiuti a tracciare le linee di interventi futuri per salvaguardare la laguna e si comincia a tener conto dell’ambiente lagunare nel suo complesso: Venezia non va salvata dalle sue acque ma va salvata con le sue acque”. La distruttiva apertura del canale lei petroli, i progetti approvati per stralci con la filosofia “prima fai e poi aggiusta”, le barene artificiali “che tutto sono – ha commentato D’Alpaos - ma non barene”, il Mose assolutamente inutile di fronte al previsto innalzamento del livello dell’Adriatico ma cha sta trasformando la laguna in un braccio di mare aperto, la mancata apertura delle valli da pesca. Sono solo gli esempi più eclatanti dei mali che stanno uccidendo quel fragile equilibrio che nel corso dei secoli ha fatto nascere la laguna veneziana. “La laguna ha sempre avuto tre nemici: il mare, la terra e l’uomo – ha concluso Luigi D’Alpaos citando, l’eminente ingegnere idraulico del Cinquecento Cristoforo Sabbadino -: negli ultimi anni il ruolo dell’uomo è stato preponderante. Proprio nel momento in cui i progressi scientifici offrivano la possibilità di intervenire con giudizio, la politica ha scelto di non tener conto del parere degli idraulici e degli scienziati ma di farsi portatrice di interessi particolari. Non discuto che spetti alla politica prendere le decisioni finali, ma la conoscenza del problema e non l’interesse economico privato dovrebbe stare alla base e guidare le sue scelte. Questo non è stato fatto. Oggi, di fronte ad una situazione oramai compromessa per tanti versi, mi auguro che gli interessi particolari vengano abbandonati e si cominci a difendere come un bene comune quello che ancora rimane della laguna dei dogi”.
E diciamo subito che i “misfatti” perpetrati nell’ultimo mezzo secolo, sono molti di più dei “fatti”. Il libro di D’Alpaos è un atto d’accusa senza scampo contro la politica del cemento e delle grandi opere che a devastato il delicato ecosistema lagunare. Uno atto di accusa tanto più spietato in quanto scritto col linguaggio tecnico dello scienziato più che con quello romantico dell’ambientalista. “Ci auguriamo che questo libro – ha spiegato Gianfranco Bettin, assessore all’ambiente del Comune di Venezia, prima di passare la parola a D’Alpaos - ci aiuti a tracciare le linee di interventi futuri per salvaguardare la laguna e si comincia a tener conto dell’ambiente lagunare nel suo complesso: Venezia non va salvata dalle sue acque ma va salvata con le sue acque”. La distruttiva apertura del canale lei petroli, i progetti approvati per stralci con la filosofia “prima fai e poi aggiusta”, le barene artificiali “che tutto sono – ha commentato D’Alpaos - ma non barene”, il Mose assolutamente inutile di fronte al previsto innalzamento del livello dell’Adriatico ma cha sta trasformando la laguna in un braccio di mare aperto, la mancata apertura delle valli da pesca. Sono solo gli esempi più eclatanti dei mali che stanno uccidendo quel fragile equilibrio che nel corso dei secoli ha fatto nascere la laguna veneziana. “La laguna ha sempre avuto tre nemici: il mare, la terra e l’uomo – ha concluso Luigi D’Alpaos citando, l’eminente ingegnere idraulico del Cinquecento Cristoforo Sabbadino -: negli ultimi anni il ruolo dell’uomo è stato preponderante. Proprio nel momento in cui i progressi scientifici offrivano la possibilità di intervenire con giudizio, la politica ha scelto di non tener conto del parere degli idraulici e degli scienziati ma di farsi portatrice di interessi particolari. Non discuto che spetti alla politica prendere le decisioni finali, ma la conoscenza del problema e non l’interesse economico privato dovrebbe stare alla base e guidare le sue scelte. Questo non è stato fatto. Oggi, di fronte ad una situazione oramai compromessa per tanti versi, mi auguro che gli interessi particolari vengano abbandonati e si cominci a difendere come un bene comune quello che ancora rimane della laguna dei dogi”.
Veneto No Nuke
23/02/2011Terra
“Una battaglia che va vinta radicandola sul territorio. Qui non troveremo i nostri avversari a controbattere. Loro hanno altri canali di comunicazione. Parleranno agli industriali, ai gruppi di potere. Parleranno dalle televisioni. Noi dobbiamo parlare alla gente che incontriamo per strada. Dobbiamo far capire a tutti che anche l’energia, come l’acqua, è vita, è un bene comune da difendere e da gestire a partire dalle comunità locali”. Con queste applauditissime parole, Mario Agostinelli, ricercatore chimico e fisico all’Enea, ha aperto l’incontro preparatorio alla costituzione di un comitato veneto per il referendum sull’energia nucleare. L’assemblea cui hanno partecipato numerose associazioni, comitati e movimenti regionali, si è svolta a Mestre, al centro pace di via Sernaglia, sabato pomeriggio.
Agostinelli che è stato uno dei promotori del referendum contro il ritorno del nucleare, ha invitato a pensare e a comunicare il difficile tema dell’energia – per sua natura meno immediato rispetto ad altri beni comuni come, ad esempio, l’acqua – partendo dal fabbisogno energetico locale in contrapposizione al mito oramai sfatato ma tutt’ora dominante della crescita illimitata. “Non limitiamoci a dire solo no o a giocare sulla paura di un incidenti che nessuno si augura. Siamo noi quelli che hanno le proposte più alte e più innovative: facciamolo capire a tutti – ha spiegato-. Una centrale nucleare non è solo il prodotto di una tecnologia obsoleta, costosa, inquinante, pericolosa e oramai superata, ma è anche una ecomostro che consuma territorio, brucia le sue risorse e la cui gestione e il cui controllo sono completamente slegati dalla comunità locale”. Col nucleare, in altre parole, il famoso “paroni a casa nostra” va a farsi benedire. Lo sa bene anche il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, che da ministro ha approvato la normativa che bypassava i pareri delle regioni in teme di nucleare, ma da presidente della Regione si dichiara contrario alla realizzazione di centrali nel nostro territorio. Ciò nonostante, il Veneto che pure copre il suo fabbisogno energetico, rimane una delle regioni più accreditate per la costruzione di un impianto nucleare nella aree del rodigino o nella gronda lagunare veneziana. La decisione della Corte Costituzionale del 4 febbraio scorso di cassare il provvedimento governativo e di rendere obbligatorio la richiesta del parere alle Regioni, sia pure consultivo, ha aperto la porta ad altre forme di lotta, oltre che alla consultazione referendaria. Il neonato comitato contro il nucleare valuterà la possibilità di raccogliere le 5 mila firma previste dallo statuto regionale per portare in consiglio veneto una proposta di legge di iniziativa popolare che dichiari il Veneto una regione denuclearizzata. “Paroni a casa nostra” ma sul serio, questa volta.
Niente gabbie a Campalto
23/02/2011Terra
“Che sia uno sgarbo a Venezia non c’è dubbio alcuno – ha commentato Beppe Caccia, consigliere della lista In Comune con Bettin -. Da un lato c’è la voglia di un governo in piena crisi di farsi auto propaganda rilanciando, come al solito, una politica che fa leva su paure ingiustificate e, dall’altro lato, la scelta strategica di colpire un Comune, come quello di Venezia, che si sforza di portare avanti politiche di integrazione e di accoglienza”. La dichiarazione di Maroni ha suscitato una immediata risposta tanto dalle istituzioni quanto dai movimenti. Il consiglio comunale, scavalcato senza neppure una consultazione preventiva da un ministro che si riempie tutti i giorni la bocca con la parola federalismo, ha espresso un parere fortemente negativo votato a grande maggioranza anche dal Pdl. Solo i consiglieri della lega,a parte un astenuto, hanno abbandonando l’aula prima della votazione adducendo pretesti originali ma comunque improrogabili. Sul fronte cittadino, associazioni e movimenti si sono riuniti in assemblea a Mestre, giovedì 17, nell’ampio salone di santa Maria delle Grazie, per organizzarsi e sottoscrivere l’appello contro il Cie che ha avuto come primo firmatario l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin. La prima iniziativa si è svolta sabato proprio a Campalto, il quartiere sulla sponda lagunare in cui Maroni vorrebbe realizzare la struttura. Millecinquecento persone tra cui molti residenti ma anche studenti, attivisti dei centri sociali o di associazioni antirazziste, militanti del Pd e del Pdl (questi ultimi col distinguo che a volere il Cie a Venezia non sarebbe, secondo loro, il Governo ma il centrosinistra bugiardo che governa la città), hanno dato via ad un lungo e pacifico corteo sostenendo striscioni con scritto “Il futuro è ambiente e accoglienza. No al Cie” e “No al Cie, né a Venezia né altrove”.
I Centri identificazione ed espulsione, si legge nell’appello lanciato dai manifestanti, “sono crudeli e inefficaci […]. Le pesanti e illegittime sofferenze generate da queste strutture si sono rivelate del tutto inutili nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro Paese, con un numero irrisorio di espulsioni realmente effettuate, a fronte delle ingenti risorse pubbliche investite in un vero e proprio business della negazione dei diritti. La scelta del ministro Maroni appare, inoltre, per il suo carattere di imposizione autoritaria come un atto carico di violenza antidemocratica nei confronti della nostra Città e della sua tradizione cosmopolita, come un gesto di arroganza centralistica nei confronti della nostra comunità locale, da sempre attivamente impegnata nell’accoglienza del migrante e nella costruzione solidale di un futuro meticcio”.
Cemento e querele a Monselice
15/02/2011TerraQuella inviatagli dall’Italcementi Group probabilmente non sarà l’ultima querela con la quale la multinazionale di turno cerca di colpire Francesco Miazzi e fermare con un battaglione di avvocati le sue battaglie in difesa dell’ambiente. L’azione legale nei confronti dei comitati popolari “Lasciateci Respirare”, di cui Miazzi è stato presidente, e “Noi?”, “si è resa necessaria – si legge in una nota dell’Ufficio stampa dell’Italcementi - a seguito dei loro ripetuti ed ingiustificati attacchi, contro il progetto di revamping, condotti utilizzando argomentazioni false o tendenziose”.
Miazzi di mestiere fa l’insegnate e rischia di costargli assai caro l’aver cercare di sbarrare le porte di Monselice a un tale colosso del cemento che, solo in Italia, schiera 17 cementerie, 232 impianti di calcestruzzo, 7 centri di macinazione, 52 cave di inerti e un impianto di produzione additivi. Rischia di costargli esattamente… già, questo è il primo punto controverso. Italcementi parla di 30 mila euro a titolo di risarcimento danni e di 10 mila euro a titolo di riparazione pecuniaria. Tu invece – come abbiamo riportato su Terra di martedì 1 febbraio - parli di circa 200 mila euro. Chi è che non sa fare i conti?
Italcementi ha chiesto in tutto 40 mila euro ai due presidenti dei comitati in quanto persone fisiche e in quanto rappresentanti legali quindi, per magia, due persone diventano “4 convenuti”. Non servono i contabili della multinazionale per scoprire che la somma totale è di 160.000 euro come dichiara la stessa Italcementi nell’atto di citazione. A questa somma richiesta, noi dobbiamo prevedere l’aggiunta delle spese legali per la difesa presso il Foro di Bergamo, nonché le spese per la pubblicazione della sentenza sulla stampa, ulteriore richiesta formulata da Italcementi nell’atto di citazione. A questo punto ci domandiamo se siamo davvero noi, quelli che “utilizzano argomentazioni false o tendenziose”
La querela vi impedirà di portare avanti la vostra battaglia?
Certo che no! Migliaia di cittadini, numerosi Sindaci, diverse forze politiche della zona e le principali associazioni ambientaliste ci hanno manifestato solidarietà e si sono schierati con le nostre posizioni. Insieme sapremo fare valere le nostre ragioni nonostante l’azione legale di Italcementi. Ripetiamo che gli unici obiettivi dei comitati sono il ripristino della legalità, la difesa della salute e la tutela del territorio. Noi non siamo interessati a proseguire in questa sterile polemica, ma vogliamo ribadire che questa “citazione” si configura come un pesante attacco alla libertà di espressione e di stampa. Come altro definire l’azione di un colosso multinazionale con 5 miliardi di euro di fatturato, che chiede un risarcimento a dei comitati di cittadini per il solo fatto di aver criticato il loro progetto? Per questo abbiamo depositato un ricorso al Tar del Veneto contro la Provincia di Padova, il Ministero per i Beni Culturali, l’Ente Parco dei Colli Euganei, il Comune di Monselice e Italcementi, al fine di accertare la correttezza delle procedure e delle autorizzazioni al revamping. Un analogo ricorso è stato presentato al Tar anche dai Sindaci di Este e Baone.
Il nodo della questione rimane comunque la denuncia da parte vostra della presunta pericolosità dei cementifici. Su che basi lo sostenete?
La legge sulle emissioni dei cementifici che possono smaltire legalmente rifiuti, è incredibilmente meno restrittiva rispetto a quella che regola le emissioni dei normali inceneritori. Prendiamo ad esempio due gas particolarmente tossici, gli ossidi di azoto e il biossido di zolfo. I limiti di emissione sono, per il primo, 1800 mg/mc per un cementificio e 200 per un inceneritore, per il secondo 600 mg/mc per un cementificio e 100 per un inceneritore. Per lo stesso inquinante la legge pone due pesi e due misure. Col revamping, anche se le emissioni fossero dimezzate saranno sempre molto elevate pur rimanendo nei limiti di legge. Avere un cementificio equivale ad avere parecchi inceneritori e noi, tra Este e Monselice, di cementifici ne abbiamo già tre. Per questo, querela o no, continueremo ad opporci al revamping e all’assurda convenzione che concede altri 28 anni di presenza ad un cementificio in un’area come quella del Parco Regionale dei Colli Euganei. Parallelamente intendiamo risollecitare tutti i soggetti coinvolti per istituire un tavolo programmatico, che a fianco della dismissione di questi impianti, produca una proposta occupazionale concreta e alternativa.
Miazzi di mestiere fa l’insegnate e rischia di costargli assai caro l’aver cercare di sbarrare le porte di Monselice a un tale colosso del cemento che, solo in Italia, schiera 17 cementerie, 232 impianti di calcestruzzo, 7 centri di macinazione, 52 cave di inerti e un impianto di produzione additivi. Rischia di costargli esattamente… già, questo è il primo punto controverso. Italcementi parla di 30 mila euro a titolo di risarcimento danni e di 10 mila euro a titolo di riparazione pecuniaria. Tu invece – come abbiamo riportato su Terra di martedì 1 febbraio - parli di circa 200 mila euro. Chi è che non sa fare i conti?
Italcementi ha chiesto in tutto 40 mila euro ai due presidenti dei comitati in quanto persone fisiche e in quanto rappresentanti legali quindi, per magia, due persone diventano “4 convenuti”. Non servono i contabili della multinazionale per scoprire che la somma totale è di 160.000 euro come dichiara la stessa Italcementi nell’atto di citazione. A questa somma richiesta, noi dobbiamo prevedere l’aggiunta delle spese legali per la difesa presso il Foro di Bergamo, nonché le spese per la pubblicazione della sentenza sulla stampa, ulteriore richiesta formulata da Italcementi nell’atto di citazione. A questo punto ci domandiamo se siamo davvero noi, quelli che “utilizzano argomentazioni false o tendenziose”
La querela vi impedirà di portare avanti la vostra battaglia?
Certo che no! Migliaia di cittadini, numerosi Sindaci, diverse forze politiche della zona e le principali associazioni ambientaliste ci hanno manifestato solidarietà e si sono schierati con le nostre posizioni. Insieme sapremo fare valere le nostre ragioni nonostante l’azione legale di Italcementi. Ripetiamo che gli unici obiettivi dei comitati sono il ripristino della legalità, la difesa della salute e la tutela del territorio. Noi non siamo interessati a proseguire in questa sterile polemica, ma vogliamo ribadire che questa “citazione” si configura come un pesante attacco alla libertà di espressione e di stampa. Come altro definire l’azione di un colosso multinazionale con 5 miliardi di euro di fatturato, che chiede un risarcimento a dei comitati di cittadini per il solo fatto di aver criticato il loro progetto? Per questo abbiamo depositato un ricorso al Tar del Veneto contro la Provincia di Padova, il Ministero per i Beni Culturali, l’Ente Parco dei Colli Euganei, il Comune di Monselice e Italcementi, al fine di accertare la correttezza delle procedure e delle autorizzazioni al revamping. Un analogo ricorso è stato presentato al Tar anche dai Sindaci di Este e Baone.
Il nodo della questione rimane comunque la denuncia da parte vostra della presunta pericolosità dei cementifici. Su che basi lo sostenete?
La legge sulle emissioni dei cementifici che possono smaltire legalmente rifiuti, è incredibilmente meno restrittiva rispetto a quella che regola le emissioni dei normali inceneritori. Prendiamo ad esempio due gas particolarmente tossici, gli ossidi di azoto e il biossido di zolfo. I limiti di emissione sono, per il primo, 1800 mg/mc per un cementificio e 200 per un inceneritore, per il secondo 600 mg/mc per un cementificio e 100 per un inceneritore. Per lo stesso inquinante la legge pone due pesi e due misure. Col revamping, anche se le emissioni fossero dimezzate saranno sempre molto elevate pur rimanendo nei limiti di legge. Avere un cementificio equivale ad avere parecchi inceneritori e noi, tra Este e Monselice, di cementifici ne abbiamo già tre. Per questo, querela o no, continueremo ad opporci al revamping e all’assurda convenzione che concede altri 28 anni di presenza ad un cementificio in un’area come quella del Parco Regionale dei Colli Euganei. Parallelamente intendiamo risollecitare tutti i soggetti coinvolti per istituire un tavolo programmatico, che a fianco della dismissione di questi impianti, produca una proposta occupazionale concreta e alternativa.
La laguna in un clic
8/02/2011TerraTutta la laguna in un click. Nell’auditorium di Santa Margherita, nel centro storico di Venezia, l’assessore all’ambiente Gianfranco Bettin ha presentato giovedì 3 febbraio, nella mattinata, il progetto “Atlante della Laguna”. Nato nel 2002 con lo scopo di mettere a disposizione di un pubblico quanto più vasto possibile, tutte le informazioni ambientali sul sistema lagunare, il suo bacino scolante e la zona costiera prospiciente.
Il progetto è nato da una collaborazione tra vati enti e associazioni, coordinati dall’Osservatorio Naturalistico della Laguna che fa riferimento al Comune di Venezia e dal Cnr – Ismar (istituto scienze marine). Il primo obiettivo raggiunto dai ricercatori è stata la pubblicazione nel 2006, per i tipi della Marsilio, del volume “Atlante della laguna, Venezia tra terra e mare” ma il passo fondamentale del progetto è stata la realizzazione di un sito internet di nuova concezione che ha messo in rete, non soltanto la versione digitale del libro, ma una suo versione “dinamica” che è costantemente aggiornata dai tecnici dell’Osservatorio e dell’Ismar. Il principio su cui si basa il progetto è che la laguna è un “bene comune” e in quanto tale va tutelato grazie alla trasparente cooperazione tra tutti gli enti che producono informazioni ambientali e alla massima diffusione dei dati scientifici che riguardano questo particolarissimo ecosistema creatosi nel corso dei millenni sino a raggiungere un difficile equilibrio tra intervento umano e movimenti naturali. Equilibrio sempre di più messo a rischio da opere devastanti come il Mose e le barene artificiali che avranno come unico effetto quello di trasformare sempre di più quella che un tempo era laguna dei Dogi, difesa come una “cosa viva” che regalava la vita alla città di Venezia, in un braccio di mare aperto. L’augurio espresso da tutti i relatori intervenuti alla presentazione del progetto è che la diffusione dei dati ambientali riguardanti la laguna possa sensibilizzare la cittadinanza sulle tematiche relative alla sua tutela e, soprattutto, fornire indicazioni utili e incontrovertibili a quanto hanno la facoltà di operare scelte politiche. Da sottolineare che dal portale dell’Atlante della laguna, è possibile scaricare mappe aggiornate, anche in alta definizione, e i dati sono strutturati in maniera tale da potervi accedere a vari livelli, a seconda dell’interesse specifico dell’utente che può essere un semplice curioso ma anche un ricercatore universitario o un amministratore pubblico. Una specifica sezione del sito, è dedicata alle osservazioni dei lettori che hanno la possibilità di entrare nella banca dati, segnalando aree a rischio o altre osservazioni naturalistiche. L’indirizzo del sito, realizzato interamente con programmi open source, è www.silvenezia.it. E credeteci se vi assicuriamo che vale la pena di cliccarci sopra.
Il progetto è nato da una collaborazione tra vati enti e associazioni, coordinati dall’Osservatorio Naturalistico della Laguna che fa riferimento al Comune di Venezia e dal Cnr – Ismar (istituto scienze marine). Il primo obiettivo raggiunto dai ricercatori è stata la pubblicazione nel 2006, per i tipi della Marsilio, del volume “Atlante della laguna, Venezia tra terra e mare” ma il passo fondamentale del progetto è stata la realizzazione di un sito internet di nuova concezione che ha messo in rete, non soltanto la versione digitale del libro, ma una suo versione “dinamica” che è costantemente aggiornata dai tecnici dell’Osservatorio e dell’Ismar. Il principio su cui si basa il progetto è che la laguna è un “bene comune” e in quanto tale va tutelato grazie alla trasparente cooperazione tra tutti gli enti che producono informazioni ambientali e alla massima diffusione dei dati scientifici che riguardano questo particolarissimo ecosistema creatosi nel corso dei millenni sino a raggiungere un difficile equilibrio tra intervento umano e movimenti naturali. Equilibrio sempre di più messo a rischio da opere devastanti come il Mose e le barene artificiali che avranno come unico effetto quello di trasformare sempre di più quella che un tempo era laguna dei Dogi, difesa come una “cosa viva” che regalava la vita alla città di Venezia, in un braccio di mare aperto. L’augurio espresso da tutti i relatori intervenuti alla presentazione del progetto è che la diffusione dei dati ambientali riguardanti la laguna possa sensibilizzare la cittadinanza sulle tematiche relative alla sua tutela e, soprattutto, fornire indicazioni utili e incontrovertibili a quanto hanno la facoltà di operare scelte politiche. Da sottolineare che dal portale dell’Atlante della laguna, è possibile scaricare mappe aggiornate, anche in alta definizione, e i dati sono strutturati in maniera tale da potervi accedere a vari livelli, a seconda dell’interesse specifico dell’utente che può essere un semplice curioso ma anche un ricercatore universitario o un amministratore pubblico. Una specifica sezione del sito, è dedicata alle osservazioni dei lettori che hanno la possibilità di entrare nella banca dati, segnalando aree a rischio o altre osservazioni naturalistiche. L’indirizzo del sito, realizzato interamente con programmi open source, è www.silvenezia.it. E credeteci se vi assicuriamo che vale la pena di cliccarci sopra.
Interventi di pace
27/01/2011Terra“La sola risposta possibile in caso di conflitto e una soluzione concreta ai mali del nostro tempo come il nazionalismo, la xenofobia, l’individualismo e la corsa agli armamenti”. Così Alexander Langer definì i corpi civili di pace in quel documento istitutivo che, come deputato dei verdi, depositò al parlamento europeo nel 1995.
Non riuscì ad assistere all’approvazione della sua proposta di legge perché la sua vita si interruppe improvvisamente il 3 luglio di quello stesso anno. Erano i tempi della guerra dei Balcani e della crisi del movimento pacifista. Da allora molte cose sono cambiate. Il muro di Berlino che divideva il mondo in blocchi contrapposti non esiste più ma questo non ha portato alla cessazione dei conflitti e neppure ad un’epoca di pace, condivisione e democrazia. Anzi. Guerra dichiarate e, soprattutto, guerre dimenticate, ce ne sono come e più di prima. Come se non bastasse, il movimento pacifista si trova di fronte ad altre e nuove sfide come il controllo delle risorse energetiche e alimentari, le migrazioni, i cambiamenti climatici, i movimenti dal basso. Insomma, oggi più che ieri c’è bisogno di imparare ad intervenire nei conflitti mediandoli al di là del “gioco a somma zero”, peculiare dell’intervento militare, e superando la logica del “vincere o perdere” perché, rendiamocene conto, nel mondo globalizzato abbiamo tutti tutto da perdere e niente da vincere. Grazie ad una grande mobilitazione popolare, nel 2001, in Italia, è stata approvata la legge 64 che, riprendendo l’articolo 11 della Costituzione oltre a varie direttive Onu ed europee in materia, ha istituito la “difesa civile nonarmata e nonviolenta”. Una sorta di servizio civile volontario completamente autonomo dall’esercito col duplice obiettivo di intervenire pacificamente all’estero nelle zone di conflitto e rispondere al dovere costituzionale di difendere la patria con mezzi non militari. Tra gli obiettivi stabiliti dalla legge, figurano anche la promozione di solidarietà e cooperazione con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, la partecipazione alla tutela del patrimonio ambientale e culturale, la protezione civile. Punto focale del progetto, rimane comunque la cooperazione internazionale in zone di guerra e la mediazione tra le parti in conflitto.
In paesi come la Germania i corpi civili di pace sono oramai una realtà consolidata. In Italia, la legge 64 e le direttive europee in materia, sono rimaste tutte sulla carta. Certo, difficile aspettarsi un qualche stimolo da parte di un governo che, quanto meno, è ben lontano dall’inserire la parola “pace” nei primi posti della sua agenda politica. Ed è per questo che le associazioni pacifiste hanno deciso di autoconvocarsi a Firenze per stilare un documento per il riconoscimento della figura professionale dell’operatore civile di pace, l’inserimento collettivo in un’organizzazione nazionale ed europea legalmente riconosciuta e stabilire luoghi e tempi per i primi interventi all’estero. Gli incontri si svolgeranno nei giorni di sabato 29 a domenica 30 gennaio nella sede dei Missionari Comboniani in via Giovanni Aldini. Scopo dell’incontro sarà anche quello di definire uno standard per gli interventi civili di pace. Un punto questo assai delicato perché l’etica dell’operatore civile tende spesso a collidere con quella del militare e del poliziotto per i quali, alla fin fine, tutto si risolve con l’obbedire agli ordini. Al contrario, si legge nel documento inviato ai partecipanti al meeting, “la nuova professione dell’operatore di pace deve essere creativa e costruttiva, incoercibile ed imprevedibile, fino ad un certo punto, anche per le stesse istituzioni”. Non c’è altro da dire. Alex ne sarebbe stato contento.
Non riuscì ad assistere all’approvazione della sua proposta di legge perché la sua vita si interruppe improvvisamente il 3 luglio di quello stesso anno. Erano i tempi della guerra dei Balcani e della crisi del movimento pacifista. Da allora molte cose sono cambiate. Il muro di Berlino che divideva il mondo in blocchi contrapposti non esiste più ma questo non ha portato alla cessazione dei conflitti e neppure ad un’epoca di pace, condivisione e democrazia. Anzi. Guerra dichiarate e, soprattutto, guerre dimenticate, ce ne sono come e più di prima. Come se non bastasse, il movimento pacifista si trova di fronte ad altre e nuove sfide come il controllo delle risorse energetiche e alimentari, le migrazioni, i cambiamenti climatici, i movimenti dal basso. Insomma, oggi più che ieri c’è bisogno di imparare ad intervenire nei conflitti mediandoli al di là del “gioco a somma zero”, peculiare dell’intervento militare, e superando la logica del “vincere o perdere” perché, rendiamocene conto, nel mondo globalizzato abbiamo tutti tutto da perdere e niente da vincere. Grazie ad una grande mobilitazione popolare, nel 2001, in Italia, è stata approvata la legge 64 che, riprendendo l’articolo 11 della Costituzione oltre a varie direttive Onu ed europee in materia, ha istituito la “difesa civile nonarmata e nonviolenta”. Una sorta di servizio civile volontario completamente autonomo dall’esercito col duplice obiettivo di intervenire pacificamente all’estero nelle zone di conflitto e rispondere al dovere costituzionale di difendere la patria con mezzi non militari. Tra gli obiettivi stabiliti dalla legge, figurano anche la promozione di solidarietà e cooperazione con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, la partecipazione alla tutela del patrimonio ambientale e culturale, la protezione civile. Punto focale del progetto, rimane comunque la cooperazione internazionale in zone di guerra e la mediazione tra le parti in conflitto.
In paesi come la Germania i corpi civili di pace sono oramai una realtà consolidata. In Italia, la legge 64 e le direttive europee in materia, sono rimaste tutte sulla carta. Certo, difficile aspettarsi un qualche stimolo da parte di un governo che, quanto meno, è ben lontano dall’inserire la parola “pace” nei primi posti della sua agenda politica. Ed è per questo che le associazioni pacifiste hanno deciso di autoconvocarsi a Firenze per stilare un documento per il riconoscimento della figura professionale dell’operatore civile di pace, l’inserimento collettivo in un’organizzazione nazionale ed europea legalmente riconosciuta e stabilire luoghi e tempi per i primi interventi all’estero. Gli incontri si svolgeranno nei giorni di sabato 29 a domenica 30 gennaio nella sede dei Missionari Comboniani in via Giovanni Aldini. Scopo dell’incontro sarà anche quello di definire uno standard per gli interventi civili di pace. Un punto questo assai delicato perché l’etica dell’operatore civile tende spesso a collidere con quella del militare e del poliziotto per i quali, alla fin fine, tutto si risolve con l’obbedire agli ordini. Al contrario, si legge nel documento inviato ai partecipanti al meeting, “la nuova professione dell’operatore di pace deve essere creativa e costruttiva, incoercibile ed imprevedibile, fino ad un certo punto, anche per le stesse istituzioni”. Non c’è altro da dire. Alex ne sarebbe stato contento.
L'acqua pubblica di Venezia
21/01/2011TerraI
n attesa che il consiglio dei ministri fissi, in un periodo compreso tra i prossimi mesi di aprile e giugno, la data dei due referendum per la ri pubblicizzazione dell’acqua, Venezia si sta già mobilitando per raggiungere il quorum indispensabile per validare la consultazione. Alle associazioni, ai comitati e ai movimenti che in questo ultimo anno si sono battuti per raggogliere le firme e sensibilizzare l’opinione pubblica si aggiungerà da domani, lunedì, anche un partner ufficiale del calibro del Comune di Venezia. Un primo passo era già stato compiuto un anno fa in occasione di una modifica dello Statuto comunale, quando la maggioranza approvò una proposta avanzata dai due consiglieri della lista “In Comune con Bettin”, Camilla Seibezzi e Beppe Caccia, che ha inserito nel documento il principio dell'acqua come “diritto umano universale e bene comune a gestione pubblica". Un esempio di buone pratiche che in seguito fu imitato da tanti altri Comuni italiani.
Adesso che la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità di due quesiti, la città lagunare si candida a diventare la prima realtà metropolitana ad aderire ufficialmente e con convinzione alla campagna referendaria per il Sì.
“Oggi si apre una fase nuova - ha commentato il consigliere ambientalista Beppe Caccia -. Sappiamo che è davvero possibile riuscire a bloccare il
meccanismo perverso, previsto dai decreti Ronchi del 2009, che, nel caso della nostra città, costringerebbe l’ente pubblico a quotare in borsa e a cedere forzatamente a investitori privati entro la fine del 2011 una quota significativa della azioni Veritas, la multiutility a capitale interamente pubblico che gestisce la risorsa idrica in gran parte dei Comuni della gronda lagunare. Il raggiungimento del quorum e il conseguente e prevedibile successo dei Sì, sono quindi due condizioni necessarie per difendere questo patrimonio comune rappresentato dalla gestione pubblica del servizio idrico integrato da parte di Veritas”.
Non va neppure dimenticato, hanno spiegato Caccia e Seibezzi, che Veritas offre un servizio di altissima qualità e a tariffe tra le più contenute del Paese (Venezia è, per costo al metro cubo, seconda solo a Milano). E tutto questo, anche senza voler considerare i costi suppletivi di depurazione e di diffusione legati alla particolarissima morfologia del territorio lagunare. La qualità indiscussa dell’acqua erogata inoltre, è una prova tangibile di come un servizio idrico pubblico possa funzionare egregiamente anche senza bisogno di “sostegni” privati.
“Per queste ragioni e per gli enormi interessi che sono in gioco - conclude il consigliere della lista In Comune con Bettin -, abbiamo proposto al consiglio Comunale di discutere e approvare un ordine del giorno che impegni l'amministrazione, cito letteralmente, « a promuovere e organizzare una vasta e capillare campagna di informazione e sensibilizzazione sui contenuti dei quesiti e la rilevanza delle conseguenze, finalizzata ad ottenere la massima partecipazione informata dei cittadini alla consultazione referendaria» e a raggiungere così l'obiettivo del quorum che renderà valido il voto nel referendum”.
Un esempio di buone pratiche che Caccia e Seibezzi si augurano venga presto seguito da altri Comuni italiani perché l’acqua rimanga, per l’appunto, un bene comune.

Adesso che la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità di due quesiti, la città lagunare si candida a diventare la prima realtà metropolitana ad aderire ufficialmente e con convinzione alla campagna referendaria per il Sì.
“Oggi si apre una fase nuova - ha commentato il consigliere ambientalista Beppe Caccia -. Sappiamo che è davvero possibile riuscire a bloccare il
meccanismo perverso, previsto dai decreti Ronchi del 2009, che, nel caso della nostra città, costringerebbe l’ente pubblico a quotare in borsa e a cedere forzatamente a investitori privati entro la fine del 2011 una quota significativa della azioni Veritas, la multiutility a capitale interamente pubblico che gestisce la risorsa idrica in gran parte dei Comuni della gronda lagunare. Il raggiungimento del quorum e il conseguente e prevedibile successo dei Sì, sono quindi due condizioni necessarie per difendere questo patrimonio comune rappresentato dalla gestione pubblica del servizio idrico integrato da parte di Veritas”.
Non va neppure dimenticato, hanno spiegato Caccia e Seibezzi, che Veritas offre un servizio di altissima qualità e a tariffe tra le più contenute del Paese (Venezia è, per costo al metro cubo, seconda solo a Milano). E tutto questo, anche senza voler considerare i costi suppletivi di depurazione e di diffusione legati alla particolarissima morfologia del territorio lagunare. La qualità indiscussa dell’acqua erogata inoltre, è una prova tangibile di come un servizio idrico pubblico possa funzionare egregiamente anche senza bisogno di “sostegni” privati.
“Per queste ragioni e per gli enormi interessi che sono in gioco - conclude il consigliere della lista In Comune con Bettin -, abbiamo proposto al consiglio Comunale di discutere e approvare un ordine del giorno che impegni l'amministrazione, cito letteralmente, « a promuovere e organizzare una vasta e capillare campagna di informazione e sensibilizzazione sui contenuti dei quesiti e la rilevanza delle conseguenze, finalizzata ad ottenere la massima partecipazione informata dei cittadini alla consultazione referendaria» e a raggiungere così l'obiettivo del quorum che renderà valido il voto nel referendum”.
Un esempio di buone pratiche che Caccia e Seibezzi si augurano venga presto seguito da altri Comuni italiani perché l’acqua rimanga, per l’appunto, un bene comune.
Se l'assessore alla cultura manda i libri al rogo
18/01/2011TerraLa cosa peggiore è che la notizia sia passata quasi inosservata. D’accordo, se ne sentono tante e che al peggio non ci sia mai fine non è più solo un luogo comune. Ma quando leggiamo che un assessore alla cultura stila la lista di proscrizione dei libri non possiamo non pensare alla Notte dei Cristalli. E’una notizia che fa paura. Viene voglia di ignorarla, di classificarla come una delle tante “sparate mediatiche” di questo sfinente e mortificante dibattito politico. Siamo tentati di riderci sopra.
Magari confezionarci qualche facile battuta. Ma sarebbe un errore gravissimo perché dalla storia dovremmo aver imparato che le dichiarazioni di chi sta al potere vanno prese sempre per oro colato e non possono mai essere liquidate come gli sproloqui del pazzoide di turno. Le persone abituate a riflettere hanno la tendenza a sottovalutare il peso degli ignoranti e degli stupidi. Eppure le tante dittature che abbiamo visto al mondo ci insegnano che essere ignoranti e stupidi, e possibilmente pure un po’ carogne, aiuta a scalare la piramide del potere. La cultura non ti è alleata se vuoi combattere la democrazia. Svuotare le biblioteche dei libri “sbagliati” è una operazione che i dittatori – nessuno escluso - hanno sempre effettuato. Pretesti, se ne trovano a iosa. C’è sempre qualche “complotto ebraico” che ti viene in aiuto. Perché il punto focale di questa storia non è il caso Battisti e l’opinione che ciascuno di noi ne ha. Leggiamo cosa ha dichiarato l’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, la scorsa settimana: «Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del veneziano perché questi scrittori siano dichiarati sgraditi e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista. Chiederò inoltre di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità». Le persone sgradite a Speranzon (politico di lunga data, oggi del Pdl, prima alleanza nazionale, prima ancora fascista dell’Msi) sono tutti gli scrittori che hanno firmato nel 2004 la petizione per la liberazione di Cesare Battisti. C’è gente del calibro di, ne citiamo solo alcuni, Tiziano Scarpa, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Daniel Pennac, Nanni Balestrini, Giuseppe Genna, Lello Voce, Pino Cacucci, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, Vauro, Sandrone Dazieri, Gianfranco Manfredi, Stefano Tassinari. Vien da chiedersi cosa intenda Speranzon quando minaccia i bibliotecari che non si allineano e che dovranno “assumersene le responsabilità”. Toglie i fondi che già non ci sono (“finanziamenti alla cultura” nel Veneto significa pagare manifestazioni come “la festa dello spritz padano” o la “sagra dei cacciatori”)? Oppure ci manda direttamente gli squadristi con olio di ricino e lanciafiamme? Come dicevamo in apertura, quello che più preoccupa è che sono stati pochissimi ad indignarsi per questo rogo di libri tutt’altro che simbolico e sarà presumibilmente esteso a tutto il Veneto per merito dell’assessore regionale Elena Donazzan. Un’altra che ha fatto lo stesso percorso politico di Speranzon - fascio Msi, An e Pdl - e che da ragazzina devastava e “svasticava” le biblioteche delle scuole vicentine. Non sappiamo quanto resisteranno (è proprio il caso di usare questo verbo) i responsabili delle nostre biblioteche, ma certo nelle sale di lettura sotto casa e negli scaffali delle scuole troveremo ancora il Mein Kampf - ed è giusto così – ma imbattersi in un titolo del mio amato Cacucci diventerà un terno al lotto. Questo, va detto chiaro, significa già regime. Trattandosi di Speranzon, ci aggiungiamo pure regime fascista. Ultima nota. A benedire il rogo ci ha subito pensato Franco Maccari, segretario del sindacato di polizia Coisp, che ha invitato a non comprare le opere degli autori sgraditi commentando: “Il nostro Paese ne esce con le ossa rotte sul caso Battisti. L’aspetto più grave è che sia stata messa in dubbio la democrazia in Italia”. Vien da chiedersi come mai.
Magari confezionarci qualche facile battuta. Ma sarebbe un errore gravissimo perché dalla storia dovremmo aver imparato che le dichiarazioni di chi sta al potere vanno prese sempre per oro colato e non possono mai essere liquidate come gli sproloqui del pazzoide di turno. Le persone abituate a riflettere hanno la tendenza a sottovalutare il peso degli ignoranti e degli stupidi. Eppure le tante dittature che abbiamo visto al mondo ci insegnano che essere ignoranti e stupidi, e possibilmente pure un po’ carogne, aiuta a scalare la piramide del potere. La cultura non ti è alleata se vuoi combattere la democrazia. Svuotare le biblioteche dei libri “sbagliati” è una operazione che i dittatori – nessuno escluso - hanno sempre effettuato. Pretesti, se ne trovano a iosa. C’è sempre qualche “complotto ebraico” che ti viene in aiuto. Perché il punto focale di questa storia non è il caso Battisti e l’opinione che ciascuno di noi ne ha. Leggiamo cosa ha dichiarato l’assessore alla cultura della provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, la scorsa settimana: «Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del veneziano perché questi scrittori siano dichiarati sgraditi e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali: è necessario un segnale forte dalla politica per condannare il comportamento di questi intellettuali che spalleggiando un terrorista. Chiederò inoltre di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità». Le persone sgradite a Speranzon (politico di lunga data, oggi del Pdl, prima alleanza nazionale, prima ancora fascista dell’Msi) sono tutti gli scrittori che hanno firmato nel 2004 la petizione per la liberazione di Cesare Battisti. C’è gente del calibro di, ne citiamo solo alcuni, Tiziano Scarpa, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Daniel Pennac, Nanni Balestrini, Giuseppe Genna, Lello Voce, Pino Cacucci, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, Vauro, Sandrone Dazieri, Gianfranco Manfredi, Stefano Tassinari. Vien da chiedersi cosa intenda Speranzon quando minaccia i bibliotecari che non si allineano e che dovranno “assumersene le responsabilità”. Toglie i fondi che già non ci sono (“finanziamenti alla cultura” nel Veneto significa pagare manifestazioni come “la festa dello spritz padano” o la “sagra dei cacciatori”)? Oppure ci manda direttamente gli squadristi con olio di ricino e lanciafiamme? Come dicevamo in apertura, quello che più preoccupa è che sono stati pochissimi ad indignarsi per questo rogo di libri tutt’altro che simbolico e sarà presumibilmente esteso a tutto il Veneto per merito dell’assessore regionale Elena Donazzan. Un’altra che ha fatto lo stesso percorso politico di Speranzon - fascio Msi, An e Pdl - e che da ragazzina devastava e “svasticava” le biblioteche delle scuole vicentine. Non sappiamo quanto resisteranno (è proprio il caso di usare questo verbo) i responsabili delle nostre biblioteche, ma certo nelle sale di lettura sotto casa e negli scaffali delle scuole troveremo ancora il Mein Kampf - ed è giusto così – ma imbattersi in un titolo del mio amato Cacucci diventerà un terno al lotto. Questo, va detto chiaro, significa già regime. Trattandosi di Speranzon, ci aggiungiamo pure regime fascista. Ultima nota. A benedire il rogo ci ha subito pensato Franco Maccari, segretario del sindacato di polizia Coisp, che ha invitato a non comprare le opere degli autori sgraditi commentando: “Il nostro Paese ne esce con le ossa rotte sul caso Battisti. L’aspetto più grave è che sia stata messa in dubbio la democrazia in Italia”. Vien da chiedersi come mai.
Se questa è Caritas...
18/01/2011TerraSono anni difficili. Troppo difficili per “potersi permettere” di accogliere più migranti di quanto si possa accoglierne. Questo è il sunto di quanto ha dichiarato don Dino Pistolato, direttore della Caritas veneziana in una conferenza stampa per presentare la 97esima giornata del rifugiato svoltasi domenica scorsa.
Le affermazioni dell’alto prelato, comunque più puntate a chiedere un pronto riconoscimento dei migranti già sono presenti nel nostro territorio piuttosto che ad invocare muri o rimpatri coatti, hanno suscitato un vespaio di reazioni nel Veneto. Il Pdl e la lega in particolare, non hanno peso l’occasione di cogliere la palla al balzo rilanciando allarmismi e invocando muri e rimpatri coatti. “Manipolazioni facili, strumentali e irresponsabili” le ha definite in una nota la rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa tutte le realtà associative che nel veneziano lavorano per l’integrazione e l’accoglienza.
“In Italia esistono centinaia di migliaia di nuovi schiavi costretti a lavorare a nero da anni a causa di leggi ipocrite e crudeli come la Bossi-Fini – ha dichiarato Alessandra Sciurba, portavoce della rete – Gli stessi meccanismi della crisi richiedono sempre di più una forza lavoro flessibile a cui possono essere strappati anche i più elementari diritti e sulla base delle cui condizioni potere poi ricattare anche i lavoratori italiani formalmente più tutelati. Le attuali leggi sull'immigrazione non permettono alcuna regolarizzazione di chi lavora da anni. Su questo punto ha ragione chi dice che vanno riconosciuti, immediatamente e senza alcun compromesso o discriminazione, i diritti dei lavoratori migranti già presenti. Bisogna aggiungere però, che da quasi 10 anni, i decreti flussi e le quote di ingresso hanno rappresentato semplicemente delle sanatorie nascoste. Chiunque ha potuto vedere con i propri occhi gli stessi migranti che avrebbero dovuto teoricamente trovarsi nei loro paesi d'origine e lì venire raggiunti da una chiamata del datore di lavoro, fare le file davanti la posta per consegnare i propri dossier. E chi, del resto, assumerebbe mai qualcuno che non ha conosciuto prima? Si è arrivati al paradosso di persone costrette a uscire dall'Italia clandestinamente per poi rientrarvi su falsa chiamata e tornare a occupare i posti di lavoro che già avevano prima, dopo avere rischiato la vita in viaggi a ritroso pericolosissimi”.
Non si può parlare delle nuove quote di ingresso, spiega la rete, senza dire anche che esse rappresentano in gran parte la sola maniera per decine di migliaia di persone per regolarizzare la propria posizione. Una ipocrisi che è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Quasi tutti i migranti che oggi hanno un permesso di soggiorno sono stati costretti ad attraversare anni di irregolarità, umiliazioni e ricatti. Conclude Alessandra Sciurba: “Il problema non è quindi, che « gli immigrati ci rubano il lavoro » o altre affermazioni grottesche, populiste e a sfondo razzista, che i dati oggettivi possono smentire in ogni momento, ma è piuttosto quello di smascherare un sistema che si regge sulla finzione e che è volto alla creazione di una categoria di popolazione da schiavizzare e sfruttare”.
Le affermazioni dell’alto prelato, comunque più puntate a chiedere un pronto riconoscimento dei migranti già sono presenti nel nostro territorio piuttosto che ad invocare muri o rimpatri coatti, hanno suscitato un vespaio di reazioni nel Veneto. Il Pdl e la lega in particolare, non hanno peso l’occasione di cogliere la palla al balzo rilanciando allarmismi e invocando muri e rimpatri coatti. “Manipolazioni facili, strumentali e irresponsabili” le ha definite in una nota la rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa tutte le realtà associative che nel veneziano lavorano per l’integrazione e l’accoglienza.
“In Italia esistono centinaia di migliaia di nuovi schiavi costretti a lavorare a nero da anni a causa di leggi ipocrite e crudeli come la Bossi-Fini – ha dichiarato Alessandra Sciurba, portavoce della rete – Gli stessi meccanismi della crisi richiedono sempre di più una forza lavoro flessibile a cui possono essere strappati anche i più elementari diritti e sulla base delle cui condizioni potere poi ricattare anche i lavoratori italiani formalmente più tutelati. Le attuali leggi sull'immigrazione non permettono alcuna regolarizzazione di chi lavora da anni. Su questo punto ha ragione chi dice che vanno riconosciuti, immediatamente e senza alcun compromesso o discriminazione, i diritti dei lavoratori migranti già presenti. Bisogna aggiungere però, che da quasi 10 anni, i decreti flussi e le quote di ingresso hanno rappresentato semplicemente delle sanatorie nascoste. Chiunque ha potuto vedere con i propri occhi gli stessi migranti che avrebbero dovuto teoricamente trovarsi nei loro paesi d'origine e lì venire raggiunti da una chiamata del datore di lavoro, fare le file davanti la posta per consegnare i propri dossier. E chi, del resto, assumerebbe mai qualcuno che non ha conosciuto prima? Si è arrivati al paradosso di persone costrette a uscire dall'Italia clandestinamente per poi rientrarvi su falsa chiamata e tornare a occupare i posti di lavoro che già avevano prima, dopo avere rischiato la vita in viaggi a ritroso pericolosissimi”.
Non si può parlare delle nuove quote di ingresso, spiega la rete, senza dire anche che esse rappresentano in gran parte la sola maniera per decine di migliaia di persone per regolarizzare la propria posizione. Una ipocrisi che è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla. Quasi tutti i migranti che oggi hanno un permesso di soggiorno sono stati costretti ad attraversare anni di irregolarità, umiliazioni e ricatti. Conclude Alessandra Sciurba: “Il problema non è quindi, che « gli immigrati ci rubano il lavoro » o altre affermazioni grottesche, populiste e a sfondo razzista, che i dati oggettivi possono smentire in ogni momento, ma è piuttosto quello di smascherare un sistema che si regge sulla finzione e che è volto alla creazione di una categoria di popolazione da schiavizzare e sfruttare”.
Fiaccole di pace
11/01/2011Terra
Il presidio invita quindi tutti i cittadini ad illuminare Vicenza con una grande fiaccolata, la sera di sabato prossimo, portando in piazza la stessa dignità e la stessa indignazione di quattro anni fa e di far sentire forte la voce di un movimento tutt’altro che sconfitto ma cresciuto e maturato in anni duri ma anche straordinari. Un movimento che ha contribuito a cambiare il linguaggio della politica strutturando e riempiendo di significati concetti come “beni comuni” e democrazia dal basso”, e ottenendo anche importanti risultati. Ne sia un esempio, si legge in un comunicato del presidio, il Parco della Pace. I primi progetti della base prevedevano il passaggio dell’intero perimetro del Dal Molin all’esercito Usa. Se oggi questa prospettiva è cambiata, sottraendo spazio alla base militare per destinarlo ad un uso pubblico verde, è solo grazie alla mobilitazione dei vicentini. “Per questo – conclude Olol Jackson – in occasione della fiaccolata chiederemo che il Parco della Pace venga consegnato al più presto alla comunità vicentina. Su questo punto, come sui reali danni al territorio che la costruzione della base sta causando, dobbiamo pretendere verità e giustizia, consapevoli del fatto che nessuno ci regalerà nulla ma tutto ce lo dovremo conquistare con le nostre mobilitazioni”.
Nasce a Venezia l'Osservatorio contro la Discriminazione
23/12/2010TerraL’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, Unar, ha sottoscritto un protocollo d'intesa con il Comune di Venezia che prevede l’istituzione di un osservatorio contro il razzismo nella città lagunare. L’annuncio è stato dato dal direttore dell’Unar, Massimiliano Monnanni, in occasione dell’incontro “Io non discrimino”, organizzato dalla rete Tuttiidirittiumanipertutti lunedì 20 dicembre nella scoletta dei Calegheri. L’accordo tra l’ufficio del ministero per le Pari opportunità e il Comune è stato fortemente voluto dall’assessore alla pace, Gianfranco Bettin. Sarà, questo di Venezia, un osservatorio atipico per due motivi principali. Il primo, lo ha sottolineato lo stesso Monnanni, sta nel fatto che, per la prima volta, un osservatorio Unar avrà una dimensione comunale e non regionale.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Foreste certificate
21/12/2010TerraIl tavolo di legno che avete a casa non è soltanto un semplice pezzo di legno lavorato. Neanche la credenza, le travi del soffitto, le porte, gli infissi delle finestre, la vostra biblioteca e i libri della vostra biblioteca. La carta, ricordiamocelo, è anch’essa un prodotto ligneo. E neppure le “bricole” che, nella mia città, Venezia, delimitano i canali navigabili dalle secche, sono solo pezzi di legno piantati in acqua. Perché, la prima cosa da mettere in chiaro, è che c’è legno e legno. E non è una sottigliezza da poco. Uno studio commissionato dalla Comunità europea ha dimostrato che oltre il 35% del legno che circola in Europa proviene da fonte illegale. Che significa “fonte illegale” nel caso di un’asse di legno da lavorare?
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Trieste: Sandro Metz candidato sindaco
14/12/2010TerraFosse al potere la fantasia, “Sandrone” Metz sarebbe il candidato sindaco del centro sinistra alle prossime amministrative di Trieste. Non fosse altro per la campagna elettorale tutta al contrario che si era inventato: “Io non voto Alessandro Metz perché…” e a seguire video, fotografie e mail di personaggi noti ma anche di persone comuni, tutti a spiegare sorridendo che un tipo così non lo avrebbero mai votato perché “preferisco una triste inquinata e un po’ mafiosetta” oppure perché “ci ha un cognome da extracomunitario clandestino!” Invece l’avventura del candidato sindaco Alessandro Metz termina alle 21 di domenica 12 dicembre, quando si aprono le urne e i risultati parlano chiaro: il 56 per cento degli elettori del centrosinistra ha scelto Roberto Casolini.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Zaher, due anni dopo
14/12/2010TerraDue anni fa un ragazzino afghano moriva stritolato dalle ruote di un camion in manovra nella banchina del porto di Venezia. Si chiamava Zaher Rezai, aveva appena 12 anni e scriveva poesie. “Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi o dio, che non lascerai che finisca la mia primavera” troveremo scritto nel suo taccuino sporco del suo sangue. Zaher era sbarcato da una di quelle grandi navi traghetto che percorrono incessantemente la rotta Patrasso – Venezia. Aveva attraversato l’Adriatico nascosto in uno dei tanti container, così come fanno tutti gli altri profughi che sbarcano nel porto lagunare.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.
L'Italia che parte da un sogno. Intervista con Michele Dotti
30/11/2010TerraDifficile presentare Michele Dotti. Scrittore e giornalista ma anche educatore e formatore, collabora con il Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo ed è volontario, da oltre 16 anni, dell'associazione Mani Tese. Ha lanciato l'appello nazionale "Abbiamo un sogno" per avviare un cambiamento sociale e politico "dal basso" che in breve mesi ha raccolto migliaia di adesioni e ha scritto con Marco Boschini “L’anticasta. L’Italia che funziona”, editrice Missionaria Italiana. Gli chiediamo come mai ha scelto un titolo così controcorrente.
Perché credo che l'Italia reale non sia quella che ci mostrano ogni giorno i mass media, ma abbia un valore molto più grande al quale occorre dare visibilità. In questo senso, forse, il sottotitolo de "L'anticasta" ("L'Italia che funziona") è ancora più importante de titolo stesso ed esprime perfettamente lo spirito con cui, Marco ed io, abbiamo concepito questo libro. Noi pensiamo che "denunciare" gli sprechi, i privilegi e tutte le vergogne della Casta sia necessario e indubbiamente Rizzo e Stella lo hanno fatto con coraggio e grande lucidità nel loro splendido libro, ma forse questo non è sufficiente. Occorre in parallelo anche saper "annunciare" le alternative possibili, concrete e già realizzate con successo in tanti Comuni del nostro paese, che potrebbero diffondersi ancora più rapidamente di quanto già non stia avvenendo se solo avessero la visibilità che meritano. Ecco perché abbiamo scelto di dare loro voce, affinché queste esperienze virtuose possano replicarsi ovunque con grandi benefici da tutti i punti di vista: ecologico, economico, sociale, occupazionale, culturale... Questo è il nostro futuro!
Hai presentato questo volume in tante parti d’Italia, hai incontrato tanta gente e tante associazioni, cosa ti ha suscitato questa esperienza?
Sono sempre più ottimista, mano a mano che prendo consapevolezza del valore e della forza della società civile del nostro paese! Girando l’Italia per i miei numerosi incontri respiro una crescente sete di verità. La stanchezza e lo scoraggiamento che hanno paralizzato il nostro paese negli ultimi anni si stanno rapidamente trasformando in una straordinaria energia di rinnovamento dal basso, capace di mobilitare le parti più attente e sensibili della nostra società e anche di coagulare ampi consensi quando sa mostrarsi credibile nelle proposte. Backminster Fuller scrive: "Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta". E' questo che sta avvenendo nel nostro paese, nonostante l’assordante silenzio delle tv al proposito!
Esiste davvero “un’altra Italia”?
Questo è sicuro!!! E non mi riferisco solo ai 4 milioni e 400mila attivisti che operano nel volontariato e che con il loro impegno quotidiano tengono in piedi questo paese nonostante le scelte scellerate della nostra classe dirigente. Credo che anche fra la gente comune non ci sia bisogno di andare tanto lontano per trovare persone che sognano un paese più onesto, accogliente, solidale. Proviamo a guardarci intorno e magari proprio dietro di noi, o al nostro fianco ne troveremo già qualcuna... Il fatto che i grandi media spesso non li mostrino non significa che queste persone oneste non esistano e non stiano già creando un cambiamento concreto con le loro scelte quotidiane; io sono fermamente convinto che essi rappresentino la maggioranza dei nostri concittadini!
“Dudal Jam, a scuola di pace” è il tuo nuovo libro, presto partirai per l’Africa, quanto ami questo continente e quali emozioni ti suscita?
L'esperienza di volontariato in Burkina Faso mi ha cambiato profondamente. Ho imparato dai miei fratelli africani che è possibile prendere il proprio avvenire in mano e unendo le forze costruire un domani migliore, nonostante tutte le difficoltà possibili. Come dice un proverbio burkinabé: "Quando le formiche uniscono le loro bocche possono trasportare un elefante!" Io ho visto degli autentici miracoli, ho visto tanti sogni diventare realtà, sono testimone di innumerevoli percorsi concreti partiti dal basso che hanno cambiato la storia di intere comunità, coinvolgendole attivamente e riportando dignità, autonomia e speranza a centinaia di migliaia di persone. E' un'esperienza straordinaria, che mi lega al continente nero in modo saldo e profondo. E ora sto cercando di portare questa esperienza anche nel mio impegno qui in Italia.
“Abbiamo un sogno” e “Io Cambio” per la costituente ecologista: due appelli ma anche due speranze per cambiare l’Italia dal basso, possono avere una strada in comune?
Dobbiamo riuscirci! Io lo spero vivamente, perché la frammentazione è uno dei principali problemi che hanno afflitto il nostro paese in questi ultimi decenni. Occorre unire tutte le forze, con fiducia e rispetto reciproco, lavorando sui contenuti con pazienza e umiltà, cercando i punti comuni su cui costruire insieme il cammino condiviso. E' indispensabile un processo partecipativo assolutamente trasparente, democratico e inclusivo. Se sapremo fare questo e farlo insieme, sono certo che scriveremo una pagina di storia per il nostro paese. C'è una grandissima sete di cambiamento a cui noi dobbiamo dare una risposta chiara e coraggiosa.
Come vedi la situazione politica italiana e quanto questi appelli possono incidere davvero per cambiare le cose e riavvicinare la gente comune e i giovani alla politica?
La situazione italiana è difficilissima. L'Italia è un paese in ginocchio, con problemi difficili da risolvere perché frutto di scelte folli stratificatesi nei decenni. Basti pensare alla cementificazione selvaggia che devasta il nostro territorio, alla disoccupazione giovanile che è ormai al triplo della media europea, all'assurdità delle enormi spese militari a fronte di tante emergenze sociali... La politica ha perso ogni credibilità, ma questo non significa che le cose non possano cambiare e che la gente, specialmente i govani, non possano riavvicinarsi all'impegno e alla passione civile. Tocca a noi mostrare una via credibile per uscire dalla crisi, attraverso un progetto che offra una visione a medio e lungo termine di una società desiderabile, che punti alla qualità di vita, al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona, che veda la sostenibiltà ambientale come una opportunità e non come un problema. Di questo parlano i nostri appelli! E credo che questo possa essere fatto solo coinvolgendo attivamente tutta la società civile, nelle sue diverse anime ecologista, pacifista, della solidarietà e della legalità, per ridare voce e speranza alla parte sana del nostro paese. E' quello che stiamo cercando di fare, insieme.
Perché credo che l'Italia reale non sia quella che ci mostrano ogni giorno i mass media, ma abbia un valore molto più grande al quale occorre dare visibilità. In questo senso, forse, il sottotitolo de "L'anticasta" ("L'Italia che funziona") è ancora più importante de titolo stesso ed esprime perfettamente lo spirito con cui, Marco ed io, abbiamo concepito questo libro. Noi pensiamo che "denunciare" gli sprechi, i privilegi e tutte le vergogne della Casta sia necessario e indubbiamente Rizzo e Stella lo hanno fatto con coraggio e grande lucidità nel loro splendido libro, ma forse questo non è sufficiente. Occorre in parallelo anche saper "annunciare" le alternative possibili, concrete e già realizzate con successo in tanti Comuni del nostro paese, che potrebbero diffondersi ancora più rapidamente di quanto già non stia avvenendo se solo avessero la visibilità che meritano. Ecco perché abbiamo scelto di dare loro voce, affinché queste esperienze virtuose possano replicarsi ovunque con grandi benefici da tutti i punti di vista: ecologico, economico, sociale, occupazionale, culturale... Questo è il nostro futuro!
Hai presentato questo volume in tante parti d’Italia, hai incontrato tanta gente e tante associazioni, cosa ti ha suscitato questa esperienza?
Sono sempre più ottimista, mano a mano che prendo consapevolezza del valore e della forza della società civile del nostro paese! Girando l’Italia per i miei numerosi incontri respiro una crescente sete di verità. La stanchezza e lo scoraggiamento che hanno paralizzato il nostro paese negli ultimi anni si stanno rapidamente trasformando in una straordinaria energia di rinnovamento dal basso, capace di mobilitare le parti più attente e sensibili della nostra società e anche di coagulare ampi consensi quando sa mostrarsi credibile nelle proposte. Backminster Fuller scrive: "Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta". E' questo che sta avvenendo nel nostro paese, nonostante l’assordante silenzio delle tv al proposito!
Esiste davvero “un’altra Italia”?
Questo è sicuro!!! E non mi riferisco solo ai 4 milioni e 400mila attivisti che operano nel volontariato e che con il loro impegno quotidiano tengono in piedi questo paese nonostante le scelte scellerate della nostra classe dirigente. Credo che anche fra la gente comune non ci sia bisogno di andare tanto lontano per trovare persone che sognano un paese più onesto, accogliente, solidale. Proviamo a guardarci intorno e magari proprio dietro di noi, o al nostro fianco ne troveremo già qualcuna... Il fatto che i grandi media spesso non li mostrino non significa che queste persone oneste non esistano e non stiano già creando un cambiamento concreto con le loro scelte quotidiane; io sono fermamente convinto che essi rappresentino la maggioranza dei nostri concittadini!
“Dudal Jam, a scuola di pace” è il tuo nuovo libro, presto partirai per l’Africa, quanto ami questo continente e quali emozioni ti suscita?
L'esperienza di volontariato in Burkina Faso mi ha cambiato profondamente. Ho imparato dai miei fratelli africani che è possibile prendere il proprio avvenire in mano e unendo le forze costruire un domani migliore, nonostante tutte le difficoltà possibili. Come dice un proverbio burkinabé: "Quando le formiche uniscono le loro bocche possono trasportare un elefante!" Io ho visto degli autentici miracoli, ho visto tanti sogni diventare realtà, sono testimone di innumerevoli percorsi concreti partiti dal basso che hanno cambiato la storia di intere comunità, coinvolgendole attivamente e riportando dignità, autonomia e speranza a centinaia di migliaia di persone. E' un'esperienza straordinaria, che mi lega al continente nero in modo saldo e profondo. E ora sto cercando di portare questa esperienza anche nel mio impegno qui in Italia.
“Abbiamo un sogno” e “Io Cambio” per la costituente ecologista: due appelli ma anche due speranze per cambiare l’Italia dal basso, possono avere una strada in comune?
Dobbiamo riuscirci! Io lo spero vivamente, perché la frammentazione è uno dei principali problemi che hanno afflitto il nostro paese in questi ultimi decenni. Occorre unire tutte le forze, con fiducia e rispetto reciproco, lavorando sui contenuti con pazienza e umiltà, cercando i punti comuni su cui costruire insieme il cammino condiviso. E' indispensabile un processo partecipativo assolutamente trasparente, democratico e inclusivo. Se sapremo fare questo e farlo insieme, sono certo che scriveremo una pagina di storia per il nostro paese. C'è una grandissima sete di cambiamento a cui noi dobbiamo dare una risposta chiara e coraggiosa.
Come vedi la situazione politica italiana e quanto questi appelli possono incidere davvero per cambiare le cose e riavvicinare la gente comune e i giovani alla politica?
La situazione italiana è difficilissima. L'Italia è un paese in ginocchio, con problemi difficili da risolvere perché frutto di scelte folli stratificatesi nei decenni. Basti pensare alla cementificazione selvaggia che devasta il nostro territorio, alla disoccupazione giovanile che è ormai al triplo della media europea, all'assurdità delle enormi spese militari a fronte di tante emergenze sociali... La politica ha perso ogni credibilità, ma questo non significa che le cose non possano cambiare e che la gente, specialmente i govani, non possano riavvicinarsi all'impegno e alla passione civile. Tocca a noi mostrare una via credibile per uscire dalla crisi, attraverso un progetto che offra una visione a medio e lungo termine di una società desiderabile, che punti alla qualità di vita, al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona, che veda la sostenibiltà ambientale come una opportunità e non come un problema. Di questo parlano i nostri appelli! E credo che questo possa essere fatto solo coinvolgendo attivamente tutta la società civile, nelle sue diverse anime ecologista, pacifista, della solidarietà e della legalità, per ridare voce e speranza alla parte sana del nostro paese. E' quello che stiamo cercando di fare, insieme.
Quiz contro la Gelmini
23/11/2010TerraProviamo anche con l’arma dell’ironia - si devono essere detti studenti e ricercatori di Ca’ Foscari -. Vediamo se così riusciamo a far capire anche a chi non vive nel mondo dell’istruzione, che catastrofe si abbatterà sulla scuola e sul libero sapere italiano con l’uragano Gelmini. E così hanno chiamato “’15 – ‘18” gli anni della grande guerra, la grande mobilitazione svoltasi proprio nella settimana a cavallo tra il 15 e il 18 novembre, in difesa della scuola. La scuola pubblica, intendiamo. Quella privata ci ha già pensato a difenderla il governo.
Nelle varie manifestazioni e iniziative che sono state organizzate a Venezia, studenti e docenti – per una volta dalla stessa parte del banco – hanno distribuito un “quiz a risposta multipla senza premi per aspiranti studenti dopo la riforma Gelmini”. Una mezza dozzina di domande con tre o quattro possibili risposte ciascuna. Proprio come un test universitario. Il tutto a cura dei ricercatori della Rete 29 aprile e dal coordinamento degli studenti universitari di Venezia. Ve ne propongo qualcuno così vediamo se passate l’esame.
Amministrazione efficiente. Secondo l’articolo 2, comma 1, il consiglio di amministrazione di una università statale diverrà: a) simile al Cda di una azienda privata con manager che rispondono agli azionisti del loro operato; b) simile al Cda di una Usl con manager esterni provenienti dalla politica; c) simile all’attuale con rappresentanze di studenti e ricercatori. (Risposta esatta la b).
Onore al merito. Secondo l’articolo 4, quale tra i seguenti metodi di finanziamento contribuirà al fondo per le borse di studio per gli studenti meritevoli: a) una parte del 5% versato al fisco per il rientro dei capitali illegalmente detenuti all’estero mediante lo scudo fiscale 2010; b) una parte del 5% irpef versato dai contribuenti alle associazioni senza scopo di lucro; c) tasse aggiuntive pagate dagli studenti che, ritenendosi meritevoli, chiedono di partecipare alle prove di valutazione de merito: d) tasse aggiuntive richieste agli studenti meno meritevoli. (Risposta esatta la c).
Mai più concorsi ad personam. Secondo l’articolo 17, per ogni posto di professore bandito dall’università: a) sarà una commissione indipendente a decidere il vincitore; b) si assume il primo in ordine di merito da una lista di candidati giudicati idonei da una commissione indipendente; c) il dipartimento potrà assumere un candidato qualsiasi da una lista di candidati non ancora assunti. (Risposta esatta la c).
Onore al merito 2. Ricercatori. Secondo l’articolo 21, il passaggio di un ricercatore a tempo determinato a professore associato una volta ottenuta l’idoneità: a) sarà automatico; b) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università; c) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università e dai blocchi di turn over, sospensioni e limiti decisi dal Governo. (Risposta esatta la c).
Avrete capito che… basta rispondere il peggio e ci si azzecca sempre!
“La riforma colpisce l’intera università e in particolare i suoi settori più deboli – spiega Marta Canino portavoce del coordinamento studenti -. Non intacca i poteri dei baroni, riduce il ruolo del senato accademico e individua in un Cda a nomina politica e controllato dal governo, l’organo decisionale non solo per le questioni economiche ma per la stessa didattica. Aziende private e partiti al governo potranno decidere il futuro del sapere in Italia. La riforma Gelmini è una attacco diretto alla libera cultura”.
Nelle varie manifestazioni e iniziative che sono state organizzate a Venezia, studenti e docenti – per una volta dalla stessa parte del banco – hanno distribuito un “quiz a risposta multipla senza premi per aspiranti studenti dopo la riforma Gelmini”. Una mezza dozzina di domande con tre o quattro possibili risposte ciascuna. Proprio come un test universitario. Il tutto a cura dei ricercatori della Rete 29 aprile e dal coordinamento degli studenti universitari di Venezia. Ve ne propongo qualcuno così vediamo se passate l’esame.
Amministrazione efficiente. Secondo l’articolo 2, comma 1, il consiglio di amministrazione di una università statale diverrà: a) simile al Cda di una azienda privata con manager che rispondono agli azionisti del loro operato; b) simile al Cda di una Usl con manager esterni provenienti dalla politica; c) simile all’attuale con rappresentanze di studenti e ricercatori. (Risposta esatta la b).
Onore al merito. Secondo l’articolo 4, quale tra i seguenti metodi di finanziamento contribuirà al fondo per le borse di studio per gli studenti meritevoli: a) una parte del 5% versato al fisco per il rientro dei capitali illegalmente detenuti all’estero mediante lo scudo fiscale 2010; b) una parte del 5% irpef versato dai contribuenti alle associazioni senza scopo di lucro; c) tasse aggiuntive pagate dagli studenti che, ritenendosi meritevoli, chiedono di partecipare alle prove di valutazione de merito: d) tasse aggiuntive richieste agli studenti meno meritevoli. (Risposta esatta la c).
Mai più concorsi ad personam. Secondo l’articolo 17, per ogni posto di professore bandito dall’università: a) sarà una commissione indipendente a decidere il vincitore; b) si assume il primo in ordine di merito da una lista di candidati giudicati idonei da una commissione indipendente; c) il dipartimento potrà assumere un candidato qualsiasi da una lista di candidati non ancora assunti. (Risposta esatta la c).
Onore al merito 2. Ricercatori. Secondo l’articolo 21, il passaggio di un ricercatore a tempo determinato a professore associato una volta ottenuta l’idoneità: a) sarà automatico; b) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università; c) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università e dai blocchi di turn over, sospensioni e limiti decisi dal Governo. (Risposta esatta la c).
Avrete capito che… basta rispondere il peggio e ci si azzecca sempre!
“La riforma colpisce l’intera università e in particolare i suoi settori più deboli – spiega Marta Canino portavoce del coordinamento studenti -. Non intacca i poteri dei baroni, riduce il ruolo del senato accademico e individua in un Cda a nomina politica e controllato dal governo, l’organo decisionale non solo per le questioni economiche ma per la stessa didattica. Aziende private e partiti al governo potranno decidere il futuro del sapere in Italia. La riforma Gelmini è una attacco diretto alla libera cultura”.
La battaglia per l'acqua attraversa la Biennale
23/11/2010Terra
L’incontro è stato promosso dal comitato Abc, acronimo di Acqua Bene Comune “ma abc sono anche le prime lettere dell’alfabeto – ha commentato il portavoce Francesco Penzo – perché è da queste lettere che rappresentano i beni comuni che bisogna ripartire per riscrivere il vocabolario politico della partecipazione e della democrazia nel nostro Paese”. Ospite d’onore dell’iniziativa, un applauditissimo Marco Bersani, ricercatore, saggista e uno dei promotori del referendum. “Non era mai successo in Italia che un movimento raccogliesse oltre un milione e 400 mila firme per un referendum. Firme raccolte a testa alta, da un movimento dal basso senza finanziatori e senza partiti politici a sostegno – ha commentato Bersani – Questo è indubbiamente un qualcosa di nuovo in un Paese come il nostro dove la cultura e la politica stagna. Significa che ci sono persone, e non sono poche, che hanno avuto il coraggio di dire che non tutto va lasciato al mercato. La crisi che attraversa l’Italia come il mondo non è solo economica ma anche di democrazia, perché per sopravvivere questo sistema in crisi non ha altro modo che mettere sul mercato i beni comuni e i diritti. La nostra battaglia per l’acqua non è soltanto per l’acqua”. Molte delle domande che il pubblico ha rivolto a Marco Bersani riguardava l’iter del referendum, appeso agli ultimi rantoli della crisi di governo. “Non abbiamo ancora certezze – ha risposto l’ambientalista – ma di sicuro le firme depositate non bastano a garantircelo. La politica dei palazzi non ha nessuna intenzione di farlo passare. Dovremo conquistarcelo, il nostro referendum, mantenendo alta la mobilitazione. E ricordiamoci che il referendum è anche un fine in sé. Tutti devono avere la possibilità di dire la loro su temi che sono di tutti come i beni comuni e la democrazia”. Le conclusioni le ha tirate Valter Bonan, battagliero portavoce dei comitati veneti. “Nella nostra regione abbiamo raccolto 130 mila firme anche allargando il tema della ripubblicizzazione al ciclo integrato dell’acqua, dalla cementificazione degli argini alla gestione dei fiumi e della risorsa idrica, tutt’ora a rischio di un devastante sfruttamento idroelettrico. Argomenti di cui la politica non parla. A Venezia si sta discutendo lo statuto regionale. In consiglio, si fa un gran discorrere di un inno veneto ma nessuno parla di democrazia partecipativa e i comitato che hanno proposto di introdurre un riferimento statutario al diritto all’acqua come bene comune, non sono stati neppure invitati in commissione per una consultazione”. Anche per questo il Veneto si mobiliterà, sabato 4 dicembre, in concomitanza con le altre regioni italiane per il referendum sull’acqua e con le giornate di Cancun per ribadire che non tutto si compra e non tutto si vende. L’appuntamento è in piazzale della stazione a Venezia, alle ore 14, con due cortei di terra e un corteo lungo il canal Grande. Un corteo d’acqua, per l‘appunto.
Giù le mani da pediatria
9/11/2010TerraQuattrocento agguerriti genitori che si mobilitano per contestare la chiusura di un servizio sanitario, non si erano mai visti a Venezia. E’ accaduto sabato 23 ottobre e accadrà ancora sabato, prossimo, 13 novembre. “E ancora il sabato successivo e quello ancora successivo – ha spiegato una signora con braccio una bambina di pochi mesi e un cartello con la scritta ‘Giù le mani da pediatria’ – sino a che non verrà ripristinato un servizio essenziale per la cura dei nostri figli”.
Motivo del contendere, la chiusura del servizio di pronto soccorso pediatrico a Venezia e a Mestre.
Chiusura che è avvenuta questa estate con una modalità oramai consueta per la sanità veneta: prima il servizio viene interrotto per una pausa estiva, poi l’apertura viene via via posticipata sino a che un comunicato dell’Asl fa sapere che “per motivi di bilancio” la struttura non sarà più aperta.
“Non ci vengano a dire che il buco nei conti della sanità regionale l’hanno provocato i nostri bambini – ha spiegato la consigliera della lista in Comune, Camilla Seibezzi, che con il collega Beppe Caccia ha animato la protesta -. E non ci vengano neppure a raccontare che il servizio non era indispensabile e che i bambini malati possono mettersi in fila al pronto soccorso come gli adulti. La straordinaria partecipazione al sit-in dimostra il contrario. Il servizio di pronto soccorso pediatrico in questi anni è stato utilizzato da centinaia di genitori cui veniva garantita una continuità di cure e di assistenza per i loro figli che altre strutture non possono dare”. A tutela del servizio sanitario, su richiesta dei due consiglieri della lista In Comune, si è mobilitato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, prima in Conferenza dei sindaci e poi incontrando il Direttore generale dell’Asl 12 Antonio Padoan. “Intanto migliaia di famiglie continuano ad essere ostaggio dell'assurdo braccio di ferro tra la direzione generale dell'azienda sanitaria e i pediatri di base. – conclude Camilla Seibezzi - Bambine e bambini, mestrini e veneziani, sono privi della copertura di un servizio di assistenza pediatrica di base, la cui necessità e' particolarmente sentita nei giorni festivi e prefestivi, quando gli spazi del Pronto Soccorso, già alle prese con pesanti problemi di organico, sono ingolfati di piccoli pazienti. Così non può continuare. Sino a che Asl e medici non troveranno un accordo, noi saremo tutti i sabati a manifestare davanti all’ospedale civile, in campo San Giovanni e Paolo. Il tempo della pazienza è scaduto".
Motivo del contendere, la chiusura del servizio di pronto soccorso pediatrico a Venezia e a Mestre.
Chiusura che è avvenuta questa estate con una modalità oramai consueta per la sanità veneta: prima il servizio viene interrotto per una pausa estiva, poi l’apertura viene via via posticipata sino a che un comunicato dell’Asl fa sapere che “per motivi di bilancio” la struttura non sarà più aperta.
“Non ci vengano a dire che il buco nei conti della sanità regionale l’hanno provocato i nostri bambini – ha spiegato la consigliera della lista in Comune, Camilla Seibezzi, che con il collega Beppe Caccia ha animato la protesta -. E non ci vengano neppure a raccontare che il servizio non era indispensabile e che i bambini malati possono mettersi in fila al pronto soccorso come gli adulti. La straordinaria partecipazione al sit-in dimostra il contrario. Il servizio di pronto soccorso pediatrico in questi anni è stato utilizzato da centinaia di genitori cui veniva garantita una continuità di cure e di assistenza per i loro figli che altre strutture non possono dare”. A tutela del servizio sanitario, su richiesta dei due consiglieri della lista In Comune, si è mobilitato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, prima in Conferenza dei sindaci e poi incontrando il Direttore generale dell’Asl 12 Antonio Padoan. “Intanto migliaia di famiglie continuano ad essere ostaggio dell'assurdo braccio di ferro tra la direzione generale dell'azienda sanitaria e i pediatri di base. – conclude Camilla Seibezzi - Bambine e bambini, mestrini e veneziani, sono privi della copertura di un servizio di assistenza pediatrica di base, la cui necessità e' particolarmente sentita nei giorni festivi e prefestivi, quando gli spazi del Pronto Soccorso, già alle prese con pesanti problemi di organico, sono ingolfati di piccoli pazienti. Così non può continuare. Sino a che Asl e medici non troveranno un accordo, noi saremo tutti i sabati a manifestare davanti all’ospedale civile, in campo San Giovanni e Paolo. Il tempo della pazienza è scaduto".
Solidarietà vicentina
9/11/2010TerraIn tanti, in tantissimi, hanno risposto all’appello del presidio permanente contro la base Dal Molin e si sono rimboccati le maniche per aiutare tutti coloro che sono stati colpiti dall’alluvione. Considerando tutti i vari coordinamenti, perlomeno quattrocento volontari da tutto il Veneto sono confluiti a Vicenza tra giovedì e venerdì. Più di duemila – per l’esattezza 2230 persone – si sono aggiunte tra sabato e domenica.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.
Mediatori di pace
3/11/2010TerraFornire gli strumenti di base per intervenire in zone internazionali di conflitto attraverso lo strumento dei Corpi Civili di Pace. Questo è quanto si propone il corso organizzato dall’Alon – Ganfc, l’associazione locale Obiezione e nonviolenza gruppo azione nonviolenta, di Forlì (Cesena). L’obiettivo del seminario è quello di offrire gli strumenti di base a persone interessate a studiare e sperimentare modalità di soluzione nonviolenta dei conflitti intervenendo in aree di crisi con azioni pianificate nonviolente, come ad esempio la prevenzione, il monitoraggio, la mediazione, l’interposizione, la riconciliazione.
Il corso comincerà giovedì 2 dicembre 2010 con l’accoglienza e la registrazione dei corsisti presso la sala del Rivellino del centro congressi residenziale universitario del Comune di Bertinoro, vicino a Forlì, in via Frangipane 6. Il seminario di studio si articola su tre giorni - venerdì, sabato e domenica dal 3 al 5 dicembre - con modalità formative interattive e partecipative e comprende una serata, quella del venerdì sera, aperta all’intera. Il corso costituisce un titolo preferenziale, pur se non esclusivo, per la partecipazione ad iniziative in zone di guerra predisposte da alcune delle associazioni aderenti alla rete nazionale dei corpi civili di pace, quali: Berretti Bianchi di Lucca, Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) di Rimini, Gavci-Cefa di Bologna, Peace Brigades International Italia, associazione per la pace di Roma, Servizio Civile Internazionale Italia. Tra i qualificati relatori segnaliamo: Michele Di Domenico, Alessandra Antonelli, Riccardo Prati, Carlo Schenone, Silvio Masala, Fabiana Bruschi, Massimo Tesei, Deema Darawshy, Yahav Zohar. I corpi civili di pace, risalgono ad una proposta di legge portata in parlamento europeo ai tempi della guerra nei Balcani da Alexander Langer che aveva ipotizzato la creazione di un contingente civile misto di professionisti e volontari, addestrati e fortemente motivati, da impiegare in operazioni di mantenimento e costruzione della pace, ricostruzione post-bellica, dialogo e riconciliazione, dentro o i confini europei. Questo il programma di massima del corso. Venerdì: Teoria e pratica della nonviolenza, Simulazione di un conflitto, visita al museo Interreligioso, in serata dibattito aperto al pubblico su “Perché è così difficile fare la pace in Palestina?”. Sabato: la gestione dei conflitti con modalità nonviolente, simulazione in gruppi, verifiche collettive, video “Azioni Dirette Nonviolente”, testimonianza dirette di esperienze in zone di conflitto. Domenica: i corpi civili di pace come prospettiva di innovazione nella soluzione dei conflitti nell’ambito della politica estera dell'Unione Europea, quale rapporto con la politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, gestione umanitaria e gestione dei conflitti, prospettive e operative e lavorative nel campo degli aiuti umanitari e degli interventi civili di pace. Il corso è a numero chiuso. Massimo 30 partecipanti. Per ulteriori informazioni o per iscrivervi collegatevi al sito www.alon.it.
Il corso comincerà giovedì 2 dicembre 2010 con l’accoglienza e la registrazione dei corsisti presso la sala del Rivellino del centro congressi residenziale universitario del Comune di Bertinoro, vicino a Forlì, in via Frangipane 6. Il seminario di studio si articola su tre giorni - venerdì, sabato e domenica dal 3 al 5 dicembre - con modalità formative interattive e partecipative e comprende una serata, quella del venerdì sera, aperta all’intera. Il corso costituisce un titolo preferenziale, pur se non esclusivo, per la partecipazione ad iniziative in zone di guerra predisposte da alcune delle associazioni aderenti alla rete nazionale dei corpi civili di pace, quali: Berretti Bianchi di Lucca, Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) di Rimini, Gavci-Cefa di Bologna, Peace Brigades International Italia, associazione per la pace di Roma, Servizio Civile Internazionale Italia. Tra i qualificati relatori segnaliamo: Michele Di Domenico, Alessandra Antonelli, Riccardo Prati, Carlo Schenone, Silvio Masala, Fabiana Bruschi, Massimo Tesei, Deema Darawshy, Yahav Zohar. I corpi civili di pace, risalgono ad una proposta di legge portata in parlamento europeo ai tempi della guerra nei Balcani da Alexander Langer che aveva ipotizzato la creazione di un contingente civile misto di professionisti e volontari, addestrati e fortemente motivati, da impiegare in operazioni di mantenimento e costruzione della pace, ricostruzione post-bellica, dialogo e riconciliazione, dentro o i confini europei. Questo il programma di massima del corso. Venerdì: Teoria e pratica della nonviolenza, Simulazione di un conflitto, visita al museo Interreligioso, in serata dibattito aperto al pubblico su “Perché è così difficile fare la pace in Palestina?”. Sabato: la gestione dei conflitti con modalità nonviolente, simulazione in gruppi, verifiche collettive, video “Azioni Dirette Nonviolente”, testimonianza dirette di esperienze in zone di conflitto. Domenica: i corpi civili di pace come prospettiva di innovazione nella soluzione dei conflitti nell’ambito della politica estera dell'Unione Europea, quale rapporto con la politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, gestione umanitaria e gestione dei conflitti, prospettive e operative e lavorative nel campo degli aiuti umanitari e degli interventi civili di pace. Il corso è a numero chiuso. Massimo 30 partecipanti. Per ulteriori informazioni o per iscrivervi collegatevi al sito www.alon.it.
Non lasciamoli soli. Intervista con Nicola Grigion
2/11/2010TerraPiù che una associazione Melting Pot Europa è un vero e proprio progetto operativo che dal ’96, anno della sua nascita, si è evoluto al passo con la società e le nuove esigenze, da semplice trasmissione telefonica, sino a diventare una sorta “servizio pubblico” rivolto tanto ai suoi originari utenti - i migranti - quanto agli amministratori locali, agli operatori sociali, alla stampa e a quanti sono interessati alle tematiche dell’integrazione. Nicola Grigion, trentenne padovano, è il direttore di Melting Pot anche se, per non fare troppo “giacca e cravatta” preferisce farsi chiamare portavoce o responsabile. Ai giornalisti che gli chiedono quale mondo ci sia dietro le statistiche stilate dalla Caritas risponde invitandoli a passare una mattinata dietro gli sportelli dell’associazione dove ogni giorno centinaia di migranti si mettono in fila per avere informazioni, consigli e assistenza.
Il dossier mette in evidenza come la crisi economica stia colpendo in maniera particolare i migranti. Questo perché occupano il gradino più basso nella scala occupazionale?
Direi che non è questo il motivo. E’ vero che i migranti per un buon 90 per cento fanno i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono fare” ma dobbiamo tener presente che, specie in tempo di crisi, le aziende hanno un gran bisogno proprio di bassa manovalanza che si accontenta di salari minimi. Il problema vero è che a questi lavori sono associati minori diritti. Sono occupazioni più precarie e più facilmente derogabili. Pensiamo ad esempio a quanto avviene per le cooperative di logistica e di trasporto che nella nostra regione che è il crocevia verso l’Europa dell’est. I lavoratori, migranti e non, hanno contratti a tempo indeterminato, anzi, sono addirittura “soci” della cooperativa. Ma questo comporta una condizione generale per quanto riguarda i diritti del lavoro, molto peggiore. Basta un semplice cambio di appalto per trovarsi spasso. La spada di Damocle del licenziamento è costante.
Licenziamento che significa anche la perdita del permesso di soggiorno...
Che a sua volta significa diventare irregolari. Un reato penale, per la nostra legislazione. Come se essere licenziati fosse un delitto! Tutto questo ha fatto sì che i migranti diventassero lavoratori estremamente ricattabili: una merce appetibile per le aziende. I dati sull’aumento generico di assunzioni di migranti che ha riportato la Caritas, oltre a non considerare che molte cooperative operano a nordest ma hanno sede legale a sud, non tengono conto di fattori comunque determinanti. Di che posto di lavoro stiamo parlando, mi chiedo? E fuori dalle statistiche rimane l’esercito dei cosiddetti invisibili, che poi invisibili non sono. Sappiamo tutti come l’assistenza domestica, la raccolta nei campi e l’edilizia si basi sul loro sfruttamento. La crisi si nutre di lavoratori non in regola. Ha tutto l’interessa a relegarli in un limbo e a concedere loro permessi saltuari, facilmente revocabili, per tenerli in un continuo fluttuare tra regolarità e irregolarità.
Il rapporto della Caritas sottolinea l’apporto di ricchezza portato dai migranti. Anche i giornali locali hanno battuto questo aspetto. Ma è possibile che il problema possa essere confinato all’economia?
Certo che no. Si rischia di fare un discorso del tipo: benvenuti perché ci siete utili. E quando non ci sarete più utili, arrivederci. Sotto sotto qualcuno pensa che sono utili sino a che lavorano duro, non pretendono diritti, non protestano... Invece il problema non può essere letto solo sotto le lente dell’economia. Tutti i rapporti statistici ci dicono che i migranti portano ricchezza. La stessa Inps ci spiega che senza l’apporto dei lavoratori stranieri non potrebbe pagare le pensioni. Giusto. Ma se confrontiamo il grande apporto economico dei migranti con il prezzo più alto da loro pagato in questa la cosiddetta crisi, si capisce che l’importanza del loro ruolo è soprattutto sociale. E’ a questo livello, quello sociale, che producono la vera ricchezza. Il che ci fa anche capire quanto sia allucinante, oltre che ingiusto, legare il permesso di soggiorno all’occupazione.
Perché allora il migrante continua ad essere percepito come un problema?
Perché lo è, per certi versi. Solo che non sono i problemi di cui parlano certa stampa e il Governo. Un problema lo portano prima di tutto a noi stessi: quello di cominciare a costruire una ipotesi di mondo diverso da quello che ci stanno imponendo. Vedi, quando parliamo di migrazioni, anche all’interno dei movimenti, giochiamo fuori casa. Vince sempre l’autorità e non riusciamo a costruire percorsi di lotta che portino a risultati concreti. Prendi ad esempio, Terzigno. La gente scende in piazza contro la discarica e, dopo le inevitabili lotte, riesce a mettere in scacco il governo. Pochi giorni dopo, arriva un gruppo di rifugiati a Catania e, alla faccia di tutti i diritti costituzionali e internazionali, la polizia li rispedisce indietro senza se e senza ma, tra le inutili proteste della comunità europea per un rimpatri eseguito al di fuori di ogni procedura legale. Anche gli osservatori dell’Onu vengono lasciati fuori dei cancelli dell’aeroporto. Mi chiedo, come possiamo intervenire in casi come questo?
Senza scendere sino a Catania, basta assistere a quanto succede al porto di Venezia, per quel che riguarda i respingimenti illegali. Le mobilitazioni della rete Tuttiidirittiumanipertutti sono servite perlomeno a portarli alla luce.
Già. Ma siamo ancora lontani dal portare i diritti all’interno del porto, purtroppo. Il fatto è, come ti dicevo, che i migranti innescano una questione di identità. Mettono in discussione chi siamo. C’è il rischio che facciano scattare meccanismi frammentativi invece che ricompositivi. Sono il capro espiatorio di una crisi che fa paura. Addossare tutte le colpe ai migranti è più facile che individuare il nemico comune in una economia dove a dettar legge è il capitalismo predatorio. In altre parole, il vero problema che ci portano i migranti è questo: ci obbligano ad intraprendere un percorso e a compiere una scelta: quella di innescare una guerra tra i poveri o quella di costruire insieme un mondo diverso.
Un problema di democrazie e diritti, dunque?
Sì. Noi di Melting Pot ce ne accorgiamo nel nostro quotidiano rapporto con questure ed enti locali. Non serve a niente agitare la legge o la Costituzione. Il rilascio di un documento, anche se il migrante ne ha diritto, comporta una stressante contrattazione e negoziazione. Assistere i migranti significa condurre una battaglia continua contro l’arbitrarietà e in alcuni casi anche l’illegalità. E qua bisogna fare attenzione. La deroga dei diritti che nel caso dei migranti viene tanto facile accettare, non si ferma in nessun confine e alla fine colpisce la democrazia, l’ambiente, la scuola, il lavoro... i diritti o sono di tutti o non ce n’è per nessuno.
Come possiamo far capire che la lotta dei migranti è una lotta di tutti?
Il punto è proprio questo. Credo che non dobbiamo mai lasciarli soli, anzi non dovremmo neppure considerarli una categoria a parte. Non lasciamoli all’auto organizzazione non perché non ne siano capaci, ci sono esperienze bellissime a questo proposito, ma avrebbero di fronte una battaglia senza orizzonte. A meno che non pensiamo che sia un orizzonte comune.
Il dossier mette in evidenza come la crisi economica stia colpendo in maniera particolare i migranti. Questo perché occupano il gradino più basso nella scala occupazionale?
Direi che non è questo il motivo. E’ vero che i migranti per un buon 90 per cento fanno i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono fare” ma dobbiamo tener presente che, specie in tempo di crisi, le aziende hanno un gran bisogno proprio di bassa manovalanza che si accontenta di salari minimi. Il problema vero è che a questi lavori sono associati minori diritti. Sono occupazioni più precarie e più facilmente derogabili. Pensiamo ad esempio a quanto avviene per le cooperative di logistica e di trasporto che nella nostra regione che è il crocevia verso l’Europa dell’est. I lavoratori, migranti e non, hanno contratti a tempo indeterminato, anzi, sono addirittura “soci” della cooperativa. Ma questo comporta una condizione generale per quanto riguarda i diritti del lavoro, molto peggiore. Basta un semplice cambio di appalto per trovarsi spasso. La spada di Damocle del licenziamento è costante.
Licenziamento che significa anche la perdita del permesso di soggiorno...
Che a sua volta significa diventare irregolari. Un reato penale, per la nostra legislazione. Come se essere licenziati fosse un delitto! Tutto questo ha fatto sì che i migranti diventassero lavoratori estremamente ricattabili: una merce appetibile per le aziende. I dati sull’aumento generico di assunzioni di migranti che ha riportato la Caritas, oltre a non considerare che molte cooperative operano a nordest ma hanno sede legale a sud, non tengono conto di fattori comunque determinanti. Di che posto di lavoro stiamo parlando, mi chiedo? E fuori dalle statistiche rimane l’esercito dei cosiddetti invisibili, che poi invisibili non sono. Sappiamo tutti come l’assistenza domestica, la raccolta nei campi e l’edilizia si basi sul loro sfruttamento. La crisi si nutre di lavoratori non in regola. Ha tutto l’interessa a relegarli in un limbo e a concedere loro permessi saltuari, facilmente revocabili, per tenerli in un continuo fluttuare tra regolarità e irregolarità.
Il rapporto della Caritas sottolinea l’apporto di ricchezza portato dai migranti. Anche i giornali locali hanno battuto questo aspetto. Ma è possibile che il problema possa essere confinato all’economia?
Certo che no. Si rischia di fare un discorso del tipo: benvenuti perché ci siete utili. E quando non ci sarete più utili, arrivederci. Sotto sotto qualcuno pensa che sono utili sino a che lavorano duro, non pretendono diritti, non protestano... Invece il problema non può essere letto solo sotto le lente dell’economia. Tutti i rapporti statistici ci dicono che i migranti portano ricchezza. La stessa Inps ci spiega che senza l’apporto dei lavoratori stranieri non potrebbe pagare le pensioni. Giusto. Ma se confrontiamo il grande apporto economico dei migranti con il prezzo più alto da loro pagato in questa la cosiddetta crisi, si capisce che l’importanza del loro ruolo è soprattutto sociale. E’ a questo livello, quello sociale, che producono la vera ricchezza. Il che ci fa anche capire quanto sia allucinante, oltre che ingiusto, legare il permesso di soggiorno all’occupazione.
Perché allora il migrante continua ad essere percepito come un problema?
Perché lo è, per certi versi. Solo che non sono i problemi di cui parlano certa stampa e il Governo. Un problema lo portano prima di tutto a noi stessi: quello di cominciare a costruire una ipotesi di mondo diverso da quello che ci stanno imponendo. Vedi, quando parliamo di migrazioni, anche all’interno dei movimenti, giochiamo fuori casa. Vince sempre l’autorità e non riusciamo a costruire percorsi di lotta che portino a risultati concreti. Prendi ad esempio, Terzigno. La gente scende in piazza contro la discarica e, dopo le inevitabili lotte, riesce a mettere in scacco il governo. Pochi giorni dopo, arriva un gruppo di rifugiati a Catania e, alla faccia di tutti i diritti costituzionali e internazionali, la polizia li rispedisce indietro senza se e senza ma, tra le inutili proteste della comunità europea per un rimpatri eseguito al di fuori di ogni procedura legale. Anche gli osservatori dell’Onu vengono lasciati fuori dei cancelli dell’aeroporto. Mi chiedo, come possiamo intervenire in casi come questo?
Senza scendere sino a Catania, basta assistere a quanto succede al porto di Venezia, per quel che riguarda i respingimenti illegali. Le mobilitazioni della rete Tuttiidirittiumanipertutti sono servite perlomeno a portarli alla luce.
Già. Ma siamo ancora lontani dal portare i diritti all’interno del porto, purtroppo. Il fatto è, come ti dicevo, che i migranti innescano una questione di identità. Mettono in discussione chi siamo. C’è il rischio che facciano scattare meccanismi frammentativi invece che ricompositivi. Sono il capro espiatorio di una crisi che fa paura. Addossare tutte le colpe ai migranti è più facile che individuare il nemico comune in una economia dove a dettar legge è il capitalismo predatorio. In altre parole, il vero problema che ci portano i migranti è questo: ci obbligano ad intraprendere un percorso e a compiere una scelta: quella di innescare una guerra tra i poveri o quella di costruire insieme un mondo diverso.
Un problema di democrazie e diritti, dunque?
Sì. Noi di Melting Pot ce ne accorgiamo nel nostro quotidiano rapporto con questure ed enti locali. Non serve a niente agitare la legge o la Costituzione. Il rilascio di un documento, anche se il migrante ne ha diritto, comporta una stressante contrattazione e negoziazione. Assistere i migranti significa condurre una battaglia continua contro l’arbitrarietà e in alcuni casi anche l’illegalità. E qua bisogna fare attenzione. La deroga dei diritti che nel caso dei migranti viene tanto facile accettare, non si ferma in nessun confine e alla fine colpisce la democrazia, l’ambiente, la scuola, il lavoro... i diritti o sono di tutti o non ce n’è per nessuno.
Come possiamo far capire che la lotta dei migranti è una lotta di tutti?
Il punto è proprio questo. Credo che non dobbiamo mai lasciarli soli, anzi non dovremmo neppure considerarli una categoria a parte. Non lasciamoli all’auto organizzazione non perché non ne siano capaci, ci sono esperienze bellissime a questo proposito, ma avrebbero di fronte una battaglia senza orizzonte. A meno che non pensiamo che sia un orizzonte comune.
Ricchezza migrante. Il dossier Caritas
2/11/2010TerraSara ha 14 anni e frequenta una scuola media della provincia di Venezia. Ha sempre vissuto tra Milano e Mestre. I suoi si sono trasferiti dal capoluogo lombardo alle sponde della laguna due anni dopo la sua nascita. Sara è una ragazzina come tante altre se non fosse che appartiene a quella categoria chiamata “migranti di seconda generazione”. Mamma e papà sono nativi di Isfahan e in tasca hanno un passaporto iraniano. Due mesi fa, Sara è andata a Madrid con la scuola. All’aeroporto, i suoi compagni di classe hanno passato la dogana senza la minima formalità, Sara no.
L’hanno fermata, le hanno rovistato nel bagaglio, hanno chiamato un ufficiale che ha posto un sacco di domande sia a lei che ai suoi professori. Eppure Sara non porta neppure il velo. I suoi genitori l’hanno educata alla fede bahai. Ma non è tutto. Nel caso il padre perdesse il lavoro, Sara rischia l’espulsione. Lei, nata e cresciuta in Italia, potrebbe essere costretta a migrare in un paese che conosce solo dai racconti dei genitori, un paese di cui parla poco la lingua e non legge la scrittura. Perché l’Italia è l’unico paese europeo dove la cittadinanza si acquisisce dai genitori e non dal luogo in cui si è nati. Cosi che un canadese col nonno di Genova è considerato più italiano di Sara, nata a Milano e cresciuta a Mestre. “Sono italiana o sono iraniana? - ha scritto Sara in una lettera ad un quotidiano locale -. I miei amici mi hanno detto che sono una italiana del futuro. Che tantissimi bambini che ora crescono in Italia hanno i genitori con passaporti stranieri e un domani saranno tutti ‘italiani’ come me. Il problema non sta qui, però. Sta nell’Italia che dobbiamo cominciare a costruire per far stare bene tutti questi bambini, qualunque cosa siano”.
Questa di Sara è una delle tante, tantissime storie che si possono leggere tra i numeri e le percentuali presentate dalla Caritas nel suo ultimo rapporto che fotografa lo stato dell’immigrazione nelle nostre città. Il dossier è stato presentato martedì 26 ottobre, nell’aula magna del Laurentianum, in centro a Mestre. Al di là dei numeri, già abbondantemente riportati da siti e giornali locali e che sono sostanzialmente quelli degli anni scorsi con la sola sottolineatura che i migranti sono stati i primi ad essere colpiti dalla crisi, sono le storie come quella di Sara che ci aiutano a farci un quadro più chiaro di cosa sia in realtà il fenomeno della migrazione. Un fenomeno che, dati alla mano, rappresenta una risorsa insostituibile per la nostra economia ma che al contrario viene percepito come un pericolo. “Certe campagne politiche che puntano sulla paura del diverso per ritorni elettorali - ha commentato don Elia Ferro, delegato della Caritas nella consulta regionale per l’immigrazione - confondono ad arte il micro con il macro. I dati parlano di una comunità migrante ben diversa da quella stereotipata dipinta da certa stampa”. “Bisogna essere ciechi, o chiudere gli occhi apposta, per non vedere le ricchezze sia economiche che sociali che l’immigrazione porta con se - ha concluso monsignor Dino Pistolato direttore della Caritas di Venezia -. Soprattutto in questi tempi di crisi, l’apporto dato dai migranti è fondamentale. In particolare se teniamo presente che sono loro i primi a pagare i costi di questa crisi. Ma in una situazione critica, in cui ai poveri si aggiungono i nuovi impoveriti, il rischio è che aumentino le frizioni sociali tra italiani e stranieri. Per questo, la politica sull’immigrazione dovrebbe al più presto uscire dai luoghi comuni e dalla logica dell’emergenza e affrontare la situazione con criteri basati più sui fatti concreti che sulle paure insulse”.
L’hanno fermata, le hanno rovistato nel bagaglio, hanno chiamato un ufficiale che ha posto un sacco di domande sia a lei che ai suoi professori. Eppure Sara non porta neppure il velo. I suoi genitori l’hanno educata alla fede bahai. Ma non è tutto. Nel caso il padre perdesse il lavoro, Sara rischia l’espulsione. Lei, nata e cresciuta in Italia, potrebbe essere costretta a migrare in un paese che conosce solo dai racconti dei genitori, un paese di cui parla poco la lingua e non legge la scrittura. Perché l’Italia è l’unico paese europeo dove la cittadinanza si acquisisce dai genitori e non dal luogo in cui si è nati. Cosi che un canadese col nonno di Genova è considerato più italiano di Sara, nata a Milano e cresciuta a Mestre. “Sono italiana o sono iraniana? - ha scritto Sara in una lettera ad un quotidiano locale -. I miei amici mi hanno detto che sono una italiana del futuro. Che tantissimi bambini che ora crescono in Italia hanno i genitori con passaporti stranieri e un domani saranno tutti ‘italiani’ come me. Il problema non sta qui, però. Sta nell’Italia che dobbiamo cominciare a costruire per far stare bene tutti questi bambini, qualunque cosa siano”.
Questa di Sara è una delle tante, tantissime storie che si possono leggere tra i numeri e le percentuali presentate dalla Caritas nel suo ultimo rapporto che fotografa lo stato dell’immigrazione nelle nostre città. Il dossier è stato presentato martedì 26 ottobre, nell’aula magna del Laurentianum, in centro a Mestre. Al di là dei numeri, già abbondantemente riportati da siti e giornali locali e che sono sostanzialmente quelli degli anni scorsi con la sola sottolineatura che i migranti sono stati i primi ad essere colpiti dalla crisi, sono le storie come quella di Sara che ci aiutano a farci un quadro più chiaro di cosa sia in realtà il fenomeno della migrazione. Un fenomeno che, dati alla mano, rappresenta una risorsa insostituibile per la nostra economia ma che al contrario viene percepito come un pericolo. “Certe campagne politiche che puntano sulla paura del diverso per ritorni elettorali - ha commentato don Elia Ferro, delegato della Caritas nella consulta regionale per l’immigrazione - confondono ad arte il micro con il macro. I dati parlano di una comunità migrante ben diversa da quella stereotipata dipinta da certa stampa”. “Bisogna essere ciechi, o chiudere gli occhi apposta, per non vedere le ricchezze sia economiche che sociali che l’immigrazione porta con se - ha concluso monsignor Dino Pistolato direttore della Caritas di Venezia -. Soprattutto in questi tempi di crisi, l’apporto dato dai migranti è fondamentale. In particolare se teniamo presente che sono loro i primi a pagare i costi di questa crisi. Ma in una situazione critica, in cui ai poveri si aggiungono i nuovi impoveriti, il rischio è che aumentino le frizioni sociali tra italiani e stranieri. Per questo, la politica sull’immigrazione dovrebbe al più presto uscire dai luoghi comuni e dalla logica dell’emergenza e affrontare la situazione con criteri basati più sui fatti concreti che sulle paure insulse”.
Quella centrale da bocciare
2/11/2010TerraUn mero business per la società proponente. Nessun beneficio per la comunità locale che paga il prezzo in termini di qualità ambientale e sicurezza. Così il Wwf seppellisce il progetto avanzato dalla Lucchini Energia di realizzare una centrale elettrica da 400 megawatt nell’area industriale del porto di Trieste. La società con sede legale a Brescia e controllata dal colosso russo Severstal, aveva presentato un progetto di un impianto termoelettrico a ciclo combinato nel novembre del 2008, suscitando sin dall’inizio le perplessità non solo delle associazioni ambientaliste ma anche degli stessi amministratori locali, sia a livello comunale che regionale.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Storie di Paese
1/11/2010TerraImmerso nel bel mezzo della marca trevigiana, Paese – anche nel nome stesso – è un tipico paese “spaesato”, direbbe il poeta Andrea Zanzotto, del Veneto più profondo. Poco meno di ventiduemila abitanti, fedelissimo feudo democristiano negli anni della Balena Bianca, oggi roccaforte padana con la Lega a percentuali “bulgare”. Se andiamo ancora indietro con la storia, ai tempi del referendum tra monarchia e repubblica, Paese scelse a grandi numeri la monarchia. Sotto il fascio littorio, Paese vantava una delle percentuali più alte di iscritti al partito di tutto il Veneto.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Il Po di Legambiente
26/10/2010TerraQuel disastro ambientale che chiamano Po è l’oggetto della campagna di Legambiente in atto e che propone venti giorni di dibattiti, incontri e iniziative varie che si stanno in tutti i punti più devastati del fiume più lungo d’Italia. Ricordiamo che il grande bacino del Po comprende ben 2423 comuni a forte rischio idrogeologico, molti dei quali periodicamenti flagellati da alluvioni, e che meriterebbero una attenzione maggiore e una serie di politiche di tutela e messa in sicurezza che gli enti competenti sono ben lontani dall’affrontare. Se è vero che dal 2005 prelevare sabbia dal fiume è vietato è anche vero che le estrazioni abusive continuano indisturbate.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
No Dal Molin e il futuro. Intervista con Olol Jackson
26/10/2010TerraConcluso da poco il festival, tredici giorni densi di iniziative, dibattiti e tanta voglia di confrontarsi, i No Dal Molin cercano adesso di ragionare sul prossimo futuro, anche alla luce delle tante suggestioni emerse durante l’annuale appuntamento vicentino. Ne parliamo con Olol Jackson, che sin dalla sua costituzione è stato una delle voci più autorevoli del presidio permanente. Che bilancio possiamo tirare dal festival?
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
Ai leghisti non piace il cine
19/10/2010TerraRicco sfondato, ignorante come una capra, prepotente con i più deboli, vile con i forti, untuoso con chi può favorire i suoi interessi, contaballe come Pinocchio ma senza la poesia del burattino senza fili (lui di fili ce ne ha e pure parecchi), ammanicato con la pubblica amministrazione che considera al suo esclusivo servizio, filosofo del “tutto si compra e tutto si vende”. Inoltre, padrone di una rete locale da cui, quando non trasmette squallide televendite, lancia lunghi e sgrammaticati proclami razzisti e xenofobi.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Minaccia Revamping
19/10/2010TerraLo scorso marzo, l’azienda Italcementi spa Cementeria di Monselice, ha presentato alla Provincia di Padova la domanda di VIA e d’Autorizzazione Integrata Ambientale, per un progetto denominato “Adeguamento tecnologico alle migliori tecniche disponibili” degli impianti della cementeria Italcementi di Monselice – denominato “Revamping”. In pratica, l’azienda propone di sostituire i 3 vecchi forni con un “nuovo forno di cottura tecnologicamente all’avanguardia”, una nuova torre di “preriscaldo” alta 122 metri, assicurando un notevole abbattimento delle emissioni in atmosfera, una riduzione nel consumo di risorse oltre che la solita “garanzia occupazionale”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.
Scuola e armi son due cose distinte. Intervista con Michele Termine
19/10/2010TerraPrima di dedicarsi all’insegnamento e di diventare insegnante di sostegno - “Insegnante precario” tiene a precisare - in una scuola superiore della provincia di Venezia, Michele Termine è stato un paracadutista con la sua quindicesima compagnia “Diavoli neri” di Siena, ha partecipato alla missione Ibis in Somalia negli anni ’92 e ’93. L’esperienza gli ha aperto gli occhi su quello che sono le “missioni di pace” condotte con un mitra in mano e, in generale, sul rapporto tra la pratica militare e la cultura di pace.
A parte il fatto che Ibis non era e non voleva neppure essere una missione di pace, come ad esempio pretenderebbe di essere quella che il nostro esercito sta conducendo in Afghanistan, quello che ho imparato in Somalia e che, credo, nessuno, può contestare è che qualsiasi intervento armato va in direzione completamente opposta ai processi di pace e condivisione delle culture. Le armi portano solo scontro e divisione. Esattamente il contrario di quello che fa, o dovrebbe fare, la scuola. Se avessimo portato più libri che fucili, più insegnanti che soldati, il risultato sarebbe stato sicuramente migliore.
E anche più economico, scommetto?
Puoi dirlo. Lo sai quanti quaderni ci si compra col prezzo di un fucile?
Un ex soldato...
Paracadutista, prego!
Va bene. Un ex paracadutista che ora fa il professore, come vede le ipotesi di corsi di sopravvivenza, tiro con la pistola e quant’altro che alcuni ambienti governativi vorrebbero introdurre nelle scuole?
Un corso di sopravvivenza non è negativo di per sé. Si sente parlare anche di tiro con l’arco, che è una disciplina olimpica rispettabilissima. Il problema non è il corso, ma il contesto che, in questo caso, è quello della scuola. A scuola ci si va per studiare, comunicare, parlare, imparare, trasferire idee e non per sparare. La ‘filosofia’ che passa attraverso un corso di sopravvivenza non è compatibile con una struttura come la scuola che dovrebbe insegnare ad interagire tra culture diverse. E potremmo anche rovesciare il discorso affermando che imparare ad interagire con le culture diverse è già un corso di sopravvivenza, in una società mutliculturale come la nostra”. L'uomo è un animale sociale che ha bisogno di stare insieme agli altri. Le armi, i corsi di sopravvivenza, il mondo militare creano solo squilibri che allontano gli esseri umani e amplificano i conflitti. Solo la pratica del sapere e delle arti danno un apporto concreto alla capacità di stare insieme, aiutando i nostri neuroni a trovare le giuste soluzioni ai problemi di interazione. Chi pretende di educare all'uso delle armi non unisce ma divide, favorendo alcune ideologie di matrice violenta.
Nel romanzo “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi ambientato ai tempi della dittatura portoghese, il protagonista annota tristemente l’aumento degli esercizi ginnici nei cortili delle scuole a scapito delle ore di studio.
Diciamo le cose come stanno: tutte queste proposte hanno un solo scopo: fascitizzare scuola e studenti ed introdurre una carica di violenza che mi fa paura. Le ore dedicate ai corsi di sopravvivenza o di tiro vanno per forza di cose a discapito dello studio di discipline scientifiche che, al contrario della pratica delle armi, insegnano a pensare, trovare soluzioni, utilizzare le capacità mentali. Ora il problema è: perché togliere spazio ai libri e alla capacita educativa dei libri per fare posto ai metodi militari? La risposta è perche siamo in una società sempre meno democratica.
Che futuro daremo agli studenti di oggi?
Non ti so rispondere. Ma non pensare che questa deriva militaresca sia dettata dal caso. Fa parte di un processo che qualcuno ha ben chiaro in testa. Pensa a Sparta e Atene. Una praticava la democrazia attraverso l’arte, la filosofia, il concetto del bello, l’altra attraverso l’educazione militare, la sopressione dei “diversi” e l’esaltazione della violenza patriottica. Ecco. Fino ad ora la scuola ha, pur con risultati altalenanti, seguito l’esempio di Atene, oggi vogliono farci diventare tutti spartani. Non sraà neppure un passaggio difficile: sparare o saltare un ostacolo è più facile e anche più divertente per un ragazzino che studiare matematica. ma io che sono insegnante di sostegno mi chiedo: cosa faranno i diversamente abili? Possono fare anche loro i corsi di sopravvivenza? Oppure introdurremo una discriminazione in più?
Tu sei di origine siciliana, nel sud molti ragazzini vanno a sparare e imparano sulla strada tecniche di… sopravvivenza quanto meno discutibili
Già. Ed infatti di questo corsi si parla solo nel nord. Al sud, ci pensa la mafia a mettere in mano le pistole ai ragazzini. Ma è una forma di degrado. Un ragazzo che proviene da una famiglia, per così dire sana, studia e non usa le pistole. Nel nord la scuola si propone di fare quello che la mafia fa a sud.
Nel tuo tempo libero, insegni italiano ai migranti a Marghera. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
La scuola Liberalaparola è un esempio vivente che la condivisione delle culture passa attraverso lo studio e la conoscenza reciproca, passa traverso la pace e non la violenza, la vita e non la morte, i ponti e non i muri. Le ideologie e le pratiche militari sono l’antitesi di tutto quello che in una società libera e democratica significa la parola “scuola”.
Box - "La scuola rimanga un veicolo di cultura"
Claudia Nardini ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno del liceo classico Marco Polo di Venezia. Possiamo considerarla, una studentessa “impegnata” – con tutto quello che significa questo termine, in quanto, oltre a seguire gli studi, fa parte della redazione del giornale della scuola, “Senza filtro. Voci libere in campo” che ha affrontato – e non di rado con più criterio dei quotidiani locali – capitoli scottanti della vita veneziana come il Mose, il petrolchimico, oltre a temi più generali come l’immigrazione, la xenofobia e, per l’appunto, la varie riforme scolastiche.
Le chiediamo la sua opinione sul progetto formativo denominato “Allenati per la vita” frutto di un protocollo tra ministero dell’Istruzione e della Difesa e che prevede l’introduzione nelle scuole di addestramenti militari come lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa, percorsi ginnico-militari: arrampicata, nuoto e salvataggio e orienteering.
“Ricordo che alla scuola elementare ho partecipato ad un progetto che si chiamava Ecolandia, dove noi bambini dovevamo animare con disegni e filmini la storia di due vecchietti che ripulivano il mondo dall’inquinamento. Successivamente, al mio liceo, ho avuto l’opportunità di frequentare corsi di approfondimento: lettura dantesca, canto corale, pratica filosofica, tecniche teatrali, laboratori di storia, cineforum. Adesso in Lombardia è partita questa iniziativa promossa dai ministri dell’Istruzione e della Difesa, che porta nelle scuole corsi di addestramento che possiamo definire paramilitari, completi di arrampicata, percorsi ginnici, tiro con l’arco nonché precisi insegnamenti su come sparare con pistole ad aria compressa. Magari non sarò un’esperta nei metodi di insegnamento, ma questo mi sembra un passo indietro. La scuola dovrebbe rimanere veicolo di cultura e non di tensioni e violenza. La scuola ha il compito di far crescere persone che sappiano diventare il futuro della società civile. Le “allena alla vita”, aiutandole a sviluppare una ragione critica, ad approcciarsi agli altri in termini di accoglienza e dialogo, a maturare una consapevolezza di sé stesse, a formare una coscienza morale e civile. Invece il nome dato a questo nuovo progetto formativo presuppone un’altra concezione di vita. Siccome un addestramento paramilitare, come suggerisce la parola stessa, allena a operazioni militari, si avverte nel nome scelto per il programma una pericolosa e sottointesa equazione vita- operazione militare: come se la vita fosse una battaglia, passata a combattere contro dei nemici.Il cuore del problema non sta nel fatto che l’addestramento paramilitare a scuola sia o non sia obbligatorio, il problema è che ci sia e basta. Il problema è che la proposta sull’educazione a “Cittadinanza e Costituzione” che viene da chi ci governa, non partorisca un cittadino, bensì un soldato. Desta parecchia perplessità su un metodo di insegnare la Costituzione ai ragazzi che sembra in aperto contrasto con ciò che la Costituzione stessa stabilisce perentoria nell’articolo 11, “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
A parte il fatto che Ibis non era e non voleva neppure essere una missione di pace, come ad esempio pretenderebbe di essere quella che il nostro esercito sta conducendo in Afghanistan, quello che ho imparato in Somalia e che, credo, nessuno, può contestare è che qualsiasi intervento armato va in direzione completamente opposta ai processi di pace e condivisione delle culture. Le armi portano solo scontro e divisione. Esattamente il contrario di quello che fa, o dovrebbe fare, la scuola. Se avessimo portato più libri che fucili, più insegnanti che soldati, il risultato sarebbe stato sicuramente migliore.
E anche più economico, scommetto?
Puoi dirlo. Lo sai quanti quaderni ci si compra col prezzo di un fucile?
Un ex soldato...
Paracadutista, prego!
Va bene. Un ex paracadutista che ora fa il professore, come vede le ipotesi di corsi di sopravvivenza, tiro con la pistola e quant’altro che alcuni ambienti governativi vorrebbero introdurre nelle scuole?
Un corso di sopravvivenza non è negativo di per sé. Si sente parlare anche di tiro con l’arco, che è una disciplina olimpica rispettabilissima. Il problema non è il corso, ma il contesto che, in questo caso, è quello della scuola. A scuola ci si va per studiare, comunicare, parlare, imparare, trasferire idee e non per sparare. La ‘filosofia’ che passa attraverso un corso di sopravvivenza non è compatibile con una struttura come la scuola che dovrebbe insegnare ad interagire tra culture diverse. E potremmo anche rovesciare il discorso affermando che imparare ad interagire con le culture diverse è già un corso di sopravvivenza, in una società mutliculturale come la nostra”. L'uomo è un animale sociale che ha bisogno di stare insieme agli altri. Le armi, i corsi di sopravvivenza, il mondo militare creano solo squilibri che allontano gli esseri umani e amplificano i conflitti. Solo la pratica del sapere e delle arti danno un apporto concreto alla capacità di stare insieme, aiutando i nostri neuroni a trovare le giuste soluzioni ai problemi di interazione. Chi pretende di educare all'uso delle armi non unisce ma divide, favorendo alcune ideologie di matrice violenta.
Nel romanzo “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi ambientato ai tempi della dittatura portoghese, il protagonista annota tristemente l’aumento degli esercizi ginnici nei cortili delle scuole a scapito delle ore di studio.
Diciamo le cose come stanno: tutte queste proposte hanno un solo scopo: fascitizzare scuola e studenti ed introdurre una carica di violenza che mi fa paura. Le ore dedicate ai corsi di sopravvivenza o di tiro vanno per forza di cose a discapito dello studio di discipline scientifiche che, al contrario della pratica delle armi, insegnano a pensare, trovare soluzioni, utilizzare le capacità mentali. Ora il problema è: perché togliere spazio ai libri e alla capacita educativa dei libri per fare posto ai metodi militari? La risposta è perche siamo in una società sempre meno democratica.
Che futuro daremo agli studenti di oggi?
Non ti so rispondere. Ma non pensare che questa deriva militaresca sia dettata dal caso. Fa parte di un processo che qualcuno ha ben chiaro in testa. Pensa a Sparta e Atene. Una praticava la democrazia attraverso l’arte, la filosofia, il concetto del bello, l’altra attraverso l’educazione militare, la sopressione dei “diversi” e l’esaltazione della violenza patriottica. Ecco. Fino ad ora la scuola ha, pur con risultati altalenanti, seguito l’esempio di Atene, oggi vogliono farci diventare tutti spartani. Non sraà neppure un passaggio difficile: sparare o saltare un ostacolo è più facile e anche più divertente per un ragazzino che studiare matematica. ma io che sono insegnante di sostegno mi chiedo: cosa faranno i diversamente abili? Possono fare anche loro i corsi di sopravvivenza? Oppure introdurremo una discriminazione in più?
Tu sei di origine siciliana, nel sud molti ragazzini vanno a sparare e imparano sulla strada tecniche di… sopravvivenza quanto meno discutibili
Già. Ed infatti di questo corsi si parla solo nel nord. Al sud, ci pensa la mafia a mettere in mano le pistole ai ragazzini. Ma è una forma di degrado. Un ragazzo che proviene da una famiglia, per così dire sana, studia e non usa le pistole. Nel nord la scuola si propone di fare quello che la mafia fa a sud.
Nel tuo tempo libero, insegni italiano ai migranti a Marghera. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
La scuola Liberalaparola è un esempio vivente che la condivisione delle culture passa attraverso lo studio e la conoscenza reciproca, passa traverso la pace e non la violenza, la vita e non la morte, i ponti e non i muri. Le ideologie e le pratiche militari sono l’antitesi di tutto quello che in una società libera e democratica significa la parola “scuola”.
Box - "La scuola rimanga un veicolo di cultura"
Claudia Nardini ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno del liceo classico Marco Polo di Venezia. Possiamo considerarla, una studentessa “impegnata” – con tutto quello che significa questo termine, in quanto, oltre a seguire gli studi, fa parte della redazione del giornale della scuola, “Senza filtro. Voci libere in campo” che ha affrontato – e non di rado con più criterio dei quotidiani locali – capitoli scottanti della vita veneziana come il Mose, il petrolchimico, oltre a temi più generali come l’immigrazione, la xenofobia e, per l’appunto, la varie riforme scolastiche.
Le chiediamo la sua opinione sul progetto formativo denominato “Allenati per la vita” frutto di un protocollo tra ministero dell’Istruzione e della Difesa e che prevede l’introduzione nelle scuole di addestramenti militari come lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa, percorsi ginnico-militari: arrampicata, nuoto e salvataggio e orienteering.
“Ricordo che alla scuola elementare ho partecipato ad un progetto che si chiamava Ecolandia, dove noi bambini dovevamo animare con disegni e filmini la storia di due vecchietti che ripulivano il mondo dall’inquinamento. Successivamente, al mio liceo, ho avuto l’opportunità di frequentare corsi di approfondimento: lettura dantesca, canto corale, pratica filosofica, tecniche teatrali, laboratori di storia, cineforum. Adesso in Lombardia è partita questa iniziativa promossa dai ministri dell’Istruzione e della Difesa, che porta nelle scuole corsi di addestramento che possiamo definire paramilitari, completi di arrampicata, percorsi ginnici, tiro con l’arco nonché precisi insegnamenti su come sparare con pistole ad aria compressa. Magari non sarò un’esperta nei metodi di insegnamento, ma questo mi sembra un passo indietro. La scuola dovrebbe rimanere veicolo di cultura e non di tensioni e violenza. La scuola ha il compito di far crescere persone che sappiano diventare il futuro della società civile. Le “allena alla vita”, aiutandole a sviluppare una ragione critica, ad approcciarsi agli altri in termini di accoglienza e dialogo, a maturare una consapevolezza di sé stesse, a formare una coscienza morale e civile. Invece il nome dato a questo nuovo progetto formativo presuppone un’altra concezione di vita. Siccome un addestramento paramilitare, come suggerisce la parola stessa, allena a operazioni militari, si avverte nel nome scelto per il programma una pericolosa e sottointesa equazione vita- operazione militare: come se la vita fosse una battaglia, passata a combattere contro dei nemici.Il cuore del problema non sta nel fatto che l’addestramento paramilitare a scuola sia o non sia obbligatorio, il problema è che ci sia e basta. Il problema è che la proposta sull’educazione a “Cittadinanza e Costituzione” che viene da chi ci governa, non partorisca un cittadino, bensì un soldato. Desta parecchia perplessità su un metodo di insegnare la Costituzione ai ragazzi che sembra in aperto contrasto con ciò che la Costituzione stessa stabilisce perentoria nell’articolo 11, “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Un parco tutto per i cacciatori
6/10/2010TerraNei depliant dell’assessorato, viene definito “il bosco sotto casa” o, più pomposamente, “il parco urbano più grande d’Europa”. In effetti, con i suoi 67 ettari di superficie coperti da olmi, sanguinelle, pioppi, salici e altri alberi tipici di terreni palustri o comunque ricchi d’acqua, il parco della Storga si colloca ai primi posti della classifica europea di ex aree agricole adiacenti ad una grande città, recuperate sotto il profilo ambientale. Siamo a due passi da Treviso. Il parco della Storga è un’oasi di verde che offre rifugio, oltre ai bipedi cittadini stufi di respirare gas di scarico, anche a centinaia di “altre” specie animali come ricci, toporagni, talpe, volpi e donnole. Nei cieli del parco volano, di giorno, varie specie di uccelli acquatici come la gallinella d'acqua o il martin pescatore. Di notte: cacciano barbagianni, allocchi e civette.
Nella stagione delle migrazioni, tra le fronde del parco trovano ristoro allodole, usignoli, pendolini, pigliamosche. Nelle polle di risorgiva, sguazzano tritoni, rospi comuni e rospi smeraldini e si abbeverano testuggini, orbetti, ramarri e natrici.
Il progetto di un parco urbano da realizzare nei campi di una ex tenuta agricola dismessa, ha preso corpo nel ’91, quando la Provincia di Treviso ha ottenuto dalla Comunità Europea un finanziamento per un piano volto a tutelare la zona delle risorgive mediante i vincoli di un parco. Il bosco della Storga infatti si situa proprio al limite superiore della fascia delle risorgive, dove le acque sotterranee fuoriescono formando le caratteristiche polle d'acqua che danno vita ai fiumi Limbraga, Piavon e, per l’appunto, Storga.
Per farla corta, stiamo parlando di un bel posto e di un progetto tutto sommato positivo, pur se criticabile per l’invasività di tante, troppe, inutili cementificazioni come parcheggi e piste che la Provincia ha voluto a tutti i costi inserire all’interno del perimetro verde con lo scopo di rendere “fruibile” l’oasi ai visitatori ed evitar loro di sporcarsi le scarpe con l’erba. Va detto, che gli euro per completare l’opera, così come le direttive realizzative, sono tutti di provenienza europea. Compito della Provincia, oltre a quello di realizzare il progetto, rimane comunque l’affido della gestione del parco. Cosa che l’amministrazione ha provveduto a fare cercando, tramite bando di concorso, una associazione con sufficienti meriti ambientalisti cui affidare l’oasi. E l’associazione alla fine, l’hanno trovata. Era anche l’unica partecipante al bando, a dir la verità. Wwf, Lipu, Legambiente e compagnia bella non hanno neppure ritenuto il caso di sprecare carta e bolli per concorrere. A vincere il concorso, infatti, che prevede anche la gestione del centro di recupero di animali feriti, è stato l’Ekoclub. Eko scritto con la k. Perché di “eco” con la c, non ha proprio nulla a che fare. L’associazione, si legge in un documento del Wwf “non è altro che il cavallo di Troia della Federcaccia per sabotare, anche con il meccanismo della somma dei voti dei rappresentanti della Federcaccia e d'Ekoclub, le posizioni delle vere associazioni ambientaliste e sostituirsi ad esse nel controllo e nella gestione dell’attività venatoria”. Insomma la Provincia di Treviso ha trovato il modo di finanziare una associazione di cacciatori dandole, per di più, in gestione non solo un parco ma pure l’annesso centro di cura della fauna selvatica. L’Ekoclub, gli animali, li ama alla follia. Fuori del parco li impallinano, dentro li curano, così son pronti per essere impallinati un’altra volta. E in questo modo, si evitano pure tutti quei fastidiosi controlli su presunti episodi di bracconaggio. Un bell’affare per l’Ekoclub che ha già messo “nel carniere” alcune interessanti manifestazioni per valorizzare il parco. Valorizzare, intendiamo, secondo i criteri cari ai cacciatori. Il primo evento sarà una imperdibile esposizione di cani da caccia e di trofei venatori. In futuro, l’Ekoclub ha promesso di arricchire la fauna locale introducendo altre specie animali come caprioli, cinghiali, daini, rapaci. Specie non autoctone ma comunque “sparabili”. Per sistemarle, alzeranno dei grandi recinti e delle speciali gabbie su tutta l’area del parco. Ma quel che lascia più esterrefatti, è che, ha spiegato candidamente l’Ekoclub, questa operazione avrebbe lo scopo dichiarato di “arricchire la biodiversità della zona”. Proprio così: il concetto di “biodiversità”, per loro, equivale a quello di “zoo”.
Nella stagione delle migrazioni, tra le fronde del parco trovano ristoro allodole, usignoli, pendolini, pigliamosche. Nelle polle di risorgiva, sguazzano tritoni, rospi comuni e rospi smeraldini e si abbeverano testuggini, orbetti, ramarri e natrici.
Il progetto di un parco urbano da realizzare nei campi di una ex tenuta agricola dismessa, ha preso corpo nel ’91, quando la Provincia di Treviso ha ottenuto dalla Comunità Europea un finanziamento per un piano volto a tutelare la zona delle risorgive mediante i vincoli di un parco. Il bosco della Storga infatti si situa proprio al limite superiore della fascia delle risorgive, dove le acque sotterranee fuoriescono formando le caratteristiche polle d'acqua che danno vita ai fiumi Limbraga, Piavon e, per l’appunto, Storga.
Per farla corta, stiamo parlando di un bel posto e di un progetto tutto sommato positivo, pur se criticabile per l’invasività di tante, troppe, inutili cementificazioni come parcheggi e piste che la Provincia ha voluto a tutti i costi inserire all’interno del perimetro verde con lo scopo di rendere “fruibile” l’oasi ai visitatori ed evitar loro di sporcarsi le scarpe con l’erba. Va detto, che gli euro per completare l’opera, così come le direttive realizzative, sono tutti di provenienza europea. Compito della Provincia, oltre a quello di realizzare il progetto, rimane comunque l’affido della gestione del parco. Cosa che l’amministrazione ha provveduto a fare cercando, tramite bando di concorso, una associazione con sufficienti meriti ambientalisti cui affidare l’oasi. E l’associazione alla fine, l’hanno trovata. Era anche l’unica partecipante al bando, a dir la verità. Wwf, Lipu, Legambiente e compagnia bella non hanno neppure ritenuto il caso di sprecare carta e bolli per concorrere. A vincere il concorso, infatti, che prevede anche la gestione del centro di recupero di animali feriti, è stato l’Ekoclub. Eko scritto con la k. Perché di “eco” con la c, non ha proprio nulla a che fare. L’associazione, si legge in un documento del Wwf “non è altro che il cavallo di Troia della Federcaccia per sabotare, anche con il meccanismo della somma dei voti dei rappresentanti della Federcaccia e d'Ekoclub, le posizioni delle vere associazioni ambientaliste e sostituirsi ad esse nel controllo e nella gestione dell’attività venatoria”. Insomma la Provincia di Treviso ha trovato il modo di finanziare una associazione di cacciatori dandole, per di più, in gestione non solo un parco ma pure l’annesso centro di cura della fauna selvatica. L’Ekoclub, gli animali, li ama alla follia. Fuori del parco li impallinano, dentro li curano, così son pronti per essere impallinati un’altra volta. E in questo modo, si evitano pure tutti quei fastidiosi controlli su presunti episodi di bracconaggio. Un bell’affare per l’Ekoclub che ha già messo “nel carniere” alcune interessanti manifestazioni per valorizzare il parco. Valorizzare, intendiamo, secondo i criteri cari ai cacciatori. Il primo evento sarà una imperdibile esposizione di cani da caccia e di trofei venatori. In futuro, l’Ekoclub ha promesso di arricchire la fauna locale introducendo altre specie animali come caprioli, cinghiali, daini, rapaci. Specie non autoctone ma comunque “sparabili”. Per sistemarle, alzeranno dei grandi recinti e delle speciali gabbie su tutta l’area del parco. Ma quel che lascia più esterrefatti, è che, ha spiegato candidamente l’Ekoclub, questa operazione avrebbe lo scopo dichiarato di “arricchire la biodiversità della zona”. Proprio così: il concetto di “biodiversità”, per loro, equivale a quello di “zoo”.
Venezia non ha paura
14/09/2010Terra
La civiltà della paura non va da nessuna parte, non prende decisioni, assiste e borbotta. Le disparità diventano più forti, i problemi da risolvere più gravi. Ma anche vicino a te, vincendo paure, qualcuno getta le basi di un mondo migliore”. Il riferimento, neppure tanto velato, è alla lega nord. Quella lega che, domenica 12 settembre, per il tredicesimo anno consecutivo, ha invaso la città lagunare, per la sua festa di partito. Avvenimento che tra i veneziani viene efficacemente indicato come il giorno della “calata dei barbari”. Val solo la pena di ricordare che lo scorso anno un gruppo di militanti leghisti ha mandato in ospedale due camerieri di colore con la motivazione che “non gli avevano mostrato il permesso di soggiorno”.
“Mettiamo subito in chiaro che la festa non è contro la lega ma contro l’ideologia della paura - ha spiegato Giancarlo Ghigi, uno dei portavoce dell’iniziativa partita dal gruppo Facebook Venezia città aperta -. Oramai si fa politica solo facendo leva sulle paure spesso ingiustificate della gente. Ma è solo un sistema per evitare di affrontare i problemi reali come, tanto per fare un esempio, quelli ambientali o quelli legati all’immigrazione. La lega non è l’unica formazione politica a creare ad arte paure per poi cavalcarle elettoralmente, purtroppo. E’ una tentazione presente tra i politici di pressoché tutti i partiti. Gli sceriffi si trovano a destra ma anche a sinistra. Questa festa che abbiamo chiamato Venezia non ha paura, l’abbiamo pensata proprio per ribadire attraverso il contatto e la discussione con la gente che non vogliamo una politica da spettacolo televisivo, che non possiamo arrenderci a questa imperante sub cultura del terrore diffuso. Per sentirci vivi, noi non abbiamo bisogno di aver paura”.
Venezia città aperta, il gruppo facebook che ha firmato la manifestazione, è il prodotto di un’orto. Al pari di zucchine e pomodori. L’Orto di Ca’ Tron: lo splendido palazzo sul canal Grande sede dell’università veneziana. Per protestare contra la sua ventilata vendita ad una grande catena alberghiera, un gruppo di studenti, un paio di anni, fa aveva dato vita ad una autogestione che presto si è trasferita in quella che un tempo era la casa del custode del palazzo. Attorno alla casupola, diventata nel frattempo uno dei luoghi alternativi di ritrovo della vita culturale e giovanile di Venezia, c’era un orto abbandonato che gli studenti hanno seminato. Ne sono cresciute delle ottime cose: zucchine, pomodori e... un folto gruppo di cittadini che non ha paura di dire che non ha paura.
Viaggio nella valle dei Mòcheni
7/09/2010Terra
E non preoccupatevi se non ne avete mai sentito parlare prima. Sono pochi anche in Trentino a sapere che oltre ai più famosi popoli ladino e cimbro, esiste un’altra minoranza etnica e linguistica, ufficialmente riconosciuta dallo Stato italiano sin dal dopoguerra ed espressamente citata nell’accordo De Gasperi - Gruber, sottoscritto il 5 settembre ’46, per il riconoscimento e la tutela delle minoranze di lingua tedesca in Trentino e in Alto Adige. Stiamo parlando delle genti mòchene che scesero dall’alta Boemia per stabilirsi in questa stretta e scoscesa valle attorno al 1200, chiamati dai signori di Caldonazzo col compito di dissodare e di coltivare a cereali queste ripide pendici montuose che i locali usavano solo come pascolo o bosco. Erano un popolo di “roncadori”, di contadini, che non si tiravano indietro davanti al lavoro duro e che, quando gli veniva affidato un compito, rispondevano “mache ich”, "faccio io", così che ben presto, i valligiani cominciarono a chiamarli i “mòchen”. Gente dura, che non aveva paura di rimanere isolata per il lungo letargo invernale, quando la neve bloccava quell’unico passo che scendeva a valle. Così che, sino alla costruzione della prima chiesa e del relativo cimitero, nel 1522, le famiglie conservavano i cadaveri dei defunti al freddo, nelle soffitte, attendendo la primavera e lo scioglimento della neve per poter dar loro cristiana sepoltura a valle, in terra consacrata.
In questo periodo, la valle, che nel frattempo era caduta sotto la dominazione del Capitolo vescovile di Trento, conobbe una seconda ondata migratoria. La provenienza era principalmente sempre la stessa: l’alta Boemia cui va aggiunta, secondo alcuni storici, anche la Baviera. Ma i migranti, questa volta, non erano più contadini ma minatori. Nella valle infatti erano stati scoperti ricchi giacimenti di rame, ferro, stagno, argento e altri minerali preziosi. I migranti si integrarono perfettamente con la popolazione locale, con la quale d’altra parte, condividevano lingua e cultura, e cominciarono a cavare i preziosi tesori nascosti nelle viscere dei monti, scavando miniere profonde centinaia di metri che ancor oggi sono visitabili. Erano operai, diremmo oggi, specializzati e, per i criteri dell’epoca, ben pagati. Eppure il loro lavoro era durissimo e raramente la vita media sforava i trent’anni. L’estrazione dei minerali impegnava tutta la famiglia; gli uomini scavavano e portavano all’aria aperta il materiale che le donne separavano, pulivano e portavano a valle. Anche i bambini avevano il loro compito. Dovevano entrare nelle viscere della montagna, infilarsi nelle gallerie più strette ed esplorare i cunicoli più profondi in cerca della vena da sfruttare. Vestivano abito dai coloro sgargianti, rossi in particolare, per essere più visibili al buio e più facilmente recuperati in caso di frana. In testa portavano un cappuccio a punta, riempito di paglia, che aveva lo scopo di segnalare come un’antenna gli abbassamenti della volta e attutire eventuali zuccate contro la roccia. L’immagine vi ricorda qualcosa? Proprio così. I nani e gli gnomi delle leggende che tutti i popoli delle montagne si sono creati nascono proprio da queste miniere. La stessa fiaba di Biancaneve e dei suoi amici nani, che la Disney ha ridotto a sette ma che in origine erano una intera tribù, è stata rielaborata dai fratelli Grimm sulla base di una leggenda mòchena. Il che autorizza le guide turistiche che accompagnano gli escursionisti a visitare le spettacolari miniere della valle a raccontare che quella che andiamo a vedere è proprio la “miniera dei sette nani”. Una favola che a guardarci dentro nasconde la tragica storia di tanti bambini che hanno trascorso la loro infanzia a lavorare nel buio di una miniera. E di favole e di leggende, la valle dei Mòcheni, ne racconta tante. Storie di draghi fiammeggianti che escono dalle viscere della terra per arrostire gli impavidi cavalieri, così come i gas naturali infiammati bruciavano gli sfortunati minatori. Oppure la vicenda dell’orribile “donnona” che si aggira nelle notti mòchene per rubare le noci agli agricoltori e i bambini alle loro mamme. Le noci infatti servivano a fare l’olio delle lampade con le quali i piccoli minatori scendevano nel ventre della montagna. Oggi, le lampade ad olio di noce non si usano più. E i bambini, grazie a dio, si vestono da gnomi per carnevale e non più per fare i minatori. La storia è sbiadita nel mito ma la paura si è trasformata in leggenda ed rimasta a colorare d’incanto la bella valle dei mòcheni.
Box Dalle miniere ai piccoli frutti
Le miniere che hanno scavato la storia della valle dei mòcheni oggi sono tutte chiuse. Gli escursionisti che non temono la claustrofobia le possono visitare accompagnati da guide esperte ma il volano economico che dà vita a questa valle ancora lontana dai circuiti del turismo di massa, ruota attorno ad una produzione tutta particolare: quella dei piccoli frutti. L’ultima miniera mòchena fu chiusa per esaurimento della vena negli anni in cui governava Maria Teresa d’Austria (1717 - 1780). La regina preoccupata per il futuro di quella gente che, pur vivendo in una vallata italiana, parlava una lingua simile alla sua concesse loro il permesso di commerciare nell’Impero austro germanico. I mòcheni allora divennero ambulanti, valicarono le alpi nel senso ripercorrendo in senso opposto i sentieri dei loro progenitori, e camminarono per tutte le strade della Boemia e della Baviera dove la gente rideva nel sentirli parlare con dei termini e una cadenza che usavano i loro trisnonni. Vendevano bottoni, cristalli e altri prodotti del loro artigianato.
Con la caduta dell’impero austriaco e l’arrivo del Tricolore, il commercio con l’Austria collassò e per i mòcheni divenne ancor più duro mantenere la loro lingua e le loro tradizioni. Il periodo fascista fu quello più duro: parlare mòcheno era punito col carcere e, in tempo di guerra, anche con la fucilazione. Con la Liberazione e con gi accordi De Gasperi – Gruber, i mòcheni divennero una delle tre minoranze linguistiche con i ladini e i cimbri, ufficialmente riconosciute in Trentino dallo Stato. La lingua mòchena è insegnata nelle scuole ed è usata nella cartellonistica stradale. Anche l’economia era profondamente mutata. La valle sopravviveva grazie all’allevamento di bovini e alla coltivazione delle mele. Ben presto, i fu evidente che i frutteti che crescevano negli impervi versanti della valle non potevano reggere il confronto con i prodotti coltivati in altre vallate trentine, come ad esempio la val di Non. L’ultima risorsa, l’allevamento, entrò in crisi negli anni settanta e per la valle venne il tempo dello spopolamento. A salvare le genti mòchene fu, come per altre realtà trentine, il modello cooperativo. Una dozzina di imprese agricole a conduzione familiare si riunirono nella cooperativa Sant’Orsola. C’era un tesoro nella loro valle. E non era un tesoro nascosto sotto terra come ai tempi delle miniere, ma un tesoro che cresceva alla luce del sole, nelle penombre di quel sottobosco che copre l’intera vallata. I piccoli frutti: mirtilli, fragoline, ciliegie, lamponi… Prodotti di altissima qualità che hanno conquistato prima i palati dei consumatori e poi i mercati. Oggi la cooperativa di agricoltura integrata Sant’Orsola conta oltre 1200 piccoli produttori anche al di fuori della vallata dei mòcheni, impegnati a rispettare i rigidissimi standard qualitativi imposti dal marchio. Una mezza dozzina di questi produttori, diciamocela, con la lingua mòchena hanno ben poco a che fare. Sono calabresi. Entrati nella grande famiglia mòchena grazie ai buoni uffici del vescovo antimafia monsignor Bagnasco, impegnato ad esportare il modello di cooperazione trentina nelle terre confiscate alle cosche.
Box Bersntoler Museum, il museo della pietra viva
Il museo delle Pietra viva, o se parlate la lingua mòchena, “Bersntoler Museum”, si trova in un antico mulino in località Stefani di Sant’Orsola terme. Siamo nel cuore della valle dei Mòcheni. Lo curano due veri e propri cercatori di tesori: i gemelli Mario e Lino Pallaoro, di cui probabilmente ricorderete qualche apparizione nella trasmissione televisiva “Geo&Geo”. Due autentici personaggi cui va l’innegabile compito di aver saputo dare vita alle pietre. L’esposizione pare fatta apposta per far cambiare idea a quanti ritengono che i sassi non sono altro che sassi. Il museo infatti, racconta attraverso i minerali la storia della valle, dalla sua particolare formazione geologica, passando per la storia antica, quando i romani scavavano la montagna alla ricerca di quel cristallo che ritenevano fosse “ghiaccio fossile” e al quale attribuivano magiche proprietà. da qui la leggenda della magica sfera di cristallo dentro la quale la fattucchiera legge il presente, il passato e il futuro. Ed in effetti, il passato, presente e futuro della storia del mondo sono davvero scritti nella pietra. Basta solo saperli leggere. E non serve neppure l’immaginazione di una fattucchiera.
Box S kloà bersntoler beirterpuach
Ovverossia: piccolo vocabolario della lingua mòchena. E’ uscito in questi giorni, pubblicato dall’istituto di Cultura Mòcheno, il primo vocabolario mòcheno – italiano – tedesco. Un’opera che non esitiamo a definire indispensabile per tutti coloro che vogliono cimentarsi a parlare il mòcheno. Più seriamente, il libro è un interessante studio sulle particolarità di una parlata che trae origine dal tedesco in voga nell’alta Boemia del 1500 ed è rimasta pressoché uguale nei secoli, importando di tanto in tanto, termini trentini e italiani. Un classico esempio è quello della parola “patata”. Il tubero è stato introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America. I mòcheni, che all’epoca vivevano separati dalla madre patria germanica, non potevano conoscere il termine “kartoffel”. Cosa han fatto quindi? Hanno usato la parola italiana declinandola ala tedesca. E così oggi nei piatti della valle si mangiano le “pataten”.
Allarme trivelle a Monselice
7/09/2010TerraI rappresentanti dell’AleAnna Resources Llc, società con sede legale a Houston (Texas) e ufficio operativo per l’Italia a Ferrara, l’hanno definita “una grande opportunità economica”. I comitati per la difesa del territorio, al contrario, hanno già subodorato il grave rischio per la salute e per l’ambiente che si nasconde dietro questa ennesima “grande opportunità”. Parliamo dei due progetti di ricerca d’idrocarburi presentati in regione Veneto col nome «Tre Ponti» e «Le Saline» che riguardano 23 Comuni del padovano.
Progetti che sono solo la proverbiale punta dell’iceberg, considerato che questa multinazionale attiva nei campi d’esplorazione e produzione di petrolio e gas che fa parte del Gruppo Assomineraria, in cui siedono anche Eni, Shell, e Bp, punta ad estendere in futuro la ricerca anche nel rodigino e poi ancora più a sud, sino a Ferrara. Una ricerca nel più puro stile “oro nero”: quel che conta è quello che c’è sotto, quel che c’è sopra non è affar nostro. Non è un segreto che le trivellazioni esplorative - se il progetto verrà approvato - saranno compiute non solo in in aree agricole ma anche in zone protette. La stessa AleAnna Resources ha pubblicamente dichiarato che “l’intervento ricade all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394: SIC IT3270017 “Delta del Po: tratto terminale e delta veneto” (Regione Veneto); la ZPS IT3270023 “Delta del Po” (Regione Veneto); la ZPS IT3250045 “Palude le Marice - Cavarzere” (Regione Veneto) e la SIC-ZPS IT4060016 “Fiume Po da Stellata a Mesola e Cavo Napoleonico” (Regione Emilia Romagna)”.
“Con la legislazione vigente - ha dichiarato Francesco Miazzi, consigliere comunale ambientalista a Monselice e portavoce del comitato Lasciateci repirare- per queste società petrolifere, l’Italia è divenuta una specie di El Dorado, in quanto le royalties, i diritti d’estrazione incamerati dallo Stato, sono tra le più basse del mondo visto che sono tra il 4 e il 7% per il gas, mentre in media negli altri Paesi si oscilla tra il 30 e il 70%. Praticamente regaliamo il territorio a che lo devasta per depredarne le ricchezze lasciandoci in cambio solo povertà e malattie”.
Come era prevedibile, i progetti d’indagine geofisica presentati dalla società AleAnna Resources, hanno già attirato l’attenzione dei comitati che si battono per la salvaguardia della salute e dell’ambiente, e che non hanno nessuna voglia di lasciare trivellare la loro terra sino a 3000 o 3500 metri di profondità. Senza contare poi quel che succederebbe nel malaugurato caso si scoprissero giacimenti di idrocarburi. “Quelli che credono che le perforazioni siamo una grande opportunità economica - conclude Miazzi - farebbero bene ad andare a vedere gli effetti prodotti ad esempio in Val D'Agri, in Basilicata, dove proprio l’AleAnna Resources ha in corso attività d’estrazione di idrocarburi: tante patologie sono aumentate in percentuale e si registrano continui casi d’emissioni nocive nell'ambiente da parte degli impianti di prelevamento e lavorazione. Nel nostro Veneto inoltre, i prelievi di gas-metano dal sottosuolo hanno già prodotto rilevanti fenomeni di subsidenza le cui conseguenze nel futuro sono ancora incalcolabili”. Con la legge 99 del 2009, il cosiddetto “decreto energia”, varata dal Governo, le comunità locali hanno ben poco peso nelle decisioni che pure si prendono sulla loro pelle e sul loro territorio. La decisione finale in materia di estrazioni petrolifere spetta al Ministero per lo sviluppo economico, mentre alla Regione resta il parere vincolante legato alla Valutazione d’Impatto Ambientale. I Comuni e le Provincie, con i loro pareri possono comunque giocare un ruolo politico molto importante. “I termini per le osservazioni scadono tra pochi giorni - conclude Miazzi-. Dati i tempi strettissi, sarebbe opportuno che la Province interessate, mettessero a disposizione le loro capacità tecniche per aiutare i Comuni a stendere le osservazioni al progetto. Sarebbe inoltre fondamentale che tutti i consigli Comunali, provinciali e regionali, esprimessero la propria contrarietà con apposite delibere. La bassa padovana ha già dato in termini di salute e ambiente, e ha già troppe attività inquinanti e nocive. Non sentiamo certo bisogno anche di queste trivellazioni”.
Progetti che sono solo la proverbiale punta dell’iceberg, considerato che questa multinazionale attiva nei campi d’esplorazione e produzione di petrolio e gas che fa parte del Gruppo Assomineraria, in cui siedono anche Eni, Shell, e Bp, punta ad estendere in futuro la ricerca anche nel rodigino e poi ancora più a sud, sino a Ferrara. Una ricerca nel più puro stile “oro nero”: quel che conta è quello che c’è sotto, quel che c’è sopra non è affar nostro. Non è un segreto che le trivellazioni esplorative - se il progetto verrà approvato - saranno compiute non solo in in aree agricole ma anche in zone protette. La stessa AleAnna Resources ha pubblicamente dichiarato che “l’intervento ricade all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394: SIC IT3270017 “Delta del Po: tratto terminale e delta veneto” (Regione Veneto); la ZPS IT3270023 “Delta del Po” (Regione Veneto); la ZPS IT3250045 “Palude le Marice - Cavarzere” (Regione Veneto) e la SIC-ZPS IT4060016 “Fiume Po da Stellata a Mesola e Cavo Napoleonico” (Regione Emilia Romagna)”.
“Con la legislazione vigente - ha dichiarato Francesco Miazzi, consigliere comunale ambientalista a Monselice e portavoce del comitato Lasciateci repirare- per queste società petrolifere, l’Italia è divenuta una specie di El Dorado, in quanto le royalties, i diritti d’estrazione incamerati dallo Stato, sono tra le più basse del mondo visto che sono tra il 4 e il 7% per il gas, mentre in media negli altri Paesi si oscilla tra il 30 e il 70%. Praticamente regaliamo il territorio a che lo devasta per depredarne le ricchezze lasciandoci in cambio solo povertà e malattie”.
Come era prevedibile, i progetti d’indagine geofisica presentati dalla società AleAnna Resources, hanno già attirato l’attenzione dei comitati che si battono per la salvaguardia della salute e dell’ambiente, e che non hanno nessuna voglia di lasciare trivellare la loro terra sino a 3000 o 3500 metri di profondità. Senza contare poi quel che succederebbe nel malaugurato caso si scoprissero giacimenti di idrocarburi. “Quelli che credono che le perforazioni siamo una grande opportunità economica - conclude Miazzi - farebbero bene ad andare a vedere gli effetti prodotti ad esempio in Val D'Agri, in Basilicata, dove proprio l’AleAnna Resources ha in corso attività d’estrazione di idrocarburi: tante patologie sono aumentate in percentuale e si registrano continui casi d’emissioni nocive nell'ambiente da parte degli impianti di prelevamento e lavorazione. Nel nostro Veneto inoltre, i prelievi di gas-metano dal sottosuolo hanno già prodotto rilevanti fenomeni di subsidenza le cui conseguenze nel futuro sono ancora incalcolabili”. Con la legge 99 del 2009, il cosiddetto “decreto energia”, varata dal Governo, le comunità locali hanno ben poco peso nelle decisioni che pure si prendono sulla loro pelle e sul loro territorio. La decisione finale in materia di estrazioni petrolifere spetta al Ministero per lo sviluppo economico, mentre alla Regione resta il parere vincolante legato alla Valutazione d’Impatto Ambientale. I Comuni e le Provincie, con i loro pareri possono comunque giocare un ruolo politico molto importante. “I termini per le osservazioni scadono tra pochi giorni - conclude Miazzi-. Dati i tempi strettissi, sarebbe opportuno che la Province interessate, mettessero a disposizione le loro capacità tecniche per aiutare i Comuni a stendere le osservazioni al progetto. Sarebbe inoltre fondamentale che tutti i consigli Comunali, provinciali e regionali, esprimessero la propria contrarietà con apposite delibere. La bassa padovana ha già dato in termini di salute e ambiente, e ha già troppe attività inquinanti e nocive. Non sentiamo certo bisogno anche di queste trivellazioni”.
Antinucleari in Mostra
7/09/2010Terra
“Questa manifestazione ha dimostrato che è tutto il contrario - ha dichiarato Roberto Rossi, uno dei portavoce della rete anti nucleare -. La grande partecipazione alla nostra iniziativa di associazioni, movimenti, semplici cittadini ha ribadito che l’Italia non vuole tornare indietro di vent’anni. Gli applausi che hanno accompagnato il corteo provenivano tanto dai turisti quanto da residenti e commercianti. Persone che magari hanno votato questo governo o che non sfilano nelle manifestazioni ma che sono giustamente preoccupati di quale sarebbe l’impatto sul turismo e sul commercio se nella laguna sorgesse una centrale nucleare. Alle accuse di essere una minoranza rispondiamo che la minoranza sono quelli che appoggiano il nucleare. E in quanto alla violenza, non è certo una nostra peculiarità. Casomai un esame di coscienza dovrebbero farselo coloro che impongono queste scelte dall’alto senza coinvolgere la popolazione locale. E’ questa la vera violenza e l’attentato alla democrazia”. Rossi si riferisce in particolare al governatore veneto Luca Zaia che da ministro ha votato una legge che delega al governo centrale la scelta sulle politiche energentiche nucleari e sulla scelta dei siti, mentre da presidente della giunta regionale si schiera contro la centrale nel suo territorio. “Un bell’esempio di coerenza e di federalismo” ironizza Rossi.
La scelta della vetrina della mostra del cinema, se da un lato ha efficacemente servito da megafono internazionale alle denuncie dela rete, dall’altro ha presentato notevoli difficoltà organizzative. Per portare gli attivisti nell’isola, la erta ha organizzato una piccola flottiglia di motonavi che ha fatto da spola tra la terraferma - con base a Chioggia e al Tronchetto - e il Lido. Il servizio ha permesso ai tanti comitati regionali di portare i propri striscioni alla manifestazione. Tra i partecipanti più numerosi ricordiamo la rete nunuke di Chioggia e il Chioggialab, il comitati provenienti dalla bassa padovana come “lasciateci respirare” e “salute e ambiente”, l’assemblea permanente contro il rischio chimico di Marghera, centri sociali come il Pedro, il Rivolta e il Morion, e i movimenti del Polesine, una delle aree papabili per la realizzazione di una centrale nucleare. Presenti anche gli attivisti di formazioni sindacali o politiche come verdi, federazione della sinistra, grillini che hanno comunque lasciato a casa le bandiere del partito per sventolare quella contro il nucleare. Alla fine del corteo, proprio davanti al palazzo del cinema, una applaudita delegazione dei manifestanti è salita sulla passerella delle star per spiegare a giornalisti, attori, registi e spettatori, le motivazioni della manifestazione. Da sottolineare la presenza di una delegazione di biondi turisti austriaci e tedeschi, coordinata da Greenpeace, che hanno distribuito volantini “Für ein atomkraft-frese italien” (per una Italia libera dal nucleare) invitando gli altri turisti - che in estate e con la mostra del cinema al Lido sono davero tanti! - a chiedere al proprio albergatore e alla propria agenzia turistica di mobilitarsi col governo perché il Belpaese scelga la strada delle energie pulite e rinnovabili. Davvero, chiedevano, gli italiani vogliono inserire nel paesaggio lagunare di piazza San Marco, della Giudecca e dell’isola di San Giorgio, anche il minaccioso profilo di un reattore nucleare?
Venezia e i tagli alla cultura
6/08/2010TerraTaglio sì, tagli no, tagli forse. Del doman non v’è certezza, scriveva tempo fa un certo Lorenzo. Un vero mecenate, lui, che quando amministrava Firenze non si sarebbe mai sognato di penalizzare la cultura. Ma oggi che al Governo non c’è nessun Magnifico, l’unica certezza è che il settore delle arti si sente come il condannato con la testa sul ceppo. Aspetta solo di vedere come e quando calerà la mannaia.
“Vediamo come andrà a finire – commenta laconico Marino Cortese, presidente della Querini Stampalia, la fondazione che gestisce una delle più frequentate biblioteche di Venezia – ma certo non ci attendiamo nulla di buono”. Più duro il commento di Gian Antonio Danieli, presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti che, se sopravviverà, a dicembre festeggerà i duecento anni dalla fondazione: “Stiamo a vedere cosa succederà ma di sicuro non nutriamo nessuna illusione. In Italia, oltre ai tre poteri costituzionali, ce n’è un quarto, che non è la stampa, ma l’ignoranza. Un potere trasversale e pervasivo, ulteriormente potenziato dalla sua ostentata esibizione mediatica". Questi due istituti, assieme all’Ateneo Veneto, alla Fondazione Levi e alla Cini – per restare in ambito lagunare – figuravano nella famosa lista di 232 associazioni culturali che il ministro Giulio Tremonti si arrogava il diritto di potare come rami secchi. Tremonti ministro delle finanze e non della cultura. “E’ sorprendente, oltre che grave, che il ministro della cultura che è Sandro Bondi, uno che peraltro ha il suo peso all’interno del Pdl, sia stato completamente esautorato da una scelta che spettava solo a lui, come il ridimensionamento finanziario di associazioni che fanno riferimento alla sua delega – ha commentato Gianfranco Cerasoli, segretario Uil Beni e attività culturali -. E oltretutto hanno cercato di far passare la manovra come una vittoria del Governo contro enti parassiti”. La successiva sfuriata di Bondi, che era quella di uno cui han pestato i calli dei piedi, ha avuto se non altro il merito di congelare questi tagli. Ma certo, come abbiamo visto in apertura, la sospensoria non ha tranquillizzato nessuno. Anche perché, nel caso i paventati tagli non arrivassero dal Governo, di sicuro arriveranno dalla Regione Veneto che già in tante occasioni si è sempre dimostrata sorda alla voce di una cultura che non sia quella legata a supposte sagre di identità veneta, parate di miss padane o esposizioni di trofei venatori. Un incubo questo, ancora peggiore perché i contributi regionali al settore sono maggiori di quelli che provengono – o provenivano – dallo Stato. Da Palazzo Balbi, sede del Governo regionale, ancora non arrivano notizie sicure se non quella che i tagli ci saranno e sono indispensabili proprio in virtù della manovra Tremonti che, se da un lato ha deviato la scure dalle fondazioni, dall’altro ha troncato di netto i finanziamenti alle Regioni. Il Veneto, ad esempio, riceverà nei prossimi due anni, un miliardo e 600 milioni di euro in meno rispetto al biennio scorso. Inevitabile che a farne le spese saranno ancora una volta i settori considerati dall’amministrazione regionale, deboli se non addirittura parassitari. A torto, ci assicura Pierluigi Sacco pro rettore allo Iuav di Venezia e docente di economia della cultura: “L'azienda Veneto non ritiene la cultura un ramo strategico e di conseguenza lo taglia. Ma è un errore grossolano e gravissimo. La cultura non è solo divertimento elitario, per fortuna. Ma un elemento essenziale di economia della società della conoscenza che è il modello di crescita per tutto l'Occidente. Il concetto di cultura non si ferma al concerto o al film ma sveglia le menti libere e ricettive. Produce nuove idee. L'intreccio tra economia e cultura è più stretto di quanto non appaia. Noi economisti lo sappiamo bene e lo sa bene Joseph Nye, ascoltato consigliere di Obama e teorico del soft power, che ha posto al presidente americano questa domanda: secondo lei è più importante avere una forte identità culturale o un forte esercito?" Non sappiamo cosa abbia risposto Obama, ma sappiamo bene cosa risponderebbe il nostro governo.
“Vediamo come andrà a finire – commenta laconico Marino Cortese, presidente della Querini Stampalia, la fondazione che gestisce una delle più frequentate biblioteche di Venezia – ma certo non ci attendiamo nulla di buono”. Più duro il commento di Gian Antonio Danieli, presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti che, se sopravviverà, a dicembre festeggerà i duecento anni dalla fondazione: “Stiamo a vedere cosa succederà ma di sicuro non nutriamo nessuna illusione. In Italia, oltre ai tre poteri costituzionali, ce n’è un quarto, che non è la stampa, ma l’ignoranza. Un potere trasversale e pervasivo, ulteriormente potenziato dalla sua ostentata esibizione mediatica". Questi due istituti, assieme all’Ateneo Veneto, alla Fondazione Levi e alla Cini – per restare in ambito lagunare – figuravano nella famosa lista di 232 associazioni culturali che il ministro Giulio Tremonti si arrogava il diritto di potare come rami secchi. Tremonti ministro delle finanze e non della cultura. “E’ sorprendente, oltre che grave, che il ministro della cultura che è Sandro Bondi, uno che peraltro ha il suo peso all’interno del Pdl, sia stato completamente esautorato da una scelta che spettava solo a lui, come il ridimensionamento finanziario di associazioni che fanno riferimento alla sua delega – ha commentato Gianfranco Cerasoli, segretario Uil Beni e attività culturali -. E oltretutto hanno cercato di far passare la manovra come una vittoria del Governo contro enti parassiti”. La successiva sfuriata di Bondi, che era quella di uno cui han pestato i calli dei piedi, ha avuto se non altro il merito di congelare questi tagli. Ma certo, come abbiamo visto in apertura, la sospensoria non ha tranquillizzato nessuno. Anche perché, nel caso i paventati tagli non arrivassero dal Governo, di sicuro arriveranno dalla Regione Veneto che già in tante occasioni si è sempre dimostrata sorda alla voce di una cultura che non sia quella legata a supposte sagre di identità veneta, parate di miss padane o esposizioni di trofei venatori. Un incubo questo, ancora peggiore perché i contributi regionali al settore sono maggiori di quelli che provengono – o provenivano – dallo Stato. Da Palazzo Balbi, sede del Governo regionale, ancora non arrivano notizie sicure se non quella che i tagli ci saranno e sono indispensabili proprio in virtù della manovra Tremonti che, se da un lato ha deviato la scure dalle fondazioni, dall’altro ha troncato di netto i finanziamenti alle Regioni. Il Veneto, ad esempio, riceverà nei prossimi due anni, un miliardo e 600 milioni di euro in meno rispetto al biennio scorso. Inevitabile che a farne le spese saranno ancora una volta i settori considerati dall’amministrazione regionale, deboli se non addirittura parassitari. A torto, ci assicura Pierluigi Sacco pro rettore allo Iuav di Venezia e docente di economia della cultura: “L'azienda Veneto non ritiene la cultura un ramo strategico e di conseguenza lo taglia. Ma è un errore grossolano e gravissimo. La cultura non è solo divertimento elitario, per fortuna. Ma un elemento essenziale di economia della società della conoscenza che è il modello di crescita per tutto l'Occidente. Il concetto di cultura non si ferma al concerto o al film ma sveglia le menti libere e ricettive. Produce nuove idee. L'intreccio tra economia e cultura è più stretto di quanto non appaia. Noi economisti lo sappiamo bene e lo sa bene Joseph Nye, ascoltato consigliere di Obama e teorico del soft power, che ha posto al presidente americano questa domanda: secondo lei è più importante avere una forte identità culturale o un forte esercito?" Non sappiamo cosa abbia risposto Obama, ma sappiamo bene cosa risponderebbe il nostro governo.
Politica e sapere. Intervista con Camilla Seibezzi
6/08/2010TerraSe le chiedi che mestiere fa per vivere, si guarda attorno e poi ti sussurra “cultural manager” con lo stesso tono in cui un altro direbbe “suono il piano in un bordello”. E subito precisa: “Sì, lo so. Non piace neppure a me far sfoggio di anglicismi, ma il nome esatto è questo. Non c’è un equivalente italiano per descrivere quello che faccio. Il termine ‘promotrice culturale’, che qualche volta si adopera, è quantomeno riduttivo. Un altro distintivo esempio dell’arretratezza che pesa sulla cultura italiana rispetto agli altri Paesi europei”. Camilla Seibezzi è uno dei volti nuovi della politica veneziana.
“Nuova nel senso che è la prima volta che mi sono messa in lista. Perché la politica, io l’ho sempre fatta – puntualizza –. Fare cultura è anche fare politica, giusto?” Candidatasi nella lista “In Comune con Bettin” nelle ultimi amministrative, Camilla ha portato in dote una valanga di preferenza che, non senza qualche sorpresa, le hanno spalancato le porte del consiglio comunale, dietro ai soli Gianfranco Bettin e Beppe Caccia. La sua innegabile esperienza nel campo delle arti visive contemporanee le hanno fatto ottenere la nomina di presidente della sesta commissione consiliare, quella della cultura. La incontriamo tra calli e campielli, che porta, o meglio, si fa portare a spasso da un cagnone nero di pura razza bastarda, reduce da una estenuante seduta di commissione. Camilla, non ti sarai già pentita di esserti candidata? Ride. E quando Camilla ride, si gira tutta la calle. “Dai, concedimi ancora un paio di mesi prima di farmi questa domanda. Certo che non mi aspettavo la delirante faziosità di tante discussioni. Io sono abituata a discutere con le argomentazioni, ma in consiglio c’è gente che parla solo per ricavarne due righe sui quotidiani locali. Ogni tanto mi fermo e mi domando: ma di cosa stanno parlando questi qui?” Con le argomentazioni, in politica, non si convince mai nessuno. Tu ti sei sempre occupata di cultura affrontando l’argomento dal punto di vista dell’artista o della promotrice… scusa, della cultural manager. Come vivi l’esperienza sul fronte amministrativo? “Io son sempre la stessa, così come le difficoltà che mi si parano davanti. C’è una enorme arretratezza della classe politica sul tema della cultura. Sono pochi coloro che si sono posti domande su cosa sia la cultura, cosa serva, quali meccanismi la attivino e cosa se ne possa ricavare… non è un caso che, se si parla di tagli, il primo settore ad essere colpito è questo che considerano, al massimo, un divertimento per pochi. Eppure c’è una serie infinita di studi, anche italiani, che svelano quanto la cultura possa essere una leva economica capace di raggiungere fatturati superiori all’industria automobilistica”. Le statistiche che in questi giorni si rincorrono sui giornali, confermano che l’Italia investe nel settore perlomeno sette volte di meno rispetto ad altri Paesi europei come, ad esempio la Francia. “Non solo. La ricchezza del patrimonio artistico che abbiamo è sconfinata. Questa è un’arma a doppio taglio, perché comporta che la maggior parte dei fondi siano destinati al restauro e alla conservazione. Alla contemporaneità restano appena le briciole. Ma ciò che pesa di più, e di cui i tagli sono solo una naturale conseguenza, sono le deficienze culturali e politiche in materia. Come si misura, ad esempio, il successo di una esposizioni in Italia? Dal numero di visitatori oppure dall’indotto in settori come l’alberghiero o, più in generale, quello turistico. Ma non è questo il solo effetto che deve produrre un evento culturale! Deve anche creare fermento, produrre idee, dare linfa alla comunità artistica e produrre nuove opere. Altrimenti ci si limita, quando va bene, a creare il contenitore e non il contenuto. In Europa ci sono esempi di comunità artistiche che si auto sostengono. Certo, è un settore che non deve necessariamente produrre fatturato e che non lo puoi abbandonare al libero mercato”. Un bene comune come l’acqua? “Certamente. Prendiamo Venezia, ad esempio. La Biennale ha una enorme ricaduta economica sul privato, su chi affitta i palazzi e sugli alberghi, ma la produzione culturale veneziana o italiana ne viene appena intaccata. Bisognerebbe invece creare una politica di accoglienza per gli investitori e per gli stessi artisti. Soprattutto in questa città dove il mercato, come quello degli affitti o degli spazi per le esposizioni ad esempio, è drogato. In questo modo rimarrebbe qualcosa di duraturo e di valido anche al di fuori dei giorni di apertura dei padiglioni”. Invece, si preferisce applicare il ragionamento che sta alla base della “grandi opere” anche sulle “grandi mostre”. Magari non faranno i danni che gli ecomostri causano all’ambiente… “ma la produzione culturale in sé, non ne trae beneficio. Insomma, abbiamo di fronte a noi una enorme carenza di informazione e di riflessione sul tema della cultura. Parlo di tutti i livelli: dai politici agli imprenditori, senza risparmiare i mass media. Questo è anche il motivo per cui in Italia non è mai stata avviata una politica di defiscalizzazione per gli investimenti culturali come, ad esempio, negli Stati Uniti. Al massimo, da noi ci si auto defiscalizza evadendo le tasse; non certo a favore della cultura ma tutto a vantaggio dell’ignoranza”.
“Nuova nel senso che è la prima volta che mi sono messa in lista. Perché la politica, io l’ho sempre fatta – puntualizza –. Fare cultura è anche fare politica, giusto?” Candidatasi nella lista “In Comune con Bettin” nelle ultimi amministrative, Camilla ha portato in dote una valanga di preferenza che, non senza qualche sorpresa, le hanno spalancato le porte del consiglio comunale, dietro ai soli Gianfranco Bettin e Beppe Caccia. La sua innegabile esperienza nel campo delle arti visive contemporanee le hanno fatto ottenere la nomina di presidente della sesta commissione consiliare, quella della cultura. La incontriamo tra calli e campielli, che porta, o meglio, si fa portare a spasso da un cagnone nero di pura razza bastarda, reduce da una estenuante seduta di commissione. Camilla, non ti sarai già pentita di esserti candidata? Ride. E quando Camilla ride, si gira tutta la calle. “Dai, concedimi ancora un paio di mesi prima di farmi questa domanda. Certo che non mi aspettavo la delirante faziosità di tante discussioni. Io sono abituata a discutere con le argomentazioni, ma in consiglio c’è gente che parla solo per ricavarne due righe sui quotidiani locali. Ogni tanto mi fermo e mi domando: ma di cosa stanno parlando questi qui?” Con le argomentazioni, in politica, non si convince mai nessuno. Tu ti sei sempre occupata di cultura affrontando l’argomento dal punto di vista dell’artista o della promotrice… scusa, della cultural manager. Come vivi l’esperienza sul fronte amministrativo? “Io son sempre la stessa, così come le difficoltà che mi si parano davanti. C’è una enorme arretratezza della classe politica sul tema della cultura. Sono pochi coloro che si sono posti domande su cosa sia la cultura, cosa serva, quali meccanismi la attivino e cosa se ne possa ricavare… non è un caso che, se si parla di tagli, il primo settore ad essere colpito è questo che considerano, al massimo, un divertimento per pochi. Eppure c’è una serie infinita di studi, anche italiani, che svelano quanto la cultura possa essere una leva economica capace di raggiungere fatturati superiori all’industria automobilistica”. Le statistiche che in questi giorni si rincorrono sui giornali, confermano che l’Italia investe nel settore perlomeno sette volte di meno rispetto ad altri Paesi europei come, ad esempio la Francia. “Non solo. La ricchezza del patrimonio artistico che abbiamo è sconfinata. Questa è un’arma a doppio taglio, perché comporta che la maggior parte dei fondi siano destinati al restauro e alla conservazione. Alla contemporaneità restano appena le briciole. Ma ciò che pesa di più, e di cui i tagli sono solo una naturale conseguenza, sono le deficienze culturali e politiche in materia. Come si misura, ad esempio, il successo di una esposizioni in Italia? Dal numero di visitatori oppure dall’indotto in settori come l’alberghiero o, più in generale, quello turistico. Ma non è questo il solo effetto che deve produrre un evento culturale! Deve anche creare fermento, produrre idee, dare linfa alla comunità artistica e produrre nuove opere. Altrimenti ci si limita, quando va bene, a creare il contenitore e non il contenuto. In Europa ci sono esempi di comunità artistiche che si auto sostengono. Certo, è un settore che non deve necessariamente produrre fatturato e che non lo puoi abbandonare al libero mercato”. Un bene comune come l’acqua? “Certamente. Prendiamo Venezia, ad esempio. La Biennale ha una enorme ricaduta economica sul privato, su chi affitta i palazzi e sugli alberghi, ma la produzione culturale veneziana o italiana ne viene appena intaccata. Bisognerebbe invece creare una politica di accoglienza per gli investitori e per gli stessi artisti. Soprattutto in questa città dove il mercato, come quello degli affitti o degli spazi per le esposizioni ad esempio, è drogato. In questo modo rimarrebbe qualcosa di duraturo e di valido anche al di fuori dei giorni di apertura dei padiglioni”. Invece, si preferisce applicare il ragionamento che sta alla base della “grandi opere” anche sulle “grandi mostre”. Magari non faranno i danni che gli ecomostri causano all’ambiente… “ma la produzione culturale in sé, non ne trae beneficio. Insomma, abbiamo di fronte a noi una enorme carenza di informazione e di riflessione sul tema della cultura. Parlo di tutti i livelli: dai politici agli imprenditori, senza risparmiare i mass media. Questo è anche il motivo per cui in Italia non è mai stata avviata una politica di defiscalizzazione per gli investimenti culturali come, ad esempio, negli Stati Uniti. Al massimo, da noi ci si auto defiscalizza evadendo le tasse; non certo a favore della cultura ma tutto a vantaggio dell’ignoranza”.
L'acqua supera il primo scoglio
1/08/2010Terra“
Lo scoglio delle 500 mila firme necessarie per presentare il referendum è stato superato. Adesso bisogna informare la gente su quali sono gli effetti della privatizzazione dell’acqua. E dovremo fare noi questo lavoro, perché dalle televisioni e dai grandi media che vivono anche grazie alle sponsorizzazioni delle acque minerali non avremo nessun aiuto”. Lo ha dichiarato il giurista Ugo Mattei, uno dei principali estensori dei tre quesiti referendari, in un incontro promosso dal comitato cittadino "Venezia per l'acqua pubblica" svoltosi lo scorso giovedì al centro culturale Candiani di Mestre. Tra i relatori, Valter Bonan, responsabile regionale del "Forum dei movimenti per la pubblicizzazione dell'acqua", e Paolo Cacciari, della rete dei comitati e delle associazioni per un Altro Veneto.
A far gli onori di casa, il verde Gianfranco Bettin, non a caso, assessore con delega oltre che all’Ambiente anche ai Beni Comuni di Venezia. Città questa, che con la sua Provincia ha dato un notevole contributo alla raccolta delle firme, sfiorando il tetto delle 10 mila adesioni. Un risultato più che soddisfacente che va rapportato anche alla buona risposta regionale: 46 mila firme già raccolte. Il raggiungimento dell’obbiettivo delle 500 mila firme non deve comunque farci illudere che la battaglia sia già vinta, ha spiegato Valter Bonan. Ci attende un cammino tutto in salita. Un cammino che val comunque la pena di percorrere sino in fondo. “Il tema dell’acqua – ha spiegato Bettin –è uno dei pochi su cui oggi è possibile costruire un percorso di alternativa, rovesciare la prospettiva anche e soprattutto sul piano culturale e aprire nuovi scenari sulla gestione partecipata di tutti i beni comuni”. Il giurista Ugo Mattei ha chiuso la serata ripercorrendo le vicende che hanno spinto il comitato referendario a proporre i tre quesiti per la ri pubblicizzazione dell’acqua - dalla legge Galli al recente decreto che privatizza la gestione dell’acqua - raccontando come il modello della “società per azioni” sembrava, sul finire dello scorso secolo, un modello vincente anche per il pubblico. Ma oggi, che siamo di fronte alla crisi di un sistema economico basato sul libero mercato, gli effetti della privatizzazione sono davanti agli occhi di tutti. Ad Atlanta, negli Usa, tanto per fare un esempio con un paese a capitalismo avanzato, la svendita degli acquedotti alla multinazionale della Coca Cola ha progressivamente deteriorato il sistema idrico col risultato che l’acqua del rubinetto oggi è imbevibile e i consumatori sono costretti ad acquistare le bottiglie messe in commercio dalla stessa multinazionale che gestisce la risorsa idrica. Ma per trovare storie simili non serve volare oltre l’oceano. “In Sicilia gli stessi concessionari dell’acqua minerale, che per la maggior parte appartengono ai gruppi Catalgirone, sono anche gestori dell’acqua pubblica. Un conflitto d’interessi evidente – ha commentato Mattei – perché il loro interesse sta tutto nel mettere in circolo nell’acquedotto un’acqua più schifosa e singhiozzo possibile”. Il referendum, hanno sottolineato tutti i relatori, sarà una occasione per ripensare alla gestione dei beni comuni. “Con i nostri tre quesiti, prestate attenzione, non chiediamo che sia lo Stato a gestire l’acqua – ha concluso Mattei -. Sia lo Stato che le Corporation sono strutture con un livello di potere concentrato. Noi non vogliamo che si torni indietro. E’ questa la differenza principale tra i nostri tre quesiti e quello di Di Pietro. Noi chiediamo che l’acqua, in quanto bene comune, sia gestito dalla comunità tramite un processo di diffusione del potere al di là di ogni valore di mercato, con il solo scopo di mantenere nei nostri acquedotti un’acqua di qualità buona per tutti”. Un referendum quindi, che non decide solo sulla proprietà dell’acqua ma che potrebbe diventare il punto di leva per una inversione di rotta su temi come la democrazia di base e la gestione partecipata di tutti i beni comuni.

A far gli onori di casa, il verde Gianfranco Bettin, non a caso, assessore con delega oltre che all’Ambiente anche ai Beni Comuni di Venezia. Città questa, che con la sua Provincia ha dato un notevole contributo alla raccolta delle firme, sfiorando il tetto delle 10 mila adesioni. Un risultato più che soddisfacente che va rapportato anche alla buona risposta regionale: 46 mila firme già raccolte. Il raggiungimento dell’obbiettivo delle 500 mila firme non deve comunque farci illudere che la battaglia sia già vinta, ha spiegato Valter Bonan. Ci attende un cammino tutto in salita. Un cammino che val comunque la pena di percorrere sino in fondo. “Il tema dell’acqua – ha spiegato Bettin –è uno dei pochi su cui oggi è possibile costruire un percorso di alternativa, rovesciare la prospettiva anche e soprattutto sul piano culturale e aprire nuovi scenari sulla gestione partecipata di tutti i beni comuni”. Il giurista Ugo Mattei ha chiuso la serata ripercorrendo le vicende che hanno spinto il comitato referendario a proporre i tre quesiti per la ri pubblicizzazione dell’acqua - dalla legge Galli al recente decreto che privatizza la gestione dell’acqua - raccontando come il modello della “società per azioni” sembrava, sul finire dello scorso secolo, un modello vincente anche per il pubblico. Ma oggi, che siamo di fronte alla crisi di un sistema economico basato sul libero mercato, gli effetti della privatizzazione sono davanti agli occhi di tutti. Ad Atlanta, negli Usa, tanto per fare un esempio con un paese a capitalismo avanzato, la svendita degli acquedotti alla multinazionale della Coca Cola ha progressivamente deteriorato il sistema idrico col risultato che l’acqua del rubinetto oggi è imbevibile e i consumatori sono costretti ad acquistare le bottiglie messe in commercio dalla stessa multinazionale che gestisce la risorsa idrica. Ma per trovare storie simili non serve volare oltre l’oceano. “In Sicilia gli stessi concessionari dell’acqua minerale, che per la maggior parte appartengono ai gruppi Catalgirone, sono anche gestori dell’acqua pubblica. Un conflitto d’interessi evidente – ha commentato Mattei – perché il loro interesse sta tutto nel mettere in circolo nell’acquedotto un’acqua più schifosa e singhiozzo possibile”. Il referendum, hanno sottolineato tutti i relatori, sarà una occasione per ripensare alla gestione dei beni comuni. “Con i nostri tre quesiti, prestate attenzione, non chiediamo che sia lo Stato a gestire l’acqua – ha concluso Mattei -. Sia lo Stato che le Corporation sono strutture con un livello di potere concentrato. Noi non vogliamo che si torni indietro. E’ questa la differenza principale tra i nostri tre quesiti e quello di Di Pietro. Noi chiediamo che l’acqua, in quanto bene comune, sia gestito dalla comunità tramite un processo di diffusione del potere al di là di ogni valore di mercato, con il solo scopo di mantenere nei nostri acquedotti un’acqua di qualità buona per tutti”. Un referendum quindi, che non decide solo sulla proprietà dell’acqua ma che potrebbe diventare il punto di leva per una inversione di rotta su temi come la democrazia di base e la gestione partecipata di tutti i beni comuni.
Emergency a Porto Marghera
27/07/2010Terra
Il poliambulatorio sarà inaugurato a settembre e sorgerà a porto Marghera, nella palazzina comunale di via Varé, già sede del centro di salute mentale dell'asl. Questa sarà la seconda struttura che Emergency realizza in Italia dopo l'ambulatorio di Palermo, inaugurata il 3 aprile 2006 e che ha già erogato quasi 35 mila prestazioni.
Responsabili dell'organizzazione della nuova struttura, sono i dottori Mimmo Risica e Guido Pullia. “Nel nostro ambulatorio saranno presenti, oltre ai medici, anche operatori culturali che aiuteranno il nostro personale sanitario a fare da tramite con quanti si rivolgono al nostro servizio – spiega Pullia -. Teniamo presente che molti migranti non hanno la cultura del servizio sanitario gratuito e continuativo. In casi come questi è indispensabile che oltre al medico, il paziente venga avvicinato da operatori culturali che gli spiegano come funziona il servizio sanitario”.
Il primo problema da superare, ha spiegato Pullia, è stato quello di accordarsi con gli ambulatori dell’Asl per garantire ai pazienti curati da Emergency di accedere agli esami medici necessari. Come comportarsi, ad esempio, se a un migrante irregolare occorre una radiografia? “La legge italiana in questi casi stabilisce la possibilità di avere un codice chiamato Stp, che significa straniero temporaneamente presente. Non è una possibilità riservata ai soli clandestini ma anche a quanti in regola col permesso di soggiorno provengono da paesi come ad esempio la Romania che non hanno stipulato accordi con il nostro ministero della sanità. Con questa tessera il migrante può accedere alle prestazioni sanitarie che i nostri medici vorranno prescriverli". L’iniziativa di Emergency ha immediatamente provocato una levata di scudi da parte del centro destra. Antonio Cavaliere, consigliere comunale del Pdl, ha inoltrato una piccata interrogazione al sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, in cui gli chiede di negare l’uso della palazzina sostenendo che la creazione di tale ambulatorio comporterebbe per le casse comunali una spesa eccessiva ed inutile in quanto le prestazioni mediche, in Italia, sarebbero già accessibili a tutti nelle strutture sanitarie pubbliche e private. In Friuli, ad esempio, la regione di centro destra ha già manifestato la propria contrarietà a strutture simili.
“Non vogliamo e possiamo sostituirci all’Asl o al servizio sanitario nazionale – commenta Pullia – ma non possiamo far finta di non sapere che molti migranti non hanno neppure la possibilità di avere un medico di base. Il nostro ambulatorio fornisce questo servizio ed inoltre, grazie ai nostri operatori culturali possiamo fare da tramite, anche per una questione di maggiore fiducia e di disponibilità, tra i migranti e le strutture già esistenti”.
Ecomafie a casa nostra
27/07/2010TerraGrandi opere e traffico dei rifiuti. Due settori che non conoscono crisi. Due settori in cui la criminalità organizzata continua ad investire denaro sporco ed a ricavarne enormi guadagni, condizionando la democrazia e le politiche di gestione del territorio. Le numerose operazioni condotte dai carabinieri del Noe negli ultimi mesi, testimoniano come il Veneto ha assunto un ruolo da protagonista nei traffici illeciti nazionali ed internazionali. Il 24 giugno scorso la procura di Padova ha scoperto un traffico di rifiuti spacciati per materia prima e fatti arrivare nella Repubblica popolare cinese.
Si trattava di sostanze altamente tossiche e pericolose contrabbandate come normali merci o come rifiuti già trattati. L'operazione denominata “Serenissima” ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare e numerosi provvedimenti di arresto domiciliare nei confronti di titolari e dipendenti di aziende dedite alla gestione dei rifiuti a Padova e Rovigo. Le ipotesi di reato contestate agli arrestati sono di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e falso documentale. La procura ha documentato il trattamento di oltre 230 mila tonnellate di rifiuti altamente tossici, per lo più carta e plastica contaminata con inquinanti velenosi di diversa natura, che sono salpati dai porti di Venezia verso la Cina. Il valore dei beni sequestrati si aggira sui 60 milioni di euro per un volume di affari stimato in circa 6 milioni di euro. I rifiuti venivano utilizzati nel paese asiatico per produrre articoli di vario tipo destinati al mercato europeo con evidenti rischi di tossicità tanto gli ignari futuri consumatori di casa nostra quanto per gli operai cinesi costretti a lavorare con materie prime inquinate.
Ancora il porto di Venezia, secondo un rapporto dei carabinieri, è lo svincolo di un’impressionante mole di amianto killer non trattato, trafficato e gestito in maniera criminale: una fibra che secondo gli ultimi dati dell’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro) ucciderebbe in Italia circa 4 mila persone ogni anno. “Il porto di Venezia si rivela, dunque, ancora una volta la testa di ponte di traffici illeciti di rifiuti destinati in Estremo Oriente – ha spiegato Michele Bertucco, responsabile veneto di Legambiente presentando il rapporto Ecomafia 2010 -. Nonostante la crisi economica, l’immenso giro d’affari dei reati contro l’ambiente ha visto aumentare il suo fatturato superando i 20 miliardi di euro all’anno. Il Veneto, in questa speciale classifica dell’illegalità, conferma il suo trend positivo, avanzando posizione su posizione”. Per quanto riguarda i reati accertati, la nostra Regione si colloca nell'undicesima posizione con 777 reati al primo posto la Campania con 4874 infrazioni. Il Veneto è comunque la seconda regione del nord Italia dietro la Liguria con 1231 reati accertati con un forte incremento, come abbiamo visto, nel cosiddetto ciclo dei rifiuti tossici. “Ma va registrato anche come di fronte ad una profonda crisi del settore immobiliare legale, le holding del cemento abusivo stiano facendo affari d'oro - conclude Bertucco -. L’abusivismo organizzato opera in nero in tutta la sua filiera, dall’acquisto dei materiali, alla manodopera e all’utilizzazione e alla vendita del bene, selezionando le occasioni migliori e a maggior valore aggiunto quali ad esempio, ville costiere, cascine in aree naturalisticamente pregiate”.
Si trattava di sostanze altamente tossiche e pericolose contrabbandate come normali merci o come rifiuti già trattati. L'operazione denominata “Serenissima” ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare e numerosi provvedimenti di arresto domiciliare nei confronti di titolari e dipendenti di aziende dedite alla gestione dei rifiuti a Padova e Rovigo. Le ipotesi di reato contestate agli arrestati sono di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e falso documentale. La procura ha documentato il trattamento di oltre 230 mila tonnellate di rifiuti altamente tossici, per lo più carta e plastica contaminata con inquinanti velenosi di diversa natura, che sono salpati dai porti di Venezia verso la Cina. Il valore dei beni sequestrati si aggira sui 60 milioni di euro per un volume di affari stimato in circa 6 milioni di euro. I rifiuti venivano utilizzati nel paese asiatico per produrre articoli di vario tipo destinati al mercato europeo con evidenti rischi di tossicità tanto gli ignari futuri consumatori di casa nostra quanto per gli operai cinesi costretti a lavorare con materie prime inquinate.
Ancora il porto di Venezia, secondo un rapporto dei carabinieri, è lo svincolo di un’impressionante mole di amianto killer non trattato, trafficato e gestito in maniera criminale: una fibra che secondo gli ultimi dati dell’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro) ucciderebbe in Italia circa 4 mila persone ogni anno. “Il porto di Venezia si rivela, dunque, ancora una volta la testa di ponte di traffici illeciti di rifiuti destinati in Estremo Oriente – ha spiegato Michele Bertucco, responsabile veneto di Legambiente presentando il rapporto Ecomafia 2010 -. Nonostante la crisi economica, l’immenso giro d’affari dei reati contro l’ambiente ha visto aumentare il suo fatturato superando i 20 miliardi di euro all’anno. Il Veneto, in questa speciale classifica dell’illegalità, conferma il suo trend positivo, avanzando posizione su posizione”. Per quanto riguarda i reati accertati, la nostra Regione si colloca nell'undicesima posizione con 777 reati al primo posto la Campania con 4874 infrazioni. Il Veneto è comunque la seconda regione del nord Italia dietro la Liguria con 1231 reati accertati con un forte incremento, come abbiamo visto, nel cosiddetto ciclo dei rifiuti tossici. “Ma va registrato anche come di fronte ad una profonda crisi del settore immobiliare legale, le holding del cemento abusivo stiano facendo affari d'oro - conclude Bertucco -. L’abusivismo organizzato opera in nero in tutta la sua filiera, dall’acquisto dei materiali, alla manodopera e all’utilizzazione e alla vendita del bene, selezionando le occasioni migliori e a maggior valore aggiunto quali ad esempio, ville costiere, cascine in aree naturalisticamente pregiate”.
Una Regione in deroga
27/07/2010TerraLa chiamano la legge “ammazza fringuelli”. Ma potrebbero chiamarla anche legge ammazza storni, oppure ammazza peppole, o prispoloni o pispole e via dicendo. Tutte specie di uccelli che hanno in comune due caratteristiche, oltre a quella di essere piccoli volatili insettivori utili all'agricoltura: essere protetti dalla comunità europea di essere ambiti trofei di caccia. Stiamo parlando della cosiddetta “legge deroga” che la Regione Veneto ha varato sin dal 2002 e che ogni estate ripropone per consentire alle doppiette di sparare ad animali che sono tutelati tanto dalla legge italiana che da quella europea, per tacere del semplice buonsenso.
Vale la pena di ricordare che, a tale proposito, la Corte di Giustizia europea il 15 luglio scorso ha condannato l’Italia a pesanti sanzioni per la legge deroga ed è in corso un processo contro il nostro Paese perché questa legge viola la Direttiva Comunitaria “Uccelli”. Ma nonostante questo, la Regione Veneto, che ha tradizionalmente mantiene un canale preferenziale con gli ambienti più retrogradi delle associazioni venatorie, continua imperterrita a riproporre ogni anno il meccanismo della deroga. Solo lo scorso anno, la pesante campagna di ostruzionismo dell’allora consigliere regionale verde Gianfranco Bettin, che depositò oltre 5 chili di emendamenti (più o meno diecimila proposte di modifica), riuscì a bloccare la deroga scatenando le ire dei cacciatori che non a caso cambiarono partito di riferimento: dall’ala ex An del Popolo delle Libertà alla Lega. Ed è proprio la lega infatti che quest’anno si è incaricata di pagare dazio alle doppiette presentando un’altra proposta di legge in deroga per la stagione venatoria che si aprirà a settembre. Il pdl è stato licenziato dalla commissione agricoltura il 20 luglio dove, oltre ai prevedibili voti favorevoli del centrodestra al governo (Lega, Pdl e Udc) ha incassato anche una significativa astensione degli esponenti del partito democratico. Tanto per ricordare agli ambientalisti che non sono loro certo loro l’alternativa a questa destra. Privi di un riferimento verde in consiglio regionale, le associazioni anticaccia hanno deciso di diffidare tutti e sessanta i consigliere regionali a votare a favore di un provvedimento considerato illegittimo e già sanzionato dalla Corte europea. “Bisogna chiedere al Parlamento italiano – ha dichiarato Andrea Zanoni presidente della Lac, lega per l’Abolizione caccia – di approvare una legge con la quale venga previsto che chi paga le spese e le sanzioni europee per la caccia in deroga non siano tutti i cittadini italiani, bensì tutti gli assessori, consiglieri regionali, europarlamentari che hanno approvato queste disposizioni illecite”. Lac, Lav, Enpa, Lipu, Legambiente, Wwf, Anpana, Lida e le altre associazioni contro la caccia hanno lanciato una campagna chiedendo ai sostenitori di farsi sentire in consiglio regionale tempestando di mail, di fax e di telefonate i consiglieri della maggioranza e dell’opposizione per chiedere loro di rispettare, oltre la fauna selvatica, anche la legalità. Il pdl per la caccia in deroga presentato dalla maggioranza di centrodestra andrà ora in consiglio regionale dove nessuno si attende una opposizione neppure di facciata da parte dei democratici.
Vale la pena di ricordare che, a tale proposito, la Corte di Giustizia europea il 15 luglio scorso ha condannato l’Italia a pesanti sanzioni per la legge deroga ed è in corso un processo contro il nostro Paese perché questa legge viola la Direttiva Comunitaria “Uccelli”. Ma nonostante questo, la Regione Veneto, che ha tradizionalmente mantiene un canale preferenziale con gli ambienti più retrogradi delle associazioni venatorie, continua imperterrita a riproporre ogni anno il meccanismo della deroga. Solo lo scorso anno, la pesante campagna di ostruzionismo dell’allora consigliere regionale verde Gianfranco Bettin, che depositò oltre 5 chili di emendamenti (più o meno diecimila proposte di modifica), riuscì a bloccare la deroga scatenando le ire dei cacciatori che non a caso cambiarono partito di riferimento: dall’ala ex An del Popolo delle Libertà alla Lega. Ed è proprio la lega infatti che quest’anno si è incaricata di pagare dazio alle doppiette presentando un’altra proposta di legge in deroga per la stagione venatoria che si aprirà a settembre. Il pdl è stato licenziato dalla commissione agricoltura il 20 luglio dove, oltre ai prevedibili voti favorevoli del centrodestra al governo (Lega, Pdl e Udc) ha incassato anche una significativa astensione degli esponenti del partito democratico. Tanto per ricordare agli ambientalisti che non sono loro certo loro l’alternativa a questa destra. Privi di un riferimento verde in consiglio regionale, le associazioni anticaccia hanno deciso di diffidare tutti e sessanta i consigliere regionali a votare a favore di un provvedimento considerato illegittimo e già sanzionato dalla Corte europea. “Bisogna chiedere al Parlamento italiano – ha dichiarato Andrea Zanoni presidente della Lac, lega per l’Abolizione caccia – di approvare una legge con la quale venga previsto che chi paga le spese e le sanzioni europee per la caccia in deroga non siano tutti i cittadini italiani, bensì tutti gli assessori, consiglieri regionali, europarlamentari che hanno approvato queste disposizioni illecite”. Lac, Lav, Enpa, Lipu, Legambiente, Wwf, Anpana, Lida e le altre associazioni contro la caccia hanno lanciato una campagna chiedendo ai sostenitori di farsi sentire in consiglio regionale tempestando di mail, di fax e di telefonate i consiglieri della maggioranza e dell’opposizione per chiedere loro di rispettare, oltre la fauna selvatica, anche la legalità. Il pdl per la caccia in deroga presentato dalla maggioranza di centrodestra andrà ora in consiglio regionale dove nessuno si attende una opposizione neppure di facciata da parte dei democratici.
Hydrogen Park
20/07/2010TerraE’ la prima centrale ad idrogeno del mondo. Produce energia (quasi) pulita, sufficiente al fabbisogno medio di 20 mila famiglie. Sfrutta un ciclo di lavorazione “chiuso” con emissioni (quasi) zero e vorrebbe essere il primo passo importante lungo il difficile cammino per trasformare il petrolchimico in un polo di energie rinnovabili.
L’Hydrogen Park appena inaugurato a Fusina, cuore energetico di Porto Marghera, è nato nel 2003 da una compartecipazione tra Enel, Regione Veneto, ministero dell'Ambiente e associazione industriali di Venezia. L’idea che sta alla base del progetto è quella di utilizzare a fini energetici l’idrogeno di scarto dei cicli di lavorazione dei vicini impianti industriali.
Il gas viene convogliato in una speciale camera di combustione e quindi bruciato per alimentare una turbine produrre energia elettrica. La centrale appena inaugurata ha una potenza di 12 megawatt, sufficienti al fabbisogno energetico medio di 20 mila famiglie circa. La combustione dell’idrogeno, a differenza del carbone, non produce CO2. I fumi di scarico sono costituiti solo da vapore acqueo e da ossidi di azoto. Questi ultimi sono fortemente inquinanti, ma un impianto di filtraggio consente di abbattere le emissioni a livelli accettabili. Teniamo anche conto che una centrale a carbone della stessa potenza scaraventa nell’atmosfera 20 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ecco perché nel caso dell’idrogeno si parla di emissioni (quasi) zero. L’Hydrogen Park è stato progettato per integrare le installazioni industriali già presenti a Marghera. Il vapore ad alta temperatura risultato dalla combustione del gas, inoltre, viene inviato alla vicina centrale a carbone che aumenta così il suo rendimento di circa il 42 per cento, aggiungendo altri 4 megawatt di potenza. Complessivamente il nuovo impianto fornisce quindi una potenza di 16 megawatt. Un risultato soddisfacente che ha fatto spinto il presidente della regione, Luca Zaia, ha ribadire che “Il Veneto non ha bisogno del nucleare. Il nostro fabbisogno è ampiamente soddisfatto dall’energia che produciamo a casa”. Una svolta ambientalista in casa padana? Niente paura. “Rispetto al fabbisogno del Veneto di 30 gigawatt - ha specificato il governatore Veneto - il bilancio energetico della regione è in pareggio con l’avvio del carbone pulito a Porto Tolle”. Zaia non ha risparmiato un’altra stoccata agli ambientalisti che considerano il concetto di “carbone pulito” un perfetto esempio di ossimoro: “L’impianto a idrogeno dimostra che a noi l’età della pietra non ci piace. La politica energetica va programmata, ma noi ci troviamo a combattere quotidianamente con chi non vuole questa programmazione e vorrebbe tornare all’età della pietra”.
Ma è davvero pulita la centrale ad idrogeno di Fusina? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la provenienza dell’idrogeno che finisce nella camera di combustione della centrale. “L’idrogeno non è una fonte energetica rinnovabile ma un vettore di energia – commenta il verde Ezio Da Villa, già assessore provinciale all’ambiente - possiamo parlare di idrogeno pulito solo se questo idrogeno proviene da fonti rinnovabili, come ad esempio dall’acqua attraverso l’idrolisi. Ma non è il caso della centrale di Fusina che è nata per sfruttare il gas derivante dal cracking o dall’impianto, oggi chiuso, del cloro soda. Come facciamo a parlare di energia pulita quando l’idrogeno bruciato proviene dalla chimica pesante e da lavorazioni altamente inquinanti?”
L’Hydrogen Park appena inaugurato a Fusina, cuore energetico di Porto Marghera, è nato nel 2003 da una compartecipazione tra Enel, Regione Veneto, ministero dell'Ambiente e associazione industriali di Venezia. L’idea che sta alla base del progetto è quella di utilizzare a fini energetici l’idrogeno di scarto dei cicli di lavorazione dei vicini impianti industriali.
Il gas viene convogliato in una speciale camera di combustione e quindi bruciato per alimentare una turbine produrre energia elettrica. La centrale appena inaugurata ha una potenza di 12 megawatt, sufficienti al fabbisogno energetico medio di 20 mila famiglie circa. La combustione dell’idrogeno, a differenza del carbone, non produce CO2. I fumi di scarico sono costituiti solo da vapore acqueo e da ossidi di azoto. Questi ultimi sono fortemente inquinanti, ma un impianto di filtraggio consente di abbattere le emissioni a livelli accettabili. Teniamo anche conto che una centrale a carbone della stessa potenza scaraventa nell’atmosfera 20 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ecco perché nel caso dell’idrogeno si parla di emissioni (quasi) zero. L’Hydrogen Park è stato progettato per integrare le installazioni industriali già presenti a Marghera. Il vapore ad alta temperatura risultato dalla combustione del gas, inoltre, viene inviato alla vicina centrale a carbone che aumenta così il suo rendimento di circa il 42 per cento, aggiungendo altri 4 megawatt di potenza. Complessivamente il nuovo impianto fornisce quindi una potenza di 16 megawatt. Un risultato soddisfacente che ha fatto spinto il presidente della regione, Luca Zaia, ha ribadire che “Il Veneto non ha bisogno del nucleare. Il nostro fabbisogno è ampiamente soddisfatto dall’energia che produciamo a casa”. Una svolta ambientalista in casa padana? Niente paura. “Rispetto al fabbisogno del Veneto di 30 gigawatt - ha specificato il governatore Veneto - il bilancio energetico della regione è in pareggio con l’avvio del carbone pulito a Porto Tolle”. Zaia non ha risparmiato un’altra stoccata agli ambientalisti che considerano il concetto di “carbone pulito” un perfetto esempio di ossimoro: “L’impianto a idrogeno dimostra che a noi l’età della pietra non ci piace. La politica energetica va programmata, ma noi ci troviamo a combattere quotidianamente con chi non vuole questa programmazione e vorrebbe tornare all’età della pietra”.
Ma è davvero pulita la centrale ad idrogeno di Fusina? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la provenienza dell’idrogeno che finisce nella camera di combustione della centrale. “L’idrogeno non è una fonte energetica rinnovabile ma un vettore di energia – commenta il verde Ezio Da Villa, già assessore provinciale all’ambiente - possiamo parlare di idrogeno pulito solo se questo idrogeno proviene da fonti rinnovabili, come ad esempio dall’acqua attraverso l’idrolisi. Ma non è il caso della centrale di Fusina che è nata per sfruttare il gas derivante dal cracking o dall’impianto, oggi chiuso, del cloro soda. Come facciamo a parlare di energia pulita quando l’idrogeno bruciato proviene dalla chimica pesante e da lavorazioni altamente inquinanti?”
Voglie di cemento al Lido
13/07/2010TerraVenezia è storicamente un’isola schierata a sinistra in una regione fortemente schierata a destra. Ma nella laguna c’è anche un’altra isola che marcia in senso contrario. Parliamo del Lido, undici chilometri di terra, sabbia e “murazzi” che separano la laguna dal mare. Il Lido delle spiagge, degli alberghi e della mostra del Cinema. Oggi l’isola rischia di diventare un ennesimo paradiso della speculazione edilizia sottocosta. Un trend, già avviato ai tempi della giunta di Massimo Cacciari che in più occasioni si era scontrata con la municipalità del Lido votata al popolo della libertà. Con la riconferma di una coalizione di destra alla guida dell’Isola d’Oro, come la chiamano i suoi isolani, i pericoli di una deriva amministrativa del tutto subordinata agli interessi speculativi urbanistici sono sempre più marcati.
Per contrastare la cementificazione e l’alberghizzazione del Lido si è costituito un comitato trasversale la cui prima uscita ufficiale sarà domani, mercoledì 14 luglio, alle ore 21, nella sala della municipalità lidense con un incontro pubblico al quale parteciperanno l’assessore comunale all’ambiente, Gianfranco Bettin, l’urbanista Roberto d’Agostino e il coordinatore delle associazioni ambientaliste dell’isola, Bruno Amendola.
Il punto focale attorno al quale ruotano gli interessi speculativi dell’isola è il commissariamento dei lavori per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema. Ennesima grande opera della quale ben pochi in laguna avvertivano la necessità. Fatto sta che, con la scusa che il palazzone doveva essere assolutamente inaugurato nel giugno 2011 in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia – appuntamento che col cinema centra comunque ben poco – il Governo la imposto un Commissario governativo della Protezione Civile, Vincenzo Spaziante. L’obiettivo è sempre quello: velocizzare le pratiche, snellire i burocraticismi, eccetera eccetera. Poco alla volta, con l’incoraggiamento della Regione Veneto e con i democratici di Venezia che si guardano bene dal provare a contrastarlo, il commissario finisce per mangiarsi tutto il Lido e le isole adiacenti: prima viene incaricato a pieni poteri di sovrintendere al rilancio di tutta l’isola, poi gli viene dato mandato di rilanciare il parco della vicina isola della Certosa. Il commissario ha quindi il potere, su mandato del Governo centrale (la Roma ladrona dei leghisti) di decidere cosa, dove, quanto e come edificare, alla faccia del Comune e del piano regolatore, senza dover rispettare normative urbanistiche ed edilizie, pareri e visti della Commissione di Salvaguardia.
Il commissariamento dell’isola avviene in concomitanza con l’acquisizione di vari immobili e aree da parte di una grande finanziaria, la Est Capital che subito compra i due più grandi alberghi storici del Lido, l’Excelsior e il Des Bains. Su quest’ultimo sono già in corso i lavori per trasformarlo in Residence lusso. Quindi la Est Capital acquisisce l’area dell’ex Ospedale al Mare e il forte di Malamocco. Aree verdi che diventano improvvisamente edificabili. Non c’è nessun obbligo di rispettare parchi, costruzioni storiche e di pregio architettonico, luoghi di interesse artistico e ambientale. Tutto sotto la betoniera per far spazio ad alberghi, villette, condomini, piscine e centri commerciali.
Questa gigantesca operazione immobiliare viene promossa dal commissario governativo e avallata senza una voce di critica dalla Conferenza dei Servizi e dalla stessa Sovrintendente ai Beni artistici e ambientali. Eppure i progetti prevedono edifici di venti metri e passa, di devastante impatto paesaggistico e ambientale. Per non parlare dei “villini di lusso” all’interno del Forte di Malamocco che ne offendono la sua dignità storica. Quel che è peggio, è che tutta l’operazione viene decisa tenendo all’oscuro gli abitanti del Lido che avranno anche votato per il centrodestra ma che, ci auguriamo, non intendevano con questo dare una delega in bianco a Spaziante per far piazza pulita della loro isola a vantaggio di cementificatori e speculatori. E in cambio di che cosa poi? Di un nuovo palazzo del cinema? Macché! Per quello bisognerà aspettare il 200esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Spaziante ha già dichiarato che, per varie e ineludibili contingenze, sarà impossibile rispettare i tempi previsti. Basta fare un salto al cantiere del nuovo palazzone per costatare che non ci lavora più nessuno da mesi. Che cosa ha fatto allora il nostro commissario della protezione civile in tutto questo tempo? Ha raso al suolo una indimenticabile pineta che era là dal tempo dei dogi, ha devastare un giardino storico tutelato dal Palav, ha distrutto la storica scalinata del Casinò e cementato un bel po’ di aree verdi come quelle che sorgevano in via Selva e nella "curva della morte" a Malamocco. Nessuno, nessuno può accusarlo di non essersi dato da fare.
Per contrastare la cementificazione e l’alberghizzazione del Lido si è costituito un comitato trasversale la cui prima uscita ufficiale sarà domani, mercoledì 14 luglio, alle ore 21, nella sala della municipalità lidense con un incontro pubblico al quale parteciperanno l’assessore comunale all’ambiente, Gianfranco Bettin, l’urbanista Roberto d’Agostino e il coordinatore delle associazioni ambientaliste dell’isola, Bruno Amendola.
Il punto focale attorno al quale ruotano gli interessi speculativi dell’isola è il commissariamento dei lavori per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema. Ennesima grande opera della quale ben pochi in laguna avvertivano la necessità. Fatto sta che, con la scusa che il palazzone doveva essere assolutamente inaugurato nel giugno 2011 in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia – appuntamento che col cinema centra comunque ben poco – il Governo la imposto un Commissario governativo della Protezione Civile, Vincenzo Spaziante. L’obiettivo è sempre quello: velocizzare le pratiche, snellire i burocraticismi, eccetera eccetera. Poco alla volta, con l’incoraggiamento della Regione Veneto e con i democratici di Venezia che si guardano bene dal provare a contrastarlo, il commissario finisce per mangiarsi tutto il Lido e le isole adiacenti: prima viene incaricato a pieni poteri di sovrintendere al rilancio di tutta l’isola, poi gli viene dato mandato di rilanciare il parco della vicina isola della Certosa. Il commissario ha quindi il potere, su mandato del Governo centrale (la Roma ladrona dei leghisti) di decidere cosa, dove, quanto e come edificare, alla faccia del Comune e del piano regolatore, senza dover rispettare normative urbanistiche ed edilizie, pareri e visti della Commissione di Salvaguardia.
Il commissariamento dell’isola avviene in concomitanza con l’acquisizione di vari immobili e aree da parte di una grande finanziaria, la Est Capital che subito compra i due più grandi alberghi storici del Lido, l’Excelsior e il Des Bains. Su quest’ultimo sono già in corso i lavori per trasformarlo in Residence lusso. Quindi la Est Capital acquisisce l’area dell’ex Ospedale al Mare e il forte di Malamocco. Aree verdi che diventano improvvisamente edificabili. Non c’è nessun obbligo di rispettare parchi, costruzioni storiche e di pregio architettonico, luoghi di interesse artistico e ambientale. Tutto sotto la betoniera per far spazio ad alberghi, villette, condomini, piscine e centri commerciali.
Questa gigantesca operazione immobiliare viene promossa dal commissario governativo e avallata senza una voce di critica dalla Conferenza dei Servizi e dalla stessa Sovrintendente ai Beni artistici e ambientali. Eppure i progetti prevedono edifici di venti metri e passa, di devastante impatto paesaggistico e ambientale. Per non parlare dei “villini di lusso” all’interno del Forte di Malamocco che ne offendono la sua dignità storica. Quel che è peggio, è che tutta l’operazione viene decisa tenendo all’oscuro gli abitanti del Lido che avranno anche votato per il centrodestra ma che, ci auguriamo, non intendevano con questo dare una delega in bianco a Spaziante per far piazza pulita della loro isola a vantaggio di cementificatori e speculatori. E in cambio di che cosa poi? Di un nuovo palazzo del cinema? Macché! Per quello bisognerà aspettare il 200esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Spaziante ha già dichiarato che, per varie e ineludibili contingenze, sarà impossibile rispettare i tempi previsti. Basta fare un salto al cantiere del nuovo palazzone per costatare che non ci lavora più nessuno da mesi. Che cosa ha fatto allora il nostro commissario della protezione civile in tutto questo tempo? Ha raso al suolo una indimenticabile pineta che era là dal tempo dei dogi, ha devastare un giardino storico tutelato dal Palav, ha distrutto la storica scalinata del Casinò e cementato un bel po’ di aree verdi come quelle che sorgevano in via Selva e nella "curva della morte" a Malamocco. Nessuno, nessuno può accusarlo di non essersi dato da fare.
La cultura ed i parcheggi sotto il balcone di Giulietta
13/07/2010TerraDi che pasta fosse fatto Flavio Tosi, primo cittadino di Verona, lo si era capito una settimana dopo la sua elezione, quando aveva nominato di suo pugno, alla presidenza dell’associazione per gli studi sulla Resistenza, un esponente di Forza Nuova. E se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è neppure da stupirsi più di tanto del macello che la sua amministrazione sta facendo del patrimonio museale della città di Romeo e Giulietta.
Casomai c’è solo da vergognarsi a vedere che certe svendite di palazzi pubblici a prezzi stracciati, certe collezioni scientifiche di valore mondiale ammassate a marcire negli scantinati, destino più scandalo nei giornali d’oltralpe che nei quotidiani locali. Per non parlare della rassegnazione con la quale la cittadinanza – partiti di opposizione compresi – accetta la situazione e china il capo di fronte ad un sindaco che sbotta “Meglio fare un parcheggio che conservare quattro sassi» con lo stesso tono con il quale nel Ventennio si argomentava con un bel “Me ne frego” e contorno di manganellate. Cosa che per altro i suoi vigili hanno fatto in più di una occasione contro rom, senza casa e altri disgraziati. Ma andiamo con ordine e cominciamo a vedere quali sono i “quattro sassi” che tanto stanno sulle scatole al sindaco Tosi. Non serve essere archeologi per aver sentito perlomeno accennare ai ritrovamenti di fossili nei monti Lessini dove hanno vissuto sino a 33 mila anni fa gli ultimi uomini di neandertal. Istituti di ricerca prestigiosi come il Weizmann Institute di Gerusalemme e il Max Planck Institute di Liepzig, analizzando il Dna di alcuni frammenti di questi fossili hanno dimostrato come i neandertaliani avessero gli occhi azzurri e i capelli rossi (ben diversi da quella sorta di “scimmioni” dipinti in tanti tasti scolastici) e nello stesso tempo hanno escluso ogni parentela con il sapiens moderno, che pure, 33 mila anni era già diventata la specie dominante. La scoperta si è meritata, tra l’altro, anche la copertina di un numero della celebre rivista Science. Questi sarebbero i “quattro sassi” di Tosi. Ma no è tutto: bisogna aggiungere anche le selci preistoriche scavate nelle cave più antiche d’Europa, i ritrovamenti nel villaggio palafitticolo sul Garda, probabilmente il più conosciuto a livello mondiale, i resti della galea di Lasize, l’unica “nave lunga” (cioè da guerra) veneziana, sino ad ora scoperta, che hanno scritto la storia dell’archeosub e dell’archeologia navale. E ci fermiamo qua, anche se ci sarebbe da ricordare perlomeno i bronzi della necropoli preistorica di Franzine Nuove. Questi “quattro sassi” che non valgono un bel parcheggio, facevano parte del museo civico di storia naturale di Verona. Museo che da 13 anni non ha neppure un direttore. Tanto per capire il peso che ha la cultura nella città scaligera. Le collezioni sino a poco tempo fa, erano ammassate tra palazzo Gobetti e palazzo Pompei, prima in quattro stanze e poi, siccome quattro parevano troppe, in un solo stanzone. Sistemazione indecorosa ma perlomeno sufficiente a salvaguardare i reperti. Ed è qui che entra in scena Flavio Tosi. L’idea di partenza, va detto, non sarebbe neppure malvagia. Ristrutturare il vecchio Arsenale militare e trasferire là i “quattro sassi”. Il problema è che il progetto di ristrutturazione – l’amministrazione di Verona fa le cose in grande – chiesto ad un architetto di fama mondiale, costa una vagonata di milioni. Dove trovare i soldi? Ed è qui che entra in scena il federalismo demaniale. Come dire: quando pensi di aver toccato il fondo, comincia a scavare. L’amministrazione decide di mettere in vendita i gioielli di casa tra cui i palazzi Gobetti e Pompei. Il museo chiude quindi i battenti e i “quattro sassi” vengono impacchettati alla bell’è meglio e spediti a marcire nei sotterranei dell’Arsenale, dove sono tutt’ora e dove resteranno per un pezzo. Con i due palazzi storici, vanno all’asta anche Castel San Pietro, palazzo Forti, l’ex convento di San Domenico. Le banche veronesi ringraziano il loro sindaco. Per le svendite, ma soprattutto per la delibera che le accompagna e che consente agli acquirenti, testuale, “la più ampia possibilità di utilizzo”. In pratica, potranno sventrare il palazzo storico per farci un Mac Donald, un outlet di lusso o un’altra casa di Giulietta in stile Disneyland. Ma anche per il prezzo le banche ringraziano. Per far cassa “tutto e subito” nel più puro stile “federalismo demaniale”, in sede d’asta i prezzi sono stati abbattuti al limite del regalo. Per palazzo Forti, la Cariverona ha tirato fuori 33 milioni invece dei 65 richiesti. Per palazzo Gobetti, i 10 milioni di partenza sono scesi a poco più di 6. Neanche al mercato delle pulci ti scontano con queste percentuali. Alla fine dell’asta, tirando due conti della serva, Verona non ha messo in cassa neppure un quarto di quei 115 milioni ipotizzati. Beh, qualcuno osserverà, perlomeno sistemeranno parte delle collezioni del museo! Buonanotte. Il sindaco Tosi l’ha già spiegato che preferisce un bel parcheggio di cemento a quei quattro sassi che, tra l’altro si sono già rovinati a stare in una insalubre cantina. Già. Perché le selci preistoriche, per uno strano fenomeno che non ha ancora trovato spiegazione, sono diventate tutte di colore blu. Cosa ne faranno allora dei soldi ricavati con questi affaroni da “3 x 2”? Parcheggi a parte, un milione se ne è già andato in un paio di rotatorie. Un altro milione e 100 mila euro è stato regalato ad una società sportiva che al sindaco Tosi evidentemente rievoca vecchi furori di giovinezza: l’Audace.
Casomai c’è solo da vergognarsi a vedere che certe svendite di palazzi pubblici a prezzi stracciati, certe collezioni scientifiche di valore mondiale ammassate a marcire negli scantinati, destino più scandalo nei giornali d’oltralpe che nei quotidiani locali. Per non parlare della rassegnazione con la quale la cittadinanza – partiti di opposizione compresi – accetta la situazione e china il capo di fronte ad un sindaco che sbotta “Meglio fare un parcheggio che conservare quattro sassi» con lo stesso tono con il quale nel Ventennio si argomentava con un bel “Me ne frego” e contorno di manganellate. Cosa che per altro i suoi vigili hanno fatto in più di una occasione contro rom, senza casa e altri disgraziati. Ma andiamo con ordine e cominciamo a vedere quali sono i “quattro sassi” che tanto stanno sulle scatole al sindaco Tosi. Non serve essere archeologi per aver sentito perlomeno accennare ai ritrovamenti di fossili nei monti Lessini dove hanno vissuto sino a 33 mila anni fa gli ultimi uomini di neandertal. Istituti di ricerca prestigiosi come il Weizmann Institute di Gerusalemme e il Max Planck Institute di Liepzig, analizzando il Dna di alcuni frammenti di questi fossili hanno dimostrato come i neandertaliani avessero gli occhi azzurri e i capelli rossi (ben diversi da quella sorta di “scimmioni” dipinti in tanti tasti scolastici) e nello stesso tempo hanno escluso ogni parentela con il sapiens moderno, che pure, 33 mila anni era già diventata la specie dominante. La scoperta si è meritata, tra l’altro, anche la copertina di un numero della celebre rivista Science. Questi sarebbero i “quattro sassi” di Tosi. Ma no è tutto: bisogna aggiungere anche le selci preistoriche scavate nelle cave più antiche d’Europa, i ritrovamenti nel villaggio palafitticolo sul Garda, probabilmente il più conosciuto a livello mondiale, i resti della galea di Lasize, l’unica “nave lunga” (cioè da guerra) veneziana, sino ad ora scoperta, che hanno scritto la storia dell’archeosub e dell’archeologia navale. E ci fermiamo qua, anche se ci sarebbe da ricordare perlomeno i bronzi della necropoli preistorica di Franzine Nuove. Questi “quattro sassi” che non valgono un bel parcheggio, facevano parte del museo civico di storia naturale di Verona. Museo che da 13 anni non ha neppure un direttore. Tanto per capire il peso che ha la cultura nella città scaligera. Le collezioni sino a poco tempo fa, erano ammassate tra palazzo Gobetti e palazzo Pompei, prima in quattro stanze e poi, siccome quattro parevano troppe, in un solo stanzone. Sistemazione indecorosa ma perlomeno sufficiente a salvaguardare i reperti. Ed è qui che entra in scena Flavio Tosi. L’idea di partenza, va detto, non sarebbe neppure malvagia. Ristrutturare il vecchio Arsenale militare e trasferire là i “quattro sassi”. Il problema è che il progetto di ristrutturazione – l’amministrazione di Verona fa le cose in grande – chiesto ad un architetto di fama mondiale, costa una vagonata di milioni. Dove trovare i soldi? Ed è qui che entra in scena il federalismo demaniale. Come dire: quando pensi di aver toccato il fondo, comincia a scavare. L’amministrazione decide di mettere in vendita i gioielli di casa tra cui i palazzi Gobetti e Pompei. Il museo chiude quindi i battenti e i “quattro sassi” vengono impacchettati alla bell’è meglio e spediti a marcire nei sotterranei dell’Arsenale, dove sono tutt’ora e dove resteranno per un pezzo. Con i due palazzi storici, vanno all’asta anche Castel San Pietro, palazzo Forti, l’ex convento di San Domenico. Le banche veronesi ringraziano il loro sindaco. Per le svendite, ma soprattutto per la delibera che le accompagna e che consente agli acquirenti, testuale, “la più ampia possibilità di utilizzo”. In pratica, potranno sventrare il palazzo storico per farci un Mac Donald, un outlet di lusso o un’altra casa di Giulietta in stile Disneyland. Ma anche per il prezzo le banche ringraziano. Per far cassa “tutto e subito” nel più puro stile “federalismo demaniale”, in sede d’asta i prezzi sono stati abbattuti al limite del regalo. Per palazzo Forti, la Cariverona ha tirato fuori 33 milioni invece dei 65 richiesti. Per palazzo Gobetti, i 10 milioni di partenza sono scesi a poco più di 6. Neanche al mercato delle pulci ti scontano con queste percentuali. Alla fine dell’asta, tirando due conti della serva, Verona non ha messo in cassa neppure un quarto di quei 115 milioni ipotizzati. Beh, qualcuno osserverà, perlomeno sistemeranno parte delle collezioni del museo! Buonanotte. Il sindaco Tosi l’ha già spiegato che preferisce un bel parcheggio di cemento a quei quattro sassi che, tra l’altro si sono già rovinati a stare in una insalubre cantina. Già. Perché le selci preistoriche, per uno strano fenomeno che non ha ancora trovato spiegazione, sono diventate tutte di colore blu. Cosa ne faranno allora dei soldi ricavati con questi affaroni da “3 x 2”? Parcheggi a parte, un milione se ne è già andato in un paio di rotatorie. Un altro milione e 100 mila euro è stato regalato ad una società sportiva che al sindaco Tosi evidentemente rievoca vecchi furori di giovinezza: l’Audace.
La Goletta sulla coste venete
6/07/2010TerraAbusivismo edilizio, pesca non sostenibile, depuratori (che non ci sono e che quando ci sono non funzionano), scarichi fognari insufficienti e persistente inquinamento da idrocarburi. La fotografia dello stato delle coste venete scattata da Legambiente è impietosa. L’associazione ambientalista è approdata in laguna con la sua celebre goletta per lanciare la campagna Mare Monstrum e “dare i numeri” della qualità ambientale di quello che un tempo i latini avevano battezzato Mare Nostrum.
Le cattive notizie per il mare veneto – ha spiegato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - viaggiano lungo i corsi dei fiumi e arrivano dalle foci dei corsi d’acqua, che rappresentano tre dei cinque punti critici rilevati dall’imbarcazione ambientalista. Fortemente inquinate le foce dell’Adige, del Livenza e del Lemene, dove arriva il canale in cui scarica il depuratore. Gravemente contaminati anche i punti campionati nei comuni di San Michele al Tagliamento e Venezia, nelle località Bibione e Campalto, a valle dei rispettivi depuratori.
Il primo nemico del nostro mare sono gli scarichi non depurati o insufficientemente depurati.
All’incirca soltanto il 78% della rete fognaria risulta coperto da impianti di depurazione. Il che significa che oltre un milione di residenti del Veneto (in particolare nel trevigiano) rimane escluso dal servizio di decontaminazione delle acque reflue. Questa è la principale causa della forte contaminazione microbiologica rilevata nella acque marine venete dove la Goletta Verde ha rilevato una concentrazione di inquinamento microbiologico ben oltre i limiti di legge anche tenendo conto delle nuove normative in materia di balneazione, molto più permissive delle precedenti varate dal Governo con decreto legge.
Ma il pericolo, ha sottolineato l’indagine di Legambiente, non proviene solo dai batteri. Cemento selvaggio, speculazioni edilizie e consumo scriteriato del suolo sono il pericolo numero uno delle nostre coste. Un esempio per tutti, lo sfacelo che si sta consumando al Lido di Venezia. “La zona dell’ex Ospedale al Mare e il parco della Favorita – ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Venezia - si stanno trasformando in una ghiotta occasione per il ‘partito del cemento’. L’area, già venduta dal Comune di Venezia per 81 milioni di euro, somma destinata a finanziare il nuovo Palazzo del Cinema, è stata acquistata da Est Capital Sgr, finanziaria padovana presieduta da Gianfranco Mossetto, per realizzare un grande centro residenziale con case di lusso, albergo, centri commerciali, negozi, piscina e parcheggi sotterranei. Peccato che la delibera del consiglio comunale prevedesse solo ‘un’edificazione massima di due edifici di altezza di 9,50 e 12,50 metri, su una porzione corrispondente a un quarto dell’area interessata, riservando la restante superficie a verde sportivo’, mentre il progetto di Est Capital prevede un piano di edificazione residenziale costituito da una trentina di ville da circa 200 metri cubi ciascuna, accanto alle quali dovrebbero svettare anche tre torri alte 20 metri. Cubature che finirebbero per coprire per intero l’area della Favorita”. In sostanza, siamo di fronte alla volontà di fare piazza pulita del parco della Favorita e di edificare una zona oggi ben conservata del litorale del Lido. La solita operazione di lottizzazione edilizia spacciata come intervento di riqualificazione.
“Terremo nella massima considerazione i dati raccolti e presentati da Goletta Verde di Legambiente – ha commentato l'assessore comunale all'Ambiente, Gianfranco Bettin - specialmente i dati relativi alla situazione di stress del mare Adriatico e, in generale, alle ferite subite dal territorio e dall’ambiente nella nostra realtà. Per quanto riguarda la situazione nel Comune di Venezia, troviamo confermate le nostre preoccupazioni per l’arrivo in laguna di inquinanti attraverso i corsi d’acqua dovuto alla mancata depurazione di acque che, dall’entroterra giungono in laguna. L’altro aspetto critico riguardante l’impatto del grande investimento immobiliare di Est Capital al Lido, che molto preoccupa l’associazione ambientalista. L’attuale amministrazione è, fin dal primo giorno, impegnata nel confronto con i promotori dell’intervento e con il commissario straordinario Spaziante, per verificare il reale impatto del progetto e i margini tuttora esperibili per ridurne l’impatto ambientale”.
Le cattive notizie per il mare veneto – ha spiegato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - viaggiano lungo i corsi dei fiumi e arrivano dalle foci dei corsi d’acqua, che rappresentano tre dei cinque punti critici rilevati dall’imbarcazione ambientalista. Fortemente inquinate le foce dell’Adige, del Livenza e del Lemene, dove arriva il canale in cui scarica il depuratore. Gravemente contaminati anche i punti campionati nei comuni di San Michele al Tagliamento e Venezia, nelle località Bibione e Campalto, a valle dei rispettivi depuratori.
Il primo nemico del nostro mare sono gli scarichi non depurati o insufficientemente depurati.
All’incirca soltanto il 78% della rete fognaria risulta coperto da impianti di depurazione. Il che significa che oltre un milione di residenti del Veneto (in particolare nel trevigiano) rimane escluso dal servizio di decontaminazione delle acque reflue. Questa è la principale causa della forte contaminazione microbiologica rilevata nella acque marine venete dove la Goletta Verde ha rilevato una concentrazione di inquinamento microbiologico ben oltre i limiti di legge anche tenendo conto delle nuove normative in materia di balneazione, molto più permissive delle precedenti varate dal Governo con decreto legge.
Ma il pericolo, ha sottolineato l’indagine di Legambiente, non proviene solo dai batteri. Cemento selvaggio, speculazioni edilizie e consumo scriteriato del suolo sono il pericolo numero uno delle nostre coste. Un esempio per tutti, lo sfacelo che si sta consumando al Lido di Venezia. “La zona dell’ex Ospedale al Mare e il parco della Favorita – ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Venezia - si stanno trasformando in una ghiotta occasione per il ‘partito del cemento’. L’area, già venduta dal Comune di Venezia per 81 milioni di euro, somma destinata a finanziare il nuovo Palazzo del Cinema, è stata acquistata da Est Capital Sgr, finanziaria padovana presieduta da Gianfranco Mossetto, per realizzare un grande centro residenziale con case di lusso, albergo, centri commerciali, negozi, piscina e parcheggi sotterranei. Peccato che la delibera del consiglio comunale prevedesse solo ‘un’edificazione massima di due edifici di altezza di 9,50 e 12,50 metri, su una porzione corrispondente a un quarto dell’area interessata, riservando la restante superficie a verde sportivo’, mentre il progetto di Est Capital prevede un piano di edificazione residenziale costituito da una trentina di ville da circa 200 metri cubi ciascuna, accanto alle quali dovrebbero svettare anche tre torri alte 20 metri. Cubature che finirebbero per coprire per intero l’area della Favorita”. In sostanza, siamo di fronte alla volontà di fare piazza pulita del parco della Favorita e di edificare una zona oggi ben conservata del litorale del Lido. La solita operazione di lottizzazione edilizia spacciata come intervento di riqualificazione.
“Terremo nella massima considerazione i dati raccolti e presentati da Goletta Verde di Legambiente – ha commentato l'assessore comunale all'Ambiente, Gianfranco Bettin - specialmente i dati relativi alla situazione di stress del mare Adriatico e, in generale, alle ferite subite dal territorio e dall’ambiente nella nostra realtà. Per quanto riguarda la situazione nel Comune di Venezia, troviamo confermate le nostre preoccupazioni per l’arrivo in laguna di inquinanti attraverso i corsi d’acqua dovuto alla mancata depurazione di acque che, dall’entroterra giungono in laguna. L’altro aspetto critico riguardante l’impatto del grande investimento immobiliare di Est Capital al Lido, che molto preoccupa l’associazione ambientalista. L’attuale amministrazione è, fin dal primo giorno, impegnata nel confronto con i promotori dell’intervento e con il commissario straordinario Spaziante, per verificare il reale impatto del progetto e i margini tuttora esperibili per ridurne l’impatto ambientale”.
Venezia United. Una squadra per tutte le stagioni
6/07/2010Terra
Eppure anche questo è calcio. Anzi, potremmo dire che proprio questo è il calcio. Il calcio che ci piace, lontano da scandali, veline, sponsorizzazioni miliardarie e capitali di dubbia provenienza. Utopie? Può darsi. Ma “fioi, ghea podemo far!” Ragazzi, ce la possiamo fare! Più un incoraggiamento che uno slogan, questo che capeggiava sopra lo striscione appeso, mercoledì 30 giugno al Palaplip di Mestre, durante l’assemblea costitutiva di Venezia United. Di che si tratta? Venezia United è una neonata associazione con lo scopo di creare una “public company” che affianchi gli attuali proprietari della squadra del Venezia. In pratica, Venezia United ha lanciato un’operazione di azionariato popolare per trasformare i tifosi da semplici spettatori a proprietari della loro squadra del cuore. Nel Belpaese, dove il calcio si misura col metro dei milioni di euro, pare quasi di bestemmiare a raccontare di impiegati, operai, casalinghe, studenti, commercianti e gondolieri (siamo pur sempre a Venezia) che si costituiscono in società per comperarsi la loro squadra. Eppure oltralpe, dove l’azionariato popolare ha ben altra tradizione, il fenomeno è consolidato e vanta precedenti illustri come, tanto per portare un paio di beneauguranti esempi, Barcellona e l'F. C. United of Manchester.
Il Football Club Unione Venezia – così si chiama la squadra di casa reduce da una lunga ed ininterrotta serie di fallimenti e retrocessioni che l’hanno vista sprofondare dalla serie B al campionato dilettante – sta per diventare il primo, e sino ad ora anche unico, club italiano a partecipazione pubblica. Non a caso, a tenere a battesimo la nuova associazione, costituita da tanti tifosi storici arancioneroverdi, è stato il Comune di Venezia con il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore allo sport Andrea Ferrazzi che hanno garantito il costante impegno dell’amministrazione ad accompagnare Venezia United su questo difficile percorso.
Per “far parte di un sogno” e diventare “proprietario del tuo club”, come si legge nei depliant distribuiti dalla nuova public company, è sufficiente acquistare una azione da 10 euro o da 50 (quota sostenitore). Per le aziende è prevista una “partnership for business” di 500 euro o più con rilascio di regolare fattura e relativa deducibilità fiscale. Il primo obiettivo è di associare 3 mila persone e raccogliere 300 mila euro da investire nell’aumento del capitale sociale del Fbc Unione Venezia. “All’interno dell’associazione ogni socio avrà diritto ad un voto, indipendentemente dal numero di azioni in suo possesso – spiega Franco Vianello Moro, eletto presidente pressoché all’unanimità dall’assemblea costituente-. Venezia United è una associazione aperta a tutti e vuole rispondere in maniera positiva alla crisi generalizzata del calcio. C’è tanto da lavorare, ma la grande e qualificata partecipazione della cittadinanza alla fase propedeutica di questa iniziativa, ci stimola e conforta. Il sostegno e la partecipazione della gente aiuterà ad aprire un processo virtuoso di cui si sente tanto il bisogno in questo calcio prefallimentare o fallito".
Veneto record. Di evasori fiscali
6/07/2010TerraVi siete mai chiesti da dove tragga combustibile la decantata “locomotiva veneta”? Una risposta potrebbe essere quella che ha dato la Guardia di Finanza qualche giorno fa, quando ha celebrato il suo 236esimo anniversario: dall’evasione fiscale.
Perché, se è vero che la pressione fiscale nel nordest è più elevata che in altre regioni d’Italia (in media un veneto versa allo Stato 9 mila 500 euro all’anno contro i 5 mila e 200 della Puglia e i 4mila e 900 dei calabresi, tanto per citare due regioni in fondo alla classifica dei contribuenti), è anche vero che il record degli evasori totali è tutto nostro. Ed è pure un fenomeno in forte crescita, considerando che nei soli primi cinque mesi di quest’anno, i finanzieri ne hanno scoperto e denunciato ben 338 “furbetti”, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. Ha un bel dire il neo governatore Luca Zaia che “nel Veneto l’illegalità fiscale è davvero una realtà molto piccola”. I dati lo smentiscono alla grande. La Guardia di Finanza ha documentato nel laborioso e onesto Veneto, una evasione totale all’Iva di 270 milioni di euro e una mancata dichiarazione di reddito di circa un miliardo e trecento milioni. Le frodi fiscali con fatturazioni false sono state, parliamo sempre dello scorso anno, 411. E anche questo è una percentuale in aumento: 22% in più rispetto all’anno precedente. Un dato sorprendente è quello che riguarda le contraffazioni: le indagini della Guardia di Finanza nel Veneto hanno portato al sequestro di ben 5 milioni di euro di mercanzia. Per dirla in percentuale, il 10% dei sequestri operati in Italia sono “cosa nostra”.
Insomma, evadere il fisco rimane lo sport preferito dei nostri imprenditori. E, considerato che viviamo in un mondo “globalizzato”, pure le evasioni fiscali sono state “globalizzate”: oltre 231 milioni di euro sono stati sottratti alla tassazione internazionale per finire in uno dei tanti paradisi fiscali. Un modo come un altro per esportare il “Made in Veneto” in tutto il mondo!
Ma il dato più inquietante portato allo scoperto dalle indagini della guardia di finanza, riguarda il fenomeno del lavoro nero. Lo sfruttamento, in particolare di categorie deboli e scarsamente sindacalizzate come donne e migranti, ha come conseguenza anche il mancato versamento da parte dell’imprenditore di tasse e contributi vari allo Stato (oltre che al lavoratore sfruttato). Sotto questa lente, le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato allo denuncia di 839 casi di persone costrette a lavoratore completamente in nero e di 372 lavoratori irregolari. Un dato sicuramente sottostimato, a detta della stessa Guardia di Finanza, perché non tiene conto di tutti quei migranti che si sono macchiati del “reato di clandestinità” e sono al di là di qualsiasi controllo, oltre che tutela. Anche questa, una conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione. "Il compito della polizia economica nel nordest - ha spiegato il generale della Guardia di Finanza Pasquale Debidda - è quello di assicurare le condizioni ideali del mercato garantendo una equità fiscale”. Garantire anche una equità sociale non è compito delle Fiamme Gialle. Ma farebbe comunque bene ad un mercato che non sia solo sfruttamento del lavoro e delle risorse comuni.
Perché, se è vero che la pressione fiscale nel nordest è più elevata che in altre regioni d’Italia (in media un veneto versa allo Stato 9 mila 500 euro all’anno contro i 5 mila e 200 della Puglia e i 4mila e 900 dei calabresi, tanto per citare due regioni in fondo alla classifica dei contribuenti), è anche vero che il record degli evasori totali è tutto nostro. Ed è pure un fenomeno in forte crescita, considerando che nei soli primi cinque mesi di quest’anno, i finanzieri ne hanno scoperto e denunciato ben 338 “furbetti”, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. Ha un bel dire il neo governatore Luca Zaia che “nel Veneto l’illegalità fiscale è davvero una realtà molto piccola”. I dati lo smentiscono alla grande. La Guardia di Finanza ha documentato nel laborioso e onesto Veneto, una evasione totale all’Iva di 270 milioni di euro e una mancata dichiarazione di reddito di circa un miliardo e trecento milioni. Le frodi fiscali con fatturazioni false sono state, parliamo sempre dello scorso anno, 411. E anche questo è una percentuale in aumento: 22% in più rispetto all’anno precedente. Un dato sorprendente è quello che riguarda le contraffazioni: le indagini della Guardia di Finanza nel Veneto hanno portato al sequestro di ben 5 milioni di euro di mercanzia. Per dirla in percentuale, il 10% dei sequestri operati in Italia sono “cosa nostra”.
Insomma, evadere il fisco rimane lo sport preferito dei nostri imprenditori. E, considerato che viviamo in un mondo “globalizzato”, pure le evasioni fiscali sono state “globalizzate”: oltre 231 milioni di euro sono stati sottratti alla tassazione internazionale per finire in uno dei tanti paradisi fiscali. Un modo come un altro per esportare il “Made in Veneto” in tutto il mondo!
Ma il dato più inquietante portato allo scoperto dalle indagini della guardia di finanza, riguarda il fenomeno del lavoro nero. Lo sfruttamento, in particolare di categorie deboli e scarsamente sindacalizzate come donne e migranti, ha come conseguenza anche il mancato versamento da parte dell’imprenditore di tasse e contributi vari allo Stato (oltre che al lavoratore sfruttato). Sotto questa lente, le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato allo denuncia di 839 casi di persone costrette a lavoratore completamente in nero e di 372 lavoratori irregolari. Un dato sicuramente sottostimato, a detta della stessa Guardia di Finanza, perché non tiene conto di tutti quei migranti che si sono macchiati del “reato di clandestinità” e sono al di là di qualsiasi controllo, oltre che tutela. Anche questa, una conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione. "Il compito della polizia economica nel nordest - ha spiegato il generale della Guardia di Finanza Pasquale Debidda - è quello di assicurare le condizioni ideali del mercato garantendo una equità fiscale”. Garantire anche una equità sociale non è compito delle Fiamme Gialle. Ma farebbe comunque bene ad un mercato che non sia solo sfruttamento del lavoro e delle risorse comuni.
Storie di sfruttamento
6/07/2010TerraNon è neppure una storia originale, quella di Raffaele Turatto, “socio lavoratore” della cooperativa sociale Essegi di Padova. Storie così accadono tutti i giorni. Perché è una storia di soprusi e sfruttamento del lavoro. Ma è comunque una storia emblematica di cosa sia diventato oggi il mercato del lavoro. Socio e lavoratore, abbiamo detto. Ma non crediate che essere soci voglia dire aver voce ai piani alti. “Al contrario – commenta Raffaele – è una solenne fregatura. Essere socio vuol dire essere un lavoratore dipendente come gli altri solo con meno diritti degli altri.
Ci sono cooperative sociali nate solo con lo scopo di bypassare tutti le garanzie e i diritti con cui la legge tutela il lavoratore. Quella che mi ha licenziato, evidentemente, è una di queste“. Raffaele ha 43 anni. Da nove lavora, o meglio lavorava, come responsabile di servizio alla Essegi di Padova, una cooperativa di circa 120 soci che si occupa di “logistica e appalti”. In parole povere, presta manodopera alle aziende che ne hanno bisogno ma, vai a capire il perché, preferiscono evitare il “giogo” delle regolari assunzioni. Socio o no, il lavoro è comunque duro. Raffaele è referente del personale della Essegi impiegato in tra cartiere. Lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno ma si porta comunque a casa ogni mese quasi 1200 euro. D’accordo. I referenti come lui, regolarmente contrattuati e senza il “vantaggio” di essere soci, guadagnano molto di più. Ma il mercato è quello che è, e tocca accontentarsi. La frustata arriva a gennaio quando il socio che conta dell’Essegi – un tempo si scriveva “il padrone” - dichiara lo stato di crisi. “Non ne vedevamo il motivo - spiega Raffale-. Il lavoro era sempre di più e la faccenda ci pareva sospetta, anche perché non avevano tenuto conto di fatture che non erano ancora state pagate. Ma noi ci siamo comunque fidati e abbiamo accettato le nuove condizioni di lavoro”. Niente 14esima, niente festività, niente una tantum, massima flessibilità, diminuzione delle ore retribuite. Alla fine dei conti, in tasca non arrivava che 800 euro o poco più al mese. La quota sociale inoltre, che ogni socio deve versare per capitalizzare la cooperativa, è stata aumentata da 25 a 2mila euro. “Una bella botta. Non c’è che dire – continua Raffaele-. Anzi, una ingiustizia bella e buona. Che diritto avevano di trattarci così? Mi sono rivolto all’associazione difesa lavoratori e assieme al suo referente Gianni Boetto, siamo andati da un avvocato. Solo per il fatto che siamo soci non possono imporci le condizioni che vogliono, tanto più che abbiamo verificato che il bilancio della cooperativa era tutt’altro che in passivo”. Raffaelle diventa così il punto di riferimento di tutti i soci lavoratori della Essegi che non vogliono chinare la testa. E che ti fa la cooperativa? “Mi hanno proposto subito un avanzamento di carriera e di diventare il referente del personale di tutte le aziende servite dalla Essegi. Là per là, ero contento, pure se ho subito avvisato i responsabili che non per questo avevo intenzione di abbandonare la lotta sindacale”. Raffale quindi parte per le ferie, programmate da tempo. E al ritorno? “Mi trovo improvvisamente declassato a magazziniere. Ho chiesto più volte un incontro con i vertici ma niente da fare. Nessuno aveva tempo per spiegarmi i motivi”. Comincia il gioco duro. Raffaele ha gli occhi puntati addosso e alla prima occasione gli arriva una raccomandata di licenziamento. Gianni Boetto, responsabile padovano dell’Adl, l’associazione difesa lavoratori che a livello nazionale si riconosce nell’Usb, unione sindacale di base, commenta: “Quello che è accaduto a Raffaele accade ogni giorno a migliaia di lavoratori che per vivere sono costretti a diventare soci di cooperative che di sociale hanno solo il nome. Si tratta di un sistema criminale usato ormai da tutti, enti privati e pubblici, che usufruiscono di una manodopera soggetta ai peggiori ricatti e ai peggio soprusi. Chi, come Raffaele, cerca di opporsi allo sfruttamento viene perseguitato sino al licenziamento. Come Adl Usb ci siamo attivati per impugnare il licenziamento e difendere i suoi diritti in qualsiasi sede legale. Così faremo con tutti i lavoratori, soci e non. Le ingiustizie sono ingiustizie per tutti”.
Ci sono cooperative sociali nate solo con lo scopo di bypassare tutti le garanzie e i diritti con cui la legge tutela il lavoratore. Quella che mi ha licenziato, evidentemente, è una di queste“. Raffaele ha 43 anni. Da nove lavora, o meglio lavorava, come responsabile di servizio alla Essegi di Padova, una cooperativa di circa 120 soci che si occupa di “logistica e appalti”. In parole povere, presta manodopera alle aziende che ne hanno bisogno ma, vai a capire il perché, preferiscono evitare il “giogo” delle regolari assunzioni. Socio o no, il lavoro è comunque duro. Raffaele è referente del personale della Essegi impiegato in tra cartiere. Lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno ma si porta comunque a casa ogni mese quasi 1200 euro. D’accordo. I referenti come lui, regolarmente contrattuati e senza il “vantaggio” di essere soci, guadagnano molto di più. Ma il mercato è quello che è, e tocca accontentarsi. La frustata arriva a gennaio quando il socio che conta dell’Essegi – un tempo si scriveva “il padrone” - dichiara lo stato di crisi. “Non ne vedevamo il motivo - spiega Raffale-. Il lavoro era sempre di più e la faccenda ci pareva sospetta, anche perché non avevano tenuto conto di fatture che non erano ancora state pagate. Ma noi ci siamo comunque fidati e abbiamo accettato le nuove condizioni di lavoro”. Niente 14esima, niente festività, niente una tantum, massima flessibilità, diminuzione delle ore retribuite. Alla fine dei conti, in tasca non arrivava che 800 euro o poco più al mese. La quota sociale inoltre, che ogni socio deve versare per capitalizzare la cooperativa, è stata aumentata da 25 a 2mila euro. “Una bella botta. Non c’è che dire – continua Raffaele-. Anzi, una ingiustizia bella e buona. Che diritto avevano di trattarci così? Mi sono rivolto all’associazione difesa lavoratori e assieme al suo referente Gianni Boetto, siamo andati da un avvocato. Solo per il fatto che siamo soci non possono imporci le condizioni che vogliono, tanto più che abbiamo verificato che il bilancio della cooperativa era tutt’altro che in passivo”. Raffaelle diventa così il punto di riferimento di tutti i soci lavoratori della Essegi che non vogliono chinare la testa. E che ti fa la cooperativa? “Mi hanno proposto subito un avanzamento di carriera e di diventare il referente del personale di tutte le aziende servite dalla Essegi. Là per là, ero contento, pure se ho subito avvisato i responsabili che non per questo avevo intenzione di abbandonare la lotta sindacale”. Raffale quindi parte per le ferie, programmate da tempo. E al ritorno? “Mi trovo improvvisamente declassato a magazziniere. Ho chiesto più volte un incontro con i vertici ma niente da fare. Nessuno aveva tempo per spiegarmi i motivi”. Comincia il gioco duro. Raffaele ha gli occhi puntati addosso e alla prima occasione gli arriva una raccomandata di licenziamento. Gianni Boetto, responsabile padovano dell’Adl, l’associazione difesa lavoratori che a livello nazionale si riconosce nell’Usb, unione sindacale di base, commenta: “Quello che è accaduto a Raffaele accade ogni giorno a migliaia di lavoratori che per vivere sono costretti a diventare soci di cooperative che di sociale hanno solo il nome. Si tratta di un sistema criminale usato ormai da tutti, enti privati e pubblici, che usufruiscono di una manodopera soggetta ai peggiori ricatti e ai peggio soprusi. Chi, come Raffaele, cerca di opporsi allo sfruttamento viene perseguitato sino al licenziamento. Come Adl Usb ci siamo attivati per impugnare il licenziamento e difendere i suoi diritti in qualsiasi sede legale. Così faremo con tutti i lavoratori, soci e non. Le ingiustizie sono ingiustizie per tutti”.
Svendita demaniale
29/06/2010TerraPare di essere davanti ad una di quelle lotterie parrocchiali per raccogliere soldi per le missioni, dove la gente acquista il biglietto perché non può dir di no e poi scarta il “pacco”, appunto, sperando di cavarsela col minor danno possibile. Lo hanno chiamato “federalismo demaniale” ma col federalismo vero, quello che si conquista disperdendo il potere, non è neppure imparentato. Sotto sotto il concetto che sta alla base dell’operazione è sempre lo stesso: vendere (se non addirittura svendere) il patrimonio pubblico per far cassa sonante. Un concetto tutto capitalista, o anche marxista se preferite, secondo il quale lo Stato è padre e padrone di tutto quello che si trova dentro i suoi santi confini e ne dispone secondo criteri che alla fin fine son solo economici. Siamo distanti anni luce dall’idea di un governo non padrone ma gestore del suo patrimonio artistico e ambientale, che esercita il suo mandato attraverso le autonomie locali e la partecipazione dal basso dei cittadini, secondo criteri non basati sul profitto ma sulla salvaguardia e valorizzazione. Oggi domina il mercato. Tutto si vende e tutto si compra: acqua, aria, lavoro, montagne e castelli. E lo chiamano “federalismo”. Ai Comuni altro non rimane da fare se non scartare i “pacchi” e sperare per il meglio. Dentro c’è un po’ di tutto. Per rimanere in laguna, troviamo: casse di colmata che hanno bisogno di vagonate di soldi di manutenzione, ma anche lo splendido ex monastero di Santa Croce alle Zattere e altre aree di gran pregio come l’Arsenale. A Venezia spetta la classica parte del leone: su 364 milioni di euro di beni demaniali stimati trasferibili a tutta la Provincia, al capoluogo lagunare ne spettano circa 160. Ma non pensate che sia un regalo! Il denominatore comune di tutti questi trasferimenti è uno solo: costi, costi e ancora costi. L’assessore al patrimonio di Venezia, Bruno Filippini, ha già messo le mani avanti: “Il Comune non ha soldi per acquistare e mettere in funzione tutti questi beni. Saremo costretti a fare una selezione” e sottolinea come il Governo italiano con una mano dia cinque per togliere dieci con l’altra mano. “Questa è l’ultima trovata per scaricare sui Comuni i problemi dello Stato centrale”. E questo sarebbe il federalismo! Ma facciamo attenzione: il decreto Tremonti non obbliga i Comuni a farsi carico dei beni demaniali dismessi. Le amministrazioni sono liberissimi di scartare il “pacco” o lasciarlo sui banchi. Ma che succederà in quest’ultimo caso? Prendiamo l’esempio dell’Arsenale. “L’arzanà de' Viniziani” cantato da Dante, dove bolliva la tenace pece e dove è nato il concetto di fabbrica cinque secoli prima della rivoluzione industriale. Un’area grande pressappoco come un sesto dell’intera Venezia, oggi quasi tutta abbandonata al degrado. L’Arsenale potrebbe rivelarsi uno strumento di enorme efficacia per dare respiro alla Venezia reale, asfissiata dalla mancanza di spazi e pressata dalle alternative in terraferma. Ma il Comune ha le strutture e il denaro per farsene carico? “Il ministro Tremonti è stato chiaro – ha spiegato Filippini - nei prossimi due anni i trasferimenti ai Comuni saranno decurtati di quattro miliardi di euro. Il che significa che non avremo i soldi neppure per fare la metà dei restauri che servirebbero”. Che ne sarà allora dell’antico Arsenale dove gli artigiani della Serenissima varavano cocche e galee? Anche in questo caso il decreto è chiaro. Quello che non comprano i Comuni sarà battuto all’asta ai privati. Eccolo qua il futuro di questo bene pubblico: un enorme, lussuoso albergo con un outlet di gran marca. Proprio quello che ci mancava.
Duro mestiere il pendolare
29/06/2010TerraSiete pendolari? Se la risposta è sì, fareste bene a cominciare a pensare sin da subito ad un mezzo alternativo per andare a lavorare. Se fosse un condannato a morte, il trasporto pubblico su rotaia, avrebbe già la testa sul ceppo e la domanda di grazia respinta dal re. Nessuna speranza in vista. Nessun salvataggio miracoloso all’ultimo istante. E i boia che si apprestano ad infierire sul condannato sono addirittura due: Stato e Regione.
Due i boia e due le mannaie che si apprestano a tagliare i finanziamenti necessari al funzionamento delle nostre ferrovie. E parliamo delle ferrovie utili, quelle che ogni giorno trasportano migliaia di pendolari sul tragitto casa – lavoro. L’alta velocità e le altre grandi opere non perderanno un euro. Anzi. E tra le regioni italiane sarà soprattutto il Veneto, che è la sesta regione italiana per numero di viaggiatori al giorno (135 mila in media di cui oltre 50 mila abbonati) con ad essere maggiormente penalizzato. Ai tagli già annunciati in finanziaria dai ministri Tremonti e Matteoli, sotto la voce “Servizi ferroviari di interesse regionale e locale in concessione”, pari a 1.223 milioni di euro per l’anno 2011, si aggiunge la scarsa volontà della Regione ad investire in quello che oramai viene considerato il “sistema di trasporto dei poveri”: il treno locale. Consideriamo soltanto che la percentuale per il servizio pendolare ferroviario stanziata dalla Regione Veneto nel 2009 è appena lo 0,04 per cento del bilancio totale di spesa. Una autentica miseria che ci porta in fondo alle classifiche delle regioni virtuose italiane. E meglio non fare paragoni con altri Paesi d’Europa come la Francia o la Germania. Ma per restare in Italia, anche il Molise spende più di noi. Il Lazio investe lo 0,13% del bilancio, La Campania l’1,52 %, la Lombardia lo 0,54%. Se rapportiamo l’irrisoria percentuale investita dalla nostra Regione a quella dei suoi pendolari, si capisce come mai nel Veneto assistiamo ad un fiorire di comitati di utenti ferroviari che puntualmente manifestano davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, per chiedere garanzie e tavoli di concertazione che, ancor più puntualmente, vengono disattesi perché, spiega l’assessore di turno, “non ci sono soldi”. Appunto.
La punto fondamentale è che per la Giunta, e questo vale tanto per l’ex presidente Galan quanto per l’attuale Zaia, la ferrovia continua ad essere la cenerentola delle infrastrutture in un campo in cui domina incontrastato l’asfalto. Conti alla mano, dal 2003 al 2009, il vento ha investito il 93,9 % della spesa infrastrutture per le strade e il rimanente 6,1% per la rotaia. Nello stesso periodo, tanto per fare un paragone, la Puglia ha investito il 40,5 per l’asfalto e il 59,5 % per le ferrovie.
Che accadrà quando a questo panorama già desolante il Governo aggiungerà l’ennesimo giro di vite? Secondo i dati diffusi da Legambiente che ha fatto le pulci alla manovra Tremonti sul capitolo del trasporto pubblico, i trasferimenti per i contratti di servizio nel Veneto per il 2011 saranno mutilati dagli attuali 43,2 milioni di euro a solo 14 milioni. E, come ha spiegato lo stesso ministro Tremonti, tutto lascia supporre che questi tagli, già definiti con chiarezza per le singole voci per il 2011, saranno incrementati nel 2012 e nel 2013. “Ma il ministro e il Governo hanno idea dell’effetto che la manovra provocherà a partire dal prossimo anno nelle città italiane? – si chiede Michele Bertucco, presidente di Legambiente Veneto -. Dovranno spiegare ai due milioni e 700mila italiani che ogni giorno prendono i treni per motivi di lavoro o di studio, quali soluzioni alternative hanno in mente per loro. Con meno di metà delle risorse rispetto a quest’anno, come si può pensare di far funzionare il servizio? Quella che abbiamo davanti è una vera e propria ecatombe del servizio ferroviario pendolare”.
Due i boia e due le mannaie che si apprestano a tagliare i finanziamenti necessari al funzionamento delle nostre ferrovie. E parliamo delle ferrovie utili, quelle che ogni giorno trasportano migliaia di pendolari sul tragitto casa – lavoro. L’alta velocità e le altre grandi opere non perderanno un euro. Anzi. E tra le regioni italiane sarà soprattutto il Veneto, che è la sesta regione italiana per numero di viaggiatori al giorno (135 mila in media di cui oltre 50 mila abbonati) con ad essere maggiormente penalizzato. Ai tagli già annunciati in finanziaria dai ministri Tremonti e Matteoli, sotto la voce “Servizi ferroviari di interesse regionale e locale in concessione”, pari a 1.223 milioni di euro per l’anno 2011, si aggiunge la scarsa volontà della Regione ad investire in quello che oramai viene considerato il “sistema di trasporto dei poveri”: il treno locale. Consideriamo soltanto che la percentuale per il servizio pendolare ferroviario stanziata dalla Regione Veneto nel 2009 è appena lo 0,04 per cento del bilancio totale di spesa. Una autentica miseria che ci porta in fondo alle classifiche delle regioni virtuose italiane. E meglio non fare paragoni con altri Paesi d’Europa come la Francia o la Germania. Ma per restare in Italia, anche il Molise spende più di noi. Il Lazio investe lo 0,13% del bilancio, La Campania l’1,52 %, la Lombardia lo 0,54%. Se rapportiamo l’irrisoria percentuale investita dalla nostra Regione a quella dei suoi pendolari, si capisce come mai nel Veneto assistiamo ad un fiorire di comitati di utenti ferroviari che puntualmente manifestano davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, per chiedere garanzie e tavoli di concertazione che, ancor più puntualmente, vengono disattesi perché, spiega l’assessore di turno, “non ci sono soldi”. Appunto.
La punto fondamentale è che per la Giunta, e questo vale tanto per l’ex presidente Galan quanto per l’attuale Zaia, la ferrovia continua ad essere la cenerentola delle infrastrutture in un campo in cui domina incontrastato l’asfalto. Conti alla mano, dal 2003 al 2009, il vento ha investito il 93,9 % della spesa infrastrutture per le strade e il rimanente 6,1% per la rotaia. Nello stesso periodo, tanto per fare un paragone, la Puglia ha investito il 40,5 per l’asfalto e il 59,5 % per le ferrovie.
Che accadrà quando a questo panorama già desolante il Governo aggiungerà l’ennesimo giro di vite? Secondo i dati diffusi da Legambiente che ha fatto le pulci alla manovra Tremonti sul capitolo del trasporto pubblico, i trasferimenti per i contratti di servizio nel Veneto per il 2011 saranno mutilati dagli attuali 43,2 milioni di euro a solo 14 milioni. E, come ha spiegato lo stesso ministro Tremonti, tutto lascia supporre che questi tagli, già definiti con chiarezza per le singole voci per il 2011, saranno incrementati nel 2012 e nel 2013. “Ma il ministro e il Governo hanno idea dell’effetto che la manovra provocherà a partire dal prossimo anno nelle città italiane? – si chiede Michele Bertucco, presidente di Legambiente Veneto -. Dovranno spiegare ai due milioni e 700mila italiani che ogni giorno prendono i treni per motivi di lavoro o di studio, quali soluzioni alternative hanno in mente per loro. Con meno di metà delle risorse rispetto a quest’anno, come si può pensare di far funzionare il servizio? Quella che abbiamo davanti è una vera e propria ecatombe del servizio ferroviario pendolare”.
Tentazioni nucleari
25/05/2010Terra
Trenta miliardi di motivi per dire di sì al nucleare. Intendiamo motivi particolarmente… tangibili. A trenta miliardi di euro infatti, ammonta la torta nucleare che il Governo intende assegnare alle imprese che concorreranno a realizzare il reattore veneto. Lo stupefacente della vicenda è che nessuno si è ancora espresso su dove, come e quando dovrebbe venir realizzato l’impianto ma già tutti sanno quanto verrà speso e già le aziende cominciano a sgomitarsi per mettere le mani sulla marmellata. Sentite come gongola il presidente degli industriali di Venezia, Luigi Brugnaro, in una intervista rilasciata in occasione dell’ultimo convegno pro nucleare di Confindustria, il 18 maggio a Marghera: “Le nostre imprese sono tra le più competitive in tutto il Paese e certamente sapranno conquistarsi almeno il 40 per cento del business". Brugnaro è fondatore e padrone di Umana, la prima azienda italiana di collocamento di personale, ed è innegabilmente uno che sa fiutare in anticipo l’aria che tira.
Il convegno di Marghera non aveva nessuna pretesa scientifica. Nessun tecnico o scienziato figurava nella lista degli invitati. Nessuna pretesa di dialogo e di riflessione. Nessuno tra i relatori ha ricordato che la Spagna di Zapatero ha recentemente investito pressappoco la stessa cifra per le energie rinnovabili seguendo un piano energetico che porterà a soddisfare in minor tempo una percentuale più grande del fabbisogno del Paese iberico rispetto al nucleare italiano. Il convegno aveva soltanto lo scopo molto… tangibile, appunto, di convincere il neo governatore Luca Zaia a non opporsi alla costruzione di una centrale in Veneto. Impresa da poco. I “nyet” che Zaia lanciava in campagna elettorale han fatto presto ad ammorbidirsi e già il governatore è passato da un “Non ne vedo la necessità. Il nostro fabbisogno energetico è già soddisfatto” a un “Non sono contrario per principio. Vedremo quali saranno le proposte del Governo e cosa faranno per convincerci”. Insomma, sul fronte regionale c’è da attendersi ben poca resistenza, a meno che il reattore non lo vogliano costruire sopra i campi di radicchio del trevisano. Ma Chioggia, propaggine meridionale di una laguna che anche nelle ultime elezioni ha voltato per il centrosinistra, non ci metterà molto a salire sull’altare della vittima sacrificale. A dir di no, ancora una volta tocca ai movimenti. Verdi, sinistra, grillini e comitati cittadini venuti apposta da Chioggia per ricordare che l’economia della cittadina si fonda su due settori come pesca e turismo che sono incompatibili con i reattori nucleari, hanno dato vita ad un affollato sit in di protesta davanti alla sede del convegno. Un primo passo della resistenza è stata l’organizzazione di una rete contro il nucleare. “L'ipotesi di Chioggia o del Polesine come sito possibile per la costruzione di una centrale nucleare in Veneto – ha commentato Cacciari, attivista delle rete - ci ha messi di fronte ad una responsabilità evidente ed ineludibile. In quanto persone che amano il proprio territorio non possiamo rimanere indifferenti di fronte allo scempio che una tale scelta comporterebbe. I rischi per la salute, la possibile contaminazione della terra e dei fiumi con conseguenze disastrose per l'agricoltura e la pesca, l'impatto negativo sul turismo, disegnano un panorama possibile che non vogliamo per noi e non vorremmo per nessuno.
E proprio perchè non lo vorremmo per nessuno siamo consapevoli che la scelta del ritorno al nucleare in Italia non è solamente un problema dei territori che ospiteranno le centrali, ma un problema di tutti. Il governo Berlusconi ha indicato nel 2013 l’inizio dei lavori per la costruzione della prima centrale e ha contemporaneamente annunciato un'opera di convincimento dell'opinione pubblica sulle meraviglie del nucleare. E questo prima ancora di rendere note le aree scelte per ospitare i reattori. E’ importante contrastare pubblicamente ed in ogni occasione sia la propaganda governativa, sia il tentativo di chi tenta di trarre profitto a scapito dell'ambiente e della nostra salute. Una battaglia da portare avanti in comune, indipendentemente dai partiti e da qualsiasi logica di appartenenza”.
Neanche il Cnr crede al Mose
25/05/2010TerraRicordare, a disastro avvenuto, che “noi l’avevamo sempre detto”, è una soddisfazione ben misera. Eppure, tante, troppe volte, altro non rimane agli ambientalisti, che debbono assistere al verificarsi delle loro fosche previsioni per dimostrare che avevano ragione. Lo stesso destino della Cassandra omerica, condannata ad urlare una verità talmente scomoda che nessuno vuole ascoltare sino a quando non è troppo tardi. Non stupisce quindi, l’amara ironia con la quale il consigliere comunale Beppe Caccia ha commentato i risultati dello studio del Cnr Ismar sul sistema di paratie mobili Mose.
“Ci fa piacere che ora sia il Cnr a confermare le perplessità che noi abbiamo avanzato da anni. E cioè che il Mose non servirà a difendere Venezia dall’acqua alta”. A riaccendere la polemica sull’ecomostro lagunare stavolta, non sono stati i “soliti” ambientalisti del No Mose, ma gli scienziati del Cnr Ismar – l’istituto di scienze marine del consiglio nazionale della ricerca – che la scorsa settimana ha partecipato ad un convegno al Lido di Venezia, organizzato dal Ciesm, la commissione scientifica per il Mediterraneo presieduta dal principe Alberto di Monaco di cui fanno parte una ventina di Paesi. Lo stesso direttore dell’Ismar, Fabio Trincardi, ha messo in dubbio l’utilità del Mose in previsione dell'innalzamento dei livelli dei mari del livello del mare conseguente ai cambiamenti climatici. "Sappiamo che il Mose è funzionale all'interno di un determinato scenario di innalzamento del livello dell‘Adriatico. Oltre una certa misura la protezione fornita dal sistema di paratoie mobili potrebbe essere totalmente inadeguata se non od addirittura nociva". Parole pesanti per i tecnici del Consorzio Venezia Nuova che di fronte ai dati forniti dall’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, hanno sempre preferito fare orecchie da mercante, scegliendo sempre gli scenari meno impattanti e più favorevoli alle previsioni già confezionate per il funzionamento delle dighe mobili o addirittura sposando le tesi dei negazionisti. Negli ultimi tempi, man mano che la comunità scientifica si spostava su previsioni non più compatibili con il sistema Mose, il Consorzio se ne è uscito addirittura con una trovata spettacolare: “Se davvero il mare si innalzerà. Venezia sarà l’unica città costiera che sopravviverà grazie alle paratoie del Mose”. Ma stavolta sono stati gli stessi scienziati del Cnr ha smentire il Consorzio. Il sistema, hanno ribadito, è stato pensato senza tener conto dei climate change. Che funzioni o no, con livelli di marea superiori a quelli previsti è, quantomeno, tutto da dimostrare. Così, come è tutto da dimostrare, il vero impatto che l’ecomostro avrà sulla laguna di Venezia. Per il direttore del Corila, Pierpaolo Campostrini, la costola per le ricerche il laguna del Consorzio, l’ecomostro “non ha avuto sino ad ora nessun impatto ambientale”. Campostrini dimentica che il Mose è un’opera irreversibile. E un’opera irreversibile, per sua natura, ha un inevitabile impatto ambientale. D’altra parte, basta fare un giro in barca per le bocche di porto per farsi una idea dell’impatto che l’ecomostro ha avuto sulla laguna. Basta anche navigare a vela o a remi per sentire come sono cambiate quelle correnti che un tempo facevano respirare la laguna secondo ritmi millenari. Quella laguna che ora è stata trasformata in un braccio di mare aperto separato dalla terra da colate di cemento.
“Ci fa piacere che ora sia il Cnr a confermare le perplessità che noi abbiamo avanzato da anni. E cioè che il Mose non servirà a difendere Venezia dall’acqua alta”. A riaccendere la polemica sull’ecomostro lagunare stavolta, non sono stati i “soliti” ambientalisti del No Mose, ma gli scienziati del Cnr Ismar – l’istituto di scienze marine del consiglio nazionale della ricerca – che la scorsa settimana ha partecipato ad un convegno al Lido di Venezia, organizzato dal Ciesm, la commissione scientifica per il Mediterraneo presieduta dal principe Alberto di Monaco di cui fanno parte una ventina di Paesi. Lo stesso direttore dell’Ismar, Fabio Trincardi, ha messo in dubbio l’utilità del Mose in previsione dell'innalzamento dei livelli dei mari del livello del mare conseguente ai cambiamenti climatici. "Sappiamo che il Mose è funzionale all'interno di un determinato scenario di innalzamento del livello dell‘Adriatico. Oltre una certa misura la protezione fornita dal sistema di paratoie mobili potrebbe essere totalmente inadeguata se non od addirittura nociva". Parole pesanti per i tecnici del Consorzio Venezia Nuova che di fronte ai dati forniti dall’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, hanno sempre preferito fare orecchie da mercante, scegliendo sempre gli scenari meno impattanti e più favorevoli alle previsioni già confezionate per il funzionamento delle dighe mobili o addirittura sposando le tesi dei negazionisti. Negli ultimi tempi, man mano che la comunità scientifica si spostava su previsioni non più compatibili con il sistema Mose, il Consorzio se ne è uscito addirittura con una trovata spettacolare: “Se davvero il mare si innalzerà. Venezia sarà l’unica città costiera che sopravviverà grazie alle paratoie del Mose”. Ma stavolta sono stati gli stessi scienziati del Cnr ha smentire il Consorzio. Il sistema, hanno ribadito, è stato pensato senza tener conto dei climate change. Che funzioni o no, con livelli di marea superiori a quelli previsti è, quantomeno, tutto da dimostrare. Così, come è tutto da dimostrare, il vero impatto che l’ecomostro avrà sulla laguna di Venezia. Per il direttore del Corila, Pierpaolo Campostrini, la costola per le ricerche il laguna del Consorzio, l’ecomostro “non ha avuto sino ad ora nessun impatto ambientale”. Campostrini dimentica che il Mose è un’opera irreversibile. E un’opera irreversibile, per sua natura, ha un inevitabile impatto ambientale. D’altra parte, basta fare un giro in barca per le bocche di porto per farsi una idea dell’impatto che l’ecomostro ha avuto sulla laguna. Basta anche navigare a vela o a remi per sentire come sono cambiate quelle correnti che un tempo facevano respirare la laguna secondo ritmi millenari. Quella laguna che ora è stata trasformata in un braccio di mare aperto separato dalla terra da colate di cemento.
E' nata l'associazione In Comune
25/05/2010Terra
“La lista e ora l’associazione In Comune – prosegue l’ambientalista – ha avuto il merito di forzare la politica cittadina ricavando nuovi spazi in un panorama desolante come quello della sinistra italiana e veneziana, incapace di rinnovarsi al di là della stratificazione delle sigle. In Comune ha fornito le parole per dire qualcosa di nuovo ad una politica cittadina che balbettava parole vecchie, maturando le capacità per condizionare e addirittura egemonizzare il dibattito politico e culturale. Un problema come la tutela dell'ambiente, oggi non è solo una denuncia ma una linea guida del governo della città”. Una esperienza che a Venezia, al contrario di quanto accaduto in altre città italiane, ha avuto esito positivo.
La nascita dell’associazione In Comune, non significa comunque lo scioglimento dei verdi di Venezia. Casomai un punto di ripartenza per l’avvio di quella costituente ecologista lanciata dall’ultimo congresso di Fiuggi. “In Comune non è il nostro nuovo partito – ha scritto Bettin in una lettera inviata agli iscritti verdi -, ma un luogo prezioso di cooperazione tra persone diverse, e tra gruppi o anche parti di forze politiche, che hanno avuto lo scopo, raggiunto, di aprire una via al rinnovo dell’amministrazione comunale alternativa a quelle che si configuravano nello scorso autunno. I verdi veneziani sono pienamente dentro la ricerca di una nuova dimensione per l’ecologia politica, in linea con le più avanzate ricerche europee, specie quelle tedesche e francesi e ora anche britanniche, in rapporti ben avviati con la Fondazione culturale dei Verdi europei”. La lettera si conclude con l’invito ad “assumere consapevolmente e chiaramente questa collocazione, questo profilo di forza in metamorfosi, difficile ma creativa”.
Il recordman degli incarichi pubblici
4/05/2010TerraPari, pari dallo Zingarelli: Lotizzazione /lottiddzat’tsjone/ s. f. Atto, effetto del lottizzare. Lotizzare, /lottid’ dzare/ [da lotto] v. tr. Suddivisioni in lotti di un terreno. Lotto /lotto’/ s. m. Gioco d’azzardo eccetera eccetera. Per traslato, il termine lottizzazione è stato adoperato da Alberto Ronchey, per indicare la spartizione, tra gli appartenenti di determinati partiti politici, di commesse pubbliche, di cariche dirigenziali in aziende o enti pubblici direttamente controllati dagli enti pubblici stessi.
Eticamente parlando, non è una bella cosa perché antepone gli interessi di partito a quelli comuni. Il Ronchey lo additava come un malcostume politico diffuso nella cosiddetta Prima Repubblica. In terra veneta era appannaggio esclusivo della Balena Bianca ma che, grazie ad un’altra pratica politica da prima repubblica chiamata “consociativismo”, aveva comunque il buon gusto di lasciare qualcosa anche agli altri partiti. Era una questione di democrazia. Democrazia da partiti, ovviamente. Quella partecipativa e dal basso è tutta un’altra questione che in queste nostre terre selvagge non trova casa. Ma comunque le cose così funzionavano e le cariche pubbliche venivano assegnate più sulla base della tessera che dei meriti. Capitava che un geometra dovesse dettare le politiche della sanità regionale. Non come adesso che c’è un qualificatissimo ragioniere. Altri tempi. Adesso la lottizzazione non c’è come prima ma più di prima, perché il consociativismo ha lasciato il posto alla regola dell’assopigliatutto – che non caso proviene dal rubamazzetto – e del “lasciateci governare che siamo legittimati dalla maggioranza degli elettori”. E così che è nata la casta padana. Il lotto, nel senso di “azzardo”, non c’entra niente. La lottizzazione non è un caso e non è neppure una scienza. E’ prendere e portare a casa. La Lega non concede nulla neanche agli alleati e premia solo i fedelissimi. E chissenefrega, non dico delle competenze, ma anche della decenza. Si governa e si “magna” sino ad ingozzarsi. Un bell’esempio di questa “lottizzazione estrema” ce lo ha segnalato l’associazione Altra Treviso. Il personaggio è tale Nicola Cecconato. Politico di secondo o anche terzo piano nel pantheon del Carroccio ma comunque un collezionista di cariche di tutto rispetto. Prendete fiato che l’elenco è lungo: assessore al Bilancio del Comune di San Vendemiano, presidente del Collegio dei Sindaci di Asco Tls spa, presidente di Edigas Due spa, presidente di Cit; componente del Collegio dei sindaci dell’Ulss 7, di Ater Treviso spa, di Edigas Esercizio Distribuzione Gas; componente supplente del Collegio dei Sindaci di La Marca spa; revisore dei conti di Veneto Infrastrutture, Servizi Srl e di STI Servizi Trasporti Interregionali spa, componente del Collegio dei Sindaci di Veneto Acque spa. Non gli manca qualche bella poltroncina a Roma Ladrona: presidente del consiglio di amministrazione dell’Istituto Sviluppo Agroalimentare spa, componente del collegio dei sindaci di Rai Trade spa, componente supplente del Collegio dei sindaci di Coni Servizi spa. Che ne dite? Qualcuno l’ha già segnalato al Guinness dei Primati?
Eticamente parlando, non è una bella cosa perché antepone gli interessi di partito a quelli comuni. Il Ronchey lo additava come un malcostume politico diffuso nella cosiddetta Prima Repubblica. In terra veneta era appannaggio esclusivo della Balena Bianca ma che, grazie ad un’altra pratica politica da prima repubblica chiamata “consociativismo”, aveva comunque il buon gusto di lasciare qualcosa anche agli altri partiti. Era una questione di democrazia. Democrazia da partiti, ovviamente. Quella partecipativa e dal basso è tutta un’altra questione che in queste nostre terre selvagge non trova casa. Ma comunque le cose così funzionavano e le cariche pubbliche venivano assegnate più sulla base della tessera che dei meriti. Capitava che un geometra dovesse dettare le politiche della sanità regionale. Non come adesso che c’è un qualificatissimo ragioniere. Altri tempi. Adesso la lottizzazione non c’è come prima ma più di prima, perché il consociativismo ha lasciato il posto alla regola dell’assopigliatutto – che non caso proviene dal rubamazzetto – e del “lasciateci governare che siamo legittimati dalla maggioranza degli elettori”. E così che è nata la casta padana. Il lotto, nel senso di “azzardo”, non c’entra niente. La lottizzazione non è un caso e non è neppure una scienza. E’ prendere e portare a casa. La Lega non concede nulla neanche agli alleati e premia solo i fedelissimi. E chissenefrega, non dico delle competenze, ma anche della decenza. Si governa e si “magna” sino ad ingozzarsi. Un bell’esempio di questa “lottizzazione estrema” ce lo ha segnalato l’associazione Altra Treviso. Il personaggio è tale Nicola Cecconato. Politico di secondo o anche terzo piano nel pantheon del Carroccio ma comunque un collezionista di cariche di tutto rispetto. Prendete fiato che l’elenco è lungo: assessore al Bilancio del Comune di San Vendemiano, presidente del Collegio dei Sindaci di Asco Tls spa, presidente di Edigas Due spa, presidente di Cit; componente del Collegio dei sindaci dell’Ulss 7, di Ater Treviso spa, di Edigas Esercizio Distribuzione Gas; componente supplente del Collegio dei Sindaci di La Marca spa; revisore dei conti di Veneto Infrastrutture, Servizi Srl e di STI Servizi Trasporti Interregionali spa, componente del Collegio dei Sindaci di Veneto Acque spa. Non gli manca qualche bella poltroncina a Roma Ladrona: presidente del consiglio di amministrazione dell’Istituto Sviluppo Agroalimentare spa, componente del collegio dei sindaci di Rai Trade spa, componente supplente del Collegio dei sindaci di Coni Servizi spa. Che ne dite? Qualcuno l’ha già segnalato al Guinness dei Primati?
Il litorale di cemento
4/05/2010TerraA leggere le brochure che pubblicizzano la futura “Jesolo City Beach 2012”, nessuno crederebbe mai che Jesolo sia soltanto una cittadina con poco più di 20 mila abitanti. Nessuno crederebbe neppure che nel pieno di una crisi economica che non risparmia neppure il settore turistico, qualcuno potesse essere così folle da ipotizzare un investimento di oltre 500 milioni di euro per costruire una specie di Disneyland da Emirati Arabi sul litorale adriatico. Tra le altre cose, senza rispettare nessuno di quei vincoli paesaggistici e di tutela del litorale imposti da Stato e Regione. Non che da questi governi ci sia da attendere qualche presa di posizione contraria.
Anzi, lo stesso Comune di Jesolo, incavolato perché la Soprintendenza ha chiesto di fermare le ruspe per difendere quel poco di litorale veneto non ancora mangiato dal cemento, ci si è rivolto per chiedere, non certo che facessero rispettate le vigenti leggi, ma un aiuto per “superare tutte quelle pastoie burocratiche che fermano lo sviluppo”. Sentite che ci dice il vicesindaco nonché assessore all’urbanistica, Valerio Zoggia: “Se va avanti così, ci toccherà chiedere il permesso alla Soprintendenza anche per installare un condizionatore o cambiare gli infissi di una struttura nella fascia dei 300 metri dal mare! Non è accettabile che un problema di ordine burocratico possa bloccare 500 milioni di euro in investimenti”. Valerio Zoggia chiede il “federalismo urbanistico” ed è, naturalmente, un leghista doc. Qui gli investimenti, i “schei”, girano solo sul Carroccio. Tutta Jesolo è leghista. Anche la stessa opposizione: qualche spaesato democratico che apre bocca ogni morte di papa solo per ribadire che il Comune fa bene ad investire nel cemento, solo che il suo Pd, se fosse al governo, lo farebbe “meglio”. Per il resto è silenzio assoluto. Silenzio nella politica. Silenzio nella stampa. Voglio cementare 97 chilometri quadrati di litorale tutelato per realizzare una skyline da San Francisco ad uno sputo da Venezia, e nessuno dice niente, Nessuno scrive niente. Anzi, no. Qualcuno qualcosa aveva scritto, una decina di anni fa. Un rapporto dell’antimafia in cui si profetizzava il pericolo che la mafia (sì, la mafia, avete letto bene) stesse per investire sul litorale veneto centinaia di milioni di euro nel mattone. Lo scopo è sempre lo stesso: riciclare denaro sporco. Ci spiega Walter Mescalchin di Libera: “Per la criminalità organizzata il riciclaggio del ricavato dalle attività illecite è fondamentale. Centri commerciali o direzionali, grandi alberghi, e in generale le colate di cemento, sono l’ideale perché prevedono cospicui stanziamenti. Il denaro non gli manca. La mafia non soffre la crisi. E sono gli unici imprenditori che possono permettersi di investire cento per ricavare venti. Son finiti i tempi in cui minacciavano il sindaco per avere l’appalto delle pulizie del Comune. Oggi preferiscono controllare le grandi opere e gli investimenti miliardari. Magari quelli gestiti da un unico commissario, così si bypassa meglio la democrazia ed i controlli ambientali”. A questo punto, per fare il quadro completo della situazione, manca solo un elenco di alcune delle follie da sceicco che si stanno contrabbandando a Jesolo sotto la benedizione “sviluppo economico” e del “completamento di opera già avviate”. Tenetevi saldi: 5.200 tra camping, ville, villette e villaggi turistici, 391 hotel di cui alcuni grandi come grattacieli, e poi campi da golf, parchi acquatici, centri commerciali a tema. Entriamo nei dettagli: centro congressi “fronte mare” (magari per discutere di come tutelare l’ambiente costiero); un elegante centro benessere di 1600 metri quadri senza contare l’indispensabile mega parcheggio adiacente; un’Isola Blu a 150 metri dalla spiaggia, “arcipelago di servizi” l’ha definita l’architetto, ma non è altro che il solito centro commerciale; Laguna Park, giochi e divertimento assicurato per grandi e piccini, 150 mila metri quadrati di pineta tutelata che se ne vanno; Exotic Village, una vera e propria oasi del deserto che ci si può girare un film sulla legione straniera, ci sarà pure il caravanserraglio con dromedari del Sahara e beduini ma di razza padana; Cascina del Mar, finto giardino botanico che riecheggia agli antichi borghi mediterranei, sopra il cemento “plasmeremo gli edifici con la creta per rispettare la natura”; mega darsena con campo da golf annesso; mini grattacielo Tahiti; città della musica, altra colata di cemento per farci le trasmissioni estive di Rete Quattro; Ipercity, ennesimo centro commerciale; Merville Casa, grattacielo da 22 piani ma per “rispettare la pineta” sopra la quale sorgerà, il parcheggio sarà interrato; in piazza Drago, sono previsti 71 mila metri cubi di costruito per le nuove Torri Gemelle della cristianità. Facciamo grazia di altri due torroni che chiuderanno il lungomare e del grattacielo che voglio tirar su al limite del canale navigabile. Ecco qua. E l’assessore si lamenta: “Le pastoie burocratiche frenano la nostra vocazione turistica. Non è accettabile che per cambiare un infisso della finestra ci tocchi chiedere il permesso alla Sovrintendenza”.
Anzi, lo stesso Comune di Jesolo, incavolato perché la Soprintendenza ha chiesto di fermare le ruspe per difendere quel poco di litorale veneto non ancora mangiato dal cemento, ci si è rivolto per chiedere, non certo che facessero rispettate le vigenti leggi, ma un aiuto per “superare tutte quelle pastoie burocratiche che fermano lo sviluppo”. Sentite che ci dice il vicesindaco nonché assessore all’urbanistica, Valerio Zoggia: “Se va avanti così, ci toccherà chiedere il permesso alla Soprintendenza anche per installare un condizionatore o cambiare gli infissi di una struttura nella fascia dei 300 metri dal mare! Non è accettabile che un problema di ordine burocratico possa bloccare 500 milioni di euro in investimenti”. Valerio Zoggia chiede il “federalismo urbanistico” ed è, naturalmente, un leghista doc. Qui gli investimenti, i “schei”, girano solo sul Carroccio. Tutta Jesolo è leghista. Anche la stessa opposizione: qualche spaesato democratico che apre bocca ogni morte di papa solo per ribadire che il Comune fa bene ad investire nel cemento, solo che il suo Pd, se fosse al governo, lo farebbe “meglio”. Per il resto è silenzio assoluto. Silenzio nella politica. Silenzio nella stampa. Voglio cementare 97 chilometri quadrati di litorale tutelato per realizzare una skyline da San Francisco ad uno sputo da Venezia, e nessuno dice niente, Nessuno scrive niente. Anzi, no. Qualcuno qualcosa aveva scritto, una decina di anni fa. Un rapporto dell’antimafia in cui si profetizzava il pericolo che la mafia (sì, la mafia, avete letto bene) stesse per investire sul litorale veneto centinaia di milioni di euro nel mattone. Lo scopo è sempre lo stesso: riciclare denaro sporco. Ci spiega Walter Mescalchin di Libera: “Per la criminalità organizzata il riciclaggio del ricavato dalle attività illecite è fondamentale. Centri commerciali o direzionali, grandi alberghi, e in generale le colate di cemento, sono l’ideale perché prevedono cospicui stanziamenti. Il denaro non gli manca. La mafia non soffre la crisi. E sono gli unici imprenditori che possono permettersi di investire cento per ricavare venti. Son finiti i tempi in cui minacciavano il sindaco per avere l’appalto delle pulizie del Comune. Oggi preferiscono controllare le grandi opere e gli investimenti miliardari. Magari quelli gestiti da un unico commissario, così si bypassa meglio la democrazia ed i controlli ambientali”. A questo punto, per fare il quadro completo della situazione, manca solo un elenco di alcune delle follie da sceicco che si stanno contrabbandando a Jesolo sotto la benedizione “sviluppo economico” e del “completamento di opera già avviate”. Tenetevi saldi: 5.200 tra camping, ville, villette e villaggi turistici, 391 hotel di cui alcuni grandi come grattacieli, e poi campi da golf, parchi acquatici, centri commerciali a tema. Entriamo nei dettagli: centro congressi “fronte mare” (magari per discutere di come tutelare l’ambiente costiero); un elegante centro benessere di 1600 metri quadri senza contare l’indispensabile mega parcheggio adiacente; un’Isola Blu a 150 metri dalla spiaggia, “arcipelago di servizi” l’ha definita l’architetto, ma non è altro che il solito centro commerciale; Laguna Park, giochi e divertimento assicurato per grandi e piccini, 150 mila metri quadrati di pineta tutelata che se ne vanno; Exotic Village, una vera e propria oasi del deserto che ci si può girare un film sulla legione straniera, ci sarà pure il caravanserraglio con dromedari del Sahara e beduini ma di razza padana; Cascina del Mar, finto giardino botanico che riecheggia agli antichi borghi mediterranei, sopra il cemento “plasmeremo gli edifici con la creta per rispettare la natura”; mega darsena con campo da golf annesso; mini grattacielo Tahiti; città della musica, altra colata di cemento per farci le trasmissioni estive di Rete Quattro; Ipercity, ennesimo centro commerciale; Merville Casa, grattacielo da 22 piani ma per “rispettare la pineta” sopra la quale sorgerà, il parcheggio sarà interrato; in piazza Drago, sono previsti 71 mila metri cubi di costruito per le nuove Torri Gemelle della cristianità. Facciamo grazia di altri due torroni che chiuderanno il lungomare e del grattacielo che voglio tirar su al limite del canale navigabile. Ecco qua. E l’assessore si lamenta: “Le pastoie burocratiche frenano la nostra vocazione turistica. Non è accettabile che per cambiare un infisso della finestra ci tocchi chiedere il permesso alla Sovrintendenza”.
Venezia tra Serenissima e modernità. Intervista con Tommaso Cacciari
4/05/2010TerraAlla presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, non è andato giù che a vincere il prestigioso premio messo in palio dall’associazione Gabriele Bortolozzo, sia stato un noto esponente dei No Mose come Tommaso Cacciari. Ancor meno digeribile, il fatto che detto premio sia stato consegnato all’interno di uno spazio gestito dalla stessa Provincia come il complesso situato nell’isola di San Servolo.
E non deve averle fatto neppure piacere che, dopo la consegna del premio, l’associazione abbia organizzato un giro in barca per far vedere ad un centinaio di attoniti spettatori un campionario dei disastri ambientali che si stanno confezionando in quella che un tempo era la laguna dei dogi. Disastri cui la Provincia mette generosamente del suo. Tutto ciò, dicevamo, non ha fatto piacere alla Zaccariotto. Tanto è vero che ha promesso un bel giro di vite sul consiglio di amministrazione in scadenza di San Servolo.
Tommaso, hai fatto arrabbiare la Zaccariotto?
E chi se ne frega?
Chiusa la polemica. Nella tesi che ti ha fruttato la laurea in storia e il premio Bortolozzo, tracci una storia ambientale di Venezia, dalla sua fondazione ad oggi. In particolare, evidenzi la modernità della Venezia Serenissima in rapporto all’arretratezza politica di oggi.
La modernità della Venezia dei dogi consisteva in quell’intreccio straordinario tra costruito, ambiente e cultura, su cui poggiava non solo la sopravvivenza ma la stessa ricchezza e prosperità della città. Se un pescatore che catturava un pesce troppo piccolo finiva ai remi per cinque anni, non era per una questione di animalismo spicciolo, ma per preservare l’equilibro indispensabile per difendere una risorsa comune come il pescato. E i pescatori stessi erano i primi ad applicare questa regola perché si consideravano i primi sorveglianti della laguna. Venezia era una città ben consapevole di vivere dentro un meccanismo globale. La laguna era considerata come un complesso organismo vivente che non poteva essere in nessun modo separato dalla città e dai suoi abitanti. Contrariamente a quanto credono in molti, nella laguna di Venezia non c’è niente di naturale. E’ un luogo dove il mare e i fiumi, l’acque dolce e l’acqua salata, si sono sfidati a braccio di ferro raggiungendo un equilibrio che non poteva durare nel tempo. La Serenissima questo lo aveva compreso e per centinaia di anni ha lavorato per mantenerlo e garantire la sopravvivenza di Venezia. Sono stati fatti continui ed innumerevoli lavori ma senza mai perdere di vista la complessità e il risultato d’insieme che era quello di mantenere viva la laguna, consapevoli che ogni intervento si sarebbe ripercosso secondo mille interazioni su tutto l'insieme. Circolazione delle acque, salubrità dell'aria, navigabilità erano i beni comuni a cui tutti dovevano non solo obbedienza, ma cooperazione consapevole. Quello che contava era l’equilibrio dell’ambiente circostante. Ma un equilibrio produttivo che donava ricchezza e prosperità. L’opposto del concetto fascista di parco naturale in cui dentro non si deve toccare nulla. E fuori però, si poteva cementare tutto.
Questo equilibrio viene spezzato nell’ottocento, con la perdita dell’indipendenza?
Le decisioni non erano più prese in loco ma prima a Vienna e poi a Roma. Sono anche gli anni dell’industralizzazione, che a Venezia ha portato più guai che altro. E’ il secolo del ferro e del carbone e la laguna viene vista come un fastidioso contrattempo. Se avessero potuto, l’avrebbero interrata tutta.
Che è quanto cercano di fare adesso, giusto?
Già. Il trend non è cambiato dall’ottocento ad oggi. Anzi, possiamo registrare una forte e preoccupante accelerazione proprio in questi ultimi anni in cui i cambiamenti climatici e le continue crisi economiche dovrebbe al contrario far riflettere sugli errori del cosiddetto sviluppo industriale. Da organismo vivente, complesso ma anche delicato, che dona la vita all’intera città, oggi la laguna viene considerata da una politica slegata sia dai saperi locali che dalla comunità scientifica, una sorta di catino pieno d’acqua che si può regolare con una valvola. Il Mose è forse l’esempio più eclatante, ma potremmo ricordare le barene sintetiche, gli interramenti, le valli da pesca con le rive in cemento, la statale romea, l’aeroporto, il Tronchetto, le casse di colmata, tutta la zona industriale, gli inceneritori come Sg31 e mi fermo qua. Manca solo la centrale nucleare, per adesso.
Venezia non ha mura. Vive nell’ambiente che la circonda e dell’ambiente che la circonda. Qui la parola “globale” ha un significato più chiaro che in qualsiasi altra grande città del mondo.
Lo ha spiegato bene Gianfranco Bettin che in suo libro quando sottolinea le ripercussioni che si sono registrate a Venezia a causa eventi di caratura mondiale apparentemente lontani. Faccio un esempio: la perestrojka. Gorbaciov pensiona il comunismo e Venezia va in tilt per l’invasione dei turisti dell’est. Ma potrei ricordare anche il bombardamento dell’iraq. Baghdad è sotto le bombe e il carnevale va in crisi. Fatti distanti nello spazio e in apparenza slegati con la nostra realtà, causano invece gravi problemi in una città globale come la nostra. Per non parlare dei cambiamenti climatici. Se il livello del mare dovesse salire, cosa credi che ne sarebbe di Venezia? E perché pensi che dal Sale siamo partiti in 25 per Copenhagen e ci siamo fatti arrestare tutti?
E non deve averle fatto neppure piacere che, dopo la consegna del premio, l’associazione abbia organizzato un giro in barca per far vedere ad un centinaio di attoniti spettatori un campionario dei disastri ambientali che si stanno confezionando in quella che un tempo era la laguna dei dogi. Disastri cui la Provincia mette generosamente del suo. Tutto ciò, dicevamo, non ha fatto piacere alla Zaccariotto. Tanto è vero che ha promesso un bel giro di vite sul consiglio di amministrazione in scadenza di San Servolo.
Tommaso, hai fatto arrabbiare la Zaccariotto?
E chi se ne frega?
Chiusa la polemica. Nella tesi che ti ha fruttato la laurea in storia e il premio Bortolozzo, tracci una storia ambientale di Venezia, dalla sua fondazione ad oggi. In particolare, evidenzi la modernità della Venezia Serenissima in rapporto all’arretratezza politica di oggi.
La modernità della Venezia dei dogi consisteva in quell’intreccio straordinario tra costruito, ambiente e cultura, su cui poggiava non solo la sopravvivenza ma la stessa ricchezza e prosperità della città. Se un pescatore che catturava un pesce troppo piccolo finiva ai remi per cinque anni, non era per una questione di animalismo spicciolo, ma per preservare l’equilibro indispensabile per difendere una risorsa comune come il pescato. E i pescatori stessi erano i primi ad applicare questa regola perché si consideravano i primi sorveglianti della laguna. Venezia era una città ben consapevole di vivere dentro un meccanismo globale. La laguna era considerata come un complesso organismo vivente che non poteva essere in nessun modo separato dalla città e dai suoi abitanti. Contrariamente a quanto credono in molti, nella laguna di Venezia non c’è niente di naturale. E’ un luogo dove il mare e i fiumi, l’acque dolce e l’acqua salata, si sono sfidati a braccio di ferro raggiungendo un equilibrio che non poteva durare nel tempo. La Serenissima questo lo aveva compreso e per centinaia di anni ha lavorato per mantenerlo e garantire la sopravvivenza di Venezia. Sono stati fatti continui ed innumerevoli lavori ma senza mai perdere di vista la complessità e il risultato d’insieme che era quello di mantenere viva la laguna, consapevoli che ogni intervento si sarebbe ripercosso secondo mille interazioni su tutto l'insieme. Circolazione delle acque, salubrità dell'aria, navigabilità erano i beni comuni a cui tutti dovevano non solo obbedienza, ma cooperazione consapevole. Quello che contava era l’equilibrio dell’ambiente circostante. Ma un equilibrio produttivo che donava ricchezza e prosperità. L’opposto del concetto fascista di parco naturale in cui dentro non si deve toccare nulla. E fuori però, si poteva cementare tutto.
Questo equilibrio viene spezzato nell’ottocento, con la perdita dell’indipendenza?
Le decisioni non erano più prese in loco ma prima a Vienna e poi a Roma. Sono anche gli anni dell’industralizzazione, che a Venezia ha portato più guai che altro. E’ il secolo del ferro e del carbone e la laguna viene vista come un fastidioso contrattempo. Se avessero potuto, l’avrebbero interrata tutta.
Che è quanto cercano di fare adesso, giusto?
Già. Il trend non è cambiato dall’ottocento ad oggi. Anzi, possiamo registrare una forte e preoccupante accelerazione proprio in questi ultimi anni in cui i cambiamenti climatici e le continue crisi economiche dovrebbe al contrario far riflettere sugli errori del cosiddetto sviluppo industriale. Da organismo vivente, complesso ma anche delicato, che dona la vita all’intera città, oggi la laguna viene considerata da una politica slegata sia dai saperi locali che dalla comunità scientifica, una sorta di catino pieno d’acqua che si può regolare con una valvola. Il Mose è forse l’esempio più eclatante, ma potremmo ricordare le barene sintetiche, gli interramenti, le valli da pesca con le rive in cemento, la statale romea, l’aeroporto, il Tronchetto, le casse di colmata, tutta la zona industriale, gli inceneritori come Sg31 e mi fermo qua. Manca solo la centrale nucleare, per adesso.
Venezia non ha mura. Vive nell’ambiente che la circonda e dell’ambiente che la circonda. Qui la parola “globale” ha un significato più chiaro che in qualsiasi altra grande città del mondo.
Lo ha spiegato bene Gianfranco Bettin che in suo libro quando sottolinea le ripercussioni che si sono registrate a Venezia a causa eventi di caratura mondiale apparentemente lontani. Faccio un esempio: la perestrojka. Gorbaciov pensiona il comunismo e Venezia va in tilt per l’invasione dei turisti dell’est. Ma potrei ricordare anche il bombardamento dell’iraq. Baghdad è sotto le bombe e il carnevale va in crisi. Fatti distanti nello spazio e in apparenza slegati con la nostra realtà, causano invece gravi problemi in una città globale come la nostra. Per non parlare dei cambiamenti climatici. Se il livello del mare dovesse salire, cosa credi che ne sarebbe di Venezia? E perché pensi che dal Sale siamo partiti in 25 per Copenhagen e ci siamo fatti arrestare tutti?
Il Trentino alle urne
4/05/2010TerraDomenica 16 maggio, 205 comuni del trentino andranno al voto per eleggere sindaco e consiglieri comunali. Un test elettorale che, diciamocelo francamente, non fa perdere il sonno ai palazzi romani, che ancora devono digerirsi l’ultima indigestione elettorale. Un test che non appassiona neppure troppi cittadini trentini, a voler scrivere la verità, considerato che in ben 42 Comuni (quasi un quarto dei totali) è stata presentata una lista sola e di conseguenza l’unica curiosità rimane quella dell’affluenza. In quanti si prenderanno il disturbo ad uscir di casa per mettere una croce su una scheda con un nome solo?
Addirittura, in quel di Cis, piccolo (poco più di trecento anime) ma incantevole paesino situato proprio nel cuore della val di Non, non ne è stata presentata nessuna, di lista! Il sindaco uscente, per raggiunti limiti di mandato, non ha più potuto ricandidarsi. E così il paese è stato commissariato, in attesa che qualcuno non si decida a sedersi sulla poltrona di sindaco. La lontananza dai riflettori della politica che conta, e che di solito è più spettacolo che politica, ha comunque avuto il pregio di riportare i temi ambientali al centro del dibattito e di tenere alla larga, per quanto possibile, l’invadenza dei partiti. Ciò si è verificato in particolare nei Comuni più piccoli, dove gli equilibri di coalizione, tanto di destra che di sinistra, hanno lasciato il posto a coalizioni civiche con solidi programmi, non di rado, basati sulla difesa dei beni comuni come l’acqua e il territorio. Nei Comuni più grandi invece, le sfide sono ancora soggette alle logiche di schieramento. Parliamo di Arco, Riva del Garda e in particolare di Rovereto. La recente batosta elettorale maturata in tutto il Paese, non ha favorito l’intesa tra i partiti del centro sinistra che guidano tuttora la Provincia: in poche realtà lo schieramento è riuscito a compattarsi dietro un unico candidato. La spaccatura più pesante è stata ad Arco, dove i democratici e la lista verde “Arco ambiente ecologia e società” appoggeranno il sindaco Paolo Mattei, mentre Patt, partito autonomista trentino e tirolese, e l’Upt, unione per il Trentino (praticamente la vecchia Margherita), sosterranno il candidato dell’Udc Mario Morandini. A Rovereto, sia pure all’ultimo minuto e non senza gli inevitabili tiramolla, democratici, margherita e autonomisti del Patt hanno scaricato il sindaco uscente Guglielmo Valduga (che comunque si ricandiderà alla testa di un civica) per spingere Andrea Miorandi, l’imprenditore noto per aver convinto i produttori del Grande Fratello a mettere i contenitori differenziati nella casa. Dall’altra parte dello schieramento, lega e pdl propongono Barbare Lorenzi, mentre i verdi si presentano, come già in altri Comuni come Arco, Riva del Garda, Mori e Lavis, con il simbolo del Sole che ride e la scritta “Verdi, società e ambiente”, per sostenere un candidato “fuori del coro”: quel Mauro Previdi recentemente silurato dalla carica di presidente della commissione comunale politiche sociali dopo un lavoro di indagine sulla Casa di Soggiorno per Anziani di Rovereto. Previdi aveva accusato pesantemente la maggioranza di cui faceva parte di “pensare più alla gestione del potere che alla difesa dei più deboli" e era saltato nella barricata ambientalista. Il che gli è costato la poltrona di presidente ma gli è valso la candidatura a sindaco dei verdi. Qui a Rovereto, la partita per il ballottaggio è quanto mai incerta perché i candidati sindaci sono in tutto otto. Oltre ai quattro già citati, ricordiamo i candidati messi in campo da Rifondazione, dall’Italia dei valori, dalla Fiamma tricolore e da un’altra civica. Centrosinistra compatto invece a Riva del Garda. Nella bella cittadina situata sulle sponde più a nord dell’omonimo lago, i verdi “ecologia e società” appoggeranno il sindaco uscente, Adalberto Mosaner, sostenuto da tutto lo schieramento unitario. Un caso, come abbiamo visto, più unico che raro in tutto il trentino.
Addirittura, in quel di Cis, piccolo (poco più di trecento anime) ma incantevole paesino situato proprio nel cuore della val di Non, non ne è stata presentata nessuna, di lista! Il sindaco uscente, per raggiunti limiti di mandato, non ha più potuto ricandidarsi. E così il paese è stato commissariato, in attesa che qualcuno non si decida a sedersi sulla poltrona di sindaco. La lontananza dai riflettori della politica che conta, e che di solito è più spettacolo che politica, ha comunque avuto il pregio di riportare i temi ambientali al centro del dibattito e di tenere alla larga, per quanto possibile, l’invadenza dei partiti. Ciò si è verificato in particolare nei Comuni più piccoli, dove gli equilibri di coalizione, tanto di destra che di sinistra, hanno lasciato il posto a coalizioni civiche con solidi programmi, non di rado, basati sulla difesa dei beni comuni come l’acqua e il territorio. Nei Comuni più grandi invece, le sfide sono ancora soggette alle logiche di schieramento. Parliamo di Arco, Riva del Garda e in particolare di Rovereto. La recente batosta elettorale maturata in tutto il Paese, non ha favorito l’intesa tra i partiti del centro sinistra che guidano tuttora la Provincia: in poche realtà lo schieramento è riuscito a compattarsi dietro un unico candidato. La spaccatura più pesante è stata ad Arco, dove i democratici e la lista verde “Arco ambiente ecologia e società” appoggeranno il sindaco Paolo Mattei, mentre Patt, partito autonomista trentino e tirolese, e l’Upt, unione per il Trentino (praticamente la vecchia Margherita), sosterranno il candidato dell’Udc Mario Morandini. A Rovereto, sia pure all’ultimo minuto e non senza gli inevitabili tiramolla, democratici, margherita e autonomisti del Patt hanno scaricato il sindaco uscente Guglielmo Valduga (che comunque si ricandiderà alla testa di un civica) per spingere Andrea Miorandi, l’imprenditore noto per aver convinto i produttori del Grande Fratello a mettere i contenitori differenziati nella casa. Dall’altra parte dello schieramento, lega e pdl propongono Barbare Lorenzi, mentre i verdi si presentano, come già in altri Comuni come Arco, Riva del Garda, Mori e Lavis, con il simbolo del Sole che ride e la scritta “Verdi, società e ambiente”, per sostenere un candidato “fuori del coro”: quel Mauro Previdi recentemente silurato dalla carica di presidente della commissione comunale politiche sociali dopo un lavoro di indagine sulla Casa di Soggiorno per Anziani di Rovereto. Previdi aveva accusato pesantemente la maggioranza di cui faceva parte di “pensare più alla gestione del potere che alla difesa dei più deboli" e era saltato nella barricata ambientalista. Il che gli è costato la poltrona di presidente ma gli è valso la candidatura a sindaco dei verdi. Qui a Rovereto, la partita per il ballottaggio è quanto mai incerta perché i candidati sindaci sono in tutto otto. Oltre ai quattro già citati, ricordiamo i candidati messi in campo da Rifondazione, dall’Italia dei valori, dalla Fiamma tricolore e da un’altra civica. Centrosinistra compatto invece a Riva del Garda. Nella bella cittadina situata sulle sponde più a nord dell’omonimo lago, i verdi “ecologia e società” appoggeranno il sindaco uscente, Adalberto Mosaner, sostenuto da tutto lo schieramento unitario. Un caso, come abbiamo visto, più unico che raro in tutto il trentino.
Vietato riposare in pace (se sei islamico)
27/04/2010TerraAd Udine, la Lega sta raccogliendo firme. Raccoglie firme per chiedere che venga immediatamente riesumato il corpo di una bambina islamica seppellita da pochi giorni e che venga proibito a tutti mussulmani inumare i propri defunti con la testa rivolta verso la Mecca. Il tutto, per dirla con le parole del capogruppo del carroccio in consiglio comunale, Luca Dordolo, perché ciò sarebbe “irrispettoso dei sentimenti più intimi della maggioranza della popolazione”.
La vicenda comincia il 28 settembre dello scorso anno, quando il Comune di Udine concesse una parte del cimitero di Paderno alla comunità islamica per seppellire i loro defunti secondo riti e tradizioni mussulmani. Il Pdl e la Lega in particolare, urlarono immediatamente all’onta e alla profanazione dei valori cristiani, senza considerare che lo stesso arcivescovo di Udine, in più occasioni, si è sempre detto favorevole all’istituzione di un cimitero dedicato ai credenti islamici. “I loro defunti possono riposare accanto ai nostri? Noi diciamo no!” si leggeva in un manifesto con il quale il Carroccio friulano aveva tappezzato i muri del capoluogo. Il tutto non per una questione di razzismo. Anzi. E’ tutta una questione di favorire l’integrazione. “Sono loro a non voler essere messi in mezzo a noi! A voler essere seppelliti da un’altra parte. Sono loro i razzisti – spiega Dordolo -. Noi invece non siamo tutti razzisti, noi siamo per l’integrazione. Dei regolari, sia chiaro”. La polemica si era assopita ma solo per risvegliarsi alla prima inumazione. Una neonata di pochi mesi, figlia di una coppia di lavoratori (regolari, Dordolo si tranquillizzi) è deceduta nell’ospedale di Pordenone e genitori hanno deciso di seppellirla a Paderno, seguendo il rito islamico. Il fatto che la defunta sia solo una bambina non ha fatto desistere i due partiti di destra dal riprendere la battaglia annunciata contro la pretesa “invasione islamica”. E lo hanno fatto ciascuno a modo suo: la lega con banchetti, raccolta firme e volantinaggi in piazza per chiedere che i cimiteri rionali siano riservati ai residenti, il Pdl con la carta bollata: “Faremo verificare se nella sepoltura siano state commesse delle irregolarità, come il lavaggio in un luogo improprio di alcune parti della salma – ha spiegato il capogruppo in consiglio comunale del popolo delle libertà in Comune, Loris Michelini -. Ma certamente, dal punto di vista cristiano, ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione”.
Totalmente assenti dal dibattito i democratici che in una nota si limitano a ricordare che il Comune non ha speso un soldo per il cimitero islamico e si è limitato ad assegnare un’area. Invece “rimandare un defunto al suo Paese costa quasi 8 mila euro, e a pagare sono i cittadini udinesi”. E certi temi poi, in casa democratica, meno si affrontano e meglio è per tutti. Questioni di marketing.
A farci caso, le motivazioni di chi è contro il cimitero islamico non sono poi così diverse da coloro che lo difendono. Sia in campo leghista che in quello della sinistra che ha organizzato alcuni iniziative a sostegno del cimitero, si parla di “integrazione” e di “apertura nei confronti delle altra culture”, si accusano gli avversari di “razzismo” e di “approfittare di un luttuoso evento come la morte di una bambina per farsi propaganda politica”. Perlomeno questo è quanto si sostiene davanti ai taccuini dei giornalisti. Chi sono i veri razzisti, allora? Per schiarirci le idee, basta fare un giro nei vari blog della Lega o nelle pagine dei social network. Ne trovate a bizzeffe. Basta battere nel motore di ricerca “cimitero islamico Udine”. Riportiamo per una questione di spazio e di stomaco, solo le prime due condivisioni trovate in testa alla pagina Facebook dedicata al tema del cimitero friulano. FS: ”Stanno entrando con un’arroganza assurda... hanno iniziato col crocefisso e tra poco dovremmo seppellire i nostri morti in giardino perché non ci sarà più posto per noi... ma loro l'idea di un inceneritore non va, eh...? tipo biomassa...?” GB: “Per impedire ciò basta che qualcuno porti un maiale su quel pezzo di terra e per loro diverrà impuro e di inadatto a qualsiasi rito religioso. Combattete i musulmani a colpi di maiale!” Son frasi riportate col copia e incolla. Mi sono solo permesso di sistemare la grammatica perché “qualch'uno” degli scriventi non è stato troppo attento ai tempi della scuola. E ci domandiamo ancora chi sono i razzisti? Eppure i leghisti sostengono di non esserlo. E lo dimostrerebbe il forte consenso elettorale ottenuto anche nelle ultime elezioni. Bastasse questo…
La vicenda comincia il 28 settembre dello scorso anno, quando il Comune di Udine concesse una parte del cimitero di Paderno alla comunità islamica per seppellire i loro defunti secondo riti e tradizioni mussulmani. Il Pdl e la Lega in particolare, urlarono immediatamente all’onta e alla profanazione dei valori cristiani, senza considerare che lo stesso arcivescovo di Udine, in più occasioni, si è sempre detto favorevole all’istituzione di un cimitero dedicato ai credenti islamici. “I loro defunti possono riposare accanto ai nostri? Noi diciamo no!” si leggeva in un manifesto con il quale il Carroccio friulano aveva tappezzato i muri del capoluogo. Il tutto non per una questione di razzismo. Anzi. E’ tutta una questione di favorire l’integrazione. “Sono loro a non voler essere messi in mezzo a noi! A voler essere seppelliti da un’altra parte. Sono loro i razzisti – spiega Dordolo -. Noi invece non siamo tutti razzisti, noi siamo per l’integrazione. Dei regolari, sia chiaro”. La polemica si era assopita ma solo per risvegliarsi alla prima inumazione. Una neonata di pochi mesi, figlia di una coppia di lavoratori (regolari, Dordolo si tranquillizzi) è deceduta nell’ospedale di Pordenone e genitori hanno deciso di seppellirla a Paderno, seguendo il rito islamico. Il fatto che la defunta sia solo una bambina non ha fatto desistere i due partiti di destra dal riprendere la battaglia annunciata contro la pretesa “invasione islamica”. E lo hanno fatto ciascuno a modo suo: la lega con banchetti, raccolta firme e volantinaggi in piazza per chiedere che i cimiteri rionali siano riservati ai residenti, il Pdl con la carta bollata: “Faremo verificare se nella sepoltura siano state commesse delle irregolarità, come il lavaggio in un luogo improprio di alcune parti della salma – ha spiegato il capogruppo in consiglio comunale del popolo delle libertà in Comune, Loris Michelini -. Ma certamente, dal punto di vista cristiano, ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione”.
Totalmente assenti dal dibattito i democratici che in una nota si limitano a ricordare che il Comune non ha speso un soldo per il cimitero islamico e si è limitato ad assegnare un’area. Invece “rimandare un defunto al suo Paese costa quasi 8 mila euro, e a pagare sono i cittadini udinesi”. E certi temi poi, in casa democratica, meno si affrontano e meglio è per tutti. Questioni di marketing.
A farci caso, le motivazioni di chi è contro il cimitero islamico non sono poi così diverse da coloro che lo difendono. Sia in campo leghista che in quello della sinistra che ha organizzato alcuni iniziative a sostegno del cimitero, si parla di “integrazione” e di “apertura nei confronti delle altra culture”, si accusano gli avversari di “razzismo” e di “approfittare di un luttuoso evento come la morte di una bambina per farsi propaganda politica”. Perlomeno questo è quanto si sostiene davanti ai taccuini dei giornalisti. Chi sono i veri razzisti, allora? Per schiarirci le idee, basta fare un giro nei vari blog della Lega o nelle pagine dei social network. Ne trovate a bizzeffe. Basta battere nel motore di ricerca “cimitero islamico Udine”. Riportiamo per una questione di spazio e di stomaco, solo le prime due condivisioni trovate in testa alla pagina Facebook dedicata al tema del cimitero friulano. FS: ”Stanno entrando con un’arroganza assurda... hanno iniziato col crocefisso e tra poco dovremmo seppellire i nostri morti in giardino perché non ci sarà più posto per noi... ma loro l'idea di un inceneritore non va, eh...? tipo biomassa...?” GB: “Per impedire ciò basta che qualcuno porti un maiale su quel pezzo di terra e per loro diverrà impuro e di inadatto a qualsiasi rito religioso. Combattete i musulmani a colpi di maiale!” Son frasi riportate col copia e incolla. Mi sono solo permesso di sistemare la grammatica perché “qualch'uno” degli scriventi non è stato troppo attento ai tempi della scuola. E ci domandiamo ancora chi sono i razzisti? Eppure i leghisti sostengono di non esserlo. E lo dimostrerebbe il forte consenso elettorale ottenuto anche nelle ultime elezioni. Bastasse questo…
Padova, asili vietati ai figli degli irregolari
27/04/2010TerraAsili vietati ai figli degli irregolari. Il che significa che i bambini di Padova non hanno tutti gli stessi diritti. Chi ha il papà con le carte bollate in regola può frequentare l’asilo comunale. Chi ha il papà povero, migrante, senza lavoro o magari sfruttato in nero dal papà di quell’altro bambino (quello che può andare in asilo) se ne deve rimanere a casa. Questo accade in una città padana amministrata da un centro sinistra convinto che per vincere bisogna seguire la stessa politica della Lega. Padova, la città del Santo e dello “sceriffo rosso” Flavio Zanonato.
Uno che si è fatto tutta la scuola politica del partito comunista: da segretario della Fgci, l’allora federazione giovanile comunisti italiani, a leader regionale del partito democratico. Zanonato che si è già distinto in soluzioni “di forza” su questioni come la prostituzione e la tossicodipendenza, ha cercato di dare un giro di vite anche negli asili. “Il Comune verificherà la presenza e la validità dei documenti di soggiorno degli stranieri non comunitari (art. 6 comma 2 del D.Lgs. 286/98, modificato dalla legge 94 del 15 luglio 2009)” si legge, e in carattere neretto, nella pagina web del Comune patavino dedicata alle iscrizioni agli asili nido comunali per il 2010. Non volontà di escludere qualcuno, ha precisato l’amministrazione della città patavina, ma per una mera disposizione di legge varata col cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Una giustificazione bocciata da Nicola Grigion, responsabile del progetto Melting Pot Europa: “Il regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione sancisce senza ombra di dubbio che l’iscrizione dei minori stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”. La garanzia anche per gli irregolari di iscrivere i propri figli agli asili, spiega Grigion, è inoltre rafforzata da tutte le convenzioni internazionali e da alcune sentenze della Corte Costituzionale. Proprio in forza di queste sentenze, altre amministrazioni comunali, come quella di Torino, hanno ribadito che i loro asili sono aperti a tutti i bambini, permesso di soggiorno o no, rifiutandosi nei fatti di seguire pedissequamente la linea politica di Bossi e Maroni, volta a penalizzare i settori più disagiati della società. Melting Pot ha quindi chiesto ufficialmente al Comune di non trincerarsi dietro la banale scusa di una “disposizione di legge” ma ad assumere responsabilmente una forte posizione contro qualsiasi discriminazione negli asili. “La risposta di Zanonato è stata per certi versi positiva – conclude Grigion -. Il sindaco ha preso atto delle sentenze in cui si ribadisce che al momento dell’iscrizione dei propri figli all’asilo non deve essere mostrato nessun documento di soggiorno, ma ha voluto precisare che, sino ad oggi, nessun irregolare ha chiesto l’iscrizione dei suoi bambini in un asilo comunale. E comunque per dei ‘motivi tecnici’ che non riusciamo a giustificare, nel sito del Comune continua a comparire in neretto l’obbligo del permesso di soggiorno. Ci viene il sospetto che qualcuno giochi intenzionalmente con la strategia della paura, così com’è già accaduto con gli ospedali dove i medici non hanno mai denunciato nessuno ma i migranti hanno comunque paura ad andarci”.
Uno che si è fatto tutta la scuola politica del partito comunista: da segretario della Fgci, l’allora federazione giovanile comunisti italiani, a leader regionale del partito democratico. Zanonato che si è già distinto in soluzioni “di forza” su questioni come la prostituzione e la tossicodipendenza, ha cercato di dare un giro di vite anche negli asili. “Il Comune verificherà la presenza e la validità dei documenti di soggiorno degli stranieri non comunitari (art. 6 comma 2 del D.Lgs. 286/98, modificato dalla legge 94 del 15 luglio 2009)” si legge, e in carattere neretto, nella pagina web del Comune patavino dedicata alle iscrizioni agli asili nido comunali per il 2010. Non volontà di escludere qualcuno, ha precisato l’amministrazione della città patavina, ma per una mera disposizione di legge varata col cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Una giustificazione bocciata da Nicola Grigion, responsabile del progetto Melting Pot Europa: “Il regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione sancisce senza ombra di dubbio che l’iscrizione dei minori stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”. La garanzia anche per gli irregolari di iscrivere i propri figli agli asili, spiega Grigion, è inoltre rafforzata da tutte le convenzioni internazionali e da alcune sentenze della Corte Costituzionale. Proprio in forza di queste sentenze, altre amministrazioni comunali, come quella di Torino, hanno ribadito che i loro asili sono aperti a tutti i bambini, permesso di soggiorno o no, rifiutandosi nei fatti di seguire pedissequamente la linea politica di Bossi e Maroni, volta a penalizzare i settori più disagiati della società. Melting Pot ha quindi chiesto ufficialmente al Comune di non trincerarsi dietro la banale scusa di una “disposizione di legge” ma ad assumere responsabilmente una forte posizione contro qualsiasi discriminazione negli asili. “La risposta di Zanonato è stata per certi versi positiva – conclude Grigion -. Il sindaco ha preso atto delle sentenze in cui si ribadisce che al momento dell’iscrizione dei propri figli all’asilo non deve essere mostrato nessun documento di soggiorno, ma ha voluto precisare che, sino ad oggi, nessun irregolare ha chiesto l’iscrizione dei suoi bambini in un asilo comunale. E comunque per dei ‘motivi tecnici’ che non riusciamo a giustificare, nel sito del Comune continua a comparire in neretto l’obbligo del permesso di soggiorno. Ci viene il sospetto che qualcuno giochi intenzionalmente con la strategia della paura, così com’è già accaduto con gli ospedali dove i medici non hanno mai denunciato nessuno ma i migranti hanno comunque paura ad andarci”.
Ripartiamo dal Congo
27/04/2010TerraDura la vita per i bambini della “Padania”! Intendiamo quelli poveri: i figli dei migranti, dei senza lavoro “padani” o no, o di chi il lavoro ce l’ha ma solo per portare a casa quattro soldi che andare al sindacato si ottiene solo di restare a casa e finire per perdere pure il permesso di soggiorno. Un tempo si parlava di sfruttamento e si gridava all’ingiustizia sociale. Ma un tempo si diceva anche che i bambini sono tutti uguali, che tutti hanno diritto all’istruzione e alla salute.
E ora eccoci qua, in un nordest dove sindaci eletti da maggioranze bulgare pretendono che non si canti Bella Ciao ma la canzone del Piave per festeggiare il 25 aprile. Eccoci qua a scrivere di bambini che non possono iscriversi all’asilo perché se il padre è clandestino son clandestini pure loro o di cadaveri di neonati che devono essere riesumati perché i oro genitori li hanno seppelliti con la testa rivolta verso la Mecca, offendendo l’anima cattolica di qualcuno. E sono solo alcuni casi. Potremmo anche parlare dei 16 scolari elementari di Verona, la città di Romeo, Giulietta e Tosi, fatti scendere dal bus scolastico da un integerrimo assessore perché i loro genitori non avevano “schei” per pagare gli abbonamenti. Di bimbi rimasti a digiuno in terra padana, nella leghistissima Adro (Brescia), ne abbiamo già parlato nello scorso numero del nostro supplemento Nordest. E neanche quello era un caso isolato: lo stesso è accaduto a Padova dove il Comune – che, per quel che vale, sarebbe anche amministrato da una sorta di centrosinistra - ha rifiutato la proposta di rateizzazione del debito di una mamma e ha chiuso la refezione dell’asilo al figlioletto rispedendolo a casa con un foglietto in mano in cui si chiedeva alla donna di provvedere immediatamente a saldare il dovuto. E gli è andata anche meglio del suo coetaneo di Montecchio messo direttamente a pane e acqua dal sindaco del Carroccio. E potremmo anche raccontare del capogruppo leghista della Lombardia che ha invitato i tifosi a fischiare i venti bambini rom che il presidente dell’Inter Massimo Moratti ha fatto sfilare allo stadio prima della partita come segnale contro la violenza. Ecco. Tutte queste situazioni in terra padana non indignano più. Ma per fortuna non è così in tutto il mondo. Veniamo a leggere che a Bunyatenge, nel Congo, i bambini della scuola locale hanno raccolto 600 euro per aiutare i loro coetanei di Adro rimasti a stomaco vuoto. E allora grazie, bambini di Bunyatenge. Grazie perché ci avete ricordato che c’è ancora gente che certe cose gli fanno schifo.
E ora eccoci qua, in un nordest dove sindaci eletti da maggioranze bulgare pretendono che non si canti Bella Ciao ma la canzone del Piave per festeggiare il 25 aprile. Eccoci qua a scrivere di bambini che non possono iscriversi all’asilo perché se il padre è clandestino son clandestini pure loro o di cadaveri di neonati che devono essere riesumati perché i oro genitori li hanno seppelliti con la testa rivolta verso la Mecca, offendendo l’anima cattolica di qualcuno. E sono solo alcuni casi. Potremmo anche parlare dei 16 scolari elementari di Verona, la città di Romeo, Giulietta e Tosi, fatti scendere dal bus scolastico da un integerrimo assessore perché i loro genitori non avevano “schei” per pagare gli abbonamenti. Di bimbi rimasti a digiuno in terra padana, nella leghistissima Adro (Brescia), ne abbiamo già parlato nello scorso numero del nostro supplemento Nordest. E neanche quello era un caso isolato: lo stesso è accaduto a Padova dove il Comune – che, per quel che vale, sarebbe anche amministrato da una sorta di centrosinistra - ha rifiutato la proposta di rateizzazione del debito di una mamma e ha chiuso la refezione dell’asilo al figlioletto rispedendolo a casa con un foglietto in mano in cui si chiedeva alla donna di provvedere immediatamente a saldare il dovuto. E gli è andata anche meglio del suo coetaneo di Montecchio messo direttamente a pane e acqua dal sindaco del Carroccio. E potremmo anche raccontare del capogruppo leghista della Lombardia che ha invitato i tifosi a fischiare i venti bambini rom che il presidente dell’Inter Massimo Moratti ha fatto sfilare allo stadio prima della partita come segnale contro la violenza. Ecco. Tutte queste situazioni in terra padana non indignano più. Ma per fortuna non è così in tutto il mondo. Veniamo a leggere che a Bunyatenge, nel Congo, i bambini della scuola locale hanno raccolto 600 euro per aiutare i loro coetanei di Adro rimasti a stomaco vuoto. E allora grazie, bambini di Bunyatenge. Grazie perché ci avete ricordato che c’è ancora gente che certe cose gli fanno schifo.
Tre firme per l'acqua
27/04/2010TerraPrivatizzare l’acqua significa mercificare un diritto. Ma i diritti non si mercificano, si tutelano. Perché i diritti non possono essere né venduti né comprati. Questo è quanto ha ribadito il centinaio di persone che giovedì pomeriggio, 22 aprile, si sono dati appuntamento al teatro adiacente la storica chiesa dei Frari di Venezia, per discutere e coordinare la campagna referendaria nella provincia di Venezia.
Tre quesiti per un unico scopo: respingere il tentativo del governo di privatizzare un bene comune come l’acqua e aprire la strada ad una sue gestione più consapevole e partecipata. “Nella sola Venezia – ha spiegato Francesco Penzo, uno dei coordinatori della raccolta firme – contiamo di raccogliere perlomeno 10 mila firme. Già moltissime organizzazioni sociali e sindacali, associazioni ambientaliste e politiche, ci hanno dato ampia disponibilità ad organizzare banchetti e a raccogliere adesioni. Ma la cosa più bella è stata vedere studenti, giovani e anche persone meno giovani che prima di oggi non avevano mai partecipato ad una campagna come attivisti, farsi avanti e chiederci come potevano essere utili”. Grazie alla disponibilità del neo assessore comunale all’ambiente Gianfranco Bettin, che non ha caso ha ottenuto dal sindaco Giorgio Orsoni la delega ai Beni Comuni, il centro pace coordinato da Luigi Barbieri si è messo a disposizione del coordinamento come centro logistico. Un problema, considerato la grande partecipazione all’assemblea preparatoria, è stata la scarsa disponibilità di moduli per la raccolta firme a disposizione. In attesa dei “rinforzi”, sarà indispensabile usufruire al meglio del materiale disponibile riempiendo ogni singola casella di ogni singolo modulo. “Questa battaglia referendaria è una occasione storica per riscoprire e rilanciare uno spazio di iniziative dal basso non soltanto per riportare al centro del dibattito politico la tutela dei beni comuni – ha commentato il verde Beppe Caccia - ma anche per aprire una discussione su come questi beni devono essere gestiti per garantire tanto l’accessibilità da parte di tutti quanto un utilizzo ottimale”. Non dimentichiamo che il Comune di Venezia è stato tra i primi ad introdurre nel suo statuto grazie ad una delibera portata in consiglio da verdi e Rifondazione il 18 gennaio 2010, il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico la cui gestione “è un servizio pubblico di locale privo di rilevanza economica” e pertanto “non soggetto alla disciplina della concorrenza”. “L’acqua – si legge nella premessa alla delibera – è un bene essenziale ed insostituibile per la vita. Pertanto la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell’uomo, un diritto universale, indivisibile che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’articolo 2 della Costituzione”.
Tre quesiti per un unico scopo: respingere il tentativo del governo di privatizzare un bene comune come l’acqua e aprire la strada ad una sue gestione più consapevole e partecipata. “Nella sola Venezia – ha spiegato Francesco Penzo, uno dei coordinatori della raccolta firme – contiamo di raccogliere perlomeno 10 mila firme. Già moltissime organizzazioni sociali e sindacali, associazioni ambientaliste e politiche, ci hanno dato ampia disponibilità ad organizzare banchetti e a raccogliere adesioni. Ma la cosa più bella è stata vedere studenti, giovani e anche persone meno giovani che prima di oggi non avevano mai partecipato ad una campagna come attivisti, farsi avanti e chiederci come potevano essere utili”. Grazie alla disponibilità del neo assessore comunale all’ambiente Gianfranco Bettin, che non ha caso ha ottenuto dal sindaco Giorgio Orsoni la delega ai Beni Comuni, il centro pace coordinato da Luigi Barbieri si è messo a disposizione del coordinamento come centro logistico. Un problema, considerato la grande partecipazione all’assemblea preparatoria, è stata la scarsa disponibilità di moduli per la raccolta firme a disposizione. In attesa dei “rinforzi”, sarà indispensabile usufruire al meglio del materiale disponibile riempiendo ogni singola casella di ogni singolo modulo. “Questa battaglia referendaria è una occasione storica per riscoprire e rilanciare uno spazio di iniziative dal basso non soltanto per riportare al centro del dibattito politico la tutela dei beni comuni – ha commentato il verde Beppe Caccia - ma anche per aprire una discussione su come questi beni devono essere gestiti per garantire tanto l’accessibilità da parte di tutti quanto un utilizzo ottimale”. Non dimentichiamo che il Comune di Venezia è stato tra i primi ad introdurre nel suo statuto grazie ad una delibera portata in consiglio da verdi e Rifondazione il 18 gennaio 2010, il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico la cui gestione “è un servizio pubblico di locale privo di rilevanza economica” e pertanto “non soggetto alla disciplina della concorrenza”. “L’acqua – si legge nella premessa alla delibera – è un bene essenziale ed insostituibile per la vita. Pertanto la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell’uomo, un diritto universale, indivisibile che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’articolo 2 della Costituzione”.
Venezia, giunta e polemiche
20/04/2010TerraC’è da dire che il primo nemico del Pd è sempre il Pd stesso. Se ne deve essere reso conto anche il neo eletto sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che per varare la giunta comunale ha dovuto improvvisare uno slalom da sciatore olimpico tra i tanti, troppi, correntoni democratici, finendo per non accontentarne nessuna ma, in compenso, per scontentare tutta la base che ora chiede le dimissioni in toto della classe dirigente veneziana del partito.
E per fortuna che hanno vinto le elezioni al primo turno! Ma su chi ne abbia il merito, è tutto da discutere. Orsoni può togliersi lo sfizio di sbattere sul tavolo le migliaia di preferenze ottenute in più della somma dei voti delle liste che lo appoggiavano. Voti “suoi” o voti “contro Brunetta” che siano, il neo sindaco è riuscito a farli pesare e ad escludere dalla lista degli assessori, così come aveva promesso in campagna elettorale, tutto quel “cimitero degli elefanti democratici” che era, per lo più, la giunta Cacciari. Fuori pezzi da novanta come, per dirne uno, l’ex vice sindaco Michele Mognato, oppure l’ex presidente provinciale trombato Davide Zoggia . “Non per volontà di escludere – ha spiegato il sindaco – ma per dare un segnale di rinnovamento”. Rinnovamento non gradito né dalle correnti Pd, che da tre giorni si stanno vicendevolmente pesando le deleghe tra i vari assessorati a colpi di manuale Cencelli, né dalla base che parla esplicitamente “dell’evidente incapacità del Pd di rappresentare se stesso … in questo schifo complessivo”. Citiamo una delle tante lettere inviate ai giornali a firma di iscritti. Nel conteggio finale, il Pd si porta comunque a casa 5 assessori tra i quali un vicesindaco sufficientemente imbottito di deleghe, Sandro Simionato, l’unico nome della vecchia guardia giubilato da Orsoni. Le altre novità sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’Udc ritornata a occupare una sedia in giunta con Ugo Bergamo (sempre in sella!) che è riuscito a ritagliarsi un super assessorato che si mangia l’intero pacchetto trasporti, compreso il discutibile progetto della sublagunare. Il secondo punto è l’esclusione tutta politica della federazione della Sinistra. Il solo eletto in consiglio, ex Rifondazione, era anche il solo assessore papabile. Nel caso, avrebbe dovuto lasciare il posto al secondo tra i non eletti, proveniente dalle file del Pdci. Pesati i pro e i contro, il consigliere ha preferito rimanere fuori della Giunta in cambio di una delega forte come quella sul lavoro. La terza novità che completa il cosiddetto Laboratorio Venezia, è la lista In Comune che ottiene la nomina del verde Gianfranco Bettin ad assessore all’Ambiente e alla Città sostenibile. Per l’ambientalista che già aveva rivoluzionato il settore delle politiche sociali, nel suo precedente mandato con la prima giunta Cacciari, si prospetta una nuova sfida su temi vitali come la battaglia contro l’inceneritore di prodotti tossici Sg31 che la Regione intende realizzare a Marghera.
Dall’altra sponda del canal Grande a palazzo Balbi, il varo della giunta regionale si è rivelato molto meno traumatico. Qui c’è poco da dire. I partiti sono solo due. E tra questi, uno è quello comanda. E dentro questo, a dettar legge – da Roma - c’è un unico leader. E’ bastato il “nyet” del senatùr che il governatore Zaia si è immediatamente rimangiato la delega all’Agricoltura che aveva assegnato a Massimo Giorgetti del Pdl, destituito prima ancora di essere nominato. Bisogna capirli. In questi anni di governo padano dell’agricoltura veneta, la Lega si era ritagliata i suoi bei carrozzoni clientelari, vere e proprie macchine da guerra per gestire fondi, posti da dirigente e serbatoi di voti. Galan ministro ci avrebbe messo volentieri le mani sopra, se non altro per pareggiare i conti con i lumbard che lo hanno sfrattato da palazzo Balbi. Ma perché favorirlo con la nomina di un assessore compiacente? Che diamine! Se vogliono le banche, i lumbar, vorranno anche qualcosa da metterci dentro.
E per fortuna che hanno vinto le elezioni al primo turno! Ma su chi ne abbia il merito, è tutto da discutere. Orsoni può togliersi lo sfizio di sbattere sul tavolo le migliaia di preferenze ottenute in più della somma dei voti delle liste che lo appoggiavano. Voti “suoi” o voti “contro Brunetta” che siano, il neo sindaco è riuscito a farli pesare e ad escludere dalla lista degli assessori, così come aveva promesso in campagna elettorale, tutto quel “cimitero degli elefanti democratici” che era, per lo più, la giunta Cacciari. Fuori pezzi da novanta come, per dirne uno, l’ex vice sindaco Michele Mognato, oppure l’ex presidente provinciale trombato Davide Zoggia . “Non per volontà di escludere – ha spiegato il sindaco – ma per dare un segnale di rinnovamento”. Rinnovamento non gradito né dalle correnti Pd, che da tre giorni si stanno vicendevolmente pesando le deleghe tra i vari assessorati a colpi di manuale Cencelli, né dalla base che parla esplicitamente “dell’evidente incapacità del Pd di rappresentare se stesso … in questo schifo complessivo”. Citiamo una delle tante lettere inviate ai giornali a firma di iscritti. Nel conteggio finale, il Pd si porta comunque a casa 5 assessori tra i quali un vicesindaco sufficientemente imbottito di deleghe, Sandro Simionato, l’unico nome della vecchia guardia giubilato da Orsoni. Le altre novità sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’Udc ritornata a occupare una sedia in giunta con Ugo Bergamo (sempre in sella!) che è riuscito a ritagliarsi un super assessorato che si mangia l’intero pacchetto trasporti, compreso il discutibile progetto della sublagunare. Il secondo punto è l’esclusione tutta politica della federazione della Sinistra. Il solo eletto in consiglio, ex Rifondazione, era anche il solo assessore papabile. Nel caso, avrebbe dovuto lasciare il posto al secondo tra i non eletti, proveniente dalle file del Pdci. Pesati i pro e i contro, il consigliere ha preferito rimanere fuori della Giunta in cambio di una delega forte come quella sul lavoro. La terza novità che completa il cosiddetto Laboratorio Venezia, è la lista In Comune che ottiene la nomina del verde Gianfranco Bettin ad assessore all’Ambiente e alla Città sostenibile. Per l’ambientalista che già aveva rivoluzionato il settore delle politiche sociali, nel suo precedente mandato con la prima giunta Cacciari, si prospetta una nuova sfida su temi vitali come la battaglia contro l’inceneritore di prodotti tossici Sg31 che la Regione intende realizzare a Marghera.
Dall’altra sponda del canal Grande a palazzo Balbi, il varo della giunta regionale si è rivelato molto meno traumatico. Qui c’è poco da dire. I partiti sono solo due. E tra questi, uno è quello comanda. E dentro questo, a dettar legge – da Roma - c’è un unico leader. E’ bastato il “nyet” del senatùr che il governatore Zaia si è immediatamente rimangiato la delega all’Agricoltura che aveva assegnato a Massimo Giorgetti del Pdl, destituito prima ancora di essere nominato. Bisogna capirli. In questi anni di governo padano dell’agricoltura veneta, la Lega si era ritagliata i suoi bei carrozzoni clientelari, vere e proprie macchine da guerra per gestire fondi, posti da dirigente e serbatoi di voti. Galan ministro ci avrebbe messo volentieri le mani sopra, se non altro per pareggiare i conti con i lumbard che lo hanno sfrattato da palazzo Balbi. Ma perché favorirlo con la nomina di un assessore compiacente? Che diamine! Se vogliono le banche, i lumbar, vorranno anche qualcosa da metterci dentro.
I profughi truffati di Padova
20/04/2010TerraSono scappati dalla guerra. Hanno affrontato un viaggio durissimo. Hanno sofferto fame, privazioni e umiliazioni. Sono approdati in Italia come un naufrago si aggrappa all’ultima scialuppa. E qui sono stati truffati e derubati di quel poco che ancora possedevano da un furbacchione tutto nostrano.
La storia dei 17 ragazzi somali di Padova è emblematica di come (non) funziona l’accoglienza in questa nostra Italia.
Sono tutti giovani sui vent’anni, a parte due di loro che hanno passato di poco i trenta. Sono fuggiti da un paese in cui la guerra è combattuta da bande armate più che da eserciti regolari. E qui vale solo la pena di ricordare che la politica estera dei cosiddetti paesi “sviluppati” non è affatto innocente per quanto riguarda la situazione in cui versa la Somalia. Sono scappati semplicemente per restare vivi e per far restare vivi i loro famigliari che contano sul denaro inviato dai migranti per tirare a campare. Un viaggio di inferno, lungo circa tre mesi, che ha gli ha prosciugato risorse, salute e dignità: dal Sudan alla Libia, dove si sono fermati per il tempo necessario a guadagnare i circa mille euro che servono per comperare un passaggio dagli scafisti. E poi il viaggio notturno in gommone sino a Lampedusa e una lunga permanenza nel centro assistenza rifugiati dell’isola dove, a differenza di tanti altri profughi come loro ma meno fortunati di loro, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di rifugiati politici previsto dalle normative internazionali e comunitarie. Con un permesso di soggiorno in mano, i giovani somali si sono spinti a nord, sino alla Svezia, in cerca di lavoro ma le autorità locali li hanno rimandati in Italia sostenendo che spetta al Paese che ha concesso l’asilo provvedere ai rifugiati. Un po’ per caso e un po’ per necessità si sono ritrovati a Padova. Era la settimana pasquale e il freddo si faceva ancora sentire. Ma le strutture della Caritas in cui alloggiavano avevano già chiuso i battenti. Come tutti i disperati, si sono rifugiati alla stazione dei treni. E qui li ha avvicinati un distinto signore che ha proposto di affittare loro, per la modica cifra di 100 euro al mese, la grande abitazione nel quartiere Mortise che aveva “appena ereditato dallo zio”. I ragazzi hanno accettato subito, pagando in contanti un mese anticipato, felici di avere perlomeno risolto a costo contenuto, considerato le cifre che gli avevano sparato gli altri proprietari, il problema della casa. Ma era solo la solita truffa alla Totò. Con la sola differenza che mentre Totò vendeva fontane di Trevi ai miliardari americani, i truffatori di oggi vendono posti letto di case non loro a poveri cristi. Il che ci potrebbe indurre a riflettere su come sia cambiato il mondo in questi ultimi cinquant’anni. Ma torniamo alla nostra storia. Immediatamente “sfrattati” dal vero proprietario tornato dalle ferie, i 17 ragazzi somali si sono ritrovati sulla strada. E vai a pescare il tipo che gli ha fregato gli ultimi euro! “Non avevamo cuore di rimanere con le mani in mano e far finta che queste persone non esistano – spiega Bertolino – così li abbiamo ospitati nei locali della nostra sede, al Portello. Certo, non è una sistemazione ideale: lo spazio è poco, non ci sono letti, non c’è cucina. Ma che altro potevamo fare? Lasciarli ancora per la strada?” Razzismo Stop ha organizzato una assemblea pubblica, svoltasi mercoledì 14, gratificata dalla presenza di tanti studenti, cittadini, attivisti di altre associazioni di volontariato. Un gruppo di studenti universitari ha già organizzato un corso di italiano, per aiutare i giovani somali ad esprimersi nella nostra lingua. Altri si sono dati da fare per trovare coperte, brandine e materassi. “E’ chiaro però – spiega Luca Bertolino – che deve essere la pubblica amministrazione a dare una risposta che vada oltre la prima accoglienza perché il diritto di asilo a questi rifugiati sia un atto concreto e non solo formale. Abbiamo preparato un appello al sindaco Flavio Zanonato e chiediamo a tutti, associazioni, partiti, cittadini di firmarlo e di aiutarci a creare una rete di solidarietà attorno a questi ragazzi”.
La storia dei 17 ragazzi somali di Padova è emblematica di come (non) funziona l’accoglienza in questa nostra Italia.
Sono tutti giovani sui vent’anni, a parte due di loro che hanno passato di poco i trenta. Sono fuggiti da un paese in cui la guerra è combattuta da bande armate più che da eserciti regolari. E qui vale solo la pena di ricordare che la politica estera dei cosiddetti paesi “sviluppati” non è affatto innocente per quanto riguarda la situazione in cui versa la Somalia. Sono scappati semplicemente per restare vivi e per far restare vivi i loro famigliari che contano sul denaro inviato dai migranti per tirare a campare. Un viaggio di inferno, lungo circa tre mesi, che ha gli ha prosciugato risorse, salute e dignità: dal Sudan alla Libia, dove si sono fermati per il tempo necessario a guadagnare i circa mille euro che servono per comperare un passaggio dagli scafisti. E poi il viaggio notturno in gommone sino a Lampedusa e una lunga permanenza nel centro assistenza rifugiati dell’isola dove, a differenza di tanti altri profughi come loro ma meno fortunati di loro, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di rifugiati politici previsto dalle normative internazionali e comunitarie. Con un permesso di soggiorno in mano, i giovani somali si sono spinti a nord, sino alla Svezia, in cerca di lavoro ma le autorità locali li hanno rimandati in Italia sostenendo che spetta al Paese che ha concesso l’asilo provvedere ai rifugiati. Un po’ per caso e un po’ per necessità si sono ritrovati a Padova. Era la settimana pasquale e il freddo si faceva ancora sentire. Ma le strutture della Caritas in cui alloggiavano avevano già chiuso i battenti. Come tutti i disperati, si sono rifugiati alla stazione dei treni. E qui li ha avvicinati un distinto signore che ha proposto di affittare loro, per la modica cifra di 100 euro al mese, la grande abitazione nel quartiere Mortise che aveva “appena ereditato dallo zio”. I ragazzi hanno accettato subito, pagando in contanti un mese anticipato, felici di avere perlomeno risolto a costo contenuto, considerato le cifre che gli avevano sparato gli altri proprietari, il problema della casa. Ma era solo la solita truffa alla Totò. Con la sola differenza che mentre Totò vendeva fontane di Trevi ai miliardari americani, i truffatori di oggi vendono posti letto di case non loro a poveri cristi. Il che ci potrebbe indurre a riflettere su come sia cambiato il mondo in questi ultimi cinquant’anni. Ma torniamo alla nostra storia. Immediatamente “sfrattati” dal vero proprietario tornato dalle ferie, i 17 ragazzi somali si sono ritrovati sulla strada. E vai a pescare il tipo che gli ha fregato gli ultimi euro! “Non avevamo cuore di rimanere con le mani in mano e far finta che queste persone non esistano – spiega Bertolino – così li abbiamo ospitati nei locali della nostra sede, al Portello. Certo, non è una sistemazione ideale: lo spazio è poco, non ci sono letti, non c’è cucina. Ma che altro potevamo fare? Lasciarli ancora per la strada?” Razzismo Stop ha organizzato una assemblea pubblica, svoltasi mercoledì 14, gratificata dalla presenza di tanti studenti, cittadini, attivisti di altre associazioni di volontariato. Un gruppo di studenti universitari ha già organizzato un corso di italiano, per aiutare i giovani somali ad esprimersi nella nostra lingua. Altri si sono dati da fare per trovare coperte, brandine e materassi. “E’ chiaro però – spiega Luca Bertolino – che deve essere la pubblica amministrazione a dare una risposta che vada oltre la prima accoglienza perché il diritto di asilo a questi rifugiati sia un atto concreto e non solo formale. Abbiamo preparato un appello al sindaco Flavio Zanonato e chiediamo a tutti, associazioni, partiti, cittadini di firmarlo e di aiutarci a creare una rete di solidarietà attorno a questi ragazzi”.
Il battello dei sogni perduti
20/04/2010Terra
Poi il vecchio vapore era stato pensionato e, dopo qualche vicissitudine, abbandonato a marcire sui fanghi di una barena. Anna e Mike l’hanno trovato così. Ristrutturarlo da cima a fondo sino a farne un’accogliente abitazione con una stanza per i due bambini – Buster e Amedeo - che nel frattempo erano venuti al mondo, dove un tempo c’era la sala motori, è stata una avventura lunga 5 anni. Il vaporetto, con tanto di tendine sui finestrini e vasi di fiori sui bottazzi, è ormeggiato da oltre quindici anni, all’isola della Giudecca, lungo il rio della Palada, circondato dalle barche dei pescatori. La coppia danese, diventata oramai e a pieno titolo veneziana d’adozione, si è integrata perfettamente nella vita dell’isola e la loro casa - battello oggi è una delle mille “curiosità veneziane” che rendono questa nostra città diversa da tutte le altre. Ma il battello è anche, per chi ci vive, una casa come tutte le altre. E così i Kiersgaard hanno chiesto e ottenuto, l’allacciamento alla rete elettrica e ad altri servizi come l’acqua e il gas. Inoltre pagano regolarmente l’affitto dello spazio acqueo al Comune di Venezia come tutte le altre imbarcazioni ormeggiate. Per regolarizzare a tutti gli effetti la loro posizione, la famiglia danese ha chiesto anche un numero civico: 500/A. Un indirizzo che alla Giudecca è diventato proverbiale. Questo è successo circa 15 anni fa. Il resto è cronaca recente. Le case galleggianti sono riconosciute e tutelate da specifiche normative in tutta Europa tranne… l’Italia. Qualche zelante burocrate,un paio di settimane fa, si è accorto che all’anagrafico 500/A non corrispondeva la concessione di nessuna opera edilizia. Fare due più due e tirare le conclusioni, per il nostro tecnico del catasto che di sicuro non ha mai vissuto alla Giudecca, è stato inevitabile: un civico privo di concessione edilizia è per forza di cose un abuso edilizio. Da qui la lettera formale con la richiesta d’immediata “demolizione e ripristino dello stato precedente del luogo”. E vai a spiegare tu che si tratta di un vaporetto! La legge non contempla le case galleggianti e un vuoto legislativo è un vuoto legislativo che la burocrazia aborrisce e inconcepisce come per Aristotele la natura fa col vuoto fisico. Ma a difendere quello che hanno poeticamente chiamato “la casa del battello dei sogni” è scesa in campo l’intera Giudecca. Gli amici del vaporetto di rio della Palada hanno fatto girare per la rete un toccate appello cui ha significativamente aderito anche il neo sindaco Giorgio Orsoni in cui si invitano il sindaco – per l’appunto – i tecnici del comune e gli avvocati civici, “a sedersi in una di queste giornate primaverili alle sei di sera lungo la fondamenta della Palada, e ad osservare il reale rapporto di quest'opera d'arte viva e vissuta con l'ambiente che la circonda e si completa con la sua presenza. E convincersi che ogni soluzione che preveda la rimozione del battello è avvilente”. Perché “il battello di Anna, Mike, Buster e Amedeo è ormai parte imprescindibile del paesaggio della Giudecca e come tale va tutelato. Un richiamo vivente al reale rapporto della città con le sue acque, lontano anni luce dalle finzioni plastiche che addormentano il nostro immaginario”.
Cytotec, per disperazione
13/04/2010TerraSi chiama Cytotec. E se il nome vi suona nuovo significa che nella vita siete state fortunate. Le enciclopedie mediche spiegano che è un farmaco usato per curare gastriti e prevenire ulcere gastriche. Ma di notte, in quella specie di mercato nero in cui si trasformano le nostre stazioni ferroviarie, lo potete acquistare senza ricetta medica a circa il doppio del prezzo stampato sulla scatola. Perché? Perché l’assunzione in forti dosi di questo medicinale provoca forti contrazioni dell’utero e conseguentemente pericolose e violente emorragie sino all’espulsione del feto. Il Cytotec è l’aborto delle disgraziate.
E’ la soluzione chimica – rischiosa ma comunque una soluzione – che permette l’interruzione della gravidanza ad una donna che non può rivolgersi ai consultori. Non può perché i medici dell’Usl sono tutti obiettori e la lista d’attesa infinita. Non può perché è clandestina e ha paura. Oppure non è clandestina ma ha comunque paura di perdere il lavoro. “Volete un esempio? Prendiamo una delle tanti badanti che lavorano in Italia. Se resta incinta è matematico che perde il lavoro. Se perde il lavoro, perde il permesso di soggiorno. E se perde il permesso di soggiorno sarà costretta a rientrare in patria, povera come era partita e con un figlio in più da provvedere. In un altro paese europeo, questa donna potrebbe essere aiutata con la Ru486. In Italia è costretta a ricorrere al Cytotec”, ci spiega Jeny Villa. Jeny è colombiana di origine e lavora come mediatrice culturale per l’associazione Migramentes convenzionata col Comune di Venezia. “Quando sento le dichiarazioni di Zaia sulla Ru486 mi vengono i brividi. Mi chiedo se sappia di cosa sta parlando. E mi chiedo anche come facciamo le donne italiane ad accettare che un uomo parli di cose che solo una donna può capire. Ma non si rende conto che se una donna arriva al punto di voler abortire il problema della legalità non la sfiora nemmeno? Se una donna decide di interrompere una gravidanza, il suo problema è soltanto sui metodi. Che la cosa sia legale o meno, non ha nessuna importanza per lei. Quello che lo Stato può fare è solo decidere se starle vicino e aiutarla o complicarle ulteriormente la vita. Tutto qua. Il resto sono solo discorsi di uomini che non vogliono neppure provare a considerare il problema da un punto di vista femminile”. L’uso improprio del Cytotec è oramai ampiamente dimostrato dall’aumento esponenziale di casi di “aborto spontaneo” dovuto ad emorragie che si registrano nei ricoveri d’urgenza al pronto soccorso. Il farmaco è praticamente libero: oltre che nelle stazioni, può essere acquistato per internet, fatto arrivare dall’estero o direttamente prescritto da un medico di casa compiacente. Per tacita ipocrisia, il Cytotec non attira tutti gli strali e gli anatemi con i quali cercano di colpire la Ru486, anche se dubitiamo che qualcuno in Italia lo abbia mai utilizzato per curarsi la gastrite. E’ un farmaco che provoca forti dolori, richiede l’ospedalizzazione – pure se spesso si fa “tutto in casa”, specie se la paziente è irregolare - e mette a rischio la vita stessa della donna. Si chiede Jeny: “Non basterebbe guardare questa realtà per mettere subito in circolazione la Ru486?”
E’ la soluzione chimica – rischiosa ma comunque una soluzione – che permette l’interruzione della gravidanza ad una donna che non può rivolgersi ai consultori. Non può perché i medici dell’Usl sono tutti obiettori e la lista d’attesa infinita. Non può perché è clandestina e ha paura. Oppure non è clandestina ma ha comunque paura di perdere il lavoro. “Volete un esempio? Prendiamo una delle tanti badanti che lavorano in Italia. Se resta incinta è matematico che perde il lavoro. Se perde il lavoro, perde il permesso di soggiorno. E se perde il permesso di soggiorno sarà costretta a rientrare in patria, povera come era partita e con un figlio in più da provvedere. In un altro paese europeo, questa donna potrebbe essere aiutata con la Ru486. In Italia è costretta a ricorrere al Cytotec”, ci spiega Jeny Villa. Jeny è colombiana di origine e lavora come mediatrice culturale per l’associazione Migramentes convenzionata col Comune di Venezia. “Quando sento le dichiarazioni di Zaia sulla Ru486 mi vengono i brividi. Mi chiedo se sappia di cosa sta parlando. E mi chiedo anche come facciamo le donne italiane ad accettare che un uomo parli di cose che solo una donna può capire. Ma non si rende conto che se una donna arriva al punto di voler abortire il problema della legalità non la sfiora nemmeno? Se una donna decide di interrompere una gravidanza, il suo problema è soltanto sui metodi. Che la cosa sia legale o meno, non ha nessuna importanza per lei. Quello che lo Stato può fare è solo decidere se starle vicino e aiutarla o complicarle ulteriormente la vita. Tutto qua. Il resto sono solo discorsi di uomini che non vogliono neppure provare a considerare il problema da un punto di vista femminile”. L’uso improprio del Cytotec è oramai ampiamente dimostrato dall’aumento esponenziale di casi di “aborto spontaneo” dovuto ad emorragie che si registrano nei ricoveri d’urgenza al pronto soccorso. Il farmaco è praticamente libero: oltre che nelle stazioni, può essere acquistato per internet, fatto arrivare dall’estero o direttamente prescritto da un medico di casa compiacente. Per tacita ipocrisia, il Cytotec non attira tutti gli strali e gli anatemi con i quali cercano di colpire la Ru486, anche se dubitiamo che qualcuno in Italia lo abbia mai utilizzato per curarsi la gastrite. E’ un farmaco che provoca forti dolori, richiede l’ospedalizzazione – pure se spesso si fa “tutto in casa”, specie se la paziente è irregolare - e mette a rischio la vita stessa della donna. Si chiede Jeny: “Non basterebbe guardare questa realtà per mettere subito in circolazione la Ru486?”
L'aborto è tornato clandestino
13/04/2010TerraAltro che RU481! Ce lo diciamo o no, che l’aborto è praticamente ritornato nella clandestinità? Basta dare un’occhiata alle percentuali di obiettori presenti nei reparti di ginecologia del Veneto, per rendercene conto. Vediamo qualche numero. Usl 1 Belluno: 8 ginecologi, tutti obiettori. Usl 3 Bassano: 11 obiettori su 14 ginecologi. Usl 9 Treviso: 14 su 15. Azienda ospedaliera di Padova 15 obiettori su 18. A Venezia, Usl 12, troviamo la percentuale più favorevole: solo 6 su 8. A Verona, Usl 20, sono tutti obiettori. A Legnano, Usl 21, pure. Chioggia, Usl 14, Adria, Usl 19, Vicenza, Usl 6, stessa musica: tutti obiettori.
Come può in queste strutture una donna interrompere la gravidanza? E’ costretta ad attendere che arrivi un medico esterno. Una volta alle settimana se va bene, una volta ogni 15 giorni se va male. In ogni caso, le liste d’attesa sono chilometriche, i tempi si allungano, ed il rischio di sforare i termini prescritti dalla legge sempre più concreto. Perché c’è una percentuale così alta di obiettori? “Perché per un ginecologo assunto in una struttura ospedaliera pubblica dichiararsi obiettore significa soprattutto due cose: risparmiare lavoro e non compromettersi la carriera” commenta la dottoressa Pervinca Rizzo. “Facciamoci caso: le percentuali più alte sono nelle Usl dove la Lega è più forte e le nomine, anche negli ospedali, sono tutte politiche. Dichiararsi abortista significa, per un ginecologo fresco di laurea, rinunciare a diventare un domani, primario e, quasi sicuramente finire tra quegli, diciamocelo pure, sfigati costretti a girare come trottole da un ospedale all’altro per fare il lavoro che gli anti abortisti si rifiutano di fare”. Pervinca Rizzo esercita nell’entroterra veneziano ed è quelle che potremmo definire una dottoressa da “combattimento”: ogni anno guida le “brigate mediche” dell’associazione Ya Basta in Chiapas, per portare aiuti e solidarietà nei pueblos zapatisti. Pervinca ha formato decine e decine di “promotoras de salud” (promotrici di salute), specie di infermiere volontarie indigene che si incaricano di diffondere pratiche contraccettive e nozioni sulla tutela della salute femminile nei villaggi più sperduti della selva Lacandona. Ma torniamo in Italia. Cosa può fare una donna costretta ad interrompere la gravidanza, di fronte a tutte quelle difficoltà che le frappone proprio quella struttura pubblica che, al contrario, dovrebbe aiutarla? Se la donna in questione è di “razza caucasica” e ben provvista di soldi, si rivolge a qualche struttura privata, dove magari ritrova – ma in veste di paziente pagante – quel medico che nel pubblico si era dichiarato antiabortista. Ma se la donna ha i soldi contati o, peggio del peggio, è una migrante? “Semplicemente al consultorio non ci va – spiega Pervinca -. Con tutto lo straparlare di denunciare i clandestini che si è fatto, i migranti, pure quelli regolari hanno paura a rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche. Pure se i medici non possono denunciare nessuno per una evidente questione di segreto professionale, la paura rimane. Il risultato è che ogni etnia si è organizzata per conto suo. La clandestinità, la paura ha riportato in auge le mammane e i ferri da calza. Oramai d’aborto si ritorna a morire”.
Come può in queste strutture una donna interrompere la gravidanza? E’ costretta ad attendere che arrivi un medico esterno. Una volta alle settimana se va bene, una volta ogni 15 giorni se va male. In ogni caso, le liste d’attesa sono chilometriche, i tempi si allungano, ed il rischio di sforare i termini prescritti dalla legge sempre più concreto. Perché c’è una percentuale così alta di obiettori? “Perché per un ginecologo assunto in una struttura ospedaliera pubblica dichiararsi obiettore significa soprattutto due cose: risparmiare lavoro e non compromettersi la carriera” commenta la dottoressa Pervinca Rizzo. “Facciamoci caso: le percentuali più alte sono nelle Usl dove la Lega è più forte e le nomine, anche negli ospedali, sono tutte politiche. Dichiararsi abortista significa, per un ginecologo fresco di laurea, rinunciare a diventare un domani, primario e, quasi sicuramente finire tra quegli, diciamocelo pure, sfigati costretti a girare come trottole da un ospedale all’altro per fare il lavoro che gli anti abortisti si rifiutano di fare”. Pervinca Rizzo esercita nell’entroterra veneziano ed è quelle che potremmo definire una dottoressa da “combattimento”: ogni anno guida le “brigate mediche” dell’associazione Ya Basta in Chiapas, per portare aiuti e solidarietà nei pueblos zapatisti. Pervinca ha formato decine e decine di “promotoras de salud” (promotrici di salute), specie di infermiere volontarie indigene che si incaricano di diffondere pratiche contraccettive e nozioni sulla tutela della salute femminile nei villaggi più sperduti della selva Lacandona. Ma torniamo in Italia. Cosa può fare una donna costretta ad interrompere la gravidanza, di fronte a tutte quelle difficoltà che le frappone proprio quella struttura pubblica che, al contrario, dovrebbe aiutarla? Se la donna in questione è di “razza caucasica” e ben provvista di soldi, si rivolge a qualche struttura privata, dove magari ritrova – ma in veste di paziente pagante – quel medico che nel pubblico si era dichiarato antiabortista. Ma se la donna ha i soldi contati o, peggio del peggio, è una migrante? “Semplicemente al consultorio non ci va – spiega Pervinca -. Con tutto lo straparlare di denunciare i clandestini che si è fatto, i migranti, pure quelli regolari hanno paura a rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche. Pure se i medici non possono denunciare nessuno per una evidente questione di segreto professionale, la paura rimane. Il risultato è che ogni etnia si è organizzata per conto suo. La clandestinità, la paura ha riportato in auge le mammane e i ferri da calza. Oramai d’aborto si ritorna a morire”.
Casta padana
6/04/2010TerraNon sempre si impara dalle proprie sconfitte. Chi si chiede come sia potuto succedere che i lumbard abbiano sbancato il settentrione e continua ad analizzare il fenomeno leghista come una “anomalia” nel panorama della politica italiana, farebbe bene a riflettere sui fatti. Di anomalo la Lega oramai ha solo il linguaggio che continua ad essere allo stesso tempo di lotta e governo. Così non stupisce che Luca Zaia, neo governatore veneto, nella sua seconda uscita pubblica (la prima l’ha dedicata a ribattere che la RU 486 non troverà spazio nelle strutture pubbliche venete perché non vuole “banalizzare l’aborto”) tuoni contro quello stesso governo di cui è ministro, chiedendo riforme e federalismo.
Ma per il resto la Lega è un partito come un altro, con la sola eccezione che, mantenendo una struttura stalinista nelle gerarchie interne e nella gestione tutt’altro che democratica del dissenso interno, ed essendo per sua natura poco portato per la democrazia, risulta, tra tutti i partiti italiani, quello meno toccata dalla crisi che ha colpito il sistema democratico basato sui partiti. Tutto qua. Per il resto, la Lega ha saputo cogliere l’eredità dei due grandi partiti ottocenteschi che hanno impostato il modello economico veneto. Ha occupato il territorio – sagre paesane, centri culturali, feste tradizionali, sezioni stile case del popolo – come faceva il vecchio partito comunista, e nello stesso tempo ha saputo occupare anche i consigli di amministrazione di enti e municipalizzate come, prima di Tangentopoli, solo la vecchia balena bianca, la Democrazia Cristiana, sapeva fare.
Oramai, per seguire le ramificazioni della Casta Padana, da Milano a Roma, ci vuole un geografo. Doppi incarichi, conflitti di interesse, confusioni tra politica, appartenenza ad uno schieramento e gestione del servizio, sono all’ordine del giorno. Il tutto si traduce – quando va bene - in sprechi, inefficienze, e aumenti dei costi a carico dei cittadini.
Luigi Calesso, portavoce di Un’Altra Treviso, ha disegnato nel blog dell’associazione (http://unaltratreviso.splinder.com) una precisa mappa dell’occupazione “militare” del Carroccio nel territorio della marca trevigiana. “Un caso emblematico è quello dell’Actt, l’azienda di trasporto di Treviso, e delle sue partecipate – spiega Calesso –. Actt fa parte della cordata di aziende aggiudicataria del project financing per la realizzazione e la gestione del park interrato di piazza Vittoria. Ma questa società presieduta da Erich Zanata è proprietaria anche di Park Dal Negro Srl e Miani Park Srl che gestiscono gli omonimi e fallimentari parcheggi multipiano. ACTT, inoltre, fa parte di Trevisosta Srl, la società che ha in gestione il nuovo sistema di parcheggi “a sensori”. Questa pluralità di partecipazioni e la dipendenza dal Comune la pongono al centro di un groviglio di conflitti di interesse. Il primo si manifesterà quando inizieranno i lavori per il park interrato. Il cantiere della Parcheggio Piazza della Vittoria renderà inutilizzabili un centinaio di stalli nella piazza sottraendo per almeno due anni profitti a Trevisosta, ugualmente partecipata da ACTT. Inoltre, quando sarà realizzato, il park interrato inevitabilmente sottrarrà utenti al Dal Negro e al Miani che già versano in una situazione tutt’altro che florida.Nel caso in cui il Comune decidesse di bloccare la realizzazione del park interrato Actt che l’amministrazione controlla al 70%, si troverebbe nella scomoda posizione di avere un ‘proprietario’ che non vuole il parcheggio e di essere a sua volta comproprietaria di una società nata per realizzarlo”.
Ma per il resto la Lega è un partito come un altro, con la sola eccezione che, mantenendo una struttura stalinista nelle gerarchie interne e nella gestione tutt’altro che democratica del dissenso interno, ed essendo per sua natura poco portato per la democrazia, risulta, tra tutti i partiti italiani, quello meno toccata dalla crisi che ha colpito il sistema democratico basato sui partiti. Tutto qua. Per il resto, la Lega ha saputo cogliere l’eredità dei due grandi partiti ottocenteschi che hanno impostato il modello economico veneto. Ha occupato il territorio – sagre paesane, centri culturali, feste tradizionali, sezioni stile case del popolo – come faceva il vecchio partito comunista, e nello stesso tempo ha saputo occupare anche i consigli di amministrazione di enti e municipalizzate come, prima di Tangentopoli, solo la vecchia balena bianca, la Democrazia Cristiana, sapeva fare.
Oramai, per seguire le ramificazioni della Casta Padana, da Milano a Roma, ci vuole un geografo. Doppi incarichi, conflitti di interesse, confusioni tra politica, appartenenza ad uno schieramento e gestione del servizio, sono all’ordine del giorno. Il tutto si traduce – quando va bene - in sprechi, inefficienze, e aumenti dei costi a carico dei cittadini.
Luigi Calesso, portavoce di Un’Altra Treviso, ha disegnato nel blog dell’associazione (http://unaltratreviso.splinder.com) una precisa mappa dell’occupazione “militare” del Carroccio nel territorio della marca trevigiana. “Un caso emblematico è quello dell’Actt, l’azienda di trasporto di Treviso, e delle sue partecipate – spiega Calesso –. Actt fa parte della cordata di aziende aggiudicataria del project financing per la realizzazione e la gestione del park interrato di piazza Vittoria. Ma questa società presieduta da Erich Zanata è proprietaria anche di Park Dal Negro Srl e Miani Park Srl che gestiscono gli omonimi e fallimentari parcheggi multipiano. ACTT, inoltre, fa parte di Trevisosta Srl, la società che ha in gestione il nuovo sistema di parcheggi “a sensori”. Questa pluralità di partecipazioni e la dipendenza dal Comune la pongono al centro di un groviglio di conflitti di interesse. Il primo si manifesterà quando inizieranno i lavori per il park interrato. Il cantiere della Parcheggio Piazza della Vittoria renderà inutilizzabili un centinaio di stalli nella piazza sottraendo per almeno due anni profitti a Trevisosta, ugualmente partecipata da ACTT. Inoltre, quando sarà realizzato, il park interrato inevitabilmente sottrarrà utenti al Dal Negro e al Miani che già versano in una situazione tutt’altro che florida.Nel caso in cui il Comune decidesse di bloccare la realizzazione del park interrato Actt che l’amministrazione controlla al 70%, si troverebbe nella scomoda posizione di avere un ‘proprietario’ che non vuole il parcheggio e di essere a sua volta comproprietaria di una società nata per realizzarlo”.
Al Brunetta, l'è andata proprio male!
6/04/2010TerraNon è la Lega che lo ha tradito, Renato Brunetta, ma i sondaggi. Il primo, quello che lo ha spinto a candidarsi alla carica di Sindaco di Venezia, commissionato ancora al tempo delle primarie e che, a sentir lui, lo vedeva in vantaggio di quasi 10 punti sul candidato del centro sinistra. Il secondo, quello che girava per le redazioni a due settimane dal voto (e che, per i limiti di legge, non poteva essere pubblicato) che lo dava sopra il 51 per cento, con Giorgio Orsoni sotto il 45.
Va de sé che, con queste cifre, la sconfitta gli deve bruciare ancor di più. Se poi si considera che, leggendo dentro le cifre del sondaggio, i dati erano quasi tutti giusti se si esclude quello, sovrastimato, della Lega (16 contro l’effettivo 11,2 per cento) si inquadra meglio tutto il fiele che il ministro, giorno dopo giorno, non smette di riversare sul Carroccio lumbard. A voler essere pignoli, con un minimo di matematica si potrebbe dimostrare che, anche senza quei diecimila voti disgiunti (di elettori che hanno votato per lui ma per partiti fuori dalla coalizione che lo sosteneva), Giorgio Orsoni avrebbe vinto lo stesso. Certo che un candidato come lui, che ha riempiva gli schermi televisivi anche quando si parlava di cucina o di cronaca rosa, qualcosa di più se lo aspettava. Ed invece è arrivata la sconfitta. Dura, cruda, inaspettata e senza attenuanti. La terza consecutiva dopo il ballottaggio con Costa e la corsa per il senato. E maturata a casa propria, e in un contesto che ha visto trionfare la destra in tutto il Veneto. Di più, in tutto il nord Italia. Insomma, lo sfogo di Brunetta contro la Lega ha una sua motivazione, se pur non è quella dei numeri o del “voto pilotato”. Ogni giorno il ministro si inventa un epitteto nuovo per meglio definire gli alleati del carroccio che, a sentir lui, avrebbero fatto un accordo sotto banco con Orsoni: traditori, inaffidabili, miopi, egoisti… “Chi poteva immaginare che questi personaggi arrivassero a tanto?” E avverte, per bocca del consigliere Antonio Cavaliere, : «In questi cinque anni di amministrazione comunale non faremo nessuno sconto!” All’amministrazione? “Macché! Alla Lega! Giorgio Orsoni ha gioco facile ad ironizzare, con chi gli chiede se si aspetta dall’opposizione uno scontro e un dissenso duro, “Sì. Tra di loro”. Va da sé che la Lega, da partito di lotta e di governo qual è, gliele rimanda a dire tutte quante col tono di “Lui che ha perso cosa vuole insegnare a noi che abbiamo vinto?” Gian Paolo Gobbo parla senza mezzi termini di “candidato sbagliato” e di “personaggio antipatico”. Francesca Zaccariotto, presidente della provincia di Venezia, ricorda al ministro fantuttone che “un generale non addossa la colpa alle truppe se perde”. Lei che, aveva minacciato un rimpasto di Giunta nel caso il sindaco Brunetta non avesse dato la sedia di vicesindaco ad un leghista, torna ora a minacciare un altro rimpasto di Giunta per conformarsi ai nuovi equilibri. E la Lega pigliatutto si prepara ad incassare altre cariche. Intanto, a consolare il povero ministro Renato Brunetta, ci ha pensato Marco Marturano, presidente della Gm&p, che di mestiere fa lo stratega di campagne elettorali. Destra o sinistra, non importa. “Brunetta – dice – ha perso perché è troppo bravo. Gli elettori lo vedono bene ad occupare posti prestigiosi e non limitato a semplici incarichi amministrativi locali”. Insomma, fare il sindaco a Venezia sarebbe troppo poco per un personaggio di tale astronomica levatura. Ma tra quattro anni ci saranno le presidenziali Usa. Quell’extracomunitario di Obama è dato in calo. Quasi quasi, un pensierino…
Va de sé che, con queste cifre, la sconfitta gli deve bruciare ancor di più. Se poi si considera che, leggendo dentro le cifre del sondaggio, i dati erano quasi tutti giusti se si esclude quello, sovrastimato, della Lega (16 contro l’effettivo 11,2 per cento) si inquadra meglio tutto il fiele che il ministro, giorno dopo giorno, non smette di riversare sul Carroccio lumbard. A voler essere pignoli, con un minimo di matematica si potrebbe dimostrare che, anche senza quei diecimila voti disgiunti (di elettori che hanno votato per lui ma per partiti fuori dalla coalizione che lo sosteneva), Giorgio Orsoni avrebbe vinto lo stesso. Certo che un candidato come lui, che ha riempiva gli schermi televisivi anche quando si parlava di cucina o di cronaca rosa, qualcosa di più se lo aspettava. Ed invece è arrivata la sconfitta. Dura, cruda, inaspettata e senza attenuanti. La terza consecutiva dopo il ballottaggio con Costa e la corsa per il senato. E maturata a casa propria, e in un contesto che ha visto trionfare la destra in tutto il Veneto. Di più, in tutto il nord Italia. Insomma, lo sfogo di Brunetta contro la Lega ha una sua motivazione, se pur non è quella dei numeri o del “voto pilotato”. Ogni giorno il ministro si inventa un epitteto nuovo per meglio definire gli alleati del carroccio che, a sentir lui, avrebbero fatto un accordo sotto banco con Orsoni: traditori, inaffidabili, miopi, egoisti… “Chi poteva immaginare che questi personaggi arrivassero a tanto?” E avverte, per bocca del consigliere Antonio Cavaliere, : «In questi cinque anni di amministrazione comunale non faremo nessuno sconto!” All’amministrazione? “Macché! Alla Lega! Giorgio Orsoni ha gioco facile ad ironizzare, con chi gli chiede se si aspetta dall’opposizione uno scontro e un dissenso duro, “Sì. Tra di loro”. Va da sé che la Lega, da partito di lotta e di governo qual è, gliele rimanda a dire tutte quante col tono di “Lui che ha perso cosa vuole insegnare a noi che abbiamo vinto?” Gian Paolo Gobbo parla senza mezzi termini di “candidato sbagliato” e di “personaggio antipatico”. Francesca Zaccariotto, presidente della provincia di Venezia, ricorda al ministro fantuttone che “un generale non addossa la colpa alle truppe se perde”. Lei che, aveva minacciato un rimpasto di Giunta nel caso il sindaco Brunetta non avesse dato la sedia di vicesindaco ad un leghista, torna ora a minacciare un altro rimpasto di Giunta per conformarsi ai nuovi equilibri. E la Lega pigliatutto si prepara ad incassare altre cariche. Intanto, a consolare il povero ministro Renato Brunetta, ci ha pensato Marco Marturano, presidente della Gm&p, che di mestiere fa lo stratega di campagne elettorali. Destra o sinistra, non importa. “Brunetta – dice – ha perso perché è troppo bravo. Gli elettori lo vedono bene ad occupare posti prestigiosi e non limitato a semplici incarichi amministrativi locali”. Insomma, fare il sindaco a Venezia sarebbe troppo poco per un personaggio di tale astronomica levatura. Ma tra quattro anni ci saranno le presidenziali Usa. Quell’extracomunitario di Obama è dato in calo. Quasi quasi, un pensierino…
Giorgio Orsoni sindaco di Venezia
30/03/2010TerraGiorgio Orsoni è il nuovo sindaco di Venezia. Il tranquillo avvocato, procuratore di San Marco, ben visto dalla curia patriarcale e con l’hobby della vela, guiderà per i prossimi cinque anni la Stalingrado del nord Italia. Solo qui, in laguna, il centro sinistra ha portato a casa l’unico risultato vincente di questa tornata elettorale che ha visto la Lega recitare il ruolo dell’asso pigliatutto a rubamazzetto.
E proprio qui, nella laguna dei Dogi, dove i lombardi scendono ogni settembre per ripetere il teatrino del versamento dell’acqua del Po nei canali di questa che, a dir loro, dovrebbe essere la capitale della loro patria padana, il Carrocio non ha superato il tetto del 11 per cento. Il ministro - candidato, Renato Brunetta, ha perso e perso male proprio perché gli son mancate le percentuali che la lega ha ottenuto nelle altre provincie del Veneto. Fuori al primo turno con un misero 42,7 per cento (mentre scriviamo le sezioni scrutinate sono 286 su 303. I dati quindi possono variare solo nei decimali). Giorgio Orsoni vola col 52 per cento portatogli dal Pd (28,8 per cento), dall’Italia dei Valori (6,7), dall’Udc (4,6). La lista dei Verdi, In Comune con Bettin, ha recuperato un 3,8 per cento, appena sopra la federazione della Sinistra (Pdci e Rifondazione che in questa loro prima uscita elettorale totalizzano insieme il 3,3 per cento). Da segnalare, per completare il quadro delle liste che hanno sostenuto il neo eletto sindaco, il 3,8 dei socialisti che comunque va spiegato col fatto che il loro logo era l’unico con la scritta Orsoni e si trovava esattamente a fianco del nome del candidato. Completa il quadro veneziano la lista Brunetta (6,6) e il Pdl che col suo 22,8 si conferma il secondo partito della città con una percentuale di poco inferiore a quella incassata a livello regionale (24,7). Insomma, a Venezia è mancata solo la lega. E se vogliamo, è mancato anche un candidato capace di riscuotere le simpatie degli elettori come invece, a livello regionale, ha saputo fare l’altro ministro candidato: Luca Zaia. Faccia pulita, capelli brillantinati, discorsi neppure tanto razzisti e addirittura quasi sempre contenuti nel binario della buona educazione e della grammatica italiana. Il che non è poco per un leghista in campagna elettorale. Idee poche le sue, e spesso incoerenti (nuclearista a Roma e anti nuclearista a Venezia) ma comunque tutte centrate sul “fare”. Ad un Veneto squassato dalla crisi di un modello che aveva portato ricchezza e benessere, questo “fare” di un ministro che non ha avuto remore di farsi fotografare vestito da cuoco da Mac Italy, deve essere sembrato l’ultima ancora di salvezza. E così il Veneto dice addio a Galan, che si è fatto licenziare dal padrone, e non dagli elettori, come un qualsiasi dipendente di Publitalia con solo qualche mugugno di protesta, e addio anche a Brunetta, che comunque ha sempre un buon posto da ministro sotto il sedere e si risparmierà la faticaccia di venire nei fine settimana a sgobbare anche come sindaco di Venezia. Pur se lui non è un fannullone come noialtri.
E proprio qui, nella laguna dei Dogi, dove i lombardi scendono ogni settembre per ripetere il teatrino del versamento dell’acqua del Po nei canali di questa che, a dir loro, dovrebbe essere la capitale della loro patria padana, il Carrocio non ha superato il tetto del 11 per cento. Il ministro - candidato, Renato Brunetta, ha perso e perso male proprio perché gli son mancate le percentuali che la lega ha ottenuto nelle altre provincie del Veneto. Fuori al primo turno con un misero 42,7 per cento (mentre scriviamo le sezioni scrutinate sono 286 su 303. I dati quindi possono variare solo nei decimali). Giorgio Orsoni vola col 52 per cento portatogli dal Pd (28,8 per cento), dall’Italia dei Valori (6,7), dall’Udc (4,6). La lista dei Verdi, In Comune con Bettin, ha recuperato un 3,8 per cento, appena sopra la federazione della Sinistra (Pdci e Rifondazione che in questa loro prima uscita elettorale totalizzano insieme il 3,3 per cento). Da segnalare, per completare il quadro delle liste che hanno sostenuto il neo eletto sindaco, il 3,8 dei socialisti che comunque va spiegato col fatto che il loro logo era l’unico con la scritta Orsoni e si trovava esattamente a fianco del nome del candidato. Completa il quadro veneziano la lista Brunetta (6,6) e il Pdl che col suo 22,8 si conferma il secondo partito della città con una percentuale di poco inferiore a quella incassata a livello regionale (24,7). Insomma, a Venezia è mancata solo la lega. E se vogliamo, è mancato anche un candidato capace di riscuotere le simpatie degli elettori come invece, a livello regionale, ha saputo fare l’altro ministro candidato: Luca Zaia. Faccia pulita, capelli brillantinati, discorsi neppure tanto razzisti e addirittura quasi sempre contenuti nel binario della buona educazione e della grammatica italiana. Il che non è poco per un leghista in campagna elettorale. Idee poche le sue, e spesso incoerenti (nuclearista a Roma e anti nuclearista a Venezia) ma comunque tutte centrate sul “fare”. Ad un Veneto squassato dalla crisi di un modello che aveva portato ricchezza e benessere, questo “fare” di un ministro che non ha avuto remore di farsi fotografare vestito da cuoco da Mac Italy, deve essere sembrato l’ultima ancora di salvezza. E così il Veneto dice addio a Galan, che si è fatto licenziare dal padrone, e non dagli elettori, come un qualsiasi dipendente di Publitalia con solo qualche mugugno di protesta, e addio anche a Brunetta, che comunque ha sempre un buon posto da ministro sotto il sedere e si risparmierà la faticaccia di venire nei fine settimana a sgobbare anche come sindaco di Venezia. Pur se lui non è un fannullone come noialtri.
Kairos, l'appello
30/03/2010Terra“Noi, i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme, abbiamo ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa”. Comincia così lo storico documento sulla Palestina che, per la prima volta, vede riunite tutte e tredici le chiese cristiane presenti in Israele: da quella cattolica romana a quella ortodossa, dall’anglicana alla luterana. L’appello dal significativo nome Kairos Palestina rievoca il documento Kairos Sudafrica sottoscritto nel 1985 in cui si denunciarono le ingiustizie dell’apartheid e che costituì, sia in chiave internazionale che interna, un valido strumento contro l’oppressione. Ricordiamo che la parola greca Kairos, tuttora adoperata nelle liturgie per definire il momento in cui Dio agisce, significa “tempo” ma inteso come “occasione giusta per fare qualcosa”.
Kairos Palestina chiede “alla comunità internazionale di sostenere il popolo Palestinese, che ha affrontato oppressione, spostamenti forzati, sofferenza e l'apartheid chiara per oltre sei decenni. La sofferenza continua, mentre la comunità internazionale guarda in silenzio lo Stato occupante, Israele. La nostra parola è un grido di speranza, con amore, la preghiera e la fede in Dio. Ci rivolgiamo prima di tutto a noi stessi e poi a tutte le Chiese ed i cristiani nel mondo, chiedendo loro di prendere posizione contro l'ingiustizia e l'apartheid, spingendoli a lavorare per una pace giusta nella nostra regione, chiedendo loro di rivedere teologie che giustificano i crimini perpetrati contro la nostra gente e l'espropriazione della terra”.
“Noi Cristiani Palestinesi dichiariamo che l'occupazione militare della nostra terra è un peccato contro Dio e contro l'umanità, e che ogni teologia che legittima l'occupazione è ben lungi dagli insegnamenti cristiani, perché la vera teologia cristiana è una teologia di amore e di solidarietà con gli oppressi, un appello per la giustizia e l'uguaglianza tra i popoli.” “Come Cristiani Palestinesi ci auguriamo che questo documento possa rappresentare il punto di svolta per concentrare gli sforzi di tutti i popoli amanti della pace nel mondo”. Kairos si chiude con un forte appello ad impegnarsi contro “l'oppressione e l'occupazione. Noi crediamo che la liberazione dall'occupazione sia nell'interesse di tutti i popoli della regione, perché il problema non è solo politico, in questo caso vengono distrutti i diritti di esseri umani”.
Kairos sarà presentato ufficialmente in Italia il 12 aprile, al teatro dell’istituto Montanari di Verona, da padre Raed Abushalia, del patriarcato di Gerusalemme. Nel sito web www.kairospalestine.ps potete scaricare l’appello nelle principali lingue del mondo e leggere il lungo elenco dei firmatari.
Kairos Palestina chiede “alla comunità internazionale di sostenere il popolo Palestinese, che ha affrontato oppressione, spostamenti forzati, sofferenza e l'apartheid chiara per oltre sei decenni. La sofferenza continua, mentre la comunità internazionale guarda in silenzio lo Stato occupante, Israele. La nostra parola è un grido di speranza, con amore, la preghiera e la fede in Dio. Ci rivolgiamo prima di tutto a noi stessi e poi a tutte le Chiese ed i cristiani nel mondo, chiedendo loro di prendere posizione contro l'ingiustizia e l'apartheid, spingendoli a lavorare per una pace giusta nella nostra regione, chiedendo loro di rivedere teologie che giustificano i crimini perpetrati contro la nostra gente e l'espropriazione della terra”.
“Noi Cristiani Palestinesi dichiariamo che l'occupazione militare della nostra terra è un peccato contro Dio e contro l'umanità, e che ogni teologia che legittima l'occupazione è ben lungi dagli insegnamenti cristiani, perché la vera teologia cristiana è una teologia di amore e di solidarietà con gli oppressi, un appello per la giustizia e l'uguaglianza tra i popoli.” “Come Cristiani Palestinesi ci auguriamo che questo documento possa rappresentare il punto di svolta per concentrare gli sforzi di tutti i popoli amanti della pace nel mondo”. Kairos si chiude con un forte appello ad impegnarsi contro “l'oppressione e l'occupazione. Noi crediamo che la liberazione dall'occupazione sia nell'interesse di tutti i popoli della regione, perché il problema non è solo politico, in questo caso vengono distrutti i diritti di esseri umani”.
Kairos sarà presentato ufficialmente in Italia il 12 aprile, al teatro dell’istituto Montanari di Verona, da padre Raed Abushalia, del patriarcato di Gerusalemme. Nel sito web www.kairospalestine.ps potete scaricare l’appello nelle principali lingue del mondo e leggere il lungo elenco dei firmatari.
Orsoni e Brunetta. Venezia sceglie il sindaco
23/03/2010TerraGli studenti lo hanno aspettato pazientemente per oltre due ore. Tutti con il ciuccio in bocca, un baby bavaglino attorno al collo e un enorme striscione con scritto “Brunetta bamboccione, vogliam la tua pensione”. Niente da fare. Del ministro - candidato neppure l’ombra. Inutile tutto l’imponente schieramento di celere e carabinieri attorno e dentro l’auditorium universitario di S. Margherita, nel cuore della città lagunare. “Qualcuno gli ha fatto la soffiata – ha commentato un portavoce degli studenti di Ca Foscari - e se c’è una cosa in cui Renato Brunetta eccelle è quella di schivare i confronti in cui non ha la possibilità di ripiegare sugli insulti e sulle provocazioni che caratterizzano la sua politica”.
Questo accaduto martedì 16, è solo uno dei tanti esempi di “non confronto” sui problemi della città che hanno caratterizzato la campagna per le amministrative di Venezia. Certo. Brunetta è un ministro ed ha gli impegni di un ministro. La campagna elettorale pare farla nel suo tempo libero. Così come farà – nel caso fosse eletto – il sindaco di Venezia nel suo tempo libero. “Due giorni alla settimana, sabato e domenica, sono sufficienti”. Ha detto. Mica è un fannullone, lui. Resta il fatto che in una Venezia da “climate change” – acqua alta e neve a fine marzo non se la ricordava nessuno, in laguna – le imminenti elezioni non sembrano appassionare nessuno. A tener banco sui giornali locali sono, più che altro, le critiche e gli attacchi all’interno degli stessi schieramenti. Inevitabile, in mancanza di confronti con gli avversari. Così, a chiudere l’era Cacciari è lo stesso Orsoni, che marca le distanze da sindaco e assessori oggi al governo in città, e propone di “voltare pagina”. E si dimentica che è tutto merito del sindaco uscente se ora lui è là, a giocarsela con Brunetta. Nello schieramento opposto, specularmente a quanto avviene per le elezioni regionali, Lega e Pdl si accoltellano un giorno sì e l’altro pure. Brunetta dichiara che sarà lui, e non certo il Carroccio, a scegliere assessori e vice sindaco. La presidente “lumbard” della provincia, Francesca Zaccariotto, gliele manda a dire avvertendolo che il posto spetta ad un leghista altrimenti “ci saranno ripercussioni nel governo della provincia”. Tutte questioni di alta etica politica, come vedete. C’è da dire su Brunetta che perlomeno non manca di riaccendere di tanto in tanto il tristo panorama politico con qualche sparata delle sue, solitamente pescando a casaccio dalla storia veneziana, della quale non è quel che si dice un gran conoscitore. Ma gli basta aprire un libro sui dogi in una pagina a caso e riesce a farne un comunicato stampa. Anche questo è un gran talento. “Riattiveremo le tradizioni dei fondaci”. Per far che? Importare spezie dall’oriente misterioso? “Riapriremo l’Arsenale”. C’è richiesta di cocche e galee? “Riporteremo il sede del Comune a palazzo Ducale”. E il sindaco avrà pure il corno dogale in testa? Man mano che si avvicina il voto attendiamo che ne esca con un “Riprendiamoci Famagosta”. Giorgio Orsoni, diciamocelo francamente, non è uno che fa innamorare le folle, ma bisogna dargli atto che non deve essere facile ribattere a trovate del genere. Ma, tra le calli, lo spettacolo di una politica che è solo spettacolo è davvero deprimente. “I temi ambientali, che pure sono centrali per il futuro di Venezia e della sua terraferma – ha commentato Gianfranco Bettin candidato ed ispiratore delle lista In Comune -, sono passati in secondo piano. Per questo è importante non soltanto scegliere la coalizione che sostiene Orsoni e respingere l’attacco di una destra senza idee e senza proposte che non sia quella di svendere beni e patrimoni comuni, ma anche scegliere una formazione di chiara ispirazione ambientale come la nostra. L’unica capace di fare la differenza, riavvicinando alla politica persone che se ne erano allontanate e rilanciare In Comune, per l’appunto, una nuova idea democratica, etica e ambientalista”.
E’ sui temi ambientali infatti che si svela il vero volto di Brunetta. Venerdì scorso, all’Ateneo Veneto, durante il solo confronto a due di tutta la campagna elettorale, intervistati dai direttori delle tre testate locali, i candidati sindaci hanno risposto ad una domanda sull’inceneritore Sg31 di Marghera, destinato a rifiuti tossici e pericolosi. Un impianto fortemente voluto dalla Regione Veneto. “Un problema reale – ha dichiarato un preoccupato Orsoni - Porto Marghera rischia davvero di diventare la pattumiera d’Europa, disincentivando così, anche psicologicamente, chi in quelle aree vuole investire in attività pulite”. E la risposta del “fantuttone”? Incazzatissimo, il ministro - candidato ha tagliato corto: “E’ immorale che simili questioni complicate vengano affrontate in campagna elettorale, bisognerebbe tenerle fuori!” Qualcuno si è alzato dalla platea gridando: “Ministro, è la nostra vita, questa!”
Questo accaduto martedì 16, è solo uno dei tanti esempi di “non confronto” sui problemi della città che hanno caratterizzato la campagna per le amministrative di Venezia. Certo. Brunetta è un ministro ed ha gli impegni di un ministro. La campagna elettorale pare farla nel suo tempo libero. Così come farà – nel caso fosse eletto – il sindaco di Venezia nel suo tempo libero. “Due giorni alla settimana, sabato e domenica, sono sufficienti”. Ha detto. Mica è un fannullone, lui. Resta il fatto che in una Venezia da “climate change” – acqua alta e neve a fine marzo non se la ricordava nessuno, in laguna – le imminenti elezioni non sembrano appassionare nessuno. A tener banco sui giornali locali sono, più che altro, le critiche e gli attacchi all’interno degli stessi schieramenti. Inevitabile, in mancanza di confronti con gli avversari. Così, a chiudere l’era Cacciari è lo stesso Orsoni, che marca le distanze da sindaco e assessori oggi al governo in città, e propone di “voltare pagina”. E si dimentica che è tutto merito del sindaco uscente se ora lui è là, a giocarsela con Brunetta. Nello schieramento opposto, specularmente a quanto avviene per le elezioni regionali, Lega e Pdl si accoltellano un giorno sì e l’altro pure. Brunetta dichiara che sarà lui, e non certo il Carroccio, a scegliere assessori e vice sindaco. La presidente “lumbard” della provincia, Francesca Zaccariotto, gliele manda a dire avvertendolo che il posto spetta ad un leghista altrimenti “ci saranno ripercussioni nel governo della provincia”. Tutte questioni di alta etica politica, come vedete. C’è da dire su Brunetta che perlomeno non manca di riaccendere di tanto in tanto il tristo panorama politico con qualche sparata delle sue, solitamente pescando a casaccio dalla storia veneziana, della quale non è quel che si dice un gran conoscitore. Ma gli basta aprire un libro sui dogi in una pagina a caso e riesce a farne un comunicato stampa. Anche questo è un gran talento. “Riattiveremo le tradizioni dei fondaci”. Per far che? Importare spezie dall’oriente misterioso? “Riapriremo l’Arsenale”. C’è richiesta di cocche e galee? “Riporteremo il sede del Comune a palazzo Ducale”. E il sindaco avrà pure il corno dogale in testa? Man mano che si avvicina il voto attendiamo che ne esca con un “Riprendiamoci Famagosta”. Giorgio Orsoni, diciamocelo francamente, non è uno che fa innamorare le folle, ma bisogna dargli atto che non deve essere facile ribattere a trovate del genere. Ma, tra le calli, lo spettacolo di una politica che è solo spettacolo è davvero deprimente. “I temi ambientali, che pure sono centrali per il futuro di Venezia e della sua terraferma – ha commentato Gianfranco Bettin candidato ed ispiratore delle lista In Comune -, sono passati in secondo piano. Per questo è importante non soltanto scegliere la coalizione che sostiene Orsoni e respingere l’attacco di una destra senza idee e senza proposte che non sia quella di svendere beni e patrimoni comuni, ma anche scegliere una formazione di chiara ispirazione ambientale come la nostra. L’unica capace di fare la differenza, riavvicinando alla politica persone che se ne erano allontanate e rilanciare In Comune, per l’appunto, una nuova idea democratica, etica e ambientalista”.
E’ sui temi ambientali infatti che si svela il vero volto di Brunetta. Venerdì scorso, all’Ateneo Veneto, durante il solo confronto a due di tutta la campagna elettorale, intervistati dai direttori delle tre testate locali, i candidati sindaci hanno risposto ad una domanda sull’inceneritore Sg31 di Marghera, destinato a rifiuti tossici e pericolosi. Un impianto fortemente voluto dalla Regione Veneto. “Un problema reale – ha dichiarato un preoccupato Orsoni - Porto Marghera rischia davvero di diventare la pattumiera d’Europa, disincentivando così, anche psicologicamente, chi in quelle aree vuole investire in attività pulite”. E la risposta del “fantuttone”? Incazzatissimo, il ministro - candidato ha tagliato corto: “E’ immorale che simili questioni complicate vengano affrontate in campagna elettorale, bisognerebbe tenerle fuori!” Qualcuno si è alzato dalla platea gridando: “Ministro, è la nostra vita, questa!”
Mara Venier assessora?
16/03/2010TerraSulla campagna elettorale per il Comune di Venezia non c’è proprio niente da scrivere. Ma non perché manchino i temi. Così, su due piedi, me ne vengono in mente tanti da riempire il foglio: dalle ancora attese bonifiche di Porto Marghera al rilancio regionale delle politiche di inquinamento con la riapertura dell’inceneritore Sg231 da 100 mila tonnellate annue di rifiuti tossici. E ancora: un turismo sempre più di massa che porta soldi per pochi e problemi per tutti, l’alberghizzazione feroce che scaccia i residenti dalla città insulare con la perdita di tradizioni e culture millenarie, il problema della casa a Venezia e del traffico a Mestre, la necessità di una strategia a 360 gradi per difendere il delicato ecosistema lagunare che sta crollando sotto il peso di opere impattanti come il Mose... e ci fermiamo qua.
Insomma, i temi, in una realtà complessa e differenziata e che comprende Venezia, le isole, il polo industriale e la terraferma mestrina, non mancano. Quelli che mancano sono gli interlocutori. Impossibile non ripensare ai “bei tempi andati” quando i candidati, e prima di loro i partiti, sistemavano una sedia in una qualche fondamenta, esponevano un programma che non era fatto solo di slogan confezionati da qualche pubblicitario, parlavano con la gente, ascoltavano gli interventi, e rispondevano – addirittura! – alle domande dei giornalisti, i quali avevano un solo obiettivo: mettere in difficoltà l’aspirante sindaco, qualsiasi fosse il suo schieramento. Bei tempi. Andati, soprattutto. Adesso, se escludiamo quei sei o sette candidati che si sono presentati solo per far “colore locale”, tra i due più accreditati – Orsoni e Brunetta - pare di assistere ad un dialogo con interposte persone. Se le mandano a dire sui giornali, quando va bene. E d’altra parte come si fa a dialogare con un ministro di Roma che preferisce andare ad “Affari tuoi” che nelle calli di Venezia? Se poi quel ministro si chiama anche Brunetta, possiamo pure tirarci una riga sopra, al confronto democratico. Impossibile fargli domande. Il signor ministro è impegnato. Impossibile intervistarlo a meno che tu non sia un giornalista di “suo gusto”. Il signor ministro non parla con tutti. Impossibile un confronto con gli altri candidati. Il signor ministro è a Roma. Impossibile un confronto con sindacati e categorie. Il signor ministro fa il suo comizio ma poi scappa perché c’è l’aereo (quello del ministero) che lo attende. E così si marcia a sparate. Cosa che il nostro candidato sa fare alla grande. “Regalerò le case dell’ater agli inquilini”. Tanto, non c’è nessuno che gli possa chiedere: ma son tue o della Regione. “Mara Venier assessora” E a far che? “Porterò a Venezia otto ministri” Ci mancherebbe solo questo! In compenso, le cassette postali dei veneziani sono stipate ogni mattina dalle sue lettere d’amore in carta non riciclabile che per smaltirle tutte servirà sul serio l’Sg31. Amore? Proprio così. “Vi voglio bene” è l’inevitabile conclusione del ministro - candidato dopo che ci ha spiegato, con una mano sul cuore, perché sta facendo tutto questo per noi. Ci ama. E’ per questo che promette di venire perlomeno uno o forse anche due giorni alla settimana in laguna a fare il sindaco. Ci ama. Ed è per questo che ha speso per noi oltre un milione di euro tra gadget, pubblicità nei giornali e manifesti elettorali. Ci ama. Ma non al punto da dirci dove ha preso questi soldi. Ci ama ma si dimentica di indicare il committente nei suoi depliant. Nella mia ignoranza, credevo fosse un obbligo di legge per una questione di trasparenza dei finanziamenti. Ci dev’essere qualche decreto interpretativo che glielo consente. Però devi essere ministro e avere il cognome che comincia con B.
Insomma, i temi, in una realtà complessa e differenziata e che comprende Venezia, le isole, il polo industriale e la terraferma mestrina, non mancano. Quelli che mancano sono gli interlocutori. Impossibile non ripensare ai “bei tempi andati” quando i candidati, e prima di loro i partiti, sistemavano una sedia in una qualche fondamenta, esponevano un programma che non era fatto solo di slogan confezionati da qualche pubblicitario, parlavano con la gente, ascoltavano gli interventi, e rispondevano – addirittura! – alle domande dei giornalisti, i quali avevano un solo obiettivo: mettere in difficoltà l’aspirante sindaco, qualsiasi fosse il suo schieramento. Bei tempi. Andati, soprattutto. Adesso, se escludiamo quei sei o sette candidati che si sono presentati solo per far “colore locale”, tra i due più accreditati – Orsoni e Brunetta - pare di assistere ad un dialogo con interposte persone. Se le mandano a dire sui giornali, quando va bene. E d’altra parte come si fa a dialogare con un ministro di Roma che preferisce andare ad “Affari tuoi” che nelle calli di Venezia? Se poi quel ministro si chiama anche Brunetta, possiamo pure tirarci una riga sopra, al confronto democratico. Impossibile fargli domande. Il signor ministro è impegnato. Impossibile intervistarlo a meno che tu non sia un giornalista di “suo gusto”. Il signor ministro non parla con tutti. Impossibile un confronto con gli altri candidati. Il signor ministro è a Roma. Impossibile un confronto con sindacati e categorie. Il signor ministro fa il suo comizio ma poi scappa perché c’è l’aereo (quello del ministero) che lo attende. E così si marcia a sparate. Cosa che il nostro candidato sa fare alla grande. “Regalerò le case dell’ater agli inquilini”. Tanto, non c’è nessuno che gli possa chiedere: ma son tue o della Regione. “Mara Venier assessora” E a far che? “Porterò a Venezia otto ministri” Ci mancherebbe solo questo! In compenso, le cassette postali dei veneziani sono stipate ogni mattina dalle sue lettere d’amore in carta non riciclabile che per smaltirle tutte servirà sul serio l’Sg31. Amore? Proprio così. “Vi voglio bene” è l’inevitabile conclusione del ministro - candidato dopo che ci ha spiegato, con una mano sul cuore, perché sta facendo tutto questo per noi. Ci ama. E’ per questo che promette di venire perlomeno uno o forse anche due giorni alla settimana in laguna a fare il sindaco. Ci ama. Ed è per questo che ha speso per noi oltre un milione di euro tra gadget, pubblicità nei giornali e manifesti elettorali. Ci ama. Ma non al punto da dirci dove ha preso questi soldi. Ci ama ma si dimentica di indicare il committente nei suoi depliant. Nella mia ignoranza, credevo fosse un obbligo di legge per una questione di trasparenza dei finanziamenti. Ci dev’essere qualche decreto interpretativo che glielo consente. Però devi essere ministro e avere il cognome che comincia con B.
Sile e cemento
16/03/2010TerraChe gli speculatori speculino, e che i cementificatori cementifichino, farà anche tristezza ma rimane comunque nell’ordine naturale delle cose. Se a voler costruire centri dirigenziali, parcheggi e villini di lusso all’interno di un parco naturale, è lo stesso Ente Parco, la faccenda si fa quanto meno paradossale. Eppure è quanto sta per succedere nella marca trevigiana. Il parco in questione è quello realizzato sulle sponde del fiume Sile. Un fiume storico per il Veneto. La dolcezza e la ricchezza delle sue acque ne hanno fatto sin dagli albori della storia, un sito di attrazione per le popolazioni nomadi e le sue sponde hanno fatto da culla per la civiltà degli antichi Veneti.
E’ anche il fiume di risorgiva più lungo d’Italia, il nostro Sile. Nasce nel confine tra il trevigiano e il padovano, tra Casacorba di Vedelago (Treviso) e Torreselle di Piombino Dese (Padova). Settanta chilometri più a valle, a Portegrandi, arriva in quella laguna che aveva contribuito a creare. Un tempo vi si gettava, ma nel 1683 la Serenissima lo fece deviare lungo il cosiddetto “taglio del Sile”. Nel 1991, la Regione Veneto istituì sulle sue sponde un parco regionale di 4 mila e 152 ettari. Lo scopo, dichiarato nella legge istitutiva, era quello di “proteggere, salvaguardare, valorizzare, mantenere e tutelare il suolo e il sottosuolo, la flora, la fauna del Sile”. A tal proposito, ogni cinque anni Regione e Provincie nominano un presidente, un consiglio, un comitato esecutivo, varie commissioni, revisori dei conti, eccetera eccetera. Spreco solo due righe per ricordare che, nel’ottica di spartizione regionale popolo delle libertà - lega, gli organi dell’ente parco sono tutti di nomina padana. Ebbene: che ti fa l’ente parco invece di tutelare, preservare, eccetera eccetera? Per “valorizzare l’ambiente” di sua competenza avvia “progetti di recupero” che altro non sono che piani di edificazione veri e propri. Un esempio è il progetto di “recupero” degli ex-mulini Mandelli che prevede la realizzazione di nuovi edifici residenziali (condomini e villette) nell’area verde che si estende alle spalle degli ex-mulini e che verrebbe ridotta a giardino più o meno privato per i nuovi residenti. “Non ci stupisce che l’edificazione lungo le rive del Sile possa essere un obiettivo ambito per i costruttori – spiega Gigi Calesso, portavoce dell’associazione Un’altra Treviso – belle abitazioni lungo il fiume, immerse nel verde, con un tocco di rustico… sono senz’altro un buon affare in un territorio cementificato e inquinato come il nostro. Quello che ci risulta invece di difficile comprensione è che a promuovere questo tipo di iniziative sia l’Ente Parco del Sile la cui funzione dovrebbe essere, al contrario, quella di tutelare e difendere le bellezze naturali del fiume”. L’associazione Un’altra Treviso – che da anni si batte per ricordare a tutti che Treviso non è solo Lega&Gentilini – ha raccolto circa un migliaio di firme per chiedere all’Ente Parco di fermare questo scempio ambientale. “Siamo indignati nel constatare che ad avviare l’iter per la cementificazione delle rive del Sile non siano state le richieste dei costruttori ma lo stesso Ente Parco attraverso lo strumento della variante al Piano Ambientale che a tutto dovrebbe servire meno che a portare a nuove edificazioni lungo le sponde del fiume”. Nella faccenda non mancano neppure aspetti curiosi: doppi incarichi, conflitti di interesse e delibere con la data di Ferragosto. Quattro anni fa, quando i proprietari dei Mulini, tentarono un’altra strada per il “progetto di recupero”, nella richiesta avanzata dall’Ente Parco alla Regione si scriveva che il percorso tecnico-amministrativo era stato “individuato di concerto con il Comune di Treviso”. Ma l’assessore all’Urbanistica Sergio Marton e il presidente della Commissione Urbanistica Sandro Zampese (serve scrivere di che partito sono?) hanno sostenuto che il Comune non sapeva nulla del progetto. Eppure, in quella vicenda, il Comune di Treviso dimostrò zelo e solerzia degni di miglior causa: la richiesta da parte dell’Ente Parco, infatti, venne protocollata in municipio il 10 agosto 2006 e dopo solo pochi giorni (il 17 agosto) venne inoltrata in Regione. E poi dicono che a Ferragosto in Comuni son tutti in ferie! E che dire dei doppi e tripli incarichi? Zampese, presidente della commissione urbanistica, nel 2001 ha predisposto la variante al Prg di Treviso in cui si evidenziavano elementi di conflittualità con il Piano Ambientale del Parco del Sile. Nel 2004 lo stesso Zampese era uno dei professionisti incaricati dall’Ente Parco a predisporre una variante al suo Piano Ambientale. Controllore e controllato, esaminatore ed esaminato allo stesso tempo. E che dire di Vittorio Domenichelli? Un noto professionista che offre un parere ‘pro veritate’ alla Mandelli Srl a sostegno dell’iter tecnico-amministrativo utilizzato a suo tempo per presentare il progetto (in alternativa all’inserimento nella variante) e che era già intervenuto nella vicenda dei Mulini difendendo un privato cittadino contro le previsioni urbanistiche che l’amministrazione di Treviso stava predisponendo sull’area in oggetto. Inoltre, Domenichelli è anche consulente della Regione Veneto per individuare iter tecnico-amministrativi che permettano il project-financing di opere pubbliche anche su aree che rimangano di proprietà privata. “Non sono incompatibilità giuridiche, sia chiaro - conclude amaramente Gigi Calesso – al massimo le possiamo definire acrobazie tecnico amministrative. Ma di sicuro la trasparenza sta tutta da un’altra parte. E a noi non resta che stupirci nel constatare come in questa vicenda, gira e rigira, compaiono sempre le stesse persone. Ora in un ruolo, ora in un altro”.
E’ anche il fiume di risorgiva più lungo d’Italia, il nostro Sile. Nasce nel confine tra il trevigiano e il padovano, tra Casacorba di Vedelago (Treviso) e Torreselle di Piombino Dese (Padova). Settanta chilometri più a valle, a Portegrandi, arriva in quella laguna che aveva contribuito a creare. Un tempo vi si gettava, ma nel 1683 la Serenissima lo fece deviare lungo il cosiddetto “taglio del Sile”. Nel 1991, la Regione Veneto istituì sulle sue sponde un parco regionale di 4 mila e 152 ettari. Lo scopo, dichiarato nella legge istitutiva, era quello di “proteggere, salvaguardare, valorizzare, mantenere e tutelare il suolo e il sottosuolo, la flora, la fauna del Sile”. A tal proposito, ogni cinque anni Regione e Provincie nominano un presidente, un consiglio, un comitato esecutivo, varie commissioni, revisori dei conti, eccetera eccetera. Spreco solo due righe per ricordare che, nel’ottica di spartizione regionale popolo delle libertà - lega, gli organi dell’ente parco sono tutti di nomina padana. Ebbene: che ti fa l’ente parco invece di tutelare, preservare, eccetera eccetera? Per “valorizzare l’ambiente” di sua competenza avvia “progetti di recupero” che altro non sono che piani di edificazione veri e propri. Un esempio è il progetto di “recupero” degli ex-mulini Mandelli che prevede la realizzazione di nuovi edifici residenziali (condomini e villette) nell’area verde che si estende alle spalle degli ex-mulini e che verrebbe ridotta a giardino più o meno privato per i nuovi residenti. “Non ci stupisce che l’edificazione lungo le rive del Sile possa essere un obiettivo ambito per i costruttori – spiega Gigi Calesso, portavoce dell’associazione Un’altra Treviso – belle abitazioni lungo il fiume, immerse nel verde, con un tocco di rustico… sono senz’altro un buon affare in un territorio cementificato e inquinato come il nostro. Quello che ci risulta invece di difficile comprensione è che a promuovere questo tipo di iniziative sia l’Ente Parco del Sile la cui funzione dovrebbe essere, al contrario, quella di tutelare e difendere le bellezze naturali del fiume”. L’associazione Un’altra Treviso – che da anni si batte per ricordare a tutti che Treviso non è solo Lega&Gentilini – ha raccolto circa un migliaio di firme per chiedere all’Ente Parco di fermare questo scempio ambientale. “Siamo indignati nel constatare che ad avviare l’iter per la cementificazione delle rive del Sile non siano state le richieste dei costruttori ma lo stesso Ente Parco attraverso lo strumento della variante al Piano Ambientale che a tutto dovrebbe servire meno che a portare a nuove edificazioni lungo le sponde del fiume”. Nella faccenda non mancano neppure aspetti curiosi: doppi incarichi, conflitti di interesse e delibere con la data di Ferragosto. Quattro anni fa, quando i proprietari dei Mulini, tentarono un’altra strada per il “progetto di recupero”, nella richiesta avanzata dall’Ente Parco alla Regione si scriveva che il percorso tecnico-amministrativo era stato “individuato di concerto con il Comune di Treviso”. Ma l’assessore all’Urbanistica Sergio Marton e il presidente della Commissione Urbanistica Sandro Zampese (serve scrivere di che partito sono?) hanno sostenuto che il Comune non sapeva nulla del progetto. Eppure, in quella vicenda, il Comune di Treviso dimostrò zelo e solerzia degni di miglior causa: la richiesta da parte dell’Ente Parco, infatti, venne protocollata in municipio il 10 agosto 2006 e dopo solo pochi giorni (il 17 agosto) venne inoltrata in Regione. E poi dicono che a Ferragosto in Comuni son tutti in ferie! E che dire dei doppi e tripli incarichi? Zampese, presidente della commissione urbanistica, nel 2001 ha predisposto la variante al Prg di Treviso in cui si evidenziavano elementi di conflittualità con il Piano Ambientale del Parco del Sile. Nel 2004 lo stesso Zampese era uno dei professionisti incaricati dall’Ente Parco a predisporre una variante al suo Piano Ambientale. Controllore e controllato, esaminatore ed esaminato allo stesso tempo. E che dire di Vittorio Domenichelli? Un noto professionista che offre un parere ‘pro veritate’ alla Mandelli Srl a sostegno dell’iter tecnico-amministrativo utilizzato a suo tempo per presentare il progetto (in alternativa all’inserimento nella variante) e che era già intervenuto nella vicenda dei Mulini difendendo un privato cittadino contro le previsioni urbanistiche che l’amministrazione di Treviso stava predisponendo sull’area in oggetto. Inoltre, Domenichelli è anche consulente della Regione Veneto per individuare iter tecnico-amministrativi che permettano il project-financing di opere pubbliche anche su aree che rimangano di proprietà privata. “Non sono incompatibilità giuridiche, sia chiaro - conclude amaramente Gigi Calesso – al massimo le possiamo definire acrobazie tecnico amministrative. Ma di sicuro la trasparenza sta tutta da un’altra parte. E a noi non resta che stupirci nel constatare come in questa vicenda, gira e rigira, compaiono sempre le stesse persone. Ora in un ruolo, ora in un altro”.
Caro Zaia, gli inceneritori fatteli a casa tua!
9/03/2010TerraSui volantini elettorali che gli ambientalisti distribuiscono nelle piazze di Marghera si legge: “Caro Zaia, le scoasse e gli inceneritori, tienteli a casa tua”. In laguna, l’inceneritore è un tema che scotta e l’approvazione, la scorsa settimana, da parte della Giunta di due delibere presentate dagli assessori Renzo Marangon e Giancarlo Conta, pur se avvenuta in sordina, non è ugualmente passata sotto silenzio. Fiutando l’aria che tirava, l’assemblea permanente contro il rischio chimico e altre associazioni ambientaliste hanno organizzato un lungo e pittoresco corteo acqueo da piazzale Roma sino a palazzo Balbi per depositare nelle mani del governatore oltre 15 mila firme a sostegno di una petizione popolare in cui si chiedeva di non trasformare Marghera nella pattumiera del Veneto.
Le rassicurazioni del capo di Gabinetto di Galan sul rinvio della contestata delibera a dopo le elezioni, evidentemente, valevano per la Giunta regionale quanto la carta con cui sono state raccolte le firme: scoasse da incenerire. Tanto è vero che qualche giorno dopo, sono state approvate le due delibere contestate. Giancarlo Galan, l’uomo del “basta fare”, scende dallo scranno di presidente della Regione lasciandoci in eredità un riavvio (e potenziato!) del forno inceneritore di rifiuti pericolosi SG31 da 100 mila tonnellate gradualmente aumentabile a 125 mila. Inceneritore gestito da una società privata, la Simagest tramite la concessionaria regionale Sifa, che sarà l’unica a guadagnarci da tutta la vicenda. E’ appena il caso di ricordare che “società privata” equivale a scrivere “meno controlli”. A Marghera arriveranno quindi rifiuti tossici provenienti da tutta Italia e la memoria fa male, perché torna a ripensare ad una stagione che credevamo, speravamo, di esserci lasciati alle spalle per sempre: quella delle navi dei veleni come la Jolly Rosso, dei traffici controllati dalla mafia, delle emissioni inquinanti e degli allarmi chimici. Allora, l’Sg31 era in funzione pur se bruciava “solo” 40 mila tonnellate annue contro le 100 mila previste oggi. Insomma, sono tornati. E sono tornati più affamati di prima. Proprio vero che “resistere” è un verbo da coniugare sempre al presente. “Bloccheremo le entrate dell’inceneritore, bloccheremo i mezzi che portano le decine di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici da bruciare nell’aria e da riversare, in cenere, nei nostri polmoni e nell’ambiente – annuncia il consigliere regionale dei Verdi Idea, Gianfranco Bettin -.
La Regione, Zaia, troveranno la risposta che si meritano. Questa operazione non passerà: la fermeremo, visto che la democrazia è stata calpestata dalla giunta regionale, con il ricorso alla magistratura e con la disobbedienza civile”.
“La decisione della giunta regionale del Veneto - continua Bettin - rappresenta un colpo violento all’ambiente e alla salute della popolazione e un colpo altrettanto duro all’evoluzione economica e industriale dell’intero polo di Porto Marghera e di Venezia perché ne riporta indietro la storia di decenni.
La Giunta attuale, con il sostegno diretto di Luca Zaia, che più volte si è detto d’accordo, si schiera così contro la vita della popolazione e contro l’ambiente e contro il futuro eco-compatibile della città. Ma si schiera anche contro la democrazia, eludendo ogni percorso partecipativo e ogni confronto con la popolazione e i suoi organismi rappresentativi che, infatti, si sono schierati tutti contro questa operazione”. Sullo stesso tono di Bettin, il candidatio sindaco del centrosinistra, Giorgio Orsoni, e lo sfidante alla carica di Governatore Veneto, Giuseppe Bortolussi. “Ritengo inammissibile che una Giunta regionale, che non ha mai saputo approvare un piano regionale per la gestione dei rifiuti speciali – ha dichiarato Bortolussi - decida di riattivare un impianto così impattante e pericoloso su un’area come quella della terraferma veneziana, già ampiamente compromessa dal punto di vista ambientale”. A difendere a spada tratta l’impianto Sg31, ci pensano i due ministri – candidati, Luca Zaia e Renato Brunetta, che parlano di strumentalizzazioni elettorali dei “soliti rosso verdi” e di “normale evoluzione di un progetto già in vigore, approvato da tutti e che risolverà tanti problemi ambientali”. Brunetta fa finta di non sapere che un conto è un inceneritore fermo, come è oggi l’Sg31, un altro conto un inceneritore che brucerà 100 mila tonnellate di rifiuti tossici portati in laguna da tante altre Jolly Rosso.
Le rassicurazioni del capo di Gabinetto di Galan sul rinvio della contestata delibera a dopo le elezioni, evidentemente, valevano per la Giunta regionale quanto la carta con cui sono state raccolte le firme: scoasse da incenerire. Tanto è vero che qualche giorno dopo, sono state approvate le due delibere contestate. Giancarlo Galan, l’uomo del “basta fare”, scende dallo scranno di presidente della Regione lasciandoci in eredità un riavvio (e potenziato!) del forno inceneritore di rifiuti pericolosi SG31 da 100 mila tonnellate gradualmente aumentabile a 125 mila. Inceneritore gestito da una società privata, la Simagest tramite la concessionaria regionale Sifa, che sarà l’unica a guadagnarci da tutta la vicenda. E’ appena il caso di ricordare che “società privata” equivale a scrivere “meno controlli”. A Marghera arriveranno quindi rifiuti tossici provenienti da tutta Italia e la memoria fa male, perché torna a ripensare ad una stagione che credevamo, speravamo, di esserci lasciati alle spalle per sempre: quella delle navi dei veleni come la Jolly Rosso, dei traffici controllati dalla mafia, delle emissioni inquinanti e degli allarmi chimici. Allora, l’Sg31 era in funzione pur se bruciava “solo” 40 mila tonnellate annue contro le 100 mila previste oggi. Insomma, sono tornati. E sono tornati più affamati di prima. Proprio vero che “resistere” è un verbo da coniugare sempre al presente. “Bloccheremo le entrate dell’inceneritore, bloccheremo i mezzi che portano le decine di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici da bruciare nell’aria e da riversare, in cenere, nei nostri polmoni e nell’ambiente – annuncia il consigliere regionale dei Verdi Idea, Gianfranco Bettin -.
La Regione, Zaia, troveranno la risposta che si meritano. Questa operazione non passerà: la fermeremo, visto che la democrazia è stata calpestata dalla giunta regionale, con il ricorso alla magistratura e con la disobbedienza civile”.
“La decisione della giunta regionale del Veneto - continua Bettin - rappresenta un colpo violento all’ambiente e alla salute della popolazione e un colpo altrettanto duro all’evoluzione economica e industriale dell’intero polo di Porto Marghera e di Venezia perché ne riporta indietro la storia di decenni.
La Giunta attuale, con il sostegno diretto di Luca Zaia, che più volte si è detto d’accordo, si schiera così contro la vita della popolazione e contro l’ambiente e contro il futuro eco-compatibile della città. Ma si schiera anche contro la democrazia, eludendo ogni percorso partecipativo e ogni confronto con la popolazione e i suoi organismi rappresentativi che, infatti, si sono schierati tutti contro questa operazione”. Sullo stesso tono di Bettin, il candidatio sindaco del centrosinistra, Giorgio Orsoni, e lo sfidante alla carica di Governatore Veneto, Giuseppe Bortolussi. “Ritengo inammissibile che una Giunta regionale, che non ha mai saputo approvare un piano regionale per la gestione dei rifiuti speciali – ha dichiarato Bortolussi - decida di riattivare un impianto così impattante e pericoloso su un’area come quella della terraferma veneziana, già ampiamente compromessa dal punto di vista ambientale”. A difendere a spada tratta l’impianto Sg31, ci pensano i due ministri – candidati, Luca Zaia e Renato Brunetta, che parlano di strumentalizzazioni elettorali dei “soliti rosso verdi” e di “normale evoluzione di un progetto già in vigore, approvato da tutti e che risolverà tanti problemi ambientali”. Brunetta fa finta di non sapere che un conto è un inceneritore fermo, come è oggi l’Sg31, un altro conto un inceneritore che brucerà 100 mila tonnellate di rifiuti tossici portati in laguna da tante altre Jolly Rosso.
Mafia e grandi opere. Intervista con Walter Mescalchin
9/03/2010TerraWalter Mescalchin, negli anni in cui la banda di Felice Maniero imperversava nella Riviera, era sindaco di Camponogara. Il suo Comune fu uno dei primi a costituirsi parte civile nel maxi processo contro la mala del Brenta assieme alla Provincia di Venezia. “Fu un momento importantissimo – spiega –. Il nostro esempio fu seguito da tutti e dieci i Comuni della Riviera e riuscimmo a ribaltare un sistema nazionale che chiedeva alle istituzioni locali di rimanere fuori dalle indagini. Invece noi abbiamo contribuito a dimostrare che attraverso la legalità è possibile vincere la mafia”. Altri tempi. L’anno scorso, nell’ultima udienza del maxi processo, era rimasta solo la Provincia – che ancora era in mano al centro sinistra – sul banco della parte civile. Tutti i Comuni rivieraschi, chi passato alla Lega e chi a Forza Italia, si sono defilati uno per uno. “Adesso sta passando, anche e soprattutto attraverso le istituzioni e la politica, un modo di pensare mafioso.
C’è la tendenza a farsi gli affari propri, emergono quei messaggi leghisti che sono l’esatto contrario di quelli di solidarietà su cui si fonda la convivenza civile. Viviamo in un clima difficile e pericoloso. Eppure la mafia si combatte solo attraverso una cultura diversa. Non è soltanto questione di xenofobia e razzismo. L’aspetto più negativo e il non rispetto delle regole. La mafia insegna che ‘le regole le faccio io’. Coltivare la cultura mafiosa significa non obbedire alle regole e costruire uno Stato a misura della convenienza del più forte, perseguire solo i propri interessi, avere la ricchezza come unico fine e come unico metro di giudizio. E questa non è solo la lega. Lei ha portato all’esasperazione questo messaggio, ma tutta la destra Veneta agevola questo aspetto e pure certa sinistra ha le sue colpe”. Chiusa la carriera politica come amministratore, Walter Mescalchin ha continuato nell’impegno civile su due binari distinti ma affatto separati, lavorando con Libera e col comitato ambiente e territorio della Riviera del Brenta. Mafie e grandi opere, infatti, non sono che due facce della stessa medaglia.
“Facciamo pure l’esempio della Romea Commerciale. Adesso si fa un gran ragionare su dove realizzare l’innesto. Tutto questo senza entrare nei non trascurabili dettagli del tipo: l’intera opera serve o non serve? Nel caso deve per forza essere una autostrada? E soprattutto chi la deve realizzare? Ci siamo tutti scordati di quei due anni di battaglia di ricomposizione societaria che hanno portato ad indagare Vito Bonsignore per il riciclo di denaro sporco? Adesso Bonsignore, eletto eurodeputato nelle file del Pdl in un collegio di Torino, è sempre al vertice della cordata e lo Stato e l’Anas hanno affidato a lui la realizzazione dei lavori. Eppure il processo per riciclo è tutt’altro che concluso. Tra l’altra, si è garantito per 50 anni l’introito del pedaggio”. Uno tra i tanti esempi di come le logiche di riciclaggio condizionino lo “sviluppo economico”, ma potremmo tranquillamente scrivere lo “stupro”, del territorio.
“Già! Non possiamo più continuare ad accettare che ‘basta fare’. A partire dagli stessi Comuni che accettano che venga loro derubata da commissari e leggi speciali la possibilità di pianificare gli interventi. Dobbiamo tornare a fare una battaglia per le autonomie e non sul federalismo. Lo Stato non può dire cosa fare ai Comuni. Oggi passano logiche aberranti. Senza discutere, senza ragionare con i cittadini, stanno pensando di ridurre i componenti dei consigli, eliminare le municipalità e le stesse Provincie. Così i Comuni diventano la lunga mano amministrativa delle Regioni. E questo il federalismo di Bossi: non uno Stato partecipato ma un centralismo su scala media. Un gioco che piace alla mafia. Oggi il suo interlocutore privilegiato non è più il sindaco ma il commissario che lo sostituisce per le decisioni di peso. Il veicolo per il riciclo del denaro non è l’appaltino sulle polizie in Comune ma le grandi opere: Passante, Romea Commerciale, Mose, Quadrante di Tessera, Veneto City… Operazioni enormi in cui vengono veicoli miliardi che non sono mai gestiti dal territorio ma a livello regionale o con un commissario di riferimento che decide per tutti. Questo e il sistema che hanno creato apposta. Poi, ogni tanto, qualcuno viene pescato con le mani sulla marmellata come nel caso di Bonsignore ma non si va mai fino in fondo”.
Tra le grandi opere, grandi danni per cittadini e grandi affari per la mafia, ci mettiamo pure l’inceneritore di Marghera?
“Perché crede che vogliano farlo costruire ai privati? Così lo Stato non potrà controllare cosa viene smaltito in quelle ciminiere. Il traffico di rifiuti così come quello delle armi, è uno di quei mercati che, per loro stessa natura, possono essere gestiti solo dalla criminalità organizzata. Una stagione che Marghera ha già vissuto ai tempi di Craxi e del suo ministro degli esteri De Michelis con i fusti portati dalla Jolly Rosso quando si delineavano quelle rotte di traffici di armi e di rifiuti tossici che hanno portato, tra le altre cose, anche all’omicidio di Ilaria Alpi. L’Sg31 riaprirà il porto di Marghera alla criminalità organizzata con la complicità degli stessi industriale. Il che non è una novità. Ce lo ricordiamo o no che per venti anni i nostri rifiuti tossici sono stati smaltiti a Caserta dai Casalesi, e che oggi in tutto il casertano non c’è un metro di terra coltivabile?”
Da buon ministro dell’agricoltura, questo Zaia lo saprà di sicuro! Possiamo dunque affermare che nel Veneto esiste una forte infiltrazione mafiosa?
“La mafia, intesa come criminalità organizzata e non come la vecchia Cosa Nostra siciliana tutto lupara e fichi d’india, esiste in tutto il mondo e controlla almeno il 60 per cento della finanza. Il Veneto, in quanto terra di investimenti e di grandi opere, è una regione appetibile per il riciclo di denaro sporco. Pensiamo alle tante banche che sono arrivate e al proliferare dei centri commerciali stranieri. Ha notato quei negozi super lusso che aprono e chiudono nell’arco di pochi mesi? Chi altro, se non chi ha come obiettivo il riciclaggio del denaro e può permettersi di investire 100 per ricavare 80, lavora in sicura perdita?” Oltre che il tradizionale mercato della droga, la mafia controlla anche il mercato del lavoro nero. Lo abbiamo visto a Rosarno. E nel nordest? “Da noi, nel settore delle costruzioni, la mafia controlla migliaia di lavoratori. Per la maggior parte sono stranieri che la mafia usa per controllare il mercato del lavoro. Un caporalato che nasce addirittura nei loro paesi d’origine a ricordarci che il fenomeno mafioso oggi è un fenomeno globalizzato. D’altra parte, la cultura di sfruttamento dell’uomo sull’uomo è tipica della mafia. E’ da qui che dobbiamo ripartire per ribadire che la legalità è l’unico mezzo per sconfiggere la criminalità anche quella che siede nei palazzi della politica e della finanza: i diritti sono di tutti e non sono mai negoziabili”.
C’è la tendenza a farsi gli affari propri, emergono quei messaggi leghisti che sono l’esatto contrario di quelli di solidarietà su cui si fonda la convivenza civile. Viviamo in un clima difficile e pericoloso. Eppure la mafia si combatte solo attraverso una cultura diversa. Non è soltanto questione di xenofobia e razzismo. L’aspetto più negativo e il non rispetto delle regole. La mafia insegna che ‘le regole le faccio io’. Coltivare la cultura mafiosa significa non obbedire alle regole e costruire uno Stato a misura della convenienza del più forte, perseguire solo i propri interessi, avere la ricchezza come unico fine e come unico metro di giudizio. E questa non è solo la lega. Lei ha portato all’esasperazione questo messaggio, ma tutta la destra Veneta agevola questo aspetto e pure certa sinistra ha le sue colpe”. Chiusa la carriera politica come amministratore, Walter Mescalchin ha continuato nell’impegno civile su due binari distinti ma affatto separati, lavorando con Libera e col comitato ambiente e territorio della Riviera del Brenta. Mafie e grandi opere, infatti, non sono che due facce della stessa medaglia.
“Facciamo pure l’esempio della Romea Commerciale. Adesso si fa un gran ragionare su dove realizzare l’innesto. Tutto questo senza entrare nei non trascurabili dettagli del tipo: l’intera opera serve o non serve? Nel caso deve per forza essere una autostrada? E soprattutto chi la deve realizzare? Ci siamo tutti scordati di quei due anni di battaglia di ricomposizione societaria che hanno portato ad indagare Vito Bonsignore per il riciclo di denaro sporco? Adesso Bonsignore, eletto eurodeputato nelle file del Pdl in un collegio di Torino, è sempre al vertice della cordata e lo Stato e l’Anas hanno affidato a lui la realizzazione dei lavori. Eppure il processo per riciclo è tutt’altro che concluso. Tra l’altra, si è garantito per 50 anni l’introito del pedaggio”. Uno tra i tanti esempi di come le logiche di riciclaggio condizionino lo “sviluppo economico”, ma potremmo tranquillamente scrivere lo “stupro”, del territorio.
“Già! Non possiamo più continuare ad accettare che ‘basta fare’. A partire dagli stessi Comuni che accettano che venga loro derubata da commissari e leggi speciali la possibilità di pianificare gli interventi. Dobbiamo tornare a fare una battaglia per le autonomie e non sul federalismo. Lo Stato non può dire cosa fare ai Comuni. Oggi passano logiche aberranti. Senza discutere, senza ragionare con i cittadini, stanno pensando di ridurre i componenti dei consigli, eliminare le municipalità e le stesse Provincie. Così i Comuni diventano la lunga mano amministrativa delle Regioni. E questo il federalismo di Bossi: non uno Stato partecipato ma un centralismo su scala media. Un gioco che piace alla mafia. Oggi il suo interlocutore privilegiato non è più il sindaco ma il commissario che lo sostituisce per le decisioni di peso. Il veicolo per il riciclo del denaro non è l’appaltino sulle polizie in Comune ma le grandi opere: Passante, Romea Commerciale, Mose, Quadrante di Tessera, Veneto City… Operazioni enormi in cui vengono veicoli miliardi che non sono mai gestiti dal territorio ma a livello regionale o con un commissario di riferimento che decide per tutti. Questo e il sistema che hanno creato apposta. Poi, ogni tanto, qualcuno viene pescato con le mani sulla marmellata come nel caso di Bonsignore ma non si va mai fino in fondo”.
Tra le grandi opere, grandi danni per cittadini e grandi affari per la mafia, ci mettiamo pure l’inceneritore di Marghera?
“Perché crede che vogliano farlo costruire ai privati? Così lo Stato non potrà controllare cosa viene smaltito in quelle ciminiere. Il traffico di rifiuti così come quello delle armi, è uno di quei mercati che, per loro stessa natura, possono essere gestiti solo dalla criminalità organizzata. Una stagione che Marghera ha già vissuto ai tempi di Craxi e del suo ministro degli esteri De Michelis con i fusti portati dalla Jolly Rosso quando si delineavano quelle rotte di traffici di armi e di rifiuti tossici che hanno portato, tra le altre cose, anche all’omicidio di Ilaria Alpi. L’Sg31 riaprirà il porto di Marghera alla criminalità organizzata con la complicità degli stessi industriale. Il che non è una novità. Ce lo ricordiamo o no che per venti anni i nostri rifiuti tossici sono stati smaltiti a Caserta dai Casalesi, e che oggi in tutto il casertano non c’è un metro di terra coltivabile?”
Da buon ministro dell’agricoltura, questo Zaia lo saprà di sicuro! Possiamo dunque affermare che nel Veneto esiste una forte infiltrazione mafiosa?
“La mafia, intesa come criminalità organizzata e non come la vecchia Cosa Nostra siciliana tutto lupara e fichi d’india, esiste in tutto il mondo e controlla almeno il 60 per cento della finanza. Il Veneto, in quanto terra di investimenti e di grandi opere, è una regione appetibile per il riciclo di denaro sporco. Pensiamo alle tante banche che sono arrivate e al proliferare dei centri commerciali stranieri. Ha notato quei negozi super lusso che aprono e chiudono nell’arco di pochi mesi? Chi altro, se non chi ha come obiettivo il riciclaggio del denaro e può permettersi di investire 100 per ricavare 80, lavora in sicura perdita?” Oltre che il tradizionale mercato della droga, la mafia controlla anche il mercato del lavoro nero. Lo abbiamo visto a Rosarno. E nel nordest? “Da noi, nel settore delle costruzioni, la mafia controlla migliaia di lavoratori. Per la maggior parte sono stranieri che la mafia usa per controllare il mercato del lavoro. Un caporalato che nasce addirittura nei loro paesi d’origine a ricordarci che il fenomeno mafioso oggi è un fenomeno globalizzato. D’altra parte, la cultura di sfruttamento dell’uomo sull’uomo è tipica della mafia. E’ da qui che dobbiamo ripartire per ribadire che la legalità è l’unico mezzo per sconfiggere la criminalità anche quella che siede nei palazzi della politica e della finanza: i diritti sono di tutti e non sono mai negoziabili”.
Elettrosmog, serve una legge per difenderci. Intervista con Angelo Gino Levis
2/03/2010TerraUna sentenza storica, quella emessa dalla Corte d'Appello di Brescia il 10 dicembre dell’anno scorso che ha accolto il ricorso di un dipendente Inail esposto per lavoro alle onde elettromagnetiche di cordless e cellulari, riconoscendogli la malattia professionale con invalidità all'80 per cento. Per la prima volta, un tribunale ha accettato il nesso tra l’uso frequente di telefoni mobili e l’insorgenza di patologie tumorali. Angelo Gino Levis, biologo e studioso di fama internazionale sugli effetti dei campi elettromagnetici sul corpo umano e vicepresidente dell’Apple, l’associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog, è stato il perito di parte civile che ha contribuito a questa storica sentenza.
“Una sentenza che farà storia e già ripresa dai motori internazionali. La prima sentenza al mondo che riconosce la correlazione tra tumori e telefoni mobili dal punto di vista uso professionali. Ma facciamo attenzione: la sentenza riguarda una malattia professionale, ma la documentazione scientifica citata dal tribunale riguarda la popolazione comune e l’uso normale dei cellulare. Non soltanto un uso straordinario, come capitato a questo disgraziato che per dieci anni ha lavorato con telefonia mobile”.
L’Apple organizza periodicamente incontri nelle scuole pubbliche per informare i giovani sulla pericolosità dei cellulari e consigliarne un uso intelligente. A questo proposito, dal sito dell’Apple - www.applelettrosmog.it - è scaricabile un interessante opuscolo che spiega nei dettagli le precauzioni da prendere.
“Un uso cautelativo del cellulare e del cordless è senz’altro un bene, ma sarebbe necessaria una revisione della normativa nazionale e un abbassamento dei limiti di esposizione. L’ha chiesta anche il parlamento europeo nel marzo dell’anno scorso ma la commissione europea continua a fare orecchi e da mercante”.
Un problema che riguarda non solo i cellulari ma anche le stazioni radiobase.
“ Mentre possiamo identificare con precisione gli utilizzatori di cellulari e attraverso interviste e questionari capire quanto e da quanto tempo lo usano, per l’esposizione ad una stazione radiobase abbiamo tutti i problemi che si hanno quando si indaga dal punto di vista epidemiologio una popolazione che è esposta a tutto un miscuglio di inquinanti cancerogeni, dal benzene da traffico alle polveri sottili e magari anche vivono vicino ad un elettrodotto. Ma comunque sono state fatte interressanti indagini epidemiologiche di tipo geografico, identificando serie di abitazioni a varia distanza dal centro radiante e misurando il campo elettrico sulla frequenza emessa da queste stazione radiobase nelle camere da letto. Mi riferisco ad uno studio condotto in Svizzera dove è stato dimostrato con dati statistico che i disturbi della popolazione aumentano dove il campo è più forte: insonnie, cefalee, crampi muscolari, perdita della memoria, sudorazione, sensazione di freddo. Tutta la gamma di disturbi che vanno sotto il nome di
fenomeni di elettrosensibilità. A Venezia c’è un caso famoso di una signora con un innesto metallico alla gamba che le provoca dolori lancinanti se solo passa
nelle vicinanze di una sorgente di campo elettromagnetico. Possiamo dunque affermare che questi disturbi sono correlati statisticamente con valori di campo elettrico dell’ordine di meno di 0,6 volts su metro. Cioè dieci volte meno dell’attuale limite di esposizione per legge! Quindi ben vengano le misure di autotutela ma dobbiamo anche insistere perche si ci sia una programmazione nelle installazioni delle staziono radiobase. Cosa che oggi non possiamo fare perché, col codice delle comunicazioni elettroniche, i Comuni sono stati castrati”. Come è la situazione nel Veneto? “L’eccesso di stazioni in alcune città del Veneto, come Padova, Treviso e Venezia è spaventoso! E ci sono zone in cui questa concentrazione e al di là di ogni immaginazione. A Padova la zona dell’ospedale, sul garage del Busonera ci sono 14 impianti! Ma anche a Mestre, nel quartiere di Zelarino, la situazione è tragica”.
Come è la situazione per quando riguarda il fronte elettrodotti? “Queste sono tecnologie che esistono da quasi un secolo e i dati epidemiologici sono sicuri. Nel 2001 l’agenzia internazionale per le ricerche sul cancro di Lione che opera per l’Oms, ha raccolto un gruppo di scienziati e ha curato una monografia sulle bassissime frequenze, che sono quelle che usano gli elettrodotti, e ha dimostrato sulla bade di due metanalisi – cioè ampi studi che per maggior sicurezza analizzano e tengono conto di varie ricerche –un raddoppio della frequenza di leucemie infantile nei residenti in prossimità di elettrodotto per valori di campo superiori a 0,3 o 0,4 microtesla. Già nel 1993 la Regione Veneto su iniziativa dei Verdi aveva varato una legge che fissava in 0,2 microtesla il valore di cautela per le abitazioni in prossimità di elettrodotti. Questa legge e stata impugnata dal governo Prodi e ci son voluti 7 anni di battaglie legali perché la corte costituzionale la dichiarasse legittima. E’ entrata in vigore nel 2000 e sull’onda del Veneto altre Regioni come la Toscana e la Puglia hanno fissato questi limiti cautelativi. Certo, se invece delle metanalisi teniamo conto dei singoli studi, si trovano lavori che parlano di aumenti di patologie tumorali anche con 0,1 microtesla, ma in assenza di alternative migliori, una legge a 0,2 microtesla era comunque una ottima legge. Fino a che, l’8 luglio del 2003, il presidente del consiglio Berlusconi ha fissato con un decreto firmato di suo pugno il limite di 10 microtesla per i vecchi elettrodotti e per le case già costruite in loro prossimità, e di 3 microtesla per i nuovi. Quindici volte oltre il limite cautelativo stabilito dalle leggi regionali che sono cadute una dietro l’altra. Nel Veneto, ad esempio, è stato un costruttore del vicentino che voleva edificare vicino ad un elettrodotto, che l’ha fatta cadere”.
Con una legge nazionale che fissa dei limiti decisamente pericolosi, come può tutelarsi un semplice cittadino?
“A partire dal 2003, grazie ad una sentenza esemplare del tribunale di Venezia, la magistratura ha sancito un principio innovativo. Quando debbono decidere non solo su danni come leucemie o tumori, ma anche sull’esistenza di rischi potenziali, i giudici fanno sì riferimento ai limiti di legge ma anche sulla perizia ordinato ai periti che tengono conto dei migliori dati che la letteratura scientifica. Siccome la letteratura ha dimostrato che al di sopra dei 0,3 o 0,4 microtesla c’e un aumento dell’incidenza delle patologie tumorali, i giudici possono affermare che esiste un rischio inaccettabile per la salute e intervenire imponendo misure di messa a norma, di diminuzione della tensione, di interramento o dismissione dell’impianto. Questo è un principio che fa riferimento addirittura ad una sentenza della suprema Corte di cassazione. Se il consulente nominato dal tribunale non è un venduto e ha serie competenze nella questione non può ignorare questi rischi oramai ampiamente documentati. Il problema di fondo è che è sempre il cittadino a doversi rivolgere alla magistratura per ottenere giustizia. Una battaglia dura ma non impossibile. Nel Veneto ci sono gruppi organizzati che hanno saputo farsi sentire. A fronte di queste sentenze, ad esempio, la Terna sta cominciando a interrare gli elettrodotti a Ponte delle Alpi, dove nelle scuole abbiamo addirittura rilevato campi di 13 microtesta”.
“Una sentenza che farà storia e già ripresa dai motori internazionali. La prima sentenza al mondo che riconosce la correlazione tra tumori e telefoni mobili dal punto di vista uso professionali. Ma facciamo attenzione: la sentenza riguarda una malattia professionale, ma la documentazione scientifica citata dal tribunale riguarda la popolazione comune e l’uso normale dei cellulare. Non soltanto un uso straordinario, come capitato a questo disgraziato che per dieci anni ha lavorato con telefonia mobile”.
L’Apple organizza periodicamente incontri nelle scuole pubbliche per informare i giovani sulla pericolosità dei cellulari e consigliarne un uso intelligente. A questo proposito, dal sito dell’Apple - www.applelettrosmog.it - è scaricabile un interessante opuscolo che spiega nei dettagli le precauzioni da prendere.
“Un uso cautelativo del cellulare e del cordless è senz’altro un bene, ma sarebbe necessaria una revisione della normativa nazionale e un abbassamento dei limiti di esposizione. L’ha chiesta anche il parlamento europeo nel marzo dell’anno scorso ma la commissione europea continua a fare orecchi e da mercante”.
Un problema che riguarda non solo i cellulari ma anche le stazioni radiobase.
“ Mentre possiamo identificare con precisione gli utilizzatori di cellulari e attraverso interviste e questionari capire quanto e da quanto tempo lo usano, per l’esposizione ad una stazione radiobase abbiamo tutti i problemi che si hanno quando si indaga dal punto di vista epidemiologio una popolazione che è esposta a tutto un miscuglio di inquinanti cancerogeni, dal benzene da traffico alle polveri sottili e magari anche vivono vicino ad un elettrodotto. Ma comunque sono state fatte interressanti indagini epidemiologiche di tipo geografico, identificando serie di abitazioni a varia distanza dal centro radiante e misurando il campo elettrico sulla frequenza emessa da queste stazione radiobase nelle camere da letto. Mi riferisco ad uno studio condotto in Svizzera dove è stato dimostrato con dati statistico che i disturbi della popolazione aumentano dove il campo è più forte: insonnie, cefalee, crampi muscolari, perdita della memoria, sudorazione, sensazione di freddo. Tutta la gamma di disturbi che vanno sotto il nome di
fenomeni di elettrosensibilità. A Venezia c’è un caso famoso di una signora con un innesto metallico alla gamba che le provoca dolori lancinanti se solo passa
nelle vicinanze di una sorgente di campo elettromagnetico. Possiamo dunque affermare che questi disturbi sono correlati statisticamente con valori di campo elettrico dell’ordine di meno di 0,6 volts su metro. Cioè dieci volte meno dell’attuale limite di esposizione per legge! Quindi ben vengano le misure di autotutela ma dobbiamo anche insistere perche si ci sia una programmazione nelle installazioni delle staziono radiobase. Cosa che oggi non possiamo fare perché, col codice delle comunicazioni elettroniche, i Comuni sono stati castrati”. Come è la situazione nel Veneto? “L’eccesso di stazioni in alcune città del Veneto, come Padova, Treviso e Venezia è spaventoso! E ci sono zone in cui questa concentrazione e al di là di ogni immaginazione. A Padova la zona dell’ospedale, sul garage del Busonera ci sono 14 impianti! Ma anche a Mestre, nel quartiere di Zelarino, la situazione è tragica”.
Come è la situazione per quando riguarda il fronte elettrodotti? “Queste sono tecnologie che esistono da quasi un secolo e i dati epidemiologici sono sicuri. Nel 2001 l’agenzia internazionale per le ricerche sul cancro di Lione che opera per l’Oms, ha raccolto un gruppo di scienziati e ha curato una monografia sulle bassissime frequenze, che sono quelle che usano gli elettrodotti, e ha dimostrato sulla bade di due metanalisi – cioè ampi studi che per maggior sicurezza analizzano e tengono conto di varie ricerche –un raddoppio della frequenza di leucemie infantile nei residenti in prossimità di elettrodotto per valori di campo superiori a 0,3 o 0,4 microtesla. Già nel 1993 la Regione Veneto su iniziativa dei Verdi aveva varato una legge che fissava in 0,2 microtesla il valore di cautela per le abitazioni in prossimità di elettrodotti. Questa legge e stata impugnata dal governo Prodi e ci son voluti 7 anni di battaglie legali perché la corte costituzionale la dichiarasse legittima. E’ entrata in vigore nel 2000 e sull’onda del Veneto altre Regioni come la Toscana e la Puglia hanno fissato questi limiti cautelativi. Certo, se invece delle metanalisi teniamo conto dei singoli studi, si trovano lavori che parlano di aumenti di patologie tumorali anche con 0,1 microtesla, ma in assenza di alternative migliori, una legge a 0,2 microtesla era comunque una ottima legge. Fino a che, l’8 luglio del 2003, il presidente del consiglio Berlusconi ha fissato con un decreto firmato di suo pugno il limite di 10 microtesla per i vecchi elettrodotti e per le case già costruite in loro prossimità, e di 3 microtesla per i nuovi. Quindici volte oltre il limite cautelativo stabilito dalle leggi regionali che sono cadute una dietro l’altra. Nel Veneto, ad esempio, è stato un costruttore del vicentino che voleva edificare vicino ad un elettrodotto, che l’ha fatta cadere”.
Con una legge nazionale che fissa dei limiti decisamente pericolosi, come può tutelarsi un semplice cittadino?
“A partire dal 2003, grazie ad una sentenza esemplare del tribunale di Venezia, la magistratura ha sancito un principio innovativo. Quando debbono decidere non solo su danni come leucemie o tumori, ma anche sull’esistenza di rischi potenziali, i giudici fanno sì riferimento ai limiti di legge ma anche sulla perizia ordinato ai periti che tengono conto dei migliori dati che la letteratura scientifica. Siccome la letteratura ha dimostrato che al di sopra dei 0,3 o 0,4 microtesla c’e un aumento dell’incidenza delle patologie tumorali, i giudici possono affermare che esiste un rischio inaccettabile per la salute e intervenire imponendo misure di messa a norma, di diminuzione della tensione, di interramento o dismissione dell’impianto. Questo è un principio che fa riferimento addirittura ad una sentenza della suprema Corte di cassazione. Se il consulente nominato dal tribunale non è un venduto e ha serie competenze nella questione non può ignorare questi rischi oramai ampiamente documentati. Il problema di fondo è che è sempre il cittadino a doversi rivolgere alla magistratura per ottenere giustizia. Una battaglia dura ma non impossibile. Nel Veneto ci sono gruppi organizzati che hanno saputo farsi sentire. A fronte di queste sentenze, ad esempio, la Terna sta cominciando a interrare gli elettrodotti a Ponte delle Alpi, dove nelle scuole abbiamo addirittura rilevato campi di 13 microtesta”.
Sporchi affari in Veneto
2/03/2010Terra“Quei verdi ambientalisti che in parlamento europeo fanno la loro”. E ancora: “Purtroppo in ambasciata c’è ancora la gente che la Prestigiacomo non è riuscita a togliere, quindi abbiamo un piccolo… una piccola massa critica negativa che lavora con i funzionari della Commissione”. La commissione in questione è quella ambientale europea “che non ci difende mai”. Il virgolettato invece è tutto di Guido Bertolaso, sottosegretario alla protezione civile, stralciato da una sua conversazione telefonica datata 7 marzo 2009, con il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Il quadro è quello dello scandalo sull’intreccio tra affari e attività della Protezione civile.
Uno scandalo che non ha risparmiato opere ricadenti nel territorio veneziano e veneto, e che ha fatto emergere dalle intercettazioni telefoniche e dai riscontri più generali della magistratura, un intenso lavorìo degli indagati e dei loro referenti politici e istituzionali mirato a vanificare procedure e attività di controllo finalizzate a tutelare l’ambiente. E non è un caso che dalle conversazioni telefoniche emerga fastidio – se non addirittura piani di neutralizzazione - nei confronti di chi della tutela dell’ambiente ha fatto una sua bandiera. Come per l’appunto, i verdi. Fare luce sull’intreccio tra affari e protezione civile anche a Venezia e nel Veneto, è quanto il consigliere regionale Gianfranco Bettin ha chiesto in una sua interrogazione alla Giunta. “Dall’inchiesta su affari e Protezione Civile – ha dichiarato l’ambientalista – emerge il reiterato tentativo di aggirare le procedure e i vincoli a tutela dell’ambiente. Solo così, infatti, si favorisce il business spudorato e senza freni, che non si è fermato di fronte a niente, di quelli che, pensando al proprio ‘business’ ridono mentre la gente muore, e di tutti quelli che della speculazione fanno la loro cinica ‘mission’. Da questa inchiesta si capisce anche meglio che la destra e i poteri ammanicati con questi sporchi affari hanno tutto l’interesse a far tacere la voce degli ambientalisti. Anche questo spiega perchè, ormai da mesi e mesi, la Rai in mano alla destra ha cancellato la voce dei verdi”. Una situazione intollerabile da democrazia sospesa, contro la quale il leader nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, da un mese sta effettuando uno sciopero della fame. “Togliere la parola agli ambientalisti, in televisione, sui media in genere, e rimuoverli dagli organi di controllo, o tagliare i contributi statali agli organi d’informazione liberi come sta accadendo – continua Bettin- è un favore fatto agli speculatori, a chi fa a pezzi l’ambiente e, insieme, la stessa democrazia”. Nella sua interrogazione a risposta urgente, il consigliere dei Verdi fa notare come anche nel Veneto, in svariati casi legati alla realizzazione di opere pubbliche di enorme impatto, si sono registrati episodi di inizi di lavori prima della firma della Valutazione di Impatto Ambientale, e chiede alla Giunta di verificare se, a proposito di tali opere, “siano stati messi in atto tentativi di aggirare procedure, di intervenire sul piano strettamente politico e non tecnico per vanificare vincoli e prescrizioni, per ridimensionare il peso e il ruolo di chi è preposto, per il ruolo e per la competenza, a far rispettare l’ambiente e l’ecosistema interessati da tali opere”.
Uno scandalo che non ha risparmiato opere ricadenti nel territorio veneziano e veneto, e che ha fatto emergere dalle intercettazioni telefoniche e dai riscontri più generali della magistratura, un intenso lavorìo degli indagati e dei loro referenti politici e istituzionali mirato a vanificare procedure e attività di controllo finalizzate a tutelare l’ambiente. E non è un caso che dalle conversazioni telefoniche emerga fastidio – se non addirittura piani di neutralizzazione - nei confronti di chi della tutela dell’ambiente ha fatto una sua bandiera. Come per l’appunto, i verdi. Fare luce sull’intreccio tra affari e protezione civile anche a Venezia e nel Veneto, è quanto il consigliere regionale Gianfranco Bettin ha chiesto in una sua interrogazione alla Giunta. “Dall’inchiesta su affari e Protezione Civile – ha dichiarato l’ambientalista – emerge il reiterato tentativo di aggirare le procedure e i vincoli a tutela dell’ambiente. Solo così, infatti, si favorisce il business spudorato e senza freni, che non si è fermato di fronte a niente, di quelli che, pensando al proprio ‘business’ ridono mentre la gente muore, e di tutti quelli che della speculazione fanno la loro cinica ‘mission’. Da questa inchiesta si capisce anche meglio che la destra e i poteri ammanicati con questi sporchi affari hanno tutto l’interesse a far tacere la voce degli ambientalisti. Anche questo spiega perchè, ormai da mesi e mesi, la Rai in mano alla destra ha cancellato la voce dei verdi”. Una situazione intollerabile da democrazia sospesa, contro la quale il leader nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, da un mese sta effettuando uno sciopero della fame. “Togliere la parola agli ambientalisti, in televisione, sui media in genere, e rimuoverli dagli organi di controllo, o tagliare i contributi statali agli organi d’informazione liberi come sta accadendo – continua Bettin- è un favore fatto agli speculatori, a chi fa a pezzi l’ambiente e, insieme, la stessa democrazia”. Nella sua interrogazione a risposta urgente, il consigliere dei Verdi fa notare come anche nel Veneto, in svariati casi legati alla realizzazione di opere pubbliche di enorme impatto, si sono registrati episodi di inizi di lavori prima della firma della Valutazione di Impatto Ambientale, e chiede alla Giunta di verificare se, a proposito di tali opere, “siano stati messi in atto tentativi di aggirare procedure, di intervenire sul piano strettamente politico e non tecnico per vanificare vincoli e prescrizioni, per ridimensionare il peso e il ruolo di chi è preposto, per il ruolo e per la competenza, a far rispettare l’ambiente e l’ecosistema interessati da tali opere”.
Legalità e confini certi per la pace. Intervista con Nandino Capovilla
1/03/2010TerraL’appartamento di padre Nandino Capovilla è esattamente come ci si aspetta che sia l’appartamento del coordinatore nazionale di Pax Christi: pieno zeppo di libri che parlano di pace e non violenza, di prodotti del commercio equo e solidale, e di colorati ninnoli che provengono dall’artigianato di popoli più o meno oppressi in più o meno tutte le parti del mondo. Siamo a Marghera. Esattamente dall’altra parte delle strada dello storico centro sociale Rivolta. Padre Nandino è appena tornato dalla Palestina dove ha organizzato una “presenza attiva” per difendere un boschetto di limoni che l’esercito israeliano aveva deciso di distruggere.
“Ma è finita che le ruspe son passate sopra lo stesso – spiega -. C’è poco da fare. Nei territori occupati la situazione è impossibile da descrivere se non la si vive di persona. E’ tutto una follia. Altro che discorsi di pace. La pace implica legalità e confini certi. In Palestina non c’è né l’uno né l’altro”. Ogni estate Pax Christi porta in Palestina una cinquantina di volontari per aiutare le famiglie palestinesi nella raccolta delle olive. “In un contesto in cui non hanno nessuna certezza, perché l’autorità palestinese semplicemente non conta niente e l’esercito israeliano fa il bello e il brutto tempo, la sola presenza di persone provenienti dall’Europa è importantissima per questa gente. Gli regala qualche giorno di tranquillità per completare il raccolto che è una dello loro poche fonti di guadagno. Dal nostro punto di vista lo scopo è duplice, aiutare i palestinesi ma anche fare vedere la realtà che si vive in Palestina a chi sente parlare del conflitto arabo israeliano solo dalla televisione. Ti assicuro che vista dal di dentro, le questione assume tutta un’altra valenza”. Tornati in Italia, i volontari di Pax Christi organizzano dibattiti, incontri con le scuole e stampa di materiali e libri. L’ultimo, scritto dallo stesso Nandino Capovilla, “Un parroco all’inferno” edizioni Paoline, racconta la storia di abuna Manuel Musallam (abuna significa prete) che ha vissuto dal di dentro l’assedio di Gaza. Tutta un’altra storia da quella raccontata dai nostri telegiornali. “L’assedio di Gaza è stato una punizione collettiva. Non si sono cercati i responsabili che hanno tirato i razzi contro i civili israeliani. Hanno voluto vendicarsi contro donne e bambini innocenti” spiega padre Nandino. “D’altronde, cosa significa ‘punire Hamas’? Hamas non è un gruppo di persona ben definito ma è dentro lo stesso tessuto sociale palestinese. E’ stato eletto democraticamente come risposta alla corruzione e all’incapacità che dominava nel paese quando governava Al Fatah. In Europa Hamas è presentato come il volto del terrorismo islamico. Ed è vero che c’è anche questa componente, ma è anche vero che – pur in un clima di totale chiusura come quello che si è trovato di fronte – Hamas ha cercato di governare e di ridare ordine ad una situazione caotica portando avanti progetti di pace come la costruzione di scuole e ospedali”. Stritolati tra integralismo islamico ed esercito israeliano, quale potrebbe essere una possibile via di uscita per i palestinesi? “Il processo di pace non va avanti. Questa è una verità innegabile. Non va avanti perché di pace non ha niente. Si rimanda, si rimanda… sino a che il processo si arrotola su se stesso per garantire che non venga mai fatto niente”. Padre Nandino riesce a recuperare sotto una pila di libri un grosso volume di piantine militari. “Sono le mappe dell’Onu. Se a Tel Aviv si accorgevano che le avevo in valigia mi arrestavano… comunque dai un’occhiata. Questa sarebbe la linea verde. Non significa nulla. Questi in blu gli insediamenti dei coloni. Sono dappertutto. Gerusalemme est è tutta una gru. E guarda quanto blu. Quando mai potrà diventare la capitale dello stato di Palestina? Mai! In queste condizioni, la gente si attacca alle piccole storie. Storie che non fanno notizia né nella Grande Storia né nelle cronache dei giornali. Sono vicende di ordinaria resistenza pacifica. Potrei farti centinaia di esempi: i contadini che si mettono davanti alle ruspe per difendere il campo, i sit in sotto il muro tutti i venerdì che puntualmente vengono repressi con violenza inaudita dai soldati. La scorsa settimana, l’esercito ha dichiarato zona chiusa proprio quei villaggi in cui si pratica la resistenza non violenta e dove il terrorismo non centrava niente. Significa che se c’è una resistenza popolare questa fa paura. Ma è anche un segnale che la pace è possibile”. Dall’altra parte del muro non ci sono segnali di pace? “Dal governo di Benjamin Netanyahu no di sicuro. Ma dalla società civile israeliana sì. Anzi, è una realtà che è in continua crescita. Ti faccio un solo esempio. Tu sai vero, che l’esercito dopo aver distrutto un villaggio vi costruisce sopra un parco per cercare di distruggerne anche la memoria? Beh, c’è un’associazione molto attiva che organizza gite con le scolaresche per raccontare la storia del villaggio distrutto e, dopo aver chiesto i regolari permessi, ci pianta un cartello con scritto ‘Qui sorgeva il villaggio tal dei tali raso al suolo il tal giorno del mese…’. Il giorno dopo il cartello sparisce misteriosamente ma la sera loro vanno subito a ripiantarlo. Vanno avanti così per mesi sino a che il cartello rimane al suo posto. Lo so. Fa sorridere. Ma sono storie come queste che danno un senso e una speranza ad una pace possibile”.
“Ma è finita che le ruspe son passate sopra lo stesso – spiega -. C’è poco da fare. Nei territori occupati la situazione è impossibile da descrivere se non la si vive di persona. E’ tutto una follia. Altro che discorsi di pace. La pace implica legalità e confini certi. In Palestina non c’è né l’uno né l’altro”. Ogni estate Pax Christi porta in Palestina una cinquantina di volontari per aiutare le famiglie palestinesi nella raccolta delle olive. “In un contesto in cui non hanno nessuna certezza, perché l’autorità palestinese semplicemente non conta niente e l’esercito israeliano fa il bello e il brutto tempo, la sola presenza di persone provenienti dall’Europa è importantissima per questa gente. Gli regala qualche giorno di tranquillità per completare il raccolto che è una dello loro poche fonti di guadagno. Dal nostro punto di vista lo scopo è duplice, aiutare i palestinesi ma anche fare vedere la realtà che si vive in Palestina a chi sente parlare del conflitto arabo israeliano solo dalla televisione. Ti assicuro che vista dal di dentro, le questione assume tutta un’altra valenza”. Tornati in Italia, i volontari di Pax Christi organizzano dibattiti, incontri con le scuole e stampa di materiali e libri. L’ultimo, scritto dallo stesso Nandino Capovilla, “Un parroco all’inferno” edizioni Paoline, racconta la storia di abuna Manuel Musallam (abuna significa prete) che ha vissuto dal di dentro l’assedio di Gaza. Tutta un’altra storia da quella raccontata dai nostri telegiornali. “L’assedio di Gaza è stato una punizione collettiva. Non si sono cercati i responsabili che hanno tirato i razzi contro i civili israeliani. Hanno voluto vendicarsi contro donne e bambini innocenti” spiega padre Nandino. “D’altronde, cosa significa ‘punire Hamas’? Hamas non è un gruppo di persona ben definito ma è dentro lo stesso tessuto sociale palestinese. E’ stato eletto democraticamente come risposta alla corruzione e all’incapacità che dominava nel paese quando governava Al Fatah. In Europa Hamas è presentato come il volto del terrorismo islamico. Ed è vero che c’è anche questa componente, ma è anche vero che – pur in un clima di totale chiusura come quello che si è trovato di fronte – Hamas ha cercato di governare e di ridare ordine ad una situazione caotica portando avanti progetti di pace come la costruzione di scuole e ospedali”. Stritolati tra integralismo islamico ed esercito israeliano, quale potrebbe essere una possibile via di uscita per i palestinesi? “Il processo di pace non va avanti. Questa è una verità innegabile. Non va avanti perché di pace non ha niente. Si rimanda, si rimanda… sino a che il processo si arrotola su se stesso per garantire che non venga mai fatto niente”. Padre Nandino riesce a recuperare sotto una pila di libri un grosso volume di piantine militari. “Sono le mappe dell’Onu. Se a Tel Aviv si accorgevano che le avevo in valigia mi arrestavano… comunque dai un’occhiata. Questa sarebbe la linea verde. Non significa nulla. Questi in blu gli insediamenti dei coloni. Sono dappertutto. Gerusalemme est è tutta una gru. E guarda quanto blu. Quando mai potrà diventare la capitale dello stato di Palestina? Mai! In queste condizioni, la gente si attacca alle piccole storie. Storie che non fanno notizia né nella Grande Storia né nelle cronache dei giornali. Sono vicende di ordinaria resistenza pacifica. Potrei farti centinaia di esempi: i contadini che si mettono davanti alle ruspe per difendere il campo, i sit in sotto il muro tutti i venerdì che puntualmente vengono repressi con violenza inaudita dai soldati. La scorsa settimana, l’esercito ha dichiarato zona chiusa proprio quei villaggi in cui si pratica la resistenza non violenta e dove il terrorismo non centrava niente. Significa che se c’è una resistenza popolare questa fa paura. Ma è anche un segnale che la pace è possibile”. Dall’altra parte del muro non ci sono segnali di pace? “Dal governo di Benjamin Netanyahu no di sicuro. Ma dalla società civile israeliana sì. Anzi, è una realtà che è in continua crescita. Ti faccio un solo esempio. Tu sai vero, che l’esercito dopo aver distrutto un villaggio vi costruisce sopra un parco per cercare di distruggerne anche la memoria? Beh, c’è un’associazione molto attiva che organizza gite con le scolaresche per raccontare la storia del villaggio distrutto e, dopo aver chiesto i regolari permessi, ci pianta un cartello con scritto ‘Qui sorgeva il villaggio tal dei tali raso al suolo il tal giorno del mese…’. Il giorno dopo il cartello sparisce misteriosamente ma la sera loro vanno subito a ripiantarlo. Vanno avanti così per mesi sino a che il cartello rimane al suo posto. Lo so. Fa sorridere. Ma sono storie come queste che danno un senso e una speranza ad una pace possibile”.
Quando il razzismo viene fatto "circolare". Intervista con Iside Gjergji
23/02/2010TerraIl razzismo non si veste quasi mai da razzismo. Ha mille forme e mille facce. Una di queste è quella messa in atto dalla pubblica amministrazione. Iside Gjergji è nata a Durazzo ma vive in Italia dal ’91 dove si è laureata in giurisprudenza. Nel suo dottorato in sociologia ha svolto una interessate ed inedita ricerca sulle circolari amministrative in materia di immigrazione.
Come mai hai scelto questo tema?
Diciamo che sono state le circolari ad occuparsi di me quando, alcuni anni fa, feci domanda di carta di soggiorno alla questura. La mia richiesta venne rigettata sulla base di una circolare del Ministero che imponeva alcuni requisiti non previsti dalla legge. All’epoca ero studentessa di Giurisprudenza e su tutti i libri di esame mi veniva spiegato che le circolari amministrative non erano fonte di diritto, eppure a me veniva rigettata l’istanza sulla base di una circolare. Decisi di non arrendermi e il Tar del Lazio mi diede ragione: l’interpretazione della norma fornita dalla circolare del Ministero era illegittima. E così, dopo una lunga e costosa battaglia, ottenni la carta di soggiorno. Ho constato direttamente che gli operatori della pubblica amministrazione agiscono non tanto sulla base delle leggi, quanto sulla base delle circolari. Sono queste il loro "vero" - se non unico - riferimento normativo. Anche ora che la legislazione sull’immigrazione è quasi completa, le circolari continuano ad essere il “vero” riferimento giuridico. Il problema è che le circolari sfuggono ad ogni controllo, sia quello giurisdizionale sia quello della sovranità popolare. Sono sostanzialmente ordini di un “capo”, e come tali soggette al suo arbitrio.
E come sempre avviene con gli “ordini del capo”, nasce il peggio dal peggio.
Già. Si tratta sostanzialmente di ordini assunti in assenza di contradditorio e senza regole procedurali. Parliamo, insomma, di una sorta di diritto interstiziale che si insinua nelle pieghe dell’ordinamento assumendone le sembianze. La forza di questo “infra-diritto” sta nella struttura gerarchia della pubblica amministrazione che non consente la messa in discussione di un ordine del capo, bensì si aspetta che venga eseguito. Più gerarchica e autoritaria è la struttura organizzativa e maggiore forza acquisiscono gli ordini del capo. Con le riforme cosiddette “federaliste” di questi ultimi vent’anni le istituzioni pubbliche hanno conosciuto indubbiamente una sterzata di tipo autoritario. Ora il potere si concentra sempre più nelle mani dei sindaci, “governatori” e “premier”, a tutto scapito delle assemblee comunali, regionali e parlamentari.
Pensiamo alle ordinanze del sindaco di Firenze sui lavavetri, quella del sindaco di Milano che vietava ai minori stranieri, figli di irregolari, di iscriversi alle scuole materne, le ordinanze del sindaco di Vicenza sui mendicanti, quelle dei sindaci di Cittadella, Thiene e di Azzanno Decimo che impedivano l’iscrizione degli immigrati poveri all’anagrafe comunale, e poi quelle di 43 sindaci della provincia di Bergamo che impedivano il matrimonio degli stranieri senza permesso di soggiorno. Queste ordinanze hanno fatto da preludio a molte norme introdotte poi a livello legislativo con il “pacchetto sicurezza”, inaugurando nel contempo una stagione di razzismo istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana.
Un problema che non è solo degli stranieri?
Al di là delle caratteristiche, più o meno razziste, delle singole disposizioni è il sistema di governo per circolari ad essere intrinsecamente e irrevocabilmente razzista. Ai segmenti di popolazione la cui esistenza è prevalentemente determinata e scandita mediante circolari amministrative, vengono di fatto negate quelle garanzie che l’ordinamento giuridico riconosce formalmente a tutti. Si tratta, insomma, di soggetti e “disciplinati” da un sottosistema normativo di tipo amministrativo che, in quanto tale, non può che fornire una pseudo-protezione giuridica. Di quale convivenza è possibile parlare a queste condizioni?
L’uso abnorme di circolari e ordinanze sono un modello anche per la regolamentazione della vita di tutti i cittadini. Penso, ad esempio, al divieto di assembramento di più di tre persone nei parchi dopo le undici di sera, alle norme sul “comportamento civile” o a quelle sulla prostituzione, che non riesco a non leggere come un tentativo della criminalizzazione della povertà. In altre parole, la negazione dei diritti degli immigrati ha anticipato la progressiva erosione dei diritti di tutti. Mi viene in mente una frase di James Baldwin che dice: “Dobbiamo proteggere la tua vita come se fosse nostra poiché se vengono a prenderti di giorno, da noi verranno nella notte”.
Come mai hai scelto questo tema?
Diciamo che sono state le circolari ad occuparsi di me quando, alcuni anni fa, feci domanda di carta di soggiorno alla questura. La mia richiesta venne rigettata sulla base di una circolare del Ministero che imponeva alcuni requisiti non previsti dalla legge. All’epoca ero studentessa di Giurisprudenza e su tutti i libri di esame mi veniva spiegato che le circolari amministrative non erano fonte di diritto, eppure a me veniva rigettata l’istanza sulla base di una circolare. Decisi di non arrendermi e il Tar del Lazio mi diede ragione: l’interpretazione della norma fornita dalla circolare del Ministero era illegittima. E così, dopo una lunga e costosa battaglia, ottenni la carta di soggiorno. Ho constato direttamente che gli operatori della pubblica amministrazione agiscono non tanto sulla base delle leggi, quanto sulla base delle circolari. Sono queste il loro "vero" - se non unico - riferimento normativo. Anche ora che la legislazione sull’immigrazione è quasi completa, le circolari continuano ad essere il “vero” riferimento giuridico. Il problema è che le circolari sfuggono ad ogni controllo, sia quello giurisdizionale sia quello della sovranità popolare. Sono sostanzialmente ordini di un “capo”, e come tali soggette al suo arbitrio.
E come sempre avviene con gli “ordini del capo”, nasce il peggio dal peggio.
Già. Si tratta sostanzialmente di ordini assunti in assenza di contradditorio e senza regole procedurali. Parliamo, insomma, di una sorta di diritto interstiziale che si insinua nelle pieghe dell’ordinamento assumendone le sembianze. La forza di questo “infra-diritto” sta nella struttura gerarchia della pubblica amministrazione che non consente la messa in discussione di un ordine del capo, bensì si aspetta che venga eseguito. Più gerarchica e autoritaria è la struttura organizzativa e maggiore forza acquisiscono gli ordini del capo. Con le riforme cosiddette “federaliste” di questi ultimi vent’anni le istituzioni pubbliche hanno conosciuto indubbiamente una sterzata di tipo autoritario. Ora il potere si concentra sempre più nelle mani dei sindaci, “governatori” e “premier”, a tutto scapito delle assemblee comunali, regionali e parlamentari.
Pensiamo alle ordinanze del sindaco di Firenze sui lavavetri, quella del sindaco di Milano che vietava ai minori stranieri, figli di irregolari, di iscriversi alle scuole materne, le ordinanze del sindaco di Vicenza sui mendicanti, quelle dei sindaci di Cittadella, Thiene e di Azzanno Decimo che impedivano l’iscrizione degli immigrati poveri all’anagrafe comunale, e poi quelle di 43 sindaci della provincia di Bergamo che impedivano il matrimonio degli stranieri senza permesso di soggiorno. Queste ordinanze hanno fatto da preludio a molte norme introdotte poi a livello legislativo con il “pacchetto sicurezza”, inaugurando nel contempo una stagione di razzismo istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana.
Un problema che non è solo degli stranieri?
Al di là delle caratteristiche, più o meno razziste, delle singole disposizioni è il sistema di governo per circolari ad essere intrinsecamente e irrevocabilmente razzista. Ai segmenti di popolazione la cui esistenza è prevalentemente determinata e scandita mediante circolari amministrative, vengono di fatto negate quelle garanzie che l’ordinamento giuridico riconosce formalmente a tutti. Si tratta, insomma, di soggetti e “disciplinati” da un sottosistema normativo di tipo amministrativo che, in quanto tale, non può che fornire una pseudo-protezione giuridica. Di quale convivenza è possibile parlare a queste condizioni?
L’uso abnorme di circolari e ordinanze sono un modello anche per la regolamentazione della vita di tutti i cittadini. Penso, ad esempio, al divieto di assembramento di più di tre persone nei parchi dopo le undici di sera, alle norme sul “comportamento civile” o a quelle sulla prostituzione, che non riesco a non leggere come un tentativo della criminalizzazione della povertà. In altre parole, la negazione dei diritti degli immigrati ha anticipato la progressiva erosione dei diritti di tutti. Mi viene in mente una frase di James Baldwin che dice: “Dobbiamo proteggere la tua vita come se fosse nostra poiché se vengono a prenderti di giorno, da noi verranno nella notte”.
Il mondo accademico per i migranti
23/02/2010Terra“Come può esistere chi non esiste” la domanda che si sono posti i lavoratori migranti di Rosarno è la questione centrale della giornata del primo marzo. Lo ha ribadito un folto gruppo di docenti delle università italiana che hanno sottoscritto una lunga lettera in appoggio alla manifestazione che proprio dai fatti accaduti in Calabria. In questo nostro Paese imperniato “da una forma pervasiva di razzismo istituzionale che permette e legittima forme di razzismo, intolleranza, xenofobia sociali che stanno ormai erodendo la vivibilità comune delle nostre città” si legge nel’appello, “Come possono esistere tutti e tutte coloro che, pur essendo ‘attori della vita economica di questo paese’, con differenti dispositivi sono continuamente sospinti verso una presenza marginale e una vita non vivibile costellata di mille ostacoli (dai tempi biblici del rinnovo del permesso di soggiorno all’assenza di ogni possibilità di regolarizzazione, dagli innumerevoli modi in cui si elude il riconoscimento dello stato di rifugiato alle norme che entrano in modo discriminatorio nelle scelte di vita affettiva concedendo ai migranti ‘affetti di serie b’, sino ai mesi di detenzione previsti per chi non ha o ha perso il permesso di soggiorno e all’ultima proposta del permesso di soggiorno a punti)?”
“Aderiamo a questa giornata perché riteniamo che questa domanda coinvolga la vita di tutti e di tutte, migranti e non, studenti, studentesse, lavoratori e lavoratrici, disoccupati e disoccupate, in Italia così come nel resto d’Europa e in altri paesi del mondo. In quanto docenti, sappiamo che nelle università, anziché come studenti e studentesse nelle nostre aule è più facile incontrare i/le migranti come lavoratori e lavoratrici delle cooperative di servizi, assunti/e con bassi salari e senza garanzie. La scandalosa difficoltà nell’accesso a un permesso di soggiorno per studi universitari, attraverso una politica delle quote anche nel campo del sapere che rende quest’ultimo esclusivo privilegio dei cittadini, è parte integrante della chiusura nei confronti dei/delle migranti che caratterizza il nostro paese. Per questo ci impegniamo a lottare anche per garantire la piena accessibilità dell’Università ai/alle migranti. Siamo più in generale convinti che soltanto cancellando il razzismo istituzionale e sociale come pratica quotidiana di sfruttamento sarà possibile costruire spazi di convivenza futuri”.
I docenti firmatari dell’appello, dove possibile, anche durante le ore di attività didattica nei giorni che precedono il primo marzo, leggeranno nelle aule la lettera dei lavoratori africani di Rosarno, invitando gli studenti a partecipare alle iniziative della giornata. Un altro appello a sostegno della manifestazione è stato lanciato da Cobas e Cesp, centro studi per la scuola pubblica: “Noi, nel nostro lavoro educativo, siamo invece sempre partiti dal principio e dalla rivendicazione dell’uguaglianza dei diritti, dal riconoscimento delle culture, dal diritto alla libertà di movimento delle persone”.
“Aderiamo a questa giornata perché riteniamo che questa domanda coinvolga la vita di tutti e di tutte, migranti e non, studenti, studentesse, lavoratori e lavoratrici, disoccupati e disoccupate, in Italia così come nel resto d’Europa e in altri paesi del mondo. In quanto docenti, sappiamo che nelle università, anziché come studenti e studentesse nelle nostre aule è più facile incontrare i/le migranti come lavoratori e lavoratrici delle cooperative di servizi, assunti/e con bassi salari e senza garanzie. La scandalosa difficoltà nell’accesso a un permesso di soggiorno per studi universitari, attraverso una politica delle quote anche nel campo del sapere che rende quest’ultimo esclusivo privilegio dei cittadini, è parte integrante della chiusura nei confronti dei/delle migranti che caratterizza il nostro paese. Per questo ci impegniamo a lottare anche per garantire la piena accessibilità dell’Università ai/alle migranti. Siamo più in generale convinti che soltanto cancellando il razzismo istituzionale e sociale come pratica quotidiana di sfruttamento sarà possibile costruire spazi di convivenza futuri”.
I docenti firmatari dell’appello, dove possibile, anche durante le ore di attività didattica nei giorni che precedono il primo marzo, leggeranno nelle aule la lettera dei lavoratori africani di Rosarno, invitando gli studenti a partecipare alle iniziative della giornata. Un altro appello a sostegno della manifestazione è stato lanciato da Cobas e Cesp, centro studi per la scuola pubblica: “Noi, nel nostro lavoro educativo, siamo invece sempre partiti dal principio e dalla rivendicazione dell’uguaglianza dei diritti, dal riconoscimento delle culture, dal diritto alla libertà di movimento delle persone”.
Cartoline contro la caccia
23/02/2010TerraI verdi del Veneto hanno lanciato una campagna informatica contro la legge vergogna che consente alle Regioni di estendere a tutto l’arco dell’anno la stagione venatoria. Se la Camera in questi giorni confermerà il testo già approvato dal Senato, i cacciatori potranno sparare ininterrottamente dal primo gennaio al 31 dicembre. Una normativa questa, che non ha equivalenti in nessuno Stato d’Europa e che porterà altre pesanti sanzioni economiche al nostro Paese.
Così, dopo aver cementificato tutto quello che si poteva cementificare (e in qualche caso anche quello che non si poteva), dopo aver avvelenato l’aria, saccheggiato e mercificato l’ambiente, sdoganato il nucleare, inquinato e privatizzato l’acqua (e ci fermiamo qua), il Governo e la maggioranza di centrodestra si preparano a far piazza pulita degli ultimi, silenziosi testimoni di questa devastazione ambientale senza precedenti: gli animali selvatici. Ed è incredibile che proprio il senatore Giacomo Santini (Pdl), relatore della legge Comunitaria in commissione Politiche europee del Senato, invece di operare per allineare la legislazione italiana con quella europea ed evitare al nostro bilancio altre sanzioni, ha proposto questo assurdo emendamento che di fatto cancella i limiti alla stagione venatoria. Potranno essere abbattuti animali ancora cuccioli, debilitati dal gelo, uccelli nel momento della nidificazione e di ritorno sulle rotte migratorie.
Per far sentire la voce dei tanti italiani che oggi più che mai sono contro la caccia, i Verdi Idea del Veneto hanno predisposto una serie di cartoline informatiche da inviare ai capigruppo della Camera invitandoli a bocciare questa legge crudele ed incivile. I file in formato jpg - volutamente un po’ pesanti per rallentare se non per intasare le mail dei destinatari - e gli indirizzi mail dei deputati sono scarivabili dal sito www.verdiveneto.it.
Sono immagini formato cartolina turistica con foto di animali inquadrati da un mirino e sotto la scritta “No alla caccia tutto l’anno”. “Non può essere una minoranza di 700 mila persone, tanti sono stimati i cacciatori italiani, appena l’uno per cento della popolazione – ha dichiarato Gianfranco Bettin - a disporre a suo piacimenti di un bene comune come è la fauna selvatica, che la stessa legge definisce ‘patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale. Siamo in tanti a pensarla così, facciamoci sentire”.
I Verdi Idea invitano a spedire le cartoline informatiche anche agli onorevoli Antonio Di Pietro e Gabriele Cimadoro (Idv) che hanno “rilanciato” dalla sponda del centrosinistra la politica governativa tutta asservita alle lobby venatorie, presentando un progetto di legge in cui si propone addirittura di depenalizzare il bracconaggio trasformandolo da reato penale a reato civile. In pratica, i cacciatori potranno togliersi lo sfizio di cacciare specie protette dentro le aree protette dietro il pagamento di una semplice multa!
Così, dopo aver cementificato tutto quello che si poteva cementificare (e in qualche caso anche quello che non si poteva), dopo aver avvelenato l’aria, saccheggiato e mercificato l’ambiente, sdoganato il nucleare, inquinato e privatizzato l’acqua (e ci fermiamo qua), il Governo e la maggioranza di centrodestra si preparano a far piazza pulita degli ultimi, silenziosi testimoni di questa devastazione ambientale senza precedenti: gli animali selvatici. Ed è incredibile che proprio il senatore Giacomo Santini (Pdl), relatore della legge Comunitaria in commissione Politiche europee del Senato, invece di operare per allineare la legislazione italiana con quella europea ed evitare al nostro bilancio altre sanzioni, ha proposto questo assurdo emendamento che di fatto cancella i limiti alla stagione venatoria. Potranno essere abbattuti animali ancora cuccioli, debilitati dal gelo, uccelli nel momento della nidificazione e di ritorno sulle rotte migratorie.
Per far sentire la voce dei tanti italiani che oggi più che mai sono contro la caccia, i Verdi Idea del Veneto hanno predisposto una serie di cartoline informatiche da inviare ai capigruppo della Camera invitandoli a bocciare questa legge crudele ed incivile. I file in formato jpg - volutamente un po’ pesanti per rallentare se non per intasare le mail dei destinatari - e gli indirizzi mail dei deputati sono scarivabili dal sito www.verdiveneto.it.
Sono immagini formato cartolina turistica con foto di animali inquadrati da un mirino e sotto la scritta “No alla caccia tutto l’anno”. “Non può essere una minoranza di 700 mila persone, tanti sono stimati i cacciatori italiani, appena l’uno per cento della popolazione – ha dichiarato Gianfranco Bettin - a disporre a suo piacimenti di un bene comune come è la fauna selvatica, che la stessa legge definisce ‘patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale. Siamo in tanti a pensarla così, facciamoci sentire”.
I Verdi Idea invitano a spedire le cartoline informatiche anche agli onorevoli Antonio Di Pietro e Gabriele Cimadoro (Idv) che hanno “rilanciato” dalla sponda del centrosinistra la politica governativa tutta asservita alle lobby venatorie, presentando un progetto di legge in cui si propone addirittura di depenalizzare il bracconaggio trasformandolo da reato penale a reato civile. In pratica, i cacciatori potranno togliersi lo sfizio di cacciare specie protette dentro le aree protette dietro il pagamento di una semplice multa!
Zaia, l'atomo e la sindrome Nimby
16/02/2010TerraNuclearisti a Roma, ambientalisti a casa. Si può dire di tutto dei leghisti ma non che si facciano mettere sotto dalle contraddizioni. Luca Zaia è un Giano bifronte. La faccia del ministro nuclearista si gira immediatamente dal lato antinucleare quando assume il ruolo di candidato alla carica di Governatore veneto. A Roma ha approvato il piano atomico del governo. A Venezia, alle domande dei giornalisti, risponde che “L’atomo mi lascia perplesso. Prima che accetti una centrale nucleare nella mia regione dovrebbero dimostrarmi, dati alla mano, che non ci sono alternative in altre regioni. E comunque rimarrei in totale dissenso, considerato anche che il bilancio energetico del Veneto è in pareggio”.
La paura di dire una cosa e farne un’altra non fa perdere il sonno neppure ai suoi compagni di partito che siedono nei banchi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, che nell’ultima finanziaria hanno bocciato un emendamento dell’opposizione firmato da Verdi e comunisti, con il quale si chiedeva di prendere ufficialmente posizione contro il nucleare, così come hanno fatto altre Regioni italiane. All’ambiguità dei Lumbard fa da sponda la determinazione del Popolo della Libertà che non ha mezze misure per dichiararsi, per bocca dell’assessore Renzo Marangon, favorevolissimo alla scelta nucleare, auspicando anzi, che il Veneto sia una delle “fortunate” regioni selezionate dal Governo. Ma quali saranno queste regioni “fortunate”? Il ministro dello Sviluppo Claudio Sajola ripete: “Le popolazioni saranno informate e parteciperanno ad ogni fase del processo” ma non dice ancora dove sorgeranno le centrali. Specifica comunque che la decisione spetta al Governo e non alle Regioni. Il che suona come un avvertimento ai governatori ribelli, alla faccia di quella parola vuota da usare solo in campagna elettorale che è altro non il federalismo. I siti papabili a nord est rimangono sempre quelli già noti: Porto Tolle nel Polesine, Chioggia e Monfalcone (Trieste).
Pragmatico l’atteggiamento dello sfidante di Zaia per il centro sinistra, Giuseppe Bortolussi: “Il nucleare è inutile. Anche realizzando tutte le centrali previste dal Governo, queste coprirebbero al massimo un 6% del fabbisogno. Col l’energia idroelettrica ed i pannelli, otterremo molto di più”. Sul tema, Bortolussi si sgancia anche da molti dirigenti Democratici che sul nucleare hanno una posizione che quantomeno potremmo definire altalenante. “Per questo sarà indispensabile che i movimenti decisamente antinuclearisti ottengano un buon risultato alle prossime elezioni – ha dichiarato il verde Gianfranco Bettin -. In ambienti vicini al centro destra veneto, si ipotizza l’eventualità di localizzare una centrale tra Marghera e Chioggia oppure nel Polesine. Questa è una eventualità che dobbiamo bloccare sul nascere”. Anche per questo i verdi del Veneto hanno deciso di presentarsi con una lista, Idea (Italia democratica, etica e ambientalista), e un simbolo che richiamano la prima vittoriosa battaglia contro l’energia nucleare. Quel solo che ride color rosso e la scritta: Nucleare? No grazie. “Nel centrodestra sta prevalendo la scelta filo nucleare come logica continuità di una politica energetica che non ha mai prerso seriamente in considerazione le alternative pulite - ha concluso Bettin. - E’ una scelta arretrata, che inchioderebbe la nostra regione al peggio del passato e delle tecnologie attuali, che colpirebbe l’economia della pesca e del turismo e impedirebbe investimenti in settori compatibili con il territorio. Serve invece lo sviluppo di energie e tecnologie alternative. Non usciremo dalla crisi ricorrendo a investimenti vecchio stampo, pericolosissimi come il nucleare o nocivi come gli inceneritori, che portano poca occupazione e molti rischi, ma evolvendo in direzione radicalmente diversa, nel segno dell’innovazione, della logistica avanzata, delle nuove tecnologie, della green economy che è la vera bussola del nuovo, la nuova credibile frontiera del lavoro e dell’impresa”.
La paura di dire una cosa e farne un’altra non fa perdere il sonno neppure ai suoi compagni di partito che siedono nei banchi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, che nell’ultima finanziaria hanno bocciato un emendamento dell’opposizione firmato da Verdi e comunisti, con il quale si chiedeva di prendere ufficialmente posizione contro il nucleare, così come hanno fatto altre Regioni italiane. All’ambiguità dei Lumbard fa da sponda la determinazione del Popolo della Libertà che non ha mezze misure per dichiararsi, per bocca dell’assessore Renzo Marangon, favorevolissimo alla scelta nucleare, auspicando anzi, che il Veneto sia una delle “fortunate” regioni selezionate dal Governo. Ma quali saranno queste regioni “fortunate”? Il ministro dello Sviluppo Claudio Sajola ripete: “Le popolazioni saranno informate e parteciperanno ad ogni fase del processo” ma non dice ancora dove sorgeranno le centrali. Specifica comunque che la decisione spetta al Governo e non alle Regioni. Il che suona come un avvertimento ai governatori ribelli, alla faccia di quella parola vuota da usare solo in campagna elettorale che è altro non il federalismo. I siti papabili a nord est rimangono sempre quelli già noti: Porto Tolle nel Polesine, Chioggia e Monfalcone (Trieste).
Pragmatico l’atteggiamento dello sfidante di Zaia per il centro sinistra, Giuseppe Bortolussi: “Il nucleare è inutile. Anche realizzando tutte le centrali previste dal Governo, queste coprirebbero al massimo un 6% del fabbisogno. Col l’energia idroelettrica ed i pannelli, otterremo molto di più”. Sul tema, Bortolussi si sgancia anche da molti dirigenti Democratici che sul nucleare hanno una posizione che quantomeno potremmo definire altalenante. “Per questo sarà indispensabile che i movimenti decisamente antinuclearisti ottengano un buon risultato alle prossime elezioni – ha dichiarato il verde Gianfranco Bettin -. In ambienti vicini al centro destra veneto, si ipotizza l’eventualità di localizzare una centrale tra Marghera e Chioggia oppure nel Polesine. Questa è una eventualità che dobbiamo bloccare sul nascere”. Anche per questo i verdi del Veneto hanno deciso di presentarsi con una lista, Idea (Italia democratica, etica e ambientalista), e un simbolo che richiamano la prima vittoriosa battaglia contro l’energia nucleare. Quel solo che ride color rosso e la scritta: Nucleare? No grazie. “Nel centrodestra sta prevalendo la scelta filo nucleare come logica continuità di una politica energetica che non ha mai prerso seriamente in considerazione le alternative pulite - ha concluso Bettin. - E’ una scelta arretrata, che inchioderebbe la nostra regione al peggio del passato e delle tecnologie attuali, che colpirebbe l’economia della pesca e del turismo e impedirebbe investimenti in settori compatibili con il territorio. Serve invece lo sviluppo di energie e tecnologie alternative. Non usciremo dalla crisi ricorrendo a investimenti vecchio stampo, pericolosissimi come il nucleare o nocivi come gli inceneritori, che portano poca occupazione e molti rischi, ma evolvendo in direzione radicalmente diversa, nel segno dell’innovazione, della logistica avanzata, delle nuove tecnologie, della green economy che è la vera bussola del nuovo, la nuova credibile frontiera del lavoro e dell’impresa”.
Caccia incatenato
9/02/2010Terra
Da dieci giorni Angelo Bonelli sta facendo lo sciopero della fame a davanti alla sede Rai di Roma, per denunciare la disinformazione che regna sovrana nei nostri teleschermi e i media lo ignorano. Un esempio di questa malainformazione lo stiamo subendo a Venezia: non c’è un imbarcadero, un muro, una strada senza il faccione di Brunetta. Oggi il ministro ha acquistato 15 pagine su un giornale locale. Inoltre, dalla sua discesa in campo per occupare anche la poltrona di sindaco oltre che quella di ministro, lo vediamo in Tv in ogni trasmissione che ci racconta le sue amenità. Non ne possiamo più”. I verdi hanno consegnato una lettera aperta ai giornalisti dela Rai, costretti a passare dalla porta di servizio, per entrare in redazione, in cui si ribadisce il concetto che tale disinformazione mirata costituisca una vera e propria emergenza democratica. “Sotto questo bombardamento mediatico che non ha precedenti nella storia della Repubblica, la partita per le elezioni comunali a Venezia è truccata in partenza - ha concluso Beppe Caccia -. Anche a prescindere dalle tv, Brunetta ha occupato tutti gli spazi per le affissionim investendo almeno un milione di euro. Uno spreco indecente in tempi in cui tutti soffriamo le conseguenze della crisi. Pensiamo che il Comune ha fatto uno sforzo enorme per raccattare un fondo di 500 mila euro per le famiglie in difficoltà mentre Brunetta ha speso perlomeno il doppio, e in una sole settimana, soltanto per farsi propaganda”.
Vicenza, la base, la falda, i rischi
6/02/2010TerraLorenzo Altissimo non è mai sfilato per le strade di Vicenza battendo su un pentolone contro la base militare. Lui è di quelli che ritengono che un direttore responsabile della gestione di un centro di servizi regionale, come è il consorzio idrico di Novoledo, non deve parteggiare né per il sì né per il no. Il suo quindi, è il grido dall’allarme del tecnico che registra un dato di fatto: le falde acquifere del vicentino, monitorate dalla rete di sonde piezometriche del consorzio, si sono alzate molto meno dell’anno in corso. Colpa dei lavori di costruzione della base? “Non posso dirlo con certezza. Quella è zona militare e non abbiamo la possibilità di effettuare alcuna verifica dentro.
Posso solo notare, da tecnico, che l’intera area è una zona umida, poco adatta alla costruzione di un aeroporto. Quanto è successo quindi non ci sorprende: anzi lo avevamo in qualche modo previsto grazie ad un modello matematico che abbiamo messo a punto da alcuni anni. Ma, ripeto, non abbiamo strumenti per asserire che la colpa è delle palificazioni o di altro. Teniamo anche presente che il Vinca è stato fatto sui dati raccolti nell’area est, dove si doveva costruire inizialmente la base, e non sull’area ovest dove invece si sta costruendo adesso. Sappiamo che hanno piazzato dei piezometri anche là, ma i dati non ci sono mai stati mostrati”. Le dichiarazioni di Altissimo a Vicenza hanno avuto l’effetto di un sasso scagliato in uno stagno, riaprendo la questione dei costi ambientali della nuova base militare. “Io posso solo dire che il commissario straordinario Costa ha sempre dichiarato la sua disponibilità a far sì che i lavori seguano la massima trasparenza. Credo quindi che i sindaci i cui Comuni pescano dalla falda, dovrebbero farsi avanti per richiedere questi dati il prima possibile. Poi, se viviamo in un mondo in cui le opere militari non sono obbligate a sottostare al Via perché evidentemente non hanno nessuna incidenza sull’ambiente, io non posso che prenderne atto”.
Meno disponibile a limitarsi a “prendere atto del mondo in cui viviamo”, è la battagliera consigliera comunale dei No Dal Molin, Cinzia Bottene: ”Quanto afferma Altissimo e quanto verificato dal blitz degli attivisti, non fa altro che confermare che l’esattezza delle nostre previsioni. Non c’è da esserne contenti, purtroppo. Le condizioni di sofferenza in cui versa la falda dimostrano che le nostre denunce non erano allarmismi ma il frutto di una critica seria al progetto. E che abbiamo ragione, ce lo conferma anche il silenzio imbarazzato di Costa. Una settimana senza neppure un comunicato stampa di risposta… non è da lui!”
“Adesso che i fatti ci danno ragione – continua la Bottene - chiediamo quello che da sempre chiediamo e non abbiamo mai ottenuto: trasparenza e controlli. Quanto avviene nella base non può essere un buco nero a gestione di pochi che, nelle conseguenze, pagheremo tutti. Vogliamo sapere se la falda è a rischio. E non possono essere i committenti ma dei tecnici, terzi e affidabili, a rispondere”.
L’immediata e precauzionale chiusura del cantiere, in attesa di una risposta a questa domanda, è stata chiesta dal consigliere dei verdi, Gianfranco Bettin, in una interrogazione alla giunta regionale. “Il rischio drenaggio provocato dalle palificazioni – ha commentato l’ambientalista -sembra sia ormai una realtà, e c’è il rischio di danneggiare irreparabilmente la falda acquifera. Chiediamo la sospensione delle autorizzazioni fino a che non venga effettuata una nuova Vinca, così come da risposta della giunta all’interrogazione presentata il 12 febbraio scorso, che prevedeva proprio questo. Ritengo indispensabile che venga concesso il permesso ad un immediato sopralluogo, a cui far partecipare anche il Comune di Vicenza, per verificare lo stato dell’arte all’interno del cantiere stesso”.
Posso solo notare, da tecnico, che l’intera area è una zona umida, poco adatta alla costruzione di un aeroporto. Quanto è successo quindi non ci sorprende: anzi lo avevamo in qualche modo previsto grazie ad un modello matematico che abbiamo messo a punto da alcuni anni. Ma, ripeto, non abbiamo strumenti per asserire che la colpa è delle palificazioni o di altro. Teniamo anche presente che il Vinca è stato fatto sui dati raccolti nell’area est, dove si doveva costruire inizialmente la base, e non sull’area ovest dove invece si sta costruendo adesso. Sappiamo che hanno piazzato dei piezometri anche là, ma i dati non ci sono mai stati mostrati”. Le dichiarazioni di Altissimo a Vicenza hanno avuto l’effetto di un sasso scagliato in uno stagno, riaprendo la questione dei costi ambientali della nuova base militare. “Io posso solo dire che il commissario straordinario Costa ha sempre dichiarato la sua disponibilità a far sì che i lavori seguano la massima trasparenza. Credo quindi che i sindaci i cui Comuni pescano dalla falda, dovrebbero farsi avanti per richiedere questi dati il prima possibile. Poi, se viviamo in un mondo in cui le opere militari non sono obbligate a sottostare al Via perché evidentemente non hanno nessuna incidenza sull’ambiente, io non posso che prenderne atto”.
Meno disponibile a limitarsi a “prendere atto del mondo in cui viviamo”, è la battagliera consigliera comunale dei No Dal Molin, Cinzia Bottene: ”Quanto afferma Altissimo e quanto verificato dal blitz degli attivisti, non fa altro che confermare che l’esattezza delle nostre previsioni. Non c’è da esserne contenti, purtroppo. Le condizioni di sofferenza in cui versa la falda dimostrano che le nostre denunce non erano allarmismi ma il frutto di una critica seria al progetto. E che abbiamo ragione, ce lo conferma anche il silenzio imbarazzato di Costa. Una settimana senza neppure un comunicato stampa di risposta… non è da lui!”
“Adesso che i fatti ci danno ragione – continua la Bottene - chiediamo quello che da sempre chiediamo e non abbiamo mai ottenuto: trasparenza e controlli. Quanto avviene nella base non può essere un buco nero a gestione di pochi che, nelle conseguenze, pagheremo tutti. Vogliamo sapere se la falda è a rischio. E non possono essere i committenti ma dei tecnici, terzi e affidabili, a rispondere”.
L’immediata e precauzionale chiusura del cantiere, in attesa di una risposta a questa domanda, è stata chiesta dal consigliere dei verdi, Gianfranco Bettin, in una interrogazione alla giunta regionale. “Il rischio drenaggio provocato dalle palificazioni – ha commentato l’ambientalista -sembra sia ormai una realtà, e c’è il rischio di danneggiare irreparabilmente la falda acquifera. Chiediamo la sospensione delle autorizzazioni fino a che non venga effettuata una nuova Vinca, così come da risposta della giunta all’interrogazione presentata il 12 febbraio scorso, che prevedeva proprio questo. Ritengo indispensabile che venga concesso il permesso ad un immediato sopralluogo, a cui far partecipare anche il Comune di Vicenza, per verificare lo stato dell’arte all’interno del cantiere stesso”.
Senza dimora
6/02/2010TerraFreddo. Freddo cane. E sarebbe pure una nottata tiepida, questa, al confronto di quella di ieri, quando il termometro batteva i meno cinque e ti si congelava il gas nell’accendino. I ragazzi della cooperativa Caracol si intiepidiscono le mani sulle caraffe di caffè prima di versarle nei termos. Poi caricano le ceste di merendine e l’ultimo pacco di coperte nel furgone. Indossano la “divisa d’ordinanza” - giacca a vento che pare quelle dei pompieri e gilè giallo da stradino - e si preparano ad affrontare ancora una volta il freddo e il buio della notte. Scene consuete al centro sociale Rivolta di Marghera. Tre o quattro uscite ogni notte, per cento notti all’anno.
“Ogni città ha un suo numero caratteristico di notti in cui fa davvero freddo - mi spiega Vittoria -. Intendo notti in cui, se non hai una coperta, una tettoia o qualcos’altro che ti ripari dal vento, il freddo ti ammazza. A Venezia sono cento, le notti così”. E questa è proprio una notte così. Quest’inverno, a pochi chilometri da qui, il freddo ha già ammazzato. Un morto a Padova nella notte tra sabato e domenica, un altro a Mira tra domenica e lunedì. E il sindaco di Mira a dichiarare che gli spiace tanto ma che il “senza casa” in questione non si era mai rivolto ai servizi sociali del suo Comune. “Servizi che a Mira non ci sono. E comunque non ha capito niente del problema, il signor sindaco. Questa non è gente che chiede appuntamento agli assessori. Deve essere il servizio ad andare da loro”. Ed è proprio quanto fa la Caracol. La cooperativa è nata esattamente dieci anni fa da un gruppo di attivisti del Rivolta. Allora l’obiettivo era solo quello di tenere aperta la stazione di Mestre per permettere ai senza dimora di sopravvivere ad un inverno che pareva non finire più. Ma subito dopo i ragazzi si sono costituiti in una cooperativa che hanno chiamato Caracol perché, tra di loro, non ne peschi uno che non abbia trascorso perlomeno una o due estati a costruir turbine o a sistemar depuratori nel Chiapas rebelde. Oggi la Caracol siede al tavolo istituito dal Comune di Venezia per il progetto Senza dimora assieme ad altre associazioni come la Caritas, e gestisce un servizio “sulla strada” che opera 24 ore su 24. Ha un “telefono bianco” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini e degli assistenti sociali, mette in campo un furgone, una ventina di operatori qualificati tra volontari e dipendenti, e gestisce 24 posti letto all’interno degli spazi del centro sociale. Quando gela, esce tutte le notti con due squadre di operatori - una per Venezia e una per Mestre - che distribuiscono bevande calde, ciambelle, coperte. “Oramai li conosciamo tutti – mi spiega Vittoria –. Ci raccontano i loro guai, i loro problemi, le loro storie. Bugie e verità mescolate che neppure loro le san più distinguere. Il barbone coperto di stracci e con il fagotto sulle spalle è praticamente scomparso. Oggi sulle strade, troviamo malati psichici, alcolizzati, dipendenti da sostanze, ma anche marinai senza navi, disoccupati, migranti irregolari e tante persone che fino a poco tempo fa potevi considerare ‘normali’. Poi sono stati abbandonati dalle moglie o hanno perso il lavoro, la casa. In questa specie di agorà e nei cartocci di vino hanno trovato un sostituto di famigli”. La prima tappa è via Capuccina, dove ogni notte si accampa un gruppetto “storico” di senza dimora. Dopo le bevande calde, i ragazzi della Caracol fanno salire sul furgone quanti desiderano passare la notte al centro di accoglienza. Non tutti accettano l’invito. Gli alcolisti, soprattutto. Preferiscono passare la notte vicino ad un supermercato per poter correre a rifornirsi di alcol la mattina, appena dopo l’apertura. “Se vogliono vengono, se no stan qui. Queste persone hanno piena dignità e il diritto di decidere delle loro vite” mi dice Momo. E aggiunge scherzando: ”Qui siamo tutti del popolo della libertà! Viva la libertà, allora!” Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, è il responsabile della cooperativa. E’ un omone gioviale che non smette di scherzare con tutti quelli che incontra e che, d’altra parte, conosce da una vita. Lui è la sola persona che, commentando un fattaccio di cronaca accaduto a Venezia un mese fa, non ha detto “hanno cercato di dare fuoco a un barbone” ma “hanno cercato di dare fuoco a Michele”.
“Il nostro è un servizio. Non assistenza. Servizio. – mi puntualizza Momo -Abbiamo un contratto col Comune di Venezia, che, per fortuna è ben diverso da quello di Verona dove i vigili manganellano i senza casa, come abbiamo visto in tanti filmati diffusi su Youtube. Partecipiamo alle scelte dell’assessorato in tema di disagio sociale, proponiamo possibili soluzioni e fungiamo da operatori di strada per monitorare le nuove tendenze sociali della povertà estrema”. Nuove tendenze? “Certamente. Ogni anno abbiamo una new entry! Tre anni fa c’è stata l’annata dei rovinati dal videopoker. E’ grazie anche alle nostre segnalazioni se il Sert ha istituito una sezione per le dipendenze da gioco”. E la nuova tendenza di questo inverno, ci spiega Momo, è la “zona grigia”. I rovinati dalla crisi. Lavoratori licenziati e fuori mercato. Qualche italiano, ma per la maggior parte sono tutti migranti e clandestini. Quelli che “ci vorrebbe la tolleranza zero”, “bisogna mandarli a casa loro” o che “rubano il lavoro a noi italiani che già ce n’è poco”. Momo me ne presenta uno di questi ladri di lavoro. Rumeno, una sessantina di anni, irregolare. Per dieci anni ha lavorato in nero in un cantiere edile. Poi à caduto, si è rotto entrambe le caviglie e il padrone l’ha licenziato. Neanche in ospedale è potuto andare ed è rimasto storpio. Finiti i soldi per l’affitto (in nero pure questo), si è trovato sulla strada. Adesso spera che la stazione di Mestre non chiuda la sala attesa quanto il termometro scende. Tra i viaggiatori dell’ultimo treno che guardano schifati i senza dimora che si arrotolano nelle coperte della Caracol per difendersi dal freddo, sono in pochi quelli che si rendono conto che, in inverno, una stazione aperta o chiusa fa la differenza tra la vita e la morte. La sala d’aspetto di seconda classe di Mestre offre ospitalità ogni sera ad una 40ina di persone. A Venezia invece, i senza casa sono una dozzina. E’ una città particolare anche per loro, Venezia, perché sotto ponti scorre l’acqua e sull’acqua non si può dormire. Se si è disperati è meglio andare in terraferma. “In estate la comunità si disperde e le stazioni si svuotano – mi spiega Momo – perché i senza dimora trovano asilo nelle case abbandonate e hanno meno bisogno di noi. Ma col freddo, tutti cercano un posto caldo. E allora arriviamo anche a 70 o 80 contatti per notte”. Dopo aver distribuito caffè e coperte, gli operatori della Caracol riempiono le schede di monitoraggio e chiedono chi desidera passare la notte al centro di accoglienza. Ma i posti sono solo 24. Quando il termometro picchia, non bastano mai.
“Questa è la parte più brutta del nostro lavoro – mi dice sottovoce Momo -: dover scegliere chi portare al caldo e chi no. Noi cerchiamo di alternare e di dare sempre la precedenza ai malati, alle donne sole. Ma rimane comunque una ingiustizia. Loro non contestano mai. Guardali. Anche chi ì rimasto fuori e si deve accontentare di una tazza di caffè, ci saluta con un sorriso e ci dà appuntamento per domani”. Sospira Momo. “Ma un giorno io vincerò il Superenalotto e allora me li porto tutti ai tropici. Al caldo”.
“Ogni città ha un suo numero caratteristico di notti in cui fa davvero freddo - mi spiega Vittoria -. Intendo notti in cui, se non hai una coperta, una tettoia o qualcos’altro che ti ripari dal vento, il freddo ti ammazza. A Venezia sono cento, le notti così”. E questa è proprio una notte così. Quest’inverno, a pochi chilometri da qui, il freddo ha già ammazzato. Un morto a Padova nella notte tra sabato e domenica, un altro a Mira tra domenica e lunedì. E il sindaco di Mira a dichiarare che gli spiace tanto ma che il “senza casa” in questione non si era mai rivolto ai servizi sociali del suo Comune. “Servizi che a Mira non ci sono. E comunque non ha capito niente del problema, il signor sindaco. Questa non è gente che chiede appuntamento agli assessori. Deve essere il servizio ad andare da loro”. Ed è proprio quanto fa la Caracol. La cooperativa è nata esattamente dieci anni fa da un gruppo di attivisti del Rivolta. Allora l’obiettivo era solo quello di tenere aperta la stazione di Mestre per permettere ai senza dimora di sopravvivere ad un inverno che pareva non finire più. Ma subito dopo i ragazzi si sono costituiti in una cooperativa che hanno chiamato Caracol perché, tra di loro, non ne peschi uno che non abbia trascorso perlomeno una o due estati a costruir turbine o a sistemar depuratori nel Chiapas rebelde. Oggi la Caracol siede al tavolo istituito dal Comune di Venezia per il progetto Senza dimora assieme ad altre associazioni come la Caritas, e gestisce un servizio “sulla strada” che opera 24 ore su 24. Ha un “telefono bianco” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini e degli assistenti sociali, mette in campo un furgone, una ventina di operatori qualificati tra volontari e dipendenti, e gestisce 24 posti letto all’interno degli spazi del centro sociale. Quando gela, esce tutte le notti con due squadre di operatori - una per Venezia e una per Mestre - che distribuiscono bevande calde, ciambelle, coperte. “Oramai li conosciamo tutti – mi spiega Vittoria –. Ci raccontano i loro guai, i loro problemi, le loro storie. Bugie e verità mescolate che neppure loro le san più distinguere. Il barbone coperto di stracci e con il fagotto sulle spalle è praticamente scomparso. Oggi sulle strade, troviamo malati psichici, alcolizzati, dipendenti da sostanze, ma anche marinai senza navi, disoccupati, migranti irregolari e tante persone che fino a poco tempo fa potevi considerare ‘normali’. Poi sono stati abbandonati dalle moglie o hanno perso il lavoro, la casa. In questa specie di agorà e nei cartocci di vino hanno trovato un sostituto di famigli”. La prima tappa è via Capuccina, dove ogni notte si accampa un gruppetto “storico” di senza dimora. Dopo le bevande calde, i ragazzi della Caracol fanno salire sul furgone quanti desiderano passare la notte al centro di accoglienza. Non tutti accettano l’invito. Gli alcolisti, soprattutto. Preferiscono passare la notte vicino ad un supermercato per poter correre a rifornirsi di alcol la mattina, appena dopo l’apertura. “Se vogliono vengono, se no stan qui. Queste persone hanno piena dignità e il diritto di decidere delle loro vite” mi dice Momo. E aggiunge scherzando: ”Qui siamo tutti del popolo della libertà! Viva la libertà, allora!” Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, è il responsabile della cooperativa. E’ un omone gioviale che non smette di scherzare con tutti quelli che incontra e che, d’altra parte, conosce da una vita. Lui è la sola persona che, commentando un fattaccio di cronaca accaduto a Venezia un mese fa, non ha detto “hanno cercato di dare fuoco a un barbone” ma “hanno cercato di dare fuoco a Michele”.
“Il nostro è un servizio. Non assistenza. Servizio. – mi puntualizza Momo -Abbiamo un contratto col Comune di Venezia, che, per fortuna è ben diverso da quello di Verona dove i vigili manganellano i senza casa, come abbiamo visto in tanti filmati diffusi su Youtube. Partecipiamo alle scelte dell’assessorato in tema di disagio sociale, proponiamo possibili soluzioni e fungiamo da operatori di strada per monitorare le nuove tendenze sociali della povertà estrema”. Nuove tendenze? “Certamente. Ogni anno abbiamo una new entry! Tre anni fa c’è stata l’annata dei rovinati dal videopoker. E’ grazie anche alle nostre segnalazioni se il Sert ha istituito una sezione per le dipendenze da gioco”. E la nuova tendenza di questo inverno, ci spiega Momo, è la “zona grigia”. I rovinati dalla crisi. Lavoratori licenziati e fuori mercato. Qualche italiano, ma per la maggior parte sono tutti migranti e clandestini. Quelli che “ci vorrebbe la tolleranza zero”, “bisogna mandarli a casa loro” o che “rubano il lavoro a noi italiani che già ce n’è poco”. Momo me ne presenta uno di questi ladri di lavoro. Rumeno, una sessantina di anni, irregolare. Per dieci anni ha lavorato in nero in un cantiere edile. Poi à caduto, si è rotto entrambe le caviglie e il padrone l’ha licenziato. Neanche in ospedale è potuto andare ed è rimasto storpio. Finiti i soldi per l’affitto (in nero pure questo), si è trovato sulla strada. Adesso spera che la stazione di Mestre non chiuda la sala attesa quanto il termometro scende. Tra i viaggiatori dell’ultimo treno che guardano schifati i senza dimora che si arrotolano nelle coperte della Caracol per difendersi dal freddo, sono in pochi quelli che si rendono conto che, in inverno, una stazione aperta o chiusa fa la differenza tra la vita e la morte. La sala d’aspetto di seconda classe di Mestre offre ospitalità ogni sera ad una 40ina di persone. A Venezia invece, i senza casa sono una dozzina. E’ una città particolare anche per loro, Venezia, perché sotto ponti scorre l’acqua e sull’acqua non si può dormire. Se si è disperati è meglio andare in terraferma. “In estate la comunità si disperde e le stazioni si svuotano – mi spiega Momo – perché i senza dimora trovano asilo nelle case abbandonate e hanno meno bisogno di noi. Ma col freddo, tutti cercano un posto caldo. E allora arriviamo anche a 70 o 80 contatti per notte”. Dopo aver distribuito caffè e coperte, gli operatori della Caracol riempiono le schede di monitoraggio e chiedono chi desidera passare la notte al centro di accoglienza. Ma i posti sono solo 24. Quando il termometro picchia, non bastano mai.
“Questa è la parte più brutta del nostro lavoro – mi dice sottovoce Momo -: dover scegliere chi portare al caldo e chi no. Noi cerchiamo di alternare e di dare sempre la precedenza ai malati, alle donne sole. Ma rimane comunque una ingiustizia. Loro non contestano mai. Guardali. Anche chi ì rimasto fuori e si deve accontentare di una tazza di caffè, ci saluta con un sorriso e ci dà appuntamento per domani”. Sospira Momo. “Ma un giorno io vincerò il Superenalotto e allora me li porto tutti ai tropici. Al caldo”.
Il traforo delle Torricelle è un'emergenza democratica
30/01/2010TerraUn traforo, un raccordo autostradale e un’emergenza democratica. Tutto questo nella Verona del sindaco “lumbard” Flavio Tosi. Ma andiamo con ordine. Il raccordo è quello che dovrebbe collegare la Serenissima con l’altra autostrada che corre attorno alla città scaligera, quella del Brennero. Il traforo è quello da eseguire nelle colline delle Torricelle per farci passare detto raccordo. L’emergenza democratica – che non è un termine nostro ma del magistrato che ha accolto, come vedremo, il ricorso del comitato civico – è tutto il contorno di questa brutta faccenda. Siamo di fronte all’ennesimo capitolo della saga “grandi e costose opere per inutili devastazioni”.
Ecco in sintesi la vicenda. Di bucare le Torricelle per farci passare un’autostrada, se ne parla si dagli anni ’80, gli anni d’oro dei socialisti. Ed infatti il progetto era targato Garofano Rosso. Fu Tangentopoli allora a far tramontare l’idea di realizzare una corsia autostradale in mezzo alla città. Corsia che non avrebbe certo risolto il problema del traffico e dell’inquinamento che affligge una Verona in cui nessuna giunta ha mai portato seriamente avanti l’idea di una rete di trasporto alternativo a quello privato, ma al contrario lo avrebbe acuito riversando altri mezzi pesanti dentro le mura cittadine. Nei primi anni del nuovo secolo, il vecchio progetto è tornato alla ribalta saltando nel Carroccio dei lumbard. Carroccio che da queste parti ha lo stesso ruolo dell’asso pigliatutto nel rubamazzetto. Il sindaco Flavio Tosi in particolare sta pigiando sull’acceleratore di questo progetto presentato ancora una volta come deus ex machina per far respirare l’asfissiata città di Giulietta e Romeo. Progetto costosissimo, questo di bucare le Torricelle che l’amministrazione sta portando avanti sulle ali di un project financing assegnato a quella Technital che ha tra i suoi azionisti proprio la Mazzi Costruzioni. Quella stessa Mazzi Costruzioni che in campagna elettorale ha generosamente contribuito a finanziare il sindaco Tosi. “Non è un illecito questo, lo sappiamo bene. Ma riteniamo comunque poco elegante che una ditta che appoggia la campagna elettorale di un sindaco concorra poi al project financing del Comune e lo vinca” spiega Alberto Sperotto, portavoce del comitato civico contro il traforo. Il comitato si è fatto promotore di un referendum sulla Torricelle. Referendum sempre osteggiato dall’amministrazione.“Tosi si rifiuta di riceverci, di partecipare ai nostri incontri e risponde solo con querele e minacce. Dice che ha vinto le elezioni e si fa a modo suo. Ma questa non è più democrazia”. Per quattro volte il comitato si è rivolto al tribunale e per quattro volte il tribunale gli ha dato ragione riconoscendo che i tre garanti comunali (inizialmente due di nomina della maggioranza e uno dell’opposizione, ma recentemente quest’ultimo è stato sostituito dal legale di fiducia di Tosi) che, secondo statuto, hanno il potere di decidere sull’ammissibilità del referendum hanno deliberatamente perso tempo e operato per fare ostruzione contro il referendum. A giorni è attesa la quinta sentenza sull’ammissibilità del quesito, anche stavolta bocciato all’unanimità dai tre garanti. “Ci auguriamo che il tribunale ci dia ancora ragione e che si possa votare – spiega Sperotto – Una autostrada in mezzo alla città avrebbe un effetto disastroso su Verona. Ma la cosa che più ci preoccupa è la mancanza di cultura democratica. Vincere le elezioni non significa far tutto quello che si vuole. Ancora adesso non sappiamo dove passerà il tracciato. Non sappiamo quante saranno e compensazioni economiche che renderanno appetibile per il privato questo project financing. Si parla in questo senso di migliaia di metri cubi che saranno destinati a parcheggi, centri commerciali, fast food. Tosi risponde alle manifestazioni solo con gli schieramenti di polizia e si rifiuta di incontrare sia noi che il coordinamento degli espropriandi costituitosi dove, pare, sarà realizzata l’opera. E quanti saranno poi gli espropri? Gli assessori un giorno parlano di tremila, altri giorni di seicento. Tosi dice che tra un po’, quando sarà pronto, porterà il progetto completo nei quartieri. Ma certo non per discuterne con i cittadini. Capite perché a Verona siamo in piena emergenza democratica?”
Box
Il bluff della Pedemontana
Doveva essere un’opera al servizio del territorio, ma si è visto ben presto che in realtà si tratta di un’opera rivolta al traffico internazionale. Doveva servire ad alleggerire un’area intasata di traffico pesante, ma ci si è accorti subito che quella strada porterà altro traffico e altro inquinamento. Doveva essere un’opera ad impatto zero, ed invece si sta rivelando come l’ennesima devastazione volta a trarre profitto per pochi consumando il territorio di tutti. Stiamo parlando della Pedemontana. Oggi che i bluff sono svelati, i comitati civici invitano la popolazione alla mobilitazione. L’appuntamento è per questo pomeriggio, sabato 30, alle ore 14,30 in piazza Duomo di Montecchio Maggiore, Vicenza. “Siamo ancora in tempo a fermare questa devastazione” si legge nei volantini. Questa nuova e inutile autostrada a pagamento, che altro la Pedemontana non è, porterà nella valle inquinamento, difficoltà di spostamento, stravolgimento del tessuto naturale e civile, tumori, rumore continuo, distruzione del paesaggio, problemi per le falde acquifere, gigantesche cave (Rotte del Guà), chilometri di complanari, tunnel e rotatorie. Che sia una violenza al territorio ora lo ammettono, stando alle ultime dichiarazioni, anche i politici della Lega, del Pdl e della stragrande maggioranza del Pd che hanno voluto a tutti i costi l’opera, nonostante il parere contrario dei loro stessi amministratori locali. Affari, voti comprati, soldi sporchi e cemento hanno fatto piazza pulita di tutte le vuote promesse di democrazia partecipativa, difesa del territorio e sostenibilità con cui si riempiono la bocca in campagna elettorale. Eppure – nonostante quanto affermano questi signori - l’autostrada si può ancora fermare con un ricorso al Cipe. Questo chiederanno alla Regione i cittadini che scenderanno oggi in piazza: bloccare un’opera che, a parole, nessuno vuole.
Ecco in sintesi la vicenda. Di bucare le Torricelle per farci passare un’autostrada, se ne parla si dagli anni ’80, gli anni d’oro dei socialisti. Ed infatti il progetto era targato Garofano Rosso. Fu Tangentopoli allora a far tramontare l’idea di realizzare una corsia autostradale in mezzo alla città. Corsia che non avrebbe certo risolto il problema del traffico e dell’inquinamento che affligge una Verona in cui nessuna giunta ha mai portato seriamente avanti l’idea di una rete di trasporto alternativo a quello privato, ma al contrario lo avrebbe acuito riversando altri mezzi pesanti dentro le mura cittadine. Nei primi anni del nuovo secolo, il vecchio progetto è tornato alla ribalta saltando nel Carroccio dei lumbard. Carroccio che da queste parti ha lo stesso ruolo dell’asso pigliatutto nel rubamazzetto. Il sindaco Flavio Tosi in particolare sta pigiando sull’acceleratore di questo progetto presentato ancora una volta come deus ex machina per far respirare l’asfissiata città di Giulietta e Romeo. Progetto costosissimo, questo di bucare le Torricelle che l’amministrazione sta portando avanti sulle ali di un project financing assegnato a quella Technital che ha tra i suoi azionisti proprio la Mazzi Costruzioni. Quella stessa Mazzi Costruzioni che in campagna elettorale ha generosamente contribuito a finanziare il sindaco Tosi. “Non è un illecito questo, lo sappiamo bene. Ma riteniamo comunque poco elegante che una ditta che appoggia la campagna elettorale di un sindaco concorra poi al project financing del Comune e lo vinca” spiega Alberto Sperotto, portavoce del comitato civico contro il traforo. Il comitato si è fatto promotore di un referendum sulla Torricelle. Referendum sempre osteggiato dall’amministrazione.“Tosi si rifiuta di riceverci, di partecipare ai nostri incontri e risponde solo con querele e minacce. Dice che ha vinto le elezioni e si fa a modo suo. Ma questa non è più democrazia”. Per quattro volte il comitato si è rivolto al tribunale e per quattro volte il tribunale gli ha dato ragione riconoscendo che i tre garanti comunali (inizialmente due di nomina della maggioranza e uno dell’opposizione, ma recentemente quest’ultimo è stato sostituito dal legale di fiducia di Tosi) che, secondo statuto, hanno il potere di decidere sull’ammissibilità del referendum hanno deliberatamente perso tempo e operato per fare ostruzione contro il referendum. A giorni è attesa la quinta sentenza sull’ammissibilità del quesito, anche stavolta bocciato all’unanimità dai tre garanti. “Ci auguriamo che il tribunale ci dia ancora ragione e che si possa votare – spiega Sperotto – Una autostrada in mezzo alla città avrebbe un effetto disastroso su Verona. Ma la cosa che più ci preoccupa è la mancanza di cultura democratica. Vincere le elezioni non significa far tutto quello che si vuole. Ancora adesso non sappiamo dove passerà il tracciato. Non sappiamo quante saranno e compensazioni economiche che renderanno appetibile per il privato questo project financing. Si parla in questo senso di migliaia di metri cubi che saranno destinati a parcheggi, centri commerciali, fast food. Tosi risponde alle manifestazioni solo con gli schieramenti di polizia e si rifiuta di incontrare sia noi che il coordinamento degli espropriandi costituitosi dove, pare, sarà realizzata l’opera. E quanti saranno poi gli espropri? Gli assessori un giorno parlano di tremila, altri giorni di seicento. Tosi dice che tra un po’, quando sarà pronto, porterà il progetto completo nei quartieri. Ma certo non per discuterne con i cittadini. Capite perché a Verona siamo in piena emergenza democratica?”
Box
Il bluff della Pedemontana
Doveva essere un’opera al servizio del territorio, ma si è visto ben presto che in realtà si tratta di un’opera rivolta al traffico internazionale. Doveva servire ad alleggerire un’area intasata di traffico pesante, ma ci si è accorti subito che quella strada porterà altro traffico e altro inquinamento. Doveva essere un’opera ad impatto zero, ed invece si sta rivelando come l’ennesima devastazione volta a trarre profitto per pochi consumando il territorio di tutti. Stiamo parlando della Pedemontana. Oggi che i bluff sono svelati, i comitati civici invitano la popolazione alla mobilitazione. L’appuntamento è per questo pomeriggio, sabato 30, alle ore 14,30 in piazza Duomo di Montecchio Maggiore, Vicenza. “Siamo ancora in tempo a fermare questa devastazione” si legge nei volantini. Questa nuova e inutile autostrada a pagamento, che altro la Pedemontana non è, porterà nella valle inquinamento, difficoltà di spostamento, stravolgimento del tessuto naturale e civile, tumori, rumore continuo, distruzione del paesaggio, problemi per le falde acquifere, gigantesche cave (Rotte del Guà), chilometri di complanari, tunnel e rotatorie. Che sia una violenza al territorio ora lo ammettono, stando alle ultime dichiarazioni, anche i politici della Lega, del Pdl e della stragrande maggioranza del Pd che hanno voluto a tutti i costi l’opera, nonostante il parere contrario dei loro stessi amministratori locali. Affari, voti comprati, soldi sporchi e cemento hanno fatto piazza pulita di tutte le vuote promesse di democrazia partecipativa, difesa del territorio e sostenibilità con cui si riempiono la bocca in campagna elettorale. Eppure – nonostante quanto affermano questi signori - l’autostrada si può ancora fermare con un ricorso al Cipe. Questo chiederanno alla Regione i cittadini che scenderanno oggi in piazza: bloccare un’opera che, a parole, nessuno vuole.
La discarica nell'oasi
30/01/2010TerraQuei grossi buchi sul terreno che la Regione Veneto vorrebbe riempire di amianto, non sono naturali. Li scavarono i bisnonni degli abitanti di quella che allora non era ancora la Roverchiara che conosciamo oggi, per impastarne l’argilla e modellare i “quarei” – i tipici mattoni – che servirono a costruire le rustiche abitazioni. Poi l’area fu abbandonata e questa fu anche la sua fortuna. Oggi, attorno alle 14 larghe pozze riempitesi nel corso degli anni di acqua di falda, la natura ha provveduto a ripristinare quella tipica vegetazione padana che oramai è quasi del tutto scomparsa. In questi 90 mila metri quadri si trova più biodiversità che in tutto il resto della piana, coperta com’è da una urbanizzazione diffusa che lascia spazio solo a coltivazioni intensive.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.
Da Dakar a Murano. Arte senza frontiere
30/01/2010Terra“Mi chiamo Moulaye Niang e sono nato a Dakar, in Senegal. Sono figlio di due artigiani. Mia madre faceva tessuti e bambole di tessuto. Mio padre era stato un militare in Francia; ma poi, dal momento che non gli piaceva prestare servizio militare, tornò in Africa e iniziò a creare gioielli in oro e argento”. La storia di Moulaye Niang inizia così. Come un romanzo d’avventura dell’ottocento. Un’avventura che comincia una quindicina di anni or sono, quando Moulaye lascia Dakar per l’Italia. E’ un migrante, Moulaye. E come tutti i migranti ha un cammino di sogni e speranze da percorrere. Ma di lui, Hugo Pratt avrebbe scritto che “aveva un appuntamento”. Moulaye ha lasciato l’africa per andare a Murano e diventare maestro vetraio.
“Perché il vetro? Perché è terra, aria, acqua e fuoco che si amalgamano obbedendo alla volontà creativa dell’artista: lo spirito che dà forma fisica alla materia. Puoi anche chiamarla magia, se preferisci”. Moulaye è un artista. Uno di quelli che ti vien voglia di guardargli le mani per cercare di scoprire che hanno di più. Nel suo laboratorio in calle Crosera, di fianco al campo della Bragora - nel cuore del popolare sestiere di Castello - sono appesi alcuni suoi dipinti realizzati con una tecnica che meriterebbe più spazio. “In Senegal li facevo con l’aglio. Sì, l’aglio. Se lo spremi diventa una specie di colla. In Africa, perlomeno. Ma qui a Venezia non funziona. Non so perché. Allora uso lo stucco da barche. Il risultato è pressappoco lo stesso”. Il materiale, per un artista, non è mai solo un semplice mezzo per esprimere la propria creatività. “Il vetro ha un’anima sai? E vive proprio, qui, a Murano. Lo so. In tutto il mondo si lavora il vetro. Io stesso ho aperto una scuola a Dakar per aiutare i miei fratelli africani. Ma non c’è verso di rifare in un’altra parte del mondo le cose che riescono a fare solo a Murano. Solo qui il vetro fonde a 600 gradi invece di mille. E parliamo di vetro biologico. Senza quelle porcherie chimiche che ci mettono in altri paesi. Tu pensa solo al color rosso. Quanti rossi ci sono al mondo, secondo te? Beh, a Murano un maestro vetraio sa tirare fuori un milione di rossi diversi. Basta impastare un minuto prima o un minuto dopo, basta che il vento butti a bora o a scirocco, che giri l’acqua e il risultato è diverso”. Ha fatto di tutto, Moulaye prima di arrivare a poter lavorare col vetro. Operaio in una ditta di cromature, facchino, pulizie... “La notte lavoravo come portiere d’albergo a Venezia. La mattina prendevo il battello per andare a Murano, alle fornaci, e chiedere ai maestri che mi facessero vedere come si lavora il vetro. ‘Torna domani”, mi dicevano ‘Oggi non abbiamo tempo’. Per tre anni, nessuno mi voleva neppure vendere il vetro o gli attrezzi per lavorarlo”. Perché sei nero? “No, perché sono veneziano. Tu sei di qua. Lo sai cosa dicono i muranesi dei veneziani, no?” Vediamo se indovino: loro sono degli inarrivabili artisti e noi dei meschini commercianti. “Che traggono profitto del loro genio. E ci han ragione. Non era razzismo il loro, ma business. ‘Se ti insegniamo, poi tu apri una attività a Venezia e ci fai concorrenza’ mi dicevano. Cosa che, tra l’altro, è puntualmente avvenuta. Anche se io non faccio lavori industriali ma seguo la tradizione muranese sposandola con la mia ‘africanitudine’, se mi passi il termine. Le forme e i disegni della mia terra d’origine con le lucentezze e i colori del vetro più bello del mondo”. Ma come sei riuscito a scardinare quel muro di omertà che circonda il vetro di Murano? “Dopo due anni da invisibile, improvvisamente una ragazza di nome Perla mi ha rivolto la parola. ‘Ma tu che ci fai in questa giungla?’ mi ha detto ‘Dai, che ti porto da mio zio’. Suo zio è Davide Salvadore, uno dei più grandi maestri vetrai del mondo. Il giorno dopo, Murano per me era un’altra isola. Tutti mi conoscevano come el Muranero, il muranese nero. Potevo comperare il materiale, entrare nella scuola Abate Zanetti, artisti come Pino Signoretto ed Egidio Costantini mi davano consigli e mi incoraggiavano. Geni assoluti che mi spiegavano la magia e i misteri del vetro di Murano. Per dieci anni ho studiato e lavorato il vetro con loro. Adesso le scolaresche veneziane vengono nel mio laboratorio a vedere come si lavora a lume”. Tu sei uno dei pochi che lavora all’aperto. “E’ vero. Murano lavorano sempre al chiuso. Sprangano pure le finestre. Cosa vuoi? Per secoli, per difendere i segreti del vetro, i maestri non potevano neppure lasciare l’isola, pena la morte. Ma io ha anche un’anima africana che mi spinge a tenere sempre la porta spalancata. Sono muranese ma anche nero. Muranero, appunto”. E sei diventato un maestro riconosciuto del vetro. “Ah, non scherzare... dopo solo dieci anni? Sono solo un artigiano che cerca di dare forma al suo estro e che continua ad imparare tutti i giorni dai veri maestri muranesi. Torna da trent’anni. Quando anche io, forse, saprò tirar fuori da quel milione di rossi il rosso più bello”.
“Perché il vetro? Perché è terra, aria, acqua e fuoco che si amalgamano obbedendo alla volontà creativa dell’artista: lo spirito che dà forma fisica alla materia. Puoi anche chiamarla magia, se preferisci”. Moulaye è un artista. Uno di quelli che ti vien voglia di guardargli le mani per cercare di scoprire che hanno di più. Nel suo laboratorio in calle Crosera, di fianco al campo della Bragora - nel cuore del popolare sestiere di Castello - sono appesi alcuni suoi dipinti realizzati con una tecnica che meriterebbe più spazio. “In Senegal li facevo con l’aglio. Sì, l’aglio. Se lo spremi diventa una specie di colla. In Africa, perlomeno. Ma qui a Venezia non funziona. Non so perché. Allora uso lo stucco da barche. Il risultato è pressappoco lo stesso”. Il materiale, per un artista, non è mai solo un semplice mezzo per esprimere la propria creatività. “Il vetro ha un’anima sai? E vive proprio, qui, a Murano. Lo so. In tutto il mondo si lavora il vetro. Io stesso ho aperto una scuola a Dakar per aiutare i miei fratelli africani. Ma non c’è verso di rifare in un’altra parte del mondo le cose che riescono a fare solo a Murano. Solo qui il vetro fonde a 600 gradi invece di mille. E parliamo di vetro biologico. Senza quelle porcherie chimiche che ci mettono in altri paesi. Tu pensa solo al color rosso. Quanti rossi ci sono al mondo, secondo te? Beh, a Murano un maestro vetraio sa tirare fuori un milione di rossi diversi. Basta impastare un minuto prima o un minuto dopo, basta che il vento butti a bora o a scirocco, che giri l’acqua e il risultato è diverso”. Ha fatto di tutto, Moulaye prima di arrivare a poter lavorare col vetro. Operaio in una ditta di cromature, facchino, pulizie... “La notte lavoravo come portiere d’albergo a Venezia. La mattina prendevo il battello per andare a Murano, alle fornaci, e chiedere ai maestri che mi facessero vedere come si lavora il vetro. ‘Torna domani”, mi dicevano ‘Oggi non abbiamo tempo’. Per tre anni, nessuno mi voleva neppure vendere il vetro o gli attrezzi per lavorarlo”. Perché sei nero? “No, perché sono veneziano. Tu sei di qua. Lo sai cosa dicono i muranesi dei veneziani, no?” Vediamo se indovino: loro sono degli inarrivabili artisti e noi dei meschini commercianti. “Che traggono profitto del loro genio. E ci han ragione. Non era razzismo il loro, ma business. ‘Se ti insegniamo, poi tu apri una attività a Venezia e ci fai concorrenza’ mi dicevano. Cosa che, tra l’altro, è puntualmente avvenuta. Anche se io non faccio lavori industriali ma seguo la tradizione muranese sposandola con la mia ‘africanitudine’, se mi passi il termine. Le forme e i disegni della mia terra d’origine con le lucentezze e i colori del vetro più bello del mondo”. Ma come sei riuscito a scardinare quel muro di omertà che circonda il vetro di Murano? “Dopo due anni da invisibile, improvvisamente una ragazza di nome Perla mi ha rivolto la parola. ‘Ma tu che ci fai in questa giungla?’ mi ha detto ‘Dai, che ti porto da mio zio’. Suo zio è Davide Salvadore, uno dei più grandi maestri vetrai del mondo. Il giorno dopo, Murano per me era un’altra isola. Tutti mi conoscevano come el Muranero, il muranese nero. Potevo comperare il materiale, entrare nella scuola Abate Zanetti, artisti come Pino Signoretto ed Egidio Costantini mi davano consigli e mi incoraggiavano. Geni assoluti che mi spiegavano la magia e i misteri del vetro di Murano. Per dieci anni ho studiato e lavorato il vetro con loro. Adesso le scolaresche veneziane vengono nel mio laboratorio a vedere come si lavora a lume”. Tu sei uno dei pochi che lavora all’aperto. “E’ vero. Murano lavorano sempre al chiuso. Sprangano pure le finestre. Cosa vuoi? Per secoli, per difendere i segreti del vetro, i maestri non potevano neppure lasciare l’isola, pena la morte. Ma io ha anche un’anima africana che mi spinge a tenere sempre la porta spalancata. Sono muranese ma anche nero. Muranero, appunto”. E sei diventato un maestro riconosciuto del vetro. “Ah, non scherzare... dopo solo dieci anni? Sono solo un artigiano che cerca di dare forma al suo estro e che continua ad imparare tutti i giorni dai veri maestri muranesi. Torna da trent’anni. Quando anche io, forse, saprò tirar fuori da quel milione di rossi il rosso più bello”.
Il Veneto verso il voto
30/01/2010Terra“Vinciamo anche da soli”. Assessori ed esponenti del Carroccio lo ripetono a chiunque chieda loro delle prossime amministrative. Potete domandare che ne pensano di una alleanza con i centristi, con la destra estrema o anche con lo stesso Popolo delle Libertà. “Vinciamo anche da soli” ripetono. E i sondaggi dan loro ragione. Luca Zaia, volto pulito della Lega lumbard – perlomeno a raffrontarlo con altri personaggi del Carroccio appesantiti da pacchi di condanne per razzismo alle spalle (imputabili ai soliti giudici meridionalisti) – sta giocando una partita a poker con tutti gli assi nella sua mano. Silurato Giancarlo Galan, ritiratosi obbedientemente dalla mischia, da quel bravo dipendente di Publitalia che è sempre stato, anche tutti gli ex fedelissimi galaniani, che pure avevano minacciato le barricate contro Zaia, hanno presto abbassato la coda.
“In fondo, eravamo una squadra. Mica c’era solo Galan!” hanno dichiarato. Tutti pronti a giurare fedeltà al nuovo Governatore. La vera questione, a questo stato dell’arte, è solo la difesa del posto in consiglio regionale o in uno dei tanti enti baraccone regionali. Un problema non da poco, perché la Lega stavolta non lascerà niente a nessuno. Addirittura tra i consiglieri uscenti del Pdl girava l’ipotesi balorda di rivolgersi ad un notaio per ratificare, prima dell’apertura delle urne, l’assegnazione delle poltrone che contano per timore di non avere più posti in cui poggiare il sedere dopo il conteggio delle percentuali dello spoglio. Per intanto la Lega ha silurato l’Udc che pure, in questa legislatura, sembrava un cadetto a West Point: “Signorsì! Signore!”. E il centro sinistra? Il Pd è a tocchi. In Italia come nel Veneto. Il problema, diciamocelo, è che non rappresentano una vera alternativa alla destra. Parliamo di politiche sociali? Di grandi opere inutili e devastanti? Di migranti? Di ambiente? Le posizioni dei Democratici nel Veneto sono uguali a quelle del centrodestra. Con una differenza. Alla riunione del comitato civico contro l’inceneritore locale, nessun democratico si spreca a spiegare che il problema dei rifiuti non si risolve incenerendoli, mentre l’esponente del Carroccio racconta che, sì l’inceneritore è indispensabile e non ha alternative, ma va costruito lontano da qua. E che la colpa è del federalismo che non c’è e di Roma ladrona. Spaccia balle e ricava consenso.
Questo Pd senza politica ha fatta subito tramontare la candidatura “pulita” della sindaca di Montebelluna, Laura Puppato, che pure godeva un forte appoggio tra la base ma non tra i vertici del partito. Quindi ha cercato di stringere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Che è come passare dall’acquasanta al diavolo. La verità è che i vertice veneti dei democratici son convinti che si può vincere nel Veneto solo allenandosi all’Udc e chiudendo le porte agli “estremismi” verdi e comunisti. In attesa magari, che si spezzi l’asse Bossi Berlusconi e che ci si possa alleare o con la Lega o con il Pdl. Ma anche l’ipotesi De Poli ha avuto vita breve. I centristi san fare i loro conti: correndo da soli perdono ma si portano a casa più consiglieri che in coalizione. Inoltre, nel corso della legislatura avranno sempre la possibilità di risalire nel carrozzone del Governatore vincente. A sfidare Zaia come si sfida un mulino a vento, ecco arrivare Giuseppe Bortolussi, 61 anni, paladino degli artigiani e del popolo delle “partite iva”. Come dire il terreno da cui è nata la Lega. Un candidato che non ha fatto fatica ad incassare l’appoggio degli ambientalisti che in lui hanno visto un volto nuovo della politica, perlomeno lontano dai vertici di un partito democratico pronto a dannarsi l’anima solo per stare a galla.
“In fondo, eravamo una squadra. Mica c’era solo Galan!” hanno dichiarato. Tutti pronti a giurare fedeltà al nuovo Governatore. La vera questione, a questo stato dell’arte, è solo la difesa del posto in consiglio regionale o in uno dei tanti enti baraccone regionali. Un problema non da poco, perché la Lega stavolta non lascerà niente a nessuno. Addirittura tra i consiglieri uscenti del Pdl girava l’ipotesi balorda di rivolgersi ad un notaio per ratificare, prima dell’apertura delle urne, l’assegnazione delle poltrone che contano per timore di non avere più posti in cui poggiare il sedere dopo il conteggio delle percentuali dello spoglio. Per intanto la Lega ha silurato l’Udc che pure, in questa legislatura, sembrava un cadetto a West Point: “Signorsì! Signore!”. E il centro sinistra? Il Pd è a tocchi. In Italia come nel Veneto. Il problema, diciamocelo, è che non rappresentano una vera alternativa alla destra. Parliamo di politiche sociali? Di grandi opere inutili e devastanti? Di migranti? Di ambiente? Le posizioni dei Democratici nel Veneto sono uguali a quelle del centrodestra. Con una differenza. Alla riunione del comitato civico contro l’inceneritore locale, nessun democratico si spreca a spiegare che il problema dei rifiuti non si risolve incenerendoli, mentre l’esponente del Carroccio racconta che, sì l’inceneritore è indispensabile e non ha alternative, ma va costruito lontano da qua. E che la colpa è del federalismo che non c’è e di Roma ladrona. Spaccia balle e ricava consenso.
Questo Pd senza politica ha fatta subito tramontare la candidatura “pulita” della sindaca di Montebelluna, Laura Puppato, che pure godeva un forte appoggio tra la base ma non tra i vertici del partito. Quindi ha cercato di stringere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Che è come passare dall’acquasanta al diavolo. La verità è che i vertice veneti dei democratici son convinti che si può vincere nel Veneto solo allenandosi all’Udc e chiudendo le porte agli “estremismi” verdi e comunisti. In attesa magari, che si spezzi l’asse Bossi Berlusconi e che ci si possa alleare o con la Lega o con il Pdl. Ma anche l’ipotesi De Poli ha avuto vita breve. I centristi san fare i loro conti: correndo da soli perdono ma si portano a casa più consiglieri che in coalizione. Inoltre, nel corso della legislatura avranno sempre la possibilità di risalire nel carrozzone del Governatore vincente. A sfidare Zaia come si sfida un mulino a vento, ecco arrivare Giuseppe Bortolussi, 61 anni, paladino degli artigiani e del popolo delle “partite iva”. Come dire il terreno da cui è nata la Lega. Un candidato che non ha fatto fatica ad incassare l’appoggio degli ambientalisti che in lui hanno visto un volto nuovo della politica, perlomeno lontano dai vertici di un partito democratico pronto a dannarsi l’anima solo per stare a galla.
Margherite al cromoesavalente
23/01/2010TerraSulla sponda sinistra dell’elegante fiume Brenta, dove ai tempi della Serenissima fiorivano le ville palladiane, sorge oggi un ridente paesino padano dove le margherite crescono con tre teste.
Per ammirare questi originali esempi botanici di frankenstein genetici basta farsi una passeggiata – ma noi non ve lo consigliamo - a Tezze sul Brenta, una decina di chilometri a sud di Bassano. Cittadina che da una decina di anni a questa parte si è guadagnata la non edificante nomea di “paese più inquinato d’Italia”. L’aria che tira da queste parti non si può certo definire salutare. In questo paese dove la Lega raggiunge percentuali che neanche nella Romania di Ceausescu e la colpa di tutto è sempre di “Roma ladrona”, le patologie tumorali al cervello e ad altri organi sono tra le più alte d’Italia.
E senza neanche bisogno di una centrale nucleare. Al posto dell’uranio, qui preferiscono il cromo esavalente. Per vent’anni, una pestilenziale ditta di cromature ha scaricato in pieno centro residenziale quintalate di questo inquinante che definire un potente cancerogeno è fargli un complimento. Per vent’anni, la ditta Tricom, poi Galvanica Pm, ha avvelenato le falda acquifere di Tezze ammazzando lentamente i residenti che perdevano i capelli e si ustionavano la pelle solo a farsi la doccia. Per vent’anni, la Galvanica ha assassinato i suoi operai costringendoli a lavorare a contatto diretto col cromo. Secondo il Pm, i morti accertati tra i dipendenti sono stati, sino ad oggi, ben 17. Tutti e 17 migranti extracomunitari che, tra l’altro, lavoravano in condizioni di precarietà e senza tutele sindacali. Per quel che può servire la tutela del sindacato a uno che sa che dopo un anno di lavoro gli viene il cancro.
Ma a parte una eredità di milioni di euro di bonifiche tutte da fare, che la Regione Veneto continua a rimpallarsi da una finanziaria all’altra, Tezze ci ha regalato anche una delle poche condanne per reati ambientali affibbiate nel nostro Paese, notoriamente indulgente e comprensivo con chi inquina.
Nel 2006, il tribunale ha affibbiato a Paolo Zampierin, titolare della ditta assassina, due anni e sei mesi ma imputandogli solo il reato di avvelenamento della falda. Va anche detto che la galera, il suddetto imprenditore, l’ha solo vista da lontano, grazie all’indulto. Tutto qua. E i 17 operai morti avvelenati? E tutta la gente che abitava nelle vicinanze della galvanica che si è ammalata di tumore? Non si sono arresi, i comitati contro l’avvelenamento da cromo di Tezze che hanno continuato a lottare perché anche alle vittime venisse resa giustizia. Non si è arresa chi questi comitati li ha costituiti: la signora Gabriella Bragagnolo, infermiera in pensione, vittima anch’essa dell’avvelenamento da cromo. I giornali locali, con poca fantasia, l’hanno ribattezzata la Erin Brockovich italiana dipingendola spesso come una macchietta di colore locale. Ma in tutti questi anni, la Bragagnolo non ha mai smesso di lottare fino a che, è notizia di questi giorni, il sostituto procuratore Giovanni Parolin ha rinviato a giudizio – e stavolta per omicidio colposo – lo Zampierin e altri tre responsabili della Galvanica. Una lotta dura, quella della signora Bragagnolo, e non solo contro il plotone di avvocati e di politici schierati dagli inquinatori. “Oggi mi trovo conti di migliaia di euro da pagare tra avvocati, spese processuali, periti e laboratori chimici – spiega –. Sono ammalata e debbo continuare a vivere in una strada che non si sa se e quando sarà bonificata. E non posso neppure vendere la casa perché la zona è stata dichiarata inquinata. In Comune, invece di aiutare e difendere me e gli altri residenti, mi hanno sempre osteggiata e mi considerano come la matta che non ha voluto stare zitta e ha spiattellato ai giornali gli affari del paese. Quasi fosse colpa mia. Quasi fossi io che ho inquinato e che ho fatto chiudere quella ditta di onesti imprenditori che dava lavoro a tutti!»
Per ammirare questi originali esempi botanici di frankenstein genetici basta farsi una passeggiata – ma noi non ve lo consigliamo - a Tezze sul Brenta, una decina di chilometri a sud di Bassano. Cittadina che da una decina di anni a questa parte si è guadagnata la non edificante nomea di “paese più inquinato d’Italia”. L’aria che tira da queste parti non si può certo definire salutare. In questo paese dove la Lega raggiunge percentuali che neanche nella Romania di Ceausescu e la colpa di tutto è sempre di “Roma ladrona”, le patologie tumorali al cervello e ad altri organi sono tra le più alte d’Italia.
E senza neanche bisogno di una centrale nucleare. Al posto dell’uranio, qui preferiscono il cromo esavalente. Per vent’anni, una pestilenziale ditta di cromature ha scaricato in pieno centro residenziale quintalate di questo inquinante che definire un potente cancerogeno è fargli un complimento. Per vent’anni, la ditta Tricom, poi Galvanica Pm, ha avvelenato le falda acquifere di Tezze ammazzando lentamente i residenti che perdevano i capelli e si ustionavano la pelle solo a farsi la doccia. Per vent’anni, la Galvanica ha assassinato i suoi operai costringendoli a lavorare a contatto diretto col cromo. Secondo il Pm, i morti accertati tra i dipendenti sono stati, sino ad oggi, ben 17. Tutti e 17 migranti extracomunitari che, tra l’altro, lavoravano in condizioni di precarietà e senza tutele sindacali. Per quel che può servire la tutela del sindacato a uno che sa che dopo un anno di lavoro gli viene il cancro.
Ma a parte una eredità di milioni di euro di bonifiche tutte da fare, che la Regione Veneto continua a rimpallarsi da una finanziaria all’altra, Tezze ci ha regalato anche una delle poche condanne per reati ambientali affibbiate nel nostro Paese, notoriamente indulgente e comprensivo con chi inquina.
Nel 2006, il tribunale ha affibbiato a Paolo Zampierin, titolare della ditta assassina, due anni e sei mesi ma imputandogli solo il reato di avvelenamento della falda. Va anche detto che la galera, il suddetto imprenditore, l’ha solo vista da lontano, grazie all’indulto. Tutto qua. E i 17 operai morti avvelenati? E tutta la gente che abitava nelle vicinanze della galvanica che si è ammalata di tumore? Non si sono arresi, i comitati contro l’avvelenamento da cromo di Tezze che hanno continuato a lottare perché anche alle vittime venisse resa giustizia. Non si è arresa chi questi comitati li ha costituiti: la signora Gabriella Bragagnolo, infermiera in pensione, vittima anch’essa dell’avvelenamento da cromo. I giornali locali, con poca fantasia, l’hanno ribattezzata la Erin Brockovich italiana dipingendola spesso come una macchietta di colore locale. Ma in tutti questi anni, la Bragagnolo non ha mai smesso di lottare fino a che, è notizia di questi giorni, il sostituto procuratore Giovanni Parolin ha rinviato a giudizio – e stavolta per omicidio colposo – lo Zampierin e altri tre responsabili della Galvanica. Una lotta dura, quella della signora Bragagnolo, e non solo contro il plotone di avvocati e di politici schierati dagli inquinatori. “Oggi mi trovo conti di migliaia di euro da pagare tra avvocati, spese processuali, periti e laboratori chimici – spiega –. Sono ammalata e debbo continuare a vivere in una strada che non si sa se e quando sarà bonificata. E non posso neppure vendere la casa perché la zona è stata dichiarata inquinata. In Comune, invece di aiutare e difendere me e gli altri residenti, mi hanno sempre osteggiata e mi considerano come la matta che non ha voluto stare zitta e ha spiattellato ai giornali gli affari del paese. Quasi fosse colpa mia. Quasi fossi io che ho inquinato e che ho fatto chiudere quella ditta di onesti imprenditori che dava lavoro a tutti!»
Destini sospesi
23/01/2010Terra
“Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino ma promettimi, o dio, che non lascerai che finisca la primavera”. Così Zaher Rezai scriveva nel suo taccuino, al buio, nascosto dentro una cella frigorifera nel grande ventre di quella nave che da Patrasso lo portava a Venezia. “Giardiniere apri la porta del tuo giardino. Io non sono un ladro di fiori. Io stesso mi sono fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi”. Lontano dalla guerra in Afghanistan e da quelli che i generali chiamano i suoi effetti collaterali. Lontano dalla fame, dalla miseria con solo quindici anni di vita alle spalle. “Questo mio corpo così assetato forse non arriverà all’acqua del mare”. Era solo un ragazzino, Zaher Rezai, quando è finito stritolato sotto le ruote di un camion, nella banchina del porto.
Cercava di eludere i controlli della polizia doganale. Quella polizia che, lui lo sapeva bene, lo avrebbe rimandato a Patrasso invece di aiutarlo e di dargli quell’assistenza umanitaria cui lui aveva due volte diritto: come profugo e come minorenne. “E se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo, chi si occuperà della mia sepoltura? Chi cucirà il mio sudario?”
Le poesie di Zaher oggi sono diventate un libro: ”Il porto dei destini sospesi” che raccoglie anche tutto il seminato della rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti cui va il merito di aver sollevato davanti ad una opinione pubblica che non vedeva o non voleva vedere, il caso dei profughi provenienti dai paesi in guerra. Profughi che rientrano a pieno titolo nella definizione di Rifugiato sancita dalla convenzione di Ginevra ma che continuano ad essere respinti - illegalmente respinti – dai porti di Venezia e di Ancona. Sono tanti come Zaher. Tanti che come lui ci hanno lasciato la pelle, oltre che la dignità, in un viaggio infernale che dura in media due o tre anni. Afghanistan, Pakistan, Turchia, Grecia e poi, nascosti nelle stive di qualche grande nave da carico, Venezia e l’Europa. Un lungo rosario di violenze, privazione e sopraffazioni. Due anni per poi venire rispediti da qualche solerte doganiere a Patrasso, in un campo profughi che pare un lager nazista, e da là ancora indietro, sino a riconsegnarti alle autorità del tuo paese natale che non ti perdoneranno di essere scappato. Indietro verso un futuro di galera, tortura, morte.
Uno scrittore di cui, mi perdonerete, ho scordato il nome, ha osservato che al giorno d’oggi non ci sono più viaggiatori ma solo turisti. Si sbagliava. Eccoli qua i veri viaggiatori del mondo globalizzato.
Il libro realizzato a più mani dagli attivisti della rete contiene, oltre alle poesie trovate nel taccuino, un fumetto di Claudio Calia, che ha raccontato con il suo stile secco ed essenziale, la storia di Zaher. La prefazione è di Gianfranco Bettin. L’introduzione dell’assessora verde alla Pace del Comune, Luana Zanella, che è riuscita nella non facile impresa di finanziare la stampa del volume. L’intero ricavato infatti, andrà a coprire le iniziative della rete, tra le quali, non dimentichiamolo, il ricorso al tribunale europeo, dichiarato “ammissibile” dalla corte, e che vedrà l’Italia e la Grecia nel banco degli imputati per violazione dei diritti umani. “Il porto dei destini sospesi” raccoglie anche le corrispondenze da Patrasso scritte da Alessandra Sciurba per Melting Pot quando, assieme ad altri attivisti per i diritti umani, ha raggiunto la città greca per documentare con foto, filmati ed interviste le condizioni vergognose in cui sono trattenuti i profughi in attesa del rimpatrio forzato. Il libro, la cui copertina è stata realizzata dall’artista veneziano Luigi Gardenal, è stato scritto con il preciso intento di descrivere la situazione di illegalità diventata legge grazie alle omertà, alle deresponsabilizzazioni, all’arbitrarietà e al menefreghismo che imperano in quella sorta di limbo giuridico che è diventato la frontiera portuale italiana. E’ un libro che scandalizza questo. Un libro che ci fa provare la vergogna di vivere tranquilli da “questa” parte della frontiera. Che ci mette davanti gli occhi mucchi di brutte cose che non vorremmo vedere. Cose che non dovrebbero esistere perché non hanno neppure una giustificazione utilitarista e il male fatto senza scopo è ancora più cattivo.
Il porto dei destini sospesi sarà presentato questa mattina alle ore 11 nella cornice di tutto rispetto dell’Ateneo Veneto, a due passi dal teatro La Fenice di Venezia. Oltre ai già citati Luana Zanella, Gianfranco Bettin e Luigi Gardenal, sarà presente, come ospite d’onore, lo scrittore Moni Ovadia. Ci saranno che gli attivisti della rete che, tra tante difficoltà, hanno voluto realizzare questo volume per dar voce a chi voce non ha e raccontare la storia di Zaher e degli altri profughi afghani. Raccontare la storia di queste dolorose e profonde ingiustizie perché altri non abbiano a patirle ancora. Sono loro, quelli che si sono occupati della sepoltura di Zaher. Sono loro che hanno cucito il suo rosario.
Una Idea per il Veneto
16/01/2010TerraIl nome pare pensato apposta per la gioia dei titolisti dei quotidiani, che potranno sbizzarrirsi tra “Che bella Idea” oppure “Una Idea vincente”. Per tacere della famosa canzone di Patty Bravo “Che pazza Idea”. L’acronimo, o più esattamente l’acrostico, sta per Italia Democratica Etica Ambientalista. Ecco qua la nuova Idea per l’Italia. Una Idea che non a caso nasce nel Veneto. Regione tradizionalmente in mano al centrodestra ma ricchissima di associazioni, volontariato, movimenti, comitati, negozi equosolidali, gruppi di acquisto... insomma tutto quel variegato arcipelago ambientalista e sociale al quale questa nuova Idea di politica vuol dare voce.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.
Regione a rischio
16/01/2010TerraQualche giorno di piogge, intense ma tutt’altro che eccezionali, abbattutesi in questi giorni nella pianura e nelle montagne venete sono stati sufficienti per mobilitare la protezione civile e a portare molti Comuni sull’orlo dell’emergenza ambientale. I sempre più rapidi mutamenti del clima fanno intendere che la situazione nell’immediato futuro non migliorerà di sicuro. Di fronte a queste prospettive l’unica cosa certa è che la Regione Veneto e le amministrazioni locali non soltanto sono assolutamente impreparate ad affrontare una possibile situazione di emergenza ma difettano radicalmente di una politica capace di prevedere e pianificare interventi di contenimento dei rischi.
Una recente ricerca di Legambiente e della Protezione Civile, condotta tramite un questionario denominato “Ecosist
ema rischio” diffuso tra gli enti locali, ha portato alla luce una situazione che dovrebbe far riflettere qualsiasi amministratore, tanto di destra quanto di sinistra. Nel 79 per cento dei Comuni italiani sono presenti abitazioni in aree esposte al pericolo di frane e alluvioni, nel 28 per cento dei casi sono presenti in tali aree interi quartieri e nel 54 per cento fabbricati e insediamenti industriali. Nel 20 per cento dei Comuni inoltre, strutture ricettive turistiche sono all’interno di aree classificate a rischio idrogeologico. Da sottolineare che molte amministrazioni hanno candidamente dichiarato di “non avere strutture in aree a rischio” per il semplice motivo di non aver mai attivato qualsivoglia politica di prevenzione e catalogazione dei rischi. Come dire: occhio non vede, cuore non duole.
“Eppure, a fronte di una totale assenza di interventi preventivi per la mitigazione del rischio, assistiamo ogni volta alla corsa ai finanziamenti straordinari per calamità naturale – ha dichiarato Michele Bertucco presidente di Legambiente Veneto – per dimenticarsi subito dopo i buoni propositi e ricadere nei vecchi vizi. Si torna, quindi, a richieste assolutamente controproducenti, come la deperimetrazione di qualche porzione di area a rischio idraulico per riuscire a concedere nuove costruzioni o a proposte prive di conoscenze tecniche come quelle di sindaci che chiedono l’escavazione di inerti. Un’operazione, questa, non solo vietata per legge, ma con l’unico risultato di aggravare la situazione, minando le fondamenta dei ponti e aumentando l’instabilità degli argini”. Legambiente Veneto ha pubblicamente chiesto agli enti locali, a partire dai Comuni, di creare un’alleanza che coinvolga tutti gli attori in gioco, lo Stato, la Regione, le Autorità di bacino, ma anche le associazioni, per programmare per tempo gli interventi di prevenzione e difesa da frane e esondazioni. “La vera emergenza ha concluso Bertucco - è il superamento della cultura degli interventi post-disastri. Gli enti gestori del territorio devono fare un generale ‘mea culpa’ e cominciare ad impostare una gestione organica e sistemica del suolo in tutti i suoi aspetti, urbanistici, ambientali, sociali. E’ questa la vera grande opera pubblica da chiedere al Governo, al posto di dannosi e inutili miraggi come il ponte sullo stretto di Messina”.
Una recente ricerca di Legambiente e della Protezione Civile, condotta tramite un questionario denominato “Ecosist
ema rischio” diffuso tra gli enti locali, ha portato alla luce una situazione che dovrebbe far riflettere qualsiasi amministratore, tanto di destra quanto di sinistra. Nel 79 per cento dei Comuni italiani sono presenti abitazioni in aree esposte al pericolo di frane e alluvioni, nel 28 per cento dei casi sono presenti in tali aree interi quartieri e nel 54 per cento fabbricati e insediamenti industriali. Nel 20 per cento dei Comuni inoltre, strutture ricettive turistiche sono all’interno di aree classificate a rischio idrogeologico. Da sottolineare che molte amministrazioni hanno candidamente dichiarato di “non avere strutture in aree a rischio” per il semplice motivo di non aver mai attivato qualsivoglia politica di prevenzione e catalogazione dei rischi. Come dire: occhio non vede, cuore non duole.
“Eppure, a fronte di una totale assenza di interventi preventivi per la mitigazione del rischio, assistiamo ogni volta alla corsa ai finanziamenti straordinari per calamità naturale – ha dichiarato Michele Bertucco presidente di Legambiente Veneto – per dimenticarsi subito dopo i buoni propositi e ricadere nei vecchi vizi. Si torna, quindi, a richieste assolutamente controproducenti, come la deperimetrazione di qualche porzione di area a rischio idraulico per riuscire a concedere nuove costruzioni o a proposte prive di conoscenze tecniche come quelle di sindaci che chiedono l’escavazione di inerti. Un’operazione, questa, non solo vietata per legge, ma con l’unico risultato di aggravare la situazione, minando le fondamenta dei ponti e aumentando l’instabilità degli argini”. Legambiente Veneto ha pubblicamente chiesto agli enti locali, a partire dai Comuni, di creare un’alleanza che coinvolga tutti gli attori in gioco, lo Stato, la Regione, le Autorità di bacino, ma anche le associazioni, per programmare per tempo gli interventi di prevenzione e difesa da frane e esondazioni. “La vera emergenza ha concluso Bertucco - è il superamento della cultura degli interventi post-disastri. Gli enti gestori del territorio devono fare un generale ‘mea culpa’ e cominciare ad impostare una gestione organica e sistemica del suolo in tutti i suoi aspetti, urbanistici, ambientali, sociali. E’ questa la vera grande opera pubblica da chiedere al Governo, al posto di dannosi e inutili miraggi come il ponte sullo stretto di Messina”.
Progetto oasi al Cavallino
16/01/2010TerraCi sono progetti che nascono dall’alto. Sono sempre progetti costosissimi, quasi sempre imposti alle amministrazioni locali e comunque sempre malvisti dalla cittadinanza. Sono calati da un governo centrale per ragioni che stanno “oltre” i reali bisogni dei residenti. Favoriscono cordate di amici di amici cui riempiono le tasche private con denaro pubblico. Sono sempre progetti fortemente impattanti, se non addirittura devastanti per il territorio, e totalmente slegati dalla cultura e dalla tradizione locale. Come se non bastasse, sono progetti immancabilmente inutili se non addirittura controproducenti rispetto allo scopo di intervento prefissato.
Poi ci sono i progetti che vengono dal basso. Progetti amorevolmente elaborati da associazioni e comitati cittadini. Progetti a basso costo, sempre sostenibili, rispettosi delle specifiche del territorio di cui recuperano tradizioni culturali e di rapporto con l’ambiente.
Il progetto Oasi fa indiscutibilmente parte di questa seconda categoria.
Siamo nel Comune di Cavallino Treporti; una sorta di penisola tra il mare Adriatico a est e la laguna di Venezia a ovest. Il progetto Oasi nasce nel lungomare San Felice, sulle sponde della bocca più settentrionale della laguna veneziana, punta Sabbioni. Un nome che, un tempo, suonava come un avvertimento per i marinai che rischiavano di perdere l’imbarcazione tra le grandi secche di sabbia in continuo movimento. Tempi in cui la laguna era ancora viva e respirava seguendo i ritmi delle maree. Oggi il Mose sta trasformando Punta Sabbioni in un braccio di mare aperto e le “barene” stanno morendo. Ma all’interno del lungomare di San Felice è ancora possibile riscoprire tutta quelle vegetazione e quella fauna tipiche di quell’equilibratissimo ecosistema formatosi a cavallo tra acqua dolce e acqua salata che era la peculiarità dell’ambiente lagunare veneto.
L’area è demaniale con, all’interno, una struttura abitativa di proprietà del Consorzio Basso Piave. Una casupola semidiroccata, da decenni abbandonata all’incuria. E’ qui che nasce il progetto Oasi: trasformare questa struttura e l’habitat che la circonda in un'area ambientale protetta che possa fungere da punto di partenza per escursioni, avvistamenti, di incontro per le associazioni impegnate a difendere l’ambiente lagunare.
Un aspetto importante è che l’oasi confina con i contorni di quel parco della laguna disegnati dal Comune di Venezia che gli ambientalisti continuano ad invocare ma che si scontra con gli interessi cementificatori della maggioranza di centrodestra che governa la Regione Veneto che ha sempre opposto un netto rifiuto a qualsiasi ipotesi di tutela ambientale della laguna più famosa del mondo. L’oasi del Cavallino potrebbe costituire un trampolino anche per il parco lagunare, dimostrando che anche un progetto costruito dal basso, oltre che preservare l’ambiente, può rivelarsi un efficace volano per una economia sostenibile.
L’idea nasce da tre associazioni locali - Verdelitorale, Gaia onlus, Un Mondo di Gente – che hanno lanciato una petizione popolare già sottoscritta da numerosi cittadini per chiedere al sindaco di Cavallino di dare il via al progetto, peraltro già deliberato dal consiglio comunale nell’agosto del 2009. “Anche il consorzio di bonifica ha già dato un parere favorevole al nostro progetto di costruire un’Oasi – spiega Gianluigi Bergamo di Vedelitorale, promotore dell’iniziativa – Attendiamo adesso che si pronunci il demanio. Sappiamo che l’area, che pur è di alto pregio naturalistico, è inutilizzata e abbandonata a se stessa. Ci auguriamo che dimostrino la sensibilità necessaria a permetterci di recuperarla”. Dare nuovo impulso alla raccolta di firme e far pressione sugli enti preposti alla gestione dell’area, è il senso dell agioranta di mobilitazione popolare e di presentazione del progetto Oasi che si svolgerà oggi alle ore 10, nella sala Airone di via Concordia a Ca’ Savio. Interverranno il sindaco di Cavallino Treporti Erminio Vanin, il redattore del progetto Oasi Marco Favaro, Walter Mescalchin dell’associazione Libera, Enrico Trevisiol di Banca Etica, don Enrico Torta dell’associazione Gaia, Giovanni Quagliati, responsabile Basi scout Agesci. “Le oasi sono tra gli ultimi lembi di territorio del nostro paese dove ancora si può entrare in contatto con la bellezza di una natura incontaminata – spiega Bergamo -. Sono aree indispensabili per tutelare campioni di ecosistemi rari e minacciati e habitat di specie in via di estinzione oltre che per l’osservazione e lo studio della natura circostante”. Informazioni sul progetto sono reperibili sul sito di www.verdinrete.it/verdelitorale dove è anche possibile firmare on line la petizione.
Da non sottovalutare anche l’aspetto educativo culturale del progetto. Ce ne parla Aldo Rossetti di Gaia: “Tutelare l’ambiente del litorale, come si è detto, è il principale obiettivo del progetto. Ma ci preme sottolineare anche la nostra volontà di costruire iniziative che abbiano come soggetti i giovani, in particolare. Sono numerose le attività che potremmo svolgere nell’Oasi; dalle escursioni guidate a scopo ludico e didattico, sino ad incontri informativi, con proiezioni di film, audiovisivi e vere e proprie lezioni teoriche condotte da docenti specializzati. Ma stiamo pensando anche a campi scuola estivi per scolaresche, scout o ragazzi appartenenti ad associazioni ambientaliste. L’Oasi del cavallino potrebbe diventare un efficace punto di diffusione della cultura ambientalista. Perché la natura. lo sappiamo bene, è sempre la migliore delle scuole”.
Poi ci sono i progetti che vengono dal basso. Progetti amorevolmente elaborati da associazioni e comitati cittadini. Progetti a basso costo, sempre sostenibili, rispettosi delle specifiche del territorio di cui recuperano tradizioni culturali e di rapporto con l’ambiente.
Il progetto Oasi fa indiscutibilmente parte di questa seconda categoria.
Siamo nel Comune di Cavallino Treporti; una sorta di penisola tra il mare Adriatico a est e la laguna di Venezia a ovest. Il progetto Oasi nasce nel lungomare San Felice, sulle sponde della bocca più settentrionale della laguna veneziana, punta Sabbioni. Un nome che, un tempo, suonava come un avvertimento per i marinai che rischiavano di perdere l’imbarcazione tra le grandi secche di sabbia in continuo movimento. Tempi in cui la laguna era ancora viva e respirava seguendo i ritmi delle maree. Oggi il Mose sta trasformando Punta Sabbioni in un braccio di mare aperto e le “barene” stanno morendo. Ma all’interno del lungomare di San Felice è ancora possibile riscoprire tutta quelle vegetazione e quella fauna tipiche di quell’equilibratissimo ecosistema formatosi a cavallo tra acqua dolce e acqua salata che era la peculiarità dell’ambiente lagunare veneto.
L’area è demaniale con, all’interno, una struttura abitativa di proprietà del Consorzio Basso Piave. Una casupola semidiroccata, da decenni abbandonata all’incuria. E’ qui che nasce il progetto Oasi: trasformare questa struttura e l’habitat che la circonda in un'area ambientale protetta che possa fungere da punto di partenza per escursioni, avvistamenti, di incontro per le associazioni impegnate a difendere l’ambiente lagunare.
Un aspetto importante è che l’oasi confina con i contorni di quel parco della laguna disegnati dal Comune di Venezia che gli ambientalisti continuano ad invocare ma che si scontra con gli interessi cementificatori della maggioranza di centrodestra che governa la Regione Veneto che ha sempre opposto un netto rifiuto a qualsiasi ipotesi di tutela ambientale della laguna più famosa del mondo. L’oasi del Cavallino potrebbe costituire un trampolino anche per il parco lagunare, dimostrando che anche un progetto costruito dal basso, oltre che preservare l’ambiente, può rivelarsi un efficace volano per una economia sostenibile.
L’idea nasce da tre associazioni locali - Verdelitorale, Gaia onlus, Un Mondo di Gente – che hanno lanciato una petizione popolare già sottoscritta da numerosi cittadini per chiedere al sindaco di Cavallino di dare il via al progetto, peraltro già deliberato dal consiglio comunale nell’agosto del 2009. “Anche il consorzio di bonifica ha già dato un parere favorevole al nostro progetto di costruire un’Oasi – spiega Gianluigi Bergamo di Vedelitorale, promotore dell’iniziativa – Attendiamo adesso che si pronunci il demanio. Sappiamo che l’area, che pur è di alto pregio naturalistico, è inutilizzata e abbandonata a se stessa. Ci auguriamo che dimostrino la sensibilità necessaria a permetterci di recuperarla”. Dare nuovo impulso alla raccolta di firme e far pressione sugli enti preposti alla gestione dell’area, è il senso dell agioranta di mobilitazione popolare e di presentazione del progetto Oasi che si svolgerà oggi alle ore 10, nella sala Airone di via Concordia a Ca’ Savio. Interverranno il sindaco di Cavallino Treporti Erminio Vanin, il redattore del progetto Oasi Marco Favaro, Walter Mescalchin dell’associazione Libera, Enrico Trevisiol di Banca Etica, don Enrico Torta dell’associazione Gaia, Giovanni Quagliati, responsabile Basi scout Agesci. “Le oasi sono tra gli ultimi lembi di territorio del nostro paese dove ancora si può entrare in contatto con la bellezza di una natura incontaminata – spiega Bergamo -. Sono aree indispensabili per tutelare campioni di ecosistemi rari e minacciati e habitat di specie in via di estinzione oltre che per l’osservazione e lo studio della natura circostante”. Informazioni sul progetto sono reperibili sul sito di www.verdinrete.it/verdelitorale dove è anche possibile firmare on line la petizione.
Da non sottovalutare anche l’aspetto educativo culturale del progetto. Ce ne parla Aldo Rossetti di Gaia: “Tutelare l’ambiente del litorale, come si è detto, è il principale obiettivo del progetto. Ma ci preme sottolineare anche la nostra volontà di costruire iniziative che abbiano come soggetti i giovani, in particolare. Sono numerose le attività che potremmo svolgere nell’Oasi; dalle escursioni guidate a scopo ludico e didattico, sino ad incontri informativi, con proiezioni di film, audiovisivi e vere e proprie lezioni teoriche condotte da docenti specializzati. Ma stiamo pensando anche a campi scuola estivi per scolaresche, scout o ragazzi appartenenti ad associazioni ambientaliste. L’Oasi del cavallino potrebbe diventare un efficace punto di diffusione della cultura ambientalista. Perché la natura. lo sappiamo bene, è sempre la migliore delle scuole”.
Brutto clima attorno al Mose
9/01/2010TerraTutti assolti, fatta eccezione per Luca Casarini, gli attivisti del No Mose che nel settembre del 2005 avevano occupato i cantieri di San Nicolò, al Lido di Venezia. “La sentenza del tribunale ha fatto crollare tutto un impianto accusatorio costruito ad arte per criminalizzare chi si oppone alla realizzazione di questo ecomostro – spiega Luciano Mazzolin, portavoce dell’assemblea No Mose - Sono cadute tutte le imputazioni assurde come quella di ‘sabotaggio’, neanche fosse stata una azione di guerra, per la quale la Regione Veneto ci aveva chiesto 100 mila euro di danni.
Spiace solo la condanna a 3 mesi e 4 mila euro a Luca, condannato per minacce a Galan soltanto per aver risposto alle provocazioni del presidente della giunta regionale. Faremo comunque regolare ricorso”. La sentenza emessa dal tribunale giovedì scorso cade in un momento in cui tanto gli studi scientifici quanto lo stesso mare Adriatico sta confermando le previsioni degli ambientalisti. Il documento tecnico della società Principia ha sollevato seri dubbi sulla funzionalità del sistema di chiusura dei portelloni in certe condizioni atmosferiche. Inoltre, recenti studi del Cnr hanno dimostrato come il sistema Mose è inefficace nel difendere la laguna nell'ipotesi che i livelli del mare si inalzino nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici. Una sentenza della Corte dei Conti inoltre ha evidenziato tutte le anomalie e lacune emerse in relazione al progetto ed a tutte le attività che vi gravitano intorno. “Il Mose è figlio di un regime di monopolio che dura da oltre vent’anni contrario a tutte le normative europee e nazionali; costi lievitati a dismisure, incarichi, consulenze e collaudi affidati con scarsa trasparenza, progetti e lavori senza Valutazione d’impatto ambientale positiva, mancanza di un progetto esecutivo generale – spiega Luciano Mazzolin –. E questi signori hanno avuto la faccia tosta di denunciare noi per danni!” Solo i danni prodotti per il solo cantiere S. Maria del Mare sono stati quantificati da esperti del Comune di Venezia in cento milioni di euro! Chi li pagherà? Gli ambientalisti No Mose chiedono alla magistratura di avviare un procedimento ad ampio spettro sia sulle abnormi lievitazioni dei costi sia sulle moltissime irregolarità che si ravvedono in tutta la vicenda senza farsi condizionare dalla potentissima lobby di aziende ed imprese del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dell’opera, che hanno messo le mani sui fondi della Legge Speciale e che stanno fagocitando 4,2 miliardi di euro per costruire un'opera vecchia, inutile e dannosa non solo per gli attuali delicati equilibri idrogeologici lagunari, ma anche alla luce delle variazioni climatiche che si prospettano per i prossimi decenni. Intanto, con i lavori di scavo alle bocche di porto che continuano, Venezia va sempre più a fondo. Anche oggi un metro e dieci di marea. Un metro e dieci ieri e un metro e dieci pure l’altro ieri. Domani le previsioni parlano di un metro e quaranta. Neanche gli stivali saranno sufficienti per uscire. La gente comincia a domandarsi cosa succederebbe se il Mose fosse già operativo. Le paratoie blindate sarebbero state alzate per un mese consecutivo trasformando in uno stagno quella che era la laguna dei dogi e paralizzando l’attività del porto? Ci si domanda che ne sarà allora di quel delicatissimo ecosistema lagunare creatosi pazientemente nel corso degli ultimi millenni, e che respirava ogni sei ore seguendo i ritmi della luna e del mare.
Spiace solo la condanna a 3 mesi e 4 mila euro a Luca, condannato per minacce a Galan soltanto per aver risposto alle provocazioni del presidente della giunta regionale. Faremo comunque regolare ricorso”. La sentenza emessa dal tribunale giovedì scorso cade in un momento in cui tanto gli studi scientifici quanto lo stesso mare Adriatico sta confermando le previsioni degli ambientalisti. Il documento tecnico della società Principia ha sollevato seri dubbi sulla funzionalità del sistema di chiusura dei portelloni in certe condizioni atmosferiche. Inoltre, recenti studi del Cnr hanno dimostrato come il sistema Mose è inefficace nel difendere la laguna nell'ipotesi che i livelli del mare si inalzino nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici. Una sentenza della Corte dei Conti inoltre ha evidenziato tutte le anomalie e lacune emerse in relazione al progetto ed a tutte le attività che vi gravitano intorno. “Il Mose è figlio di un regime di monopolio che dura da oltre vent’anni contrario a tutte le normative europee e nazionali; costi lievitati a dismisure, incarichi, consulenze e collaudi affidati con scarsa trasparenza, progetti e lavori senza Valutazione d’impatto ambientale positiva, mancanza di un progetto esecutivo generale – spiega Luciano Mazzolin –. E questi signori hanno avuto la faccia tosta di denunciare noi per danni!” Solo i danni prodotti per il solo cantiere S. Maria del Mare sono stati quantificati da esperti del Comune di Venezia in cento milioni di euro! Chi li pagherà? Gli ambientalisti No Mose chiedono alla magistratura di avviare un procedimento ad ampio spettro sia sulle abnormi lievitazioni dei costi sia sulle moltissime irregolarità che si ravvedono in tutta la vicenda senza farsi condizionare dalla potentissima lobby di aziende ed imprese del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dell’opera, che hanno messo le mani sui fondi della Legge Speciale e che stanno fagocitando 4,2 miliardi di euro per costruire un'opera vecchia, inutile e dannosa non solo per gli attuali delicati equilibri idrogeologici lagunari, ma anche alla luce delle variazioni climatiche che si prospettano per i prossimi decenni. Intanto, con i lavori di scavo alle bocche di porto che continuano, Venezia va sempre più a fondo. Anche oggi un metro e dieci di marea. Un metro e dieci ieri e un metro e dieci pure l’altro ieri. Domani le previsioni parlano di un metro e quaranta. Neanche gli stivali saranno sufficienti per uscire. La gente comincia a domandarsi cosa succederebbe se il Mose fosse già operativo. Le paratoie blindate sarebbero state alzate per un mese consecutivo trasformando in uno stagno quella che era la laguna dei dogi e paralizzando l’attività del porto? Ci si domanda che ne sarà allora di quel delicatissimo ecosistema lagunare creatosi pazientemente nel corso degli ultimi millenni, e che respirava ogni sei ore seguendo i ritmi della luna e del mare.
A Treviso la cava più profonda
9/01/2010TerraEsattamente un anno fa, i comitati contro le cave nella marca trevigiana organizzarono una protesta davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto. In quell’occasione, i portavoce dei manifestanti consegnarono ad ogni consigliere regionale impegnato a votare la finanziaria, un piccolo scrigno di legno. Il cofanetto era riempito di sassi. In una targhetta si leggeva “Chiediamo che questa sia l’ultima ghiaia estratta nel nostro territorio”.
La protesta, per quanto originale, non ha ottenuto lo scopo prefissato. Un anno dopo, siamo ancora qua a scrivere di cave, progetti di nuove cave e di ampliamenti di cave già esistenti. E ogni volta tocca usare superlativi ed iperboli. Poco eleganti dal punto di vista dello stile e che rischiano pure di perdere efficacia nella loro continua ripetizione. Ma che altro potremmo scrivere della “cava più profonda d’Italia”? Ben 65 metri sotto il piano della campagna per un estratto di oltre 8 milioni e 800 mila metri cubi. Se preferite un esempio più visivo, pensate ad una voragine che potrebbe contenere un grattacielo di 23 piani scavata su una estensione pari a quella dell’aeroporto di Venezia. La colossale cava, giustificata come il solito “ampliamento” di una cava già esistente, in questo caso la Morganella, dovrebbe sorgere a cavallo tra i Comuni di Paese e Ponzano, entrambi in provincia di Treviso. Anche in questo caso, l’iter autorizzativo è tutt’altro che originale. Le ditte Biasuzzi Cave Spa, Calcestruzzi Spa e Superbeton Spa presentano un progetto al Via. I comitati si mettono in agitazione e fanno pressione sui rispettivi Comuni. Sindaci e assessori, maggioranza e opposizione tuonano contro lo scempio del territorio e promettono battaglia. Un fervore che dura poco: chi conta in Regione Veneto sta dalla parte dei cavatori e i Comuni non possono che chinare la testa e approvare una decisone che già presa da altri. Così vanno le cose nella marca trevigiana che dal monocolore democristiano è saltata in toto sul Carroccio leghista. Per gli assessori regionali “lumbard” non è gran fatica rimetter in riga i loro amministratori locali su una battaglia che, si capisce, è già persa in partenza. E così dopo l’iniziale fuoco e fiamme, il sindaco di Ponzano, Giorgio Granello, attende la vigilia di Natale per convocare un consiglio il 31 dicembre e far ingoiare l’ampliamento, con conseguente stupro del territorio, ai suoi concittadini ed elettori assieme al panettone delle feste. Il sindaco di Paese, Francesco Pietrobon, che pure si era impegnato a contrastare il progetto della Morganella chiedendo ufficialmente al Via una inchiesta pubblica alla quale potessero partecipare tutti i cittadini di Paese, qualche giorno dopo la richiesta spedisce una disdetta. Scusate, abbiamo scherzato. I comitati lo vengono a sapere dalla segreteria della commissione che, il giorno della convocazione, non è neppure il caso di comperare tutti quei biglietti per Venezia. Con una Regione così e due Comuni colà, ai cittadini di Paese e di Ponzano non è rimasta che la soddisfazione di intasare di mail di protesta i server dei loro amministratori.
La protesta, per quanto originale, non ha ottenuto lo scopo prefissato. Un anno dopo, siamo ancora qua a scrivere di cave, progetti di nuove cave e di ampliamenti di cave già esistenti. E ogni volta tocca usare superlativi ed iperboli. Poco eleganti dal punto di vista dello stile e che rischiano pure di perdere efficacia nella loro continua ripetizione. Ma che altro potremmo scrivere della “cava più profonda d’Italia”? Ben 65 metri sotto il piano della campagna per un estratto di oltre 8 milioni e 800 mila metri cubi. Se preferite un esempio più visivo, pensate ad una voragine che potrebbe contenere un grattacielo di 23 piani scavata su una estensione pari a quella dell’aeroporto di Venezia. La colossale cava, giustificata come il solito “ampliamento” di una cava già esistente, in questo caso la Morganella, dovrebbe sorgere a cavallo tra i Comuni di Paese e Ponzano, entrambi in provincia di Treviso. Anche in questo caso, l’iter autorizzativo è tutt’altro che originale. Le ditte Biasuzzi Cave Spa, Calcestruzzi Spa e Superbeton Spa presentano un progetto al Via. I comitati si mettono in agitazione e fanno pressione sui rispettivi Comuni. Sindaci e assessori, maggioranza e opposizione tuonano contro lo scempio del territorio e promettono battaglia. Un fervore che dura poco: chi conta in Regione Veneto sta dalla parte dei cavatori e i Comuni non possono che chinare la testa e approvare una decisone che già presa da altri. Così vanno le cose nella marca trevigiana che dal monocolore democristiano è saltata in toto sul Carroccio leghista. Per gli assessori regionali “lumbard” non è gran fatica rimetter in riga i loro amministratori locali su una battaglia che, si capisce, è già persa in partenza. E così dopo l’iniziale fuoco e fiamme, il sindaco di Ponzano, Giorgio Granello, attende la vigilia di Natale per convocare un consiglio il 31 dicembre e far ingoiare l’ampliamento, con conseguente stupro del territorio, ai suoi concittadini ed elettori assieme al panettone delle feste. Il sindaco di Paese, Francesco Pietrobon, che pure si era impegnato a contrastare il progetto della Morganella chiedendo ufficialmente al Via una inchiesta pubblica alla quale potessero partecipare tutti i cittadini di Paese, qualche giorno dopo la richiesta spedisce una disdetta. Scusate, abbiamo scherzato. I comitati lo vengono a sapere dalla segreteria della commissione che, il giorno della convocazione, non è neppure il caso di comperare tutti quei biglietti per Venezia. Con una Regione così e due Comuni colà, ai cittadini di Paese e di Ponzano non è rimasta che la soddisfazione di intasare di mail di protesta i server dei loro amministratori.
La Regione che non ama la cultura
9/01/2010TerraNei corridoi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto, gira la barzelletta di un ex assessore alla cultura leghista che, interpellato da un collega spagnolo se il quadro appeso alla parete che ritraeva una regata in Canal Grande fosse un Canaletto, rispose: “No, no. Quello è il Canal Grande, non un canaletto!”. Vera o no che sia la storia (ma chi me l’ha raccontata giura di sì), che i “lumbard” e la cultura non siano amici per la pelle non lo scopriamo in questi giorni.
Per i loro colleghi di Forza Italia, attualmente la delega alla cultura spetta al presidente Galan, il discorso è ancora più semplice e lo sintetizza bene Davide Fiore, presidente veneto della società italiana per la Protezione dei beni culturali: “Cultura = pesante incombenza per le casse pubbliche”. La questione è che quando c’è da tagliare qualcosa, la scure del legislatore si abbatte sempre su questa voce. “Questi tagli sono un anacronismo storico – spiega Fiore – I nostri politici continuano a vedere nell’insieme ‘cultura’ (che comprende Beni Culturali, esposizioni e mostre, spettacoli dal vivo, valorizzazione del territorio e degli artisti), il contorno frivolo ed estetico di un sistema che si regge sul capannone industriale o sulle mega infrastrutture”. Nella finanziaria in discussione in consiglio regionale assistiamo all’ennesimo taglio delle risorse destinate a questo settore: 20 milioni di euro contro i 36 dello scorso anno. Tanto per fare un esempio, Toscana e Lombardia – pur in un contesto internazionale in cui l’Italia è il solito fanalino di coda dell’Europa – spendono ciascuna oltre 200 milioni all’anno. “Siamo all’elemosina – continua Davide Fiore -. Ed invece fondi per la ricerca in campo culturale, per difendere il paesaggio e restaurare e mantenere i Beni architettonici, oltre a invitare i Musei a rendersi più splendenti e contemporanei non è un vezzo, dovrebbe rappresentare un punto fisso intoccabile nella prima regione turistica d’Italia”. L’associazione per la Protezione dei beni culturali ha lanciato un appello contro i tagli che è stato sottoscritto da tre rettori universitari, artisti di fama internazionale, imprenditori e amministratori pubblici. “Anche attorno alle cose della cultura – si legge nell’appello -, quando queste siano poste nella condizione di operare nel rispetto di qualità e continuità della proposta e dell’offerta, si sviluppa sempre una consistente ricaduta economica, che arreca grandi benefici a tutti”. Ma non è solo la scarsezza di risorse, l’oggetto delle proteste. Un’altra questione è il “come” e il “dove” vengono distribuite le poche risorse a disposizione. Penalizzate le città “colpevoli” di avere una giunta di centrosinistra, Venezia in testa, grandi spazi a parate e paratone pseudo-storiche con sventoli di gonfaloni, iniziative di gruppi di estrema destra, feste di piazza dedicate a temi quantomeno discutibili, tipo “feste degli osei”, o iniziative da alcolisti come le varie “ombrelonghe”. Questo è il triste panorama dell’orizzonte culturale nel Veneto. In fondo, a che cosa serve la cultura? Magari a combattere quell’ignoranza con la quale le forze di governo alimentano il proprio consenso.
Per i loro colleghi di Forza Italia, attualmente la delega alla cultura spetta al presidente Galan, il discorso è ancora più semplice e lo sintetizza bene Davide Fiore, presidente veneto della società italiana per la Protezione dei beni culturali: “Cultura = pesante incombenza per le casse pubbliche”. La questione è che quando c’è da tagliare qualcosa, la scure del legislatore si abbatte sempre su questa voce. “Questi tagli sono un anacronismo storico – spiega Fiore – I nostri politici continuano a vedere nell’insieme ‘cultura’ (che comprende Beni Culturali, esposizioni e mostre, spettacoli dal vivo, valorizzazione del territorio e degli artisti), il contorno frivolo ed estetico di un sistema che si regge sul capannone industriale o sulle mega infrastrutture”. Nella finanziaria in discussione in consiglio regionale assistiamo all’ennesimo taglio delle risorse destinate a questo settore: 20 milioni di euro contro i 36 dello scorso anno. Tanto per fare un esempio, Toscana e Lombardia – pur in un contesto internazionale in cui l’Italia è il solito fanalino di coda dell’Europa – spendono ciascuna oltre 200 milioni all’anno. “Siamo all’elemosina – continua Davide Fiore -. Ed invece fondi per la ricerca in campo culturale, per difendere il paesaggio e restaurare e mantenere i Beni architettonici, oltre a invitare i Musei a rendersi più splendenti e contemporanei non è un vezzo, dovrebbe rappresentare un punto fisso intoccabile nella prima regione turistica d’Italia”. L’associazione per la Protezione dei beni culturali ha lanciato un appello contro i tagli che è stato sottoscritto da tre rettori universitari, artisti di fama internazionale, imprenditori e amministratori pubblici. “Anche attorno alle cose della cultura – si legge nell’appello -, quando queste siano poste nella condizione di operare nel rispetto di qualità e continuità della proposta e dell’offerta, si sviluppa sempre una consistente ricaduta economica, che arreca grandi benefici a tutti”. Ma non è solo la scarsezza di risorse, l’oggetto delle proteste. Un’altra questione è il “come” e il “dove” vengono distribuite le poche risorse a disposizione. Penalizzate le città “colpevoli” di avere una giunta di centrosinistra, Venezia in testa, grandi spazi a parate e paratone pseudo-storiche con sventoli di gonfaloni, iniziative di gruppi di estrema destra, feste di piazza dedicate a temi quantomeno discutibili, tipo “feste degli osei”, o iniziative da alcolisti come le varie “ombrelonghe”. Questo è il triste panorama dell’orizzonte culturale nel Veneto. In fondo, a che cosa serve la cultura? Magari a combattere quell’ignoranza con la quale le forze di governo alimentano il proprio consenso.
La voragine di Vedelago
9/01/2010TerraCinque milioni e mezzo di metri cubi di scavo su un perimetro di quasi 4 chilometri. Una mastodontica voragine, in un territorio già disastrato da decine di altre escavazioni, che la Regione vorrebbe far passare come “ampliamento della cava Baracche”. L’ennesimo progetto di “sviluppo economico” tutto finalizzato a trasformare ricchezza ambientale (che appartiene a tutti) in ricchezza privata (ad esclusivo beneficio delle tasche dei cavatori).
Vittima di questo concetto di capitalismo predatorio che nel Veneto di Galan è assunto a vangelo dell’economia, è ancora il paese di Vedelago, nel bel mezzo della marca trevigiana. Un paese che pure ha sacrificato agli interessi dei cavatori molto di più di quell’ottimistico 3 per cento di territorio previsto dalla legge regionale come tetto massimo. Contraria l’opposizione, contraria la giunta, contrari tutti i cittadini. Ma non basta a fermare i cavatori. Una lotta impari, la loro, contro i plotoni di avvocati e le frotte di “politici che contano” schierati dai re delle cave. Una lotta che viene immancabilmente seppellita da una delibera di Giunta che non di rado reca in calce date quantomeno sospettose come il 24 dicembre o il 15 agosto. Nei rari casi in cui associazioni e Comune riescano a tamponare un fronte – come quello dell’ampliamento della cava Cosecorba, fermato per ora da un ricorso al Tar- se ne apre subito un’altro ancora più devastante. Il mastodontico progetto di scavo alla Baracche, attualmente in esame al Via regionale, è stato presentato dalle ditte Telve Rigo e Superbeton. Il sito si trova a poca distanza da un’altra cava, la Vittoria, e prevede l’ampliamento dell’attuale scavo su ulteriori 500 mila metri quadri. Perché parliamo di “ampliamenti” e non di “nuove escavazioni” come sarebbe più corretto dal punto di vista del territorio? Perché la Regione Veneto non è ancora riuscita varare un Piano Cave che, per la sua impopolarità, è rimpallato da anni tra consiglio, giunta, uffici tecnici e commissioni. Una situazione che non spiace del tutto ai cavatori che, nell’attesa, chiedono e ottengono tutti gli “ampliamenti” che, a loro giudizio, sarebbero indispensabili a continuare l’attività produttiva sostenendo, non senza le loro ragioni, che non è colpa loro se la Regione non sa legiferare! Chi ne paga le spese è il territorio che, soprattutto nella marca trevigiana, somiglia sempre di più al classico formaggio coi buchi.
Vittima di questo concetto di capitalismo predatorio che nel Veneto di Galan è assunto a vangelo dell’economia, è ancora il paese di Vedelago, nel bel mezzo della marca trevigiana. Un paese che pure ha sacrificato agli interessi dei cavatori molto di più di quell’ottimistico 3 per cento di territorio previsto dalla legge regionale come tetto massimo. Contraria l’opposizione, contraria la giunta, contrari tutti i cittadini. Ma non basta a fermare i cavatori. Una lotta impari, la loro, contro i plotoni di avvocati e le frotte di “politici che contano” schierati dai re delle cave. Una lotta che viene immancabilmente seppellita da una delibera di Giunta che non di rado reca in calce date quantomeno sospettose come il 24 dicembre o il 15 agosto. Nei rari casi in cui associazioni e Comune riescano a tamponare un fronte – come quello dell’ampliamento della cava Cosecorba, fermato per ora da un ricorso al Tar- se ne apre subito un’altro ancora più devastante. Il mastodontico progetto di scavo alla Baracche, attualmente in esame al Via regionale, è stato presentato dalle ditte Telve Rigo e Superbeton. Il sito si trova a poca distanza da un’altra cava, la Vittoria, e prevede l’ampliamento dell’attuale scavo su ulteriori 500 mila metri quadri. Perché parliamo di “ampliamenti” e non di “nuove escavazioni” come sarebbe più corretto dal punto di vista del territorio? Perché la Regione Veneto non è ancora riuscita varare un Piano Cave che, per la sua impopolarità, è rimpallato da anni tra consiglio, giunta, uffici tecnici e commissioni. Una situazione che non spiace del tutto ai cavatori che, nell’attesa, chiedono e ottengono tutti gli “ampliamenti” che, a loro giudizio, sarebbero indispensabili a continuare l’attività produttiva sostenendo, non senza le loro ragioni, che non è colpa loro se la Regione non sa legiferare! Chi ne paga le spese è il territorio che, soprattutto nella marca trevigiana, somiglia sempre di più al classico formaggio coi buchi.
"Qui non si denuncia nessuno!"
2/01/2010TerraFuori della porta dell’ambulatorio c’è un cartello in stampatello maiuscolo: “Qui non si denuncia nessuno”. Sotto, tanto per chiarire, un altro cartello specifica: “Siamo medici e non spie”. Due fogli di carta scritti a mano per contrastare un bombardamento mediatico che avrebbe fatto la felicità di un ministro della propaganda del Ventennio nero. “Sono in pochi a saperlo, fuori dell’ambiente, ma noi medici non possiamo denunciare nessuno perché siamo vincolati dal segreto professionale né tanto meno chiedere i documenti perché non siamo carabinieri. Eppure non avete idea di quante persone, soprattutto donne, mi chiedono sottovoce, finita la loro visita, ‘Posso portarle una mia amica che sta male anche se non ha il permesso di soggiorno?’ Il fatto è che è stato dato tanto spazio alla presunte denuncie degli irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie. Poco o niente è stato scritto per spiegare che questa orripilante proposta è stata stracciata dal pacchetto sicurezza”.
Pervinca Rizzo è medico da tanti anni. Tanti da ricordare dei tempi in cui chi si avvicinava a questa professione lo faceva anche per questioni etiche. “Altrimenti facevo l’avvocata!” Chi scrive l’ha conosciuta in un villaggio del Chiapas mentre insegnava medicina ad un attento gruppetto di donne tutte col volto coperto dal “paliacate” zapatista. Quando non è nella selva Lacandona con le brigate mediche di Ya Basta, Pervinca Rizzo lavora nel suo studio a Strà. Sempre negli impervi sentieri del Chiapas “rebelde”, abbiamo conosciuto un’altra dottoressa veneta, Serena Marinello. Una generazione più giovane, Serena segue la specialità al reparto malattie infettive dell’ospedale di Padova. Anche qui, non si denuncia nessuno. “E vorrei vedere il contrario! Quando è stata fatta questa proposta tutti, ripeto tutti i medici e tutti gli ordini medici d’Italia si sono opposti sottolineando l’improponibilità di tale pratica. Magari non per motivi etici ma solo pratici. Era evidente che non avremmo potuto lavorare in queste condizioni. Si rischiava di innescare enormi problema di sanità pubblica riducendo le possibilità di accesso alle cure. Pensiamo, ad esempio, ad una malattia come la tubercolosi e ai focolai che potrebbero scoppiare in tutti i settori della società se gli ammalati non avessero accesso alle medicine. I micobatteri non infettano solo chi non ha il permesso di soggiorno in regola”. Eppure, anche se dai medici non sono mai partite denunce, il peso del cosiddetto “pacchetto sicurezza” si è fatto sentire ugualmente. Se un dottore è obbligato al segreto professionale, ciò non vale per il personale amministrativo e per i paramedici. E’ pur vero che i casi di denuncia perpetrati da solerti funzionari si contano nelle punta delle dita, ma la paura si è diffusa incontrollata. “In fondo è a questo che serviva il pacchetto sicurezza, giusto? – commenta amara Pervinca – A diffondere paura ed insicurezza tanto nei migranti che negli italiani ed innescare politiche di repressione sociale”. Il risultato è che gli accessi alle strutture pubbliche da parte dei migranti è diminuito del 40 per cento. Una situazione che favorisce l’emarginazione di settori sociali e lo sfruttamento dei lavoratori in nero che in caso di infortunio non si rivolgono più alle strutture sanitarie. Soprattutto, sono le donne a pagare la “politica della paura”. “Oramai ogni etnia si sta organizzando per conto suo – conclude Pervinca Rizzo -. Ognuna si cura ‘a casa sua’ come può e con i pochi mezzi a disposizione. Le donne, i bambini e le categorie più deboli sono i primi a pagare anche con la vita. In queste condizioni, fare il medico, per chiunque abbia un po’ di coscienza, sta diventando una professione umiliante. Arrivano da te persone bisognose di cure e di assistenze. Basterebbe così poco farle star meglio ed invece tu non sai dove mandarle o cosa prescriverle. Sono clandestini, magari lavorano in condizioni disumane e senza le minime garanzie sindacali, senza diritti… ma sono clandestini e devono restare nascosti. Te lo posso assicurare: ogni giorno è sempre più straziante”.
Pervinca Rizzo è medico da tanti anni. Tanti da ricordare dei tempi in cui chi si avvicinava a questa professione lo faceva anche per questioni etiche. “Altrimenti facevo l’avvocata!” Chi scrive l’ha conosciuta in un villaggio del Chiapas mentre insegnava medicina ad un attento gruppetto di donne tutte col volto coperto dal “paliacate” zapatista. Quando non è nella selva Lacandona con le brigate mediche di Ya Basta, Pervinca Rizzo lavora nel suo studio a Strà. Sempre negli impervi sentieri del Chiapas “rebelde”, abbiamo conosciuto un’altra dottoressa veneta, Serena Marinello. Una generazione più giovane, Serena segue la specialità al reparto malattie infettive dell’ospedale di Padova. Anche qui, non si denuncia nessuno. “E vorrei vedere il contrario! Quando è stata fatta questa proposta tutti, ripeto tutti i medici e tutti gli ordini medici d’Italia si sono opposti sottolineando l’improponibilità di tale pratica. Magari non per motivi etici ma solo pratici. Era evidente che non avremmo potuto lavorare in queste condizioni. Si rischiava di innescare enormi problema di sanità pubblica riducendo le possibilità di accesso alle cure. Pensiamo, ad esempio, ad una malattia come la tubercolosi e ai focolai che potrebbero scoppiare in tutti i settori della società se gli ammalati non avessero accesso alle medicine. I micobatteri non infettano solo chi non ha il permesso di soggiorno in regola”. Eppure, anche se dai medici non sono mai partite denunce, il peso del cosiddetto “pacchetto sicurezza” si è fatto sentire ugualmente. Se un dottore è obbligato al segreto professionale, ciò non vale per il personale amministrativo e per i paramedici. E’ pur vero che i casi di denuncia perpetrati da solerti funzionari si contano nelle punta delle dita, ma la paura si è diffusa incontrollata. “In fondo è a questo che serviva il pacchetto sicurezza, giusto? – commenta amara Pervinca – A diffondere paura ed insicurezza tanto nei migranti che negli italiani ed innescare politiche di repressione sociale”. Il risultato è che gli accessi alle strutture pubbliche da parte dei migranti è diminuito del 40 per cento. Una situazione che favorisce l’emarginazione di settori sociali e lo sfruttamento dei lavoratori in nero che in caso di infortunio non si rivolgono più alle strutture sanitarie. Soprattutto, sono le donne a pagare la “politica della paura”. “Oramai ogni etnia si sta organizzando per conto suo – conclude Pervinca Rizzo -. Ognuna si cura ‘a casa sua’ come può e con i pochi mezzi a disposizione. Le donne, i bambini e le categorie più deboli sono i primi a pagare anche con la vita. In queste condizioni, fare il medico, per chiunque abbia un po’ di coscienza, sta diventando una professione umiliante. Arrivano da te persone bisognose di cure e di assistenze. Basterebbe così poco farle star meglio ed invece tu non sai dove mandarle o cosa prescriverle. Sono clandestini, magari lavorano in condizioni disumane e senza le minime garanzie sindacali, senza diritti… ma sono clandestini e devono restare nascosti. Te lo posso assicurare: ogni giorno è sempre più straziante”.
Acqua alta, neve e Mose: Le disgrazie non vengono mai da sole
2/01/2010Terra
Che si fa? Il sindaco Cacciari distribuisce ottimismo e tranquillanti. “I veneziani – assicura – sono abituati a convivere con questo problema”. Il che è vero. Come è vero che l’acqua alta a fine dicembre non se la ricorda neppure il nostro Nane “branzinaro”. Il mese dell’acqua alta in laguna è sempre stato novembre. Di rado ottobre. Ancor più di rado i primi di dicembre. Mai la marea era arrivata a sommergere le feste natalizie. E due settimane di continui allagamenti hanno solo un precedente: quell’infausto novembre del ’66 che, con Venezia, ha mandato a mollo mezza Italia. Due settimane di acqua alta e non è ancora finita. I discorsi che si sentono nelle calli, tra gli sciaff sciaff degli stivaloni di chi incede nell’acqua salata, si possono riassumere così: “Acqua alta? E ci credo! Fino a che continuano a scavare le bocche di porto per fare il Mose!” Non è solo l’opinione dell’uomo comune che si trova l’acqua sotto il tavolo di casa. L’ipotesi che scavando i canali per far spazio alle paratie mobili si sarebbero causati più problemi di quelli che si cercava di risolvere, era stata paventata in tante occasioni da scienziati e ambientalisti. Ipotesi che il Consorzio non ha neppure mai preso in considerazione, occupato com’era a spendere la pacca di miliardi che il Governo gli passava per realizzare un’opera che doveva avere una sola peculiarità: essere costosa per giustificare le immani spese. Si fossero attuate le ipotesi alternative mirate a ripristinare l’equilibrio della laguna con interventi economici e non impattanti, ha dimostrato uno studio del Cnr, le maree sarebbero già ridotte di 20 centimetri. Adesso che la città va a fondo e che il Servizio Maree del Comune misura in un aumento dell’8 per cento la velocità della marea entrante a causa degli scavi, il Consorzio risponde che il dato “non è significativo” e rilancia: “Di fronte a questi fenomeni di marea eccezionale, anche gli ambientalisti avranno capito che l’opera è necessaria”. E’ un po’ lo stesso discorso della guerra preventiva che serve a portare la pace. «Dobbiamo tener presente che lo scenario è cambiato velocemente da quando il Mose è stato progettato, più di un quarto di secolo fa – ha spiegato l’ambientalista e candidato sindaco Gianfranco Bettin - l'alta marea eccezionale oramai è diventata quasi ordinaria. Il progetto Mose va rivisto e modificato, finché siamo in tempo, anche alla luce dei dati del medio mare in continuo aumento e dagli studi dell'Ipcc”. Studi che il Consorzio si è semplicemente rifiutato di prendere in considerazione. Eppure, anche nonno Nane, con la sua terza elementare, spiega sempre che la laguna non è più quella di qualche anno fa.
Razzismo Stop
2/01/2010TerraVia Gradenigo è una stradina che costeggia il canale Piovego sino a Porta Portello che dà il nome al quartiere. Un quartiere, un tempo, di barcaroli che trasportavano merci e passeggeri sino alla serenissima capitale. Oggi è un quartiere di studenti a due passi dalla zona universitaria. Traffico, mini appartamenti in affitto a prezzi astronomici e rigorosamente in nero, giri di prostituzione di tutti i tipi, spaccio. E’ anche un quartiere di case occupate e di lotta sociale di antica tradizione. Qui, in via Gradenigo al numero 8, è partita nei primi anni novanta l’esperienza di Razzismo Stop. Erano gli anni in cui il fenomeno delle migrazioni iniziava ad affacciarsi nella realtà italiana e la coglieva assolutamente impreparata. Furono i ragazzi di Razzismo Stop a battersi sin dall’inizio perché i migranti fossero visti come una risorsa e un arricchimento culturale e non lavoratori da sfruttare o pericoli sociali.
In questi anni centinaia di migranti si sono rivolti agli sportelli informativi di via Gradenigo, altri hanno approfittato dell’ospitalità dei locali per organizzare le prime associazioni di migranti. Oggi, chi si bussa alla porta di Razzismo Stop la domenica, ci trova un gruppo religioso senegalese in preghiera. Il sabato, una squadra di cricket composta di migranti dello Sri Lanka (col grosso problema di non trovare avversari con cui misurarsi). Tanti anni di battaglie per Razzismo Stop, con la convinzione che le più dure sono ancora tutte da combattere. Luca Bertolino è un’attivista dell’associazione e si occupa degli sportelli informativi su temi come la scuola, il diritto, la casa e la salute. “Da noi vengono un po’ tutti. Ad esclusione dei cinesi con i quali non siamo mai riusciti a stabilire contatti – racconta- Cosa ci chiedono? I problema principale in questo periodo è quello della casa mentre fino a poco tempo fa era il lavoro. La crisi si fa sentire e sono in molti a non riuscire più a pagare l’affitto o a mantenere il mutuo”. In tal caso, l’associazione interviene con i propri avvocati. Nel caso non ci fossero margini per l’intervento legale e lo sfratto fosse già esecutivo, con la mobilitazione. “Un fenomeno preoccupante che sta crescendo sempre di più – spiega Luca – sono gli episodi di razzismo. Ricordiamo solo le botte della polizia ai due dj neri che hanno avuto come risposta la più grande manifestazione di migranti a Padova nel settembre del 2008. Episodi di razzismo, a nostro parere, sono anche le ordinanze del sindaco Flavio Zanonato che impone chiusure anticipate e divieti ad attività commerciali gestite da stranieri. Ci sono strade, a Padova, in cui due bar, uno di fronte all’altro hanno regole diverse perché uno è di proprietà di un italiano e l’altro di un migrante. Contro queste prevaricazioni abbiamo fatto molti ricorsi al Tar, non di rado vincendoli”. L’ultima iniziativa di Razzismo Stop sono i corsi di informatica. “Vi partecipano in particolare donne dell’est. Quasi tutte sono badanti e vengono da noi nel loro giorno libero. Gli argomenti che gli stanno a cuore sono le mail, le chat, l’utilizzo di Skype… un modo per rimanere in contatto con i loro cari lontani. Ci sono anche gli internet point, è vero. Ma non ti insegnano ad usare il computer ed inoltre ti chiedono i documenti. Cosa che noi ci guardiamo bene da fare! Rispondiamo così, con la disobbedienza civile ad un ‘pacchetto’ di leggi incivili e vigliacche che con la sicurezza non ha nulla a che fare”.
Box. Melting Pot: tredici anni di controinformazione
Era il 1997 quando il sito www.meltingpot.org è apparso online. A partire da quel momento, ininterrottamente per 13 anni, il Progetto Melting Pot Europa, frutto della collaborazione tra il Comune di Venezia e la Cooperativa Teleradiocity, si è affermato come uno dei principali punti di riferimento italiani in materia di immigrazione e asilo. Grazie alla collaborazione di autorevoli giuristi, ricercatori, docenti, ma anche di attivisti che dalle tante redazioni italiane continuamente lo aggiornano, il sito offre gratuitamente una preziosa opera di controinformazione e approfondimento sui temi della cittadinanza, delle frontiere, del razzismo, oltre che un'importante guida legislativa per tutti i migranti che in Italia affrontano le difficoltà connesse alla burocrazia che riguarda i loro documenti. Da semplice sito informativo, Melting Pot si è evoluto sino a trasformarsi in un progetto integrato di comunicazione sul fenomeno dell’immigrazione, articolato in redazioni locali e collegamenti con le altre realtà europee che operano nel campo dell’accoglienza. Oggi, il Progetto Melting Pot Europa offre un completo archivio legislativo in materia di immigrazione che spazia dalla normativa italiana a quella europea, dalla giurisprudenza agli accordi internazionali. Premiato dall'eContent Award nel 2007 come miglior sito italiano legato ai temi dell'inclusione sociale, il più grande riconoscimento per Melting Pot e per chi lo ha costruito è dato dalle migliaia di visite quotidiane che da quando è nato non ha mai smesso di ricevere.
In questi anni centinaia di migranti si sono rivolti agli sportelli informativi di via Gradenigo, altri hanno approfittato dell’ospitalità dei locali per organizzare le prime associazioni di migranti. Oggi, chi si bussa alla porta di Razzismo Stop la domenica, ci trova un gruppo religioso senegalese in preghiera. Il sabato, una squadra di cricket composta di migranti dello Sri Lanka (col grosso problema di non trovare avversari con cui misurarsi). Tanti anni di battaglie per Razzismo Stop, con la convinzione che le più dure sono ancora tutte da combattere. Luca Bertolino è un’attivista dell’associazione e si occupa degli sportelli informativi su temi come la scuola, il diritto, la casa e la salute. “Da noi vengono un po’ tutti. Ad esclusione dei cinesi con i quali non siamo mai riusciti a stabilire contatti – racconta- Cosa ci chiedono? I problema principale in questo periodo è quello della casa mentre fino a poco tempo fa era il lavoro. La crisi si fa sentire e sono in molti a non riuscire più a pagare l’affitto o a mantenere il mutuo”. In tal caso, l’associazione interviene con i propri avvocati. Nel caso non ci fossero margini per l’intervento legale e lo sfratto fosse già esecutivo, con la mobilitazione. “Un fenomeno preoccupante che sta crescendo sempre di più – spiega Luca – sono gli episodi di razzismo. Ricordiamo solo le botte della polizia ai due dj neri che hanno avuto come risposta la più grande manifestazione di migranti a Padova nel settembre del 2008. Episodi di razzismo, a nostro parere, sono anche le ordinanze del sindaco Flavio Zanonato che impone chiusure anticipate e divieti ad attività commerciali gestite da stranieri. Ci sono strade, a Padova, in cui due bar, uno di fronte all’altro hanno regole diverse perché uno è di proprietà di un italiano e l’altro di un migrante. Contro queste prevaricazioni abbiamo fatto molti ricorsi al Tar, non di rado vincendoli”. L’ultima iniziativa di Razzismo Stop sono i corsi di informatica. “Vi partecipano in particolare donne dell’est. Quasi tutte sono badanti e vengono da noi nel loro giorno libero. Gli argomenti che gli stanno a cuore sono le mail, le chat, l’utilizzo di Skype… un modo per rimanere in contatto con i loro cari lontani. Ci sono anche gli internet point, è vero. Ma non ti insegnano ad usare il computer ed inoltre ti chiedono i documenti. Cosa che noi ci guardiamo bene da fare! Rispondiamo così, con la disobbedienza civile ad un ‘pacchetto’ di leggi incivili e vigliacche che con la sicurezza non ha nulla a che fare”.
Box. Melting Pot: tredici anni di controinformazione
Era il 1997 quando il sito www.meltingpot.org è apparso online. A partire da quel momento, ininterrottamente per 13 anni, il Progetto Melting Pot Europa, frutto della collaborazione tra il Comune di Venezia e la Cooperativa Teleradiocity, si è affermato come uno dei principali punti di riferimento italiani in materia di immigrazione e asilo. Grazie alla collaborazione di autorevoli giuristi, ricercatori, docenti, ma anche di attivisti che dalle tante redazioni italiane continuamente lo aggiornano, il sito offre gratuitamente una preziosa opera di controinformazione e approfondimento sui temi della cittadinanza, delle frontiere, del razzismo, oltre che un'importante guida legislativa per tutti i migranti che in Italia affrontano le difficoltà connesse alla burocrazia che riguarda i loro documenti. Da semplice sito informativo, Melting Pot si è evoluto sino a trasformarsi in un progetto integrato di comunicazione sul fenomeno dell’immigrazione, articolato in redazioni locali e collegamenti con le altre realtà europee che operano nel campo dell’accoglienza. Oggi, il Progetto Melting Pot Europa offre un completo archivio legislativo in materia di immigrazione che spazia dalla normativa italiana a quella europea, dalla giurisprudenza agli accordi internazionali. Premiato dall'eContent Award nel 2007 come miglior sito italiano legato ai temi dell'inclusione sociale, il più grande riconoscimento per Melting Pot e per chi lo ha costruito è dato dalle migliaia di visite quotidiane che da quando è nato non ha mai smesso di ricevere.
La classifica degli onesti
19/12/2009TerraChi sa mai se qualcuno si sarà sorpreso, nel leggera l’hit parade delle truffe ai danni dello Stato diffuse dal ministro Brunetta, di constatare che i napoletani sono più onesti dei veneti? Ma se qualcuno si è meravigliato significa che non conosce il Veneto. Oppure che ha la memoria corta e ha già infilato Tangentopoli nel dimenticatoio. E con essa tutta la politica delle Grandi Opere –dannose per il territorio ma danarose per le tasche di imprenditori senza scrupoli e amministratori poco onesti – che ha massacrato la nostra regione e che ancora detta la dura legge dello sviluppo predatorio. C’è anche una terza possibilità: non conosce Brunetta.
Fatto sta - le cifre, lo ripetiamo, sono tutte del ministero - che delle 20 mila “frodi ai danni dello Stato” consumate negli ultimi 5 anni in tutta Italia, il nostro Veneto è saldamente al secondo posto dietro la Sicilia con 773 truffe, 32 episodi di corruzione, 27 di concussione e 264 di abuso in atti d'ufficio. La Campania è dietro anche alla Lombardia, per quanto riguarda la corruzione, con 111 illeciti accertati contro 105. Val d’Aosta e Molise, profondo nord e profondo sud, sarebbero le regioni più oneste.
In quanto al trend, e questa è la vera ragione della diffusione di questa statistica da parte del ministro, i dati assicurano che si tratta di reati in forte calo: 5 mila e 500 nel 2006, 3 mila e 300 nel 2007, stessa cifra nel 2008, solo 1370 nel primo trimestre del 2009. Il che ha dato al ministro Brunetta la soddisfazione di affermare “Da quando ci sono io...” e di concludere con il consueto lancio di strali sui “fannulloni” in questo caso diventati pure “disonesti”. Che lezione ne traiamo da tutto ciò? Una sola: il ministero non sa cosa sia una statistica neanche per averlo letto su Wikipedia. Punto primo: i dati dovrebbero quantomeno essere rapportati al numero di abitanti di una Regione. Altrimenti è banale constatazione che nella Val d’Aosta si verifichino meno reati che nel più popoloso Lazio. Punto secondo: stiamo parlando di truffe accertate dalla magistratura. Come dire: la punta dell’iceberg. Al massimo queste cifre testimoniano l’efficacia dei controlli da parte degli inquirenti. Ma rimane comunque un dato opinabile, non potendolo rapportare al numero di truffe realmente commesse. Punto terzo la statistica non tiene affatto conto del tipo di illecito. L’automobilista indisciplinato che allunga 50 euro al vigile per non farsi togliere qualche punto dalla patente viene inserito in tabella con lo stesso peso dell’imprenditore che corrompe il funzionario incaricato di valutare l’inquinamento prodotto dalla sua industria. Una differenza non da poco ma che ci dice molto sui criteri con i quali opera il ministro.
Fatto sta - le cifre, lo ripetiamo, sono tutte del ministero - che delle 20 mila “frodi ai danni dello Stato” consumate negli ultimi 5 anni in tutta Italia, il nostro Veneto è saldamente al secondo posto dietro la Sicilia con 773 truffe, 32 episodi di corruzione, 27 di concussione e 264 di abuso in atti d'ufficio. La Campania è dietro anche alla Lombardia, per quanto riguarda la corruzione, con 111 illeciti accertati contro 105. Val d’Aosta e Molise, profondo nord e profondo sud, sarebbero le regioni più oneste.
In quanto al trend, e questa è la vera ragione della diffusione di questa statistica da parte del ministro, i dati assicurano che si tratta di reati in forte calo: 5 mila e 500 nel 2006, 3 mila e 300 nel 2007, stessa cifra nel 2008, solo 1370 nel primo trimestre del 2009. Il che ha dato al ministro Brunetta la soddisfazione di affermare “Da quando ci sono io...” e di concludere con il consueto lancio di strali sui “fannulloni” in questo caso diventati pure “disonesti”. Che lezione ne traiamo da tutto ciò? Una sola: il ministero non sa cosa sia una statistica neanche per averlo letto su Wikipedia. Punto primo: i dati dovrebbero quantomeno essere rapportati al numero di abitanti di una Regione. Altrimenti è banale constatazione che nella Val d’Aosta si verifichino meno reati che nel più popoloso Lazio. Punto secondo: stiamo parlando di truffe accertate dalla magistratura. Come dire: la punta dell’iceberg. Al massimo queste cifre testimoniano l’efficacia dei controlli da parte degli inquirenti. Ma rimane comunque un dato opinabile, non potendolo rapportare al numero di truffe realmente commesse. Punto terzo la statistica non tiene affatto conto del tipo di illecito. L’automobilista indisciplinato che allunga 50 euro al vigile per non farsi togliere qualche punto dalla patente viene inserito in tabella con lo stesso peso dell’imprenditore che corrompe il funzionario incaricato di valutare l’inquinamento prodotto dalla sua industria. Una differenza non da poco ma che ci dice molto sui criteri con i quali opera il ministro.
La Lega ha sfrattato il prefetto di Venezia
19/12/2009TerraLa Lega ha sfrattato il prefetto di Venezia. Dura la replica del sindaco uscente: “Una vendetta politica – ha dichiarato Massimo Cacciari – di una gravità eccezionale”. Durissima la reazione del consigliere regionale dei Verdi, Gianfranco Bettin: “Sono come i fascisti. al posto dei federalismo vogliono i federali”. Il prefetto Michele Lepri di Gallerano era arrivato in laguna la scorsa estate.
Al di là del “burocratese” con il quale il ministro Maroni ha giustificato la rimozione, nessuno ha dubbi che il siluramento del prefetto sia stato un atto politico. O, per meglio dire, una ritorsione politica. La colpa di Michele Lepri è quella di non aver impedito il trasloco della comunità Sinti di via Vallenari nel nuovo villaggio. Durante il braccio di ferro tra la neo presidente lumbard della provincia, Francesca Zaccariotto, e il Comune di Venezia, il prefetto Lepri ha cercato di far da paciere invitando gli enti in questione a rispettare la legge e le loro specifiche competenze. In particolare il Prefetto si è rifiutato di far leva su presunte questioni di “sicurezza” per scatenare rappresaglie contro la comunità Sinti e impedire un trasferimento che l’amministrazione comunale aveva pianificato da tempo. Ricordiamo brevemente che la comunità Sinti che si trovava in via Vallenari su un terreno di loro proprietà, lascito della curia patriarcale, aveva pattuito col Comune il trasloco in un’area vicina e più idonea alla loro permanenza previa la realizzazione di alcune strutture come bagni, rete fognaria e alcune casette da 40 metri quadri studiate appositamente per essere “agganciabili” alla consueta ruolotte. Ruolotte che oramai rimane solo il simbolo di una tradizione millenaria di nomadismo, considerato che da oltre 60 anni la comunità proveniente da Trieste si è trasferita in pianta stabile nell’entroterra veneziano. Una comunità quindi di “italiani” a tutti gli effetti. E una comunità che non ha mai causato problemi a Venezia, considerato che secondo un sondaggio – prima del putiferio leghista – oltre il 90 per cento dei residenti in laguna non sapeva neppure della loro esistenza. Eppure, contro un trasferimento che altro non è che una normale operazione amministrativa per migliorare il decoro della città e il benessere dei suoi abitanti, si è scatenata la xenofobia dei lumbard, con presidi crociati e raccolte di firme. Appena eletta, la presidente della provincia Zaccariotto, da brava federalista, ha cercato in tutti i modi di impedire un trasferimento la cui gestione era di esclusiva competenza del Comune di Venezia facendo pressione sul prefetto e sul ministro Maroni, altro federale federalista. Al prefetto Lepri è stato chiesto di intervenire in nome della “sicurezza”. Il prefetto ha risposto che non ne vedeva gli estremi ed è stato rimosso. Alla Venezia democratica e antirazzista non rimane che domandarsi chi sarà il nuovo prefetto e come questi dovrà comportarsi per compiacere alla Zaccariotto e conservare la carica. “La rimozione del prefetto di Venezia, per motivi biechi di mera vendetta politica- conclude l’ambientalista Gianfranco Bettin - rappresenta un atto nello stile dei regimi autoritari. Come già i fascisti, la nuova casta padana, vorace di poltrone, prepotente e intollerante, vuole dei podestà. Al posto del federalismo vogliono i federali. Troveranno pane per i loro denti”.
Al di là del “burocratese” con il quale il ministro Maroni ha giustificato la rimozione, nessuno ha dubbi che il siluramento del prefetto sia stato un atto politico. O, per meglio dire, una ritorsione politica. La colpa di Michele Lepri è quella di non aver impedito il trasloco della comunità Sinti di via Vallenari nel nuovo villaggio. Durante il braccio di ferro tra la neo presidente lumbard della provincia, Francesca Zaccariotto, e il Comune di Venezia, il prefetto Lepri ha cercato di far da paciere invitando gli enti in questione a rispettare la legge e le loro specifiche competenze. In particolare il Prefetto si è rifiutato di far leva su presunte questioni di “sicurezza” per scatenare rappresaglie contro la comunità Sinti e impedire un trasferimento che l’amministrazione comunale aveva pianificato da tempo. Ricordiamo brevemente che la comunità Sinti che si trovava in via Vallenari su un terreno di loro proprietà, lascito della curia patriarcale, aveva pattuito col Comune il trasloco in un’area vicina e più idonea alla loro permanenza previa la realizzazione di alcune strutture come bagni, rete fognaria e alcune casette da 40 metri quadri studiate appositamente per essere “agganciabili” alla consueta ruolotte. Ruolotte che oramai rimane solo il simbolo di una tradizione millenaria di nomadismo, considerato che da oltre 60 anni la comunità proveniente da Trieste si è trasferita in pianta stabile nell’entroterra veneziano. Una comunità quindi di “italiani” a tutti gli effetti. E una comunità che non ha mai causato problemi a Venezia, considerato che secondo un sondaggio – prima del putiferio leghista – oltre il 90 per cento dei residenti in laguna non sapeva neppure della loro esistenza. Eppure, contro un trasferimento che altro non è che una normale operazione amministrativa per migliorare il decoro della città e il benessere dei suoi abitanti, si è scatenata la xenofobia dei lumbard, con presidi crociati e raccolte di firme. Appena eletta, la presidente della provincia Zaccariotto, da brava federalista, ha cercato in tutti i modi di impedire un trasferimento la cui gestione era di esclusiva competenza del Comune di Venezia facendo pressione sul prefetto e sul ministro Maroni, altro federale federalista. Al prefetto Lepri è stato chiesto di intervenire in nome della “sicurezza”. Il prefetto ha risposto che non ne vedeva gli estremi ed è stato rimosso. Alla Venezia democratica e antirazzista non rimane che domandarsi chi sarà il nuovo prefetto e come questi dovrà comportarsi per compiacere alla Zaccariotto e conservare la carica. “La rimozione del prefetto di Venezia, per motivi biechi di mera vendetta politica- conclude l’ambientalista Gianfranco Bettin - rappresenta un atto nello stile dei regimi autoritari. Come già i fascisti, la nuova casta padana, vorace di poltrone, prepotente e intollerante, vuole dei podestà. Al posto del federalismo vogliono i federali. Troveranno pane per i loro denti”.
Liberate Luca
19/12/2009TerraVestre Faengsel. Vigerslev allè 1d, 2450 Kbh Svolta. Copenhagen, Danmarkt. Questo, per i prossimi 30 giorni, sarà l’indirizzo, dell’astrofisico veneziano Luca Tornatore. Ed è l’indirizzo di un carcere. La notizia del suo arresto ha lasciato sconcertati i suoi colleghi del dipartimento di Fisica dell’università di Trieste che immediatamente hanno tutti sottoscritto un appello per chiedere la sua immediata liberazione.
“Conosciamo Luca come scienziato di talento, esperto in informatica e in cosmologia, autore di più di venti lavori scientifici riconosciuti dalla comunità accademica, e che coniuga la sua ricerca con l'impegno in materia di cambiamento climatico e di sostenibilità”. Ancora più duro il secondo appello che ha come prima firmataria l’astronoma Margherita Hack seguita da circa un centinaio tra i più noti fisici italiani. “Luca è uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza. Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi (come noi e lui) pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando (siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico)”. Luca Tornatore è stato arrestato la sera del 14 dicembre, nel quartiere di Christiania, appena dopo una conferenza con Naomi Klein e Michael Hardt. A poca distanza, c’era stato uno scontro tra le forze dell’ordine e alcuni "black bloc", in seguito al quale la polizia aveva sfondato la barricata ed era entrata nel quartiere arrestando oltre 200 persone che avevano assistito al dibattito. Dopo alcune ore, tutti sono stati rilasciati, tranne Luca il cui fermo è stato convalidato in arresto. Sembra che un poliziotto lo abbia riconosciuto come uno dei “barricaderos”. Caso ancora più unico, il suo processo è stato fissato per il 12 gennaio e nel frattempo deve rimanere in detenzione preventiva. Michele Valentini, portavoce italiano della rete See you in Copenhagen è rimasto in Danimarca per seguire le fasi del processo e cercare di velocizzare l’iter. “Stiamo facendo pressioni all’ambasciata italiana e al ministero degli esteri danese – spiega – speriamo di convincere il giudice ad anticipare l’udienza, anche grazie agli appelli provenienti dal mondo scientifico internazionale. Luca non ha fatto nulla di ciò di cui è accusato. E’ stato con noi al convegno per tutto il tempo. Il problema vero è che, grazie anche alle sue competenze scientifiche, è stato tra i più attivi a promuovere la discussione all’interno delle assemblee e a denunciare ai giornalisti il pericolo tanto per l’ambiente quanto per la stessa democrazia che comportano i cambiamenti climatici. E’ questa la sua vera colpa”.
“Conosciamo Luca come scienziato di talento, esperto in informatica e in cosmologia, autore di più di venti lavori scientifici riconosciuti dalla comunità accademica, e che coniuga la sua ricerca con l'impegno in materia di cambiamento climatico e di sostenibilità”. Ancora più duro il secondo appello che ha come prima firmataria l’astronoma Margherita Hack seguita da circa un centinaio tra i più noti fisici italiani. “Luca è uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza. Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi (come noi e lui) pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando (siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico)”. Luca Tornatore è stato arrestato la sera del 14 dicembre, nel quartiere di Christiania, appena dopo una conferenza con Naomi Klein e Michael Hardt. A poca distanza, c’era stato uno scontro tra le forze dell’ordine e alcuni "black bloc", in seguito al quale la polizia aveva sfondato la barricata ed era entrata nel quartiere arrestando oltre 200 persone che avevano assistito al dibattito. Dopo alcune ore, tutti sono stati rilasciati, tranne Luca il cui fermo è stato convalidato in arresto. Sembra che un poliziotto lo abbia riconosciuto come uno dei “barricaderos”. Caso ancora più unico, il suo processo è stato fissato per il 12 gennaio e nel frattempo deve rimanere in detenzione preventiva. Michele Valentini, portavoce italiano della rete See you in Copenhagen è rimasto in Danimarca per seguire le fasi del processo e cercare di velocizzare l’iter. “Stiamo facendo pressioni all’ambasciata italiana e al ministero degli esteri danese – spiega – speriamo di convincere il giudice ad anticipare l’udienza, anche grazie agli appelli provenienti dal mondo scientifico internazionale. Luca non ha fatto nulla di ciò di cui è accusato. E’ stato con noi al convegno per tutto il tempo. Il problema vero è che, grazie anche alle sue competenze scientifiche, è stato tra i più attivi a promuovere la discussione all’interno delle assemblee e a denunciare ai giornalisti il pericolo tanto per l’ambiente quanto per la stessa democrazia che comportano i cambiamenti climatici. E’ questa la sua vera colpa”.
A Silea anche il sindaco è sulla barricata
12/12/2009TerraE’ una bella puzza di bruciato, quella che si annusa a Mogliano e a Silea, nella marca trevigiana. Tanto che la gente va alle sempre più numerose ed affollate assemblee contro i progetti degli inceneritore proposti dall’Unindustria con la mascherina bianca sul viso. “Per adesso la portiamo per protesta ma se realizzeranno questo disastroso progetto ci toccherà indossarla per respirare”.
Non è un “ultrà” dell’ambientalismo a parlare, ma il sindaco di Silea, Silvano Piazza. Come tanti amministratori locali, Piazza sta battagliando non solo per difendere la salute dei suoi cittadini ma anche per affermare il diritto dovere di una amministrazione locale a decidere sul futuro della sua terra. “L’inceneritore a noi non serve – spiega- Questo è un progetto che viene da Milano. E il tizio che l’ha proposto era talmente credibile che è finito in galera”. Piazza si riferisce all’imprenditore lombardo Giuseppe Grossi, meglio conosciuto come il “Re Mida delle bonifiche ambientali”, arrestato a fine ottobre dalla Guardia di Finanza per frode fiscale e appropriazione indebita. E con lui è finita in gattabuia, Rosanna Garimboldi, Pdl, assessore della Provincia di Pavian, e moglie del deputato Giancarlo Abelli, già vicecoordinatore nazionale di Forza Italia. Rosanna Garimboldi è accusata di aver ricevuto su un conto cifrato a Montecarlo oltre 600 mila euro dal Grossi. “Ecco la gente che vuole fare gli inceneritori a casa nostra – continua il battagliero sindaco che ha anche promosso una raccolta di firme da portare in Regione – Il problema dei rifiuti non si risolve con l’incenerimento ma con la riduzione delle produzioni di scarto, il riuso, il riciclo… Gli industriali, se fossero un poco più avveduti e interessati al bene comune invece che alle loro tasche, investirebbero nell’ambiente e non nella sua distruzione. E se il Governo la finisse di incentivare comportamenti anti ecologici e premiasse invece le pratiche virtuose sarebbe sempre ora”. Il Comune di Silea è in prima fila nella lotta agli inceneritori e si è dotato di un ufficio legale e tecnico per respingere l’assalto di Unindustria anche sul piano della legalità e della scienza. “Cosa faremo? Qualsiasi cosa pur di non farci avvelenare da questi signori. Non avremo limiti!”
Box. Scempio nella Bassa Padovana
Se tutto questo vi sembra troppo... Tre cementifici (con l'aumento del rischio che potrebbe derivare dall’uso di Cdr “combustibile derivato dai rifiuti” prospettato per i cementifici ), due discariche, mangimifici, antenne, coogeneratori a biomasse, ecc: questa in breve la grave situazione ambientale della bassa padovana, un'area ritenuta tra le più inquinate del Veneto.
Come non bastasse ora la proposta, avanzata dalla locale amministrazione comunale, di costruire un inceneritore di Rsu ai margini della discarica regionale di Sant’Urbano (Padova). Il comitato "No reflui speciali" ha subito iniziato la mobilitazione coinvolgendo tutti i cittadini nell'opposizione a questo folle progetto e per impedire la costruzione di quest’inceneritore come delle decine d’inceneritori di pollina proposti nello stesso territorio. Molte le domande che i cittadini rivolgono all’amministrazione comunale, alla Provincia di Padova e alla Regione Veneto: nuovi inceneritori di rifiuti sono proprio indispensabili o sono possibili scelte alternative? Quali effetti potrebbero avere le emissioni sulla salute dei residenti nel raggio di decine di chilometri? Potrebbero registrarsi danni alle colture e all’ambiente circostante? Tutto questo finora senza risposte mentre l'ipotesi della costruzione dell'impianto in questo comune, avverte il Comitato, si fa sempre più concreta.
Non è un “ultrà” dell’ambientalismo a parlare, ma il sindaco di Silea, Silvano Piazza. Come tanti amministratori locali, Piazza sta battagliando non solo per difendere la salute dei suoi cittadini ma anche per affermare il diritto dovere di una amministrazione locale a decidere sul futuro della sua terra. “L’inceneritore a noi non serve – spiega- Questo è un progetto che viene da Milano. E il tizio che l’ha proposto era talmente credibile che è finito in galera”. Piazza si riferisce all’imprenditore lombardo Giuseppe Grossi, meglio conosciuto come il “Re Mida delle bonifiche ambientali”, arrestato a fine ottobre dalla Guardia di Finanza per frode fiscale e appropriazione indebita. E con lui è finita in gattabuia, Rosanna Garimboldi, Pdl, assessore della Provincia di Pavian, e moglie del deputato Giancarlo Abelli, già vicecoordinatore nazionale di Forza Italia. Rosanna Garimboldi è accusata di aver ricevuto su un conto cifrato a Montecarlo oltre 600 mila euro dal Grossi. “Ecco la gente che vuole fare gli inceneritori a casa nostra – continua il battagliero sindaco che ha anche promosso una raccolta di firme da portare in Regione – Il problema dei rifiuti non si risolve con l’incenerimento ma con la riduzione delle produzioni di scarto, il riuso, il riciclo… Gli industriali, se fossero un poco più avveduti e interessati al bene comune invece che alle loro tasche, investirebbero nell’ambiente e non nella sua distruzione. E se il Governo la finisse di incentivare comportamenti anti ecologici e premiasse invece le pratiche virtuose sarebbe sempre ora”. Il Comune di Silea è in prima fila nella lotta agli inceneritori e si è dotato di un ufficio legale e tecnico per respingere l’assalto di Unindustria anche sul piano della legalità e della scienza. “Cosa faremo? Qualsiasi cosa pur di non farci avvelenare da questi signori. Non avremo limiti!”
Box. Scempio nella Bassa Padovana
Se tutto questo vi sembra troppo... Tre cementifici (con l'aumento del rischio che potrebbe derivare dall’uso di Cdr “combustibile derivato dai rifiuti” prospettato per i cementifici ), due discariche, mangimifici, antenne, coogeneratori a biomasse, ecc: questa in breve la grave situazione ambientale della bassa padovana, un'area ritenuta tra le più inquinate del Veneto.
Come non bastasse ora la proposta, avanzata dalla locale amministrazione comunale, di costruire un inceneritore di Rsu ai margini della discarica regionale di Sant’Urbano (Padova). Il comitato "No reflui speciali" ha subito iniziato la mobilitazione coinvolgendo tutti i cittadini nell'opposizione a questo folle progetto e per impedire la costruzione di quest’inceneritore come delle decine d’inceneritori di pollina proposti nello stesso territorio. Molte le domande che i cittadini rivolgono all’amministrazione comunale, alla Provincia di Padova e alla Regione Veneto: nuovi inceneritori di rifiuti sono proprio indispensabili o sono possibili scelte alternative? Quali effetti potrebbero avere le emissioni sulla salute dei residenti nel raggio di decine di chilometri? Potrebbero registrarsi danni alle colture e all’ambiente circostante? Tutto questo finora senza risposte mentre l'ipotesi della costruzione dell'impianto in questo comune, avverte il Comitato, si fa sempre più concreta.
L'elettrodotto viene prima di tutto
12/12/2009TerraLa Provincia di Treviso dà una scossa al progetto dell’elettrodotto da 380 mila volt e ieri pomeriggio, venerdì 11, in quarta commissione, ha discusso l’accordo che la giunta si prepara a sottoscrivere con la società Terna per la costruzione e la gestione dell’impianto. Porte chiuse ai comitati che dovranno accontentarsi di un sit davanti alle porte del palazzo. Il presidente Muraro ha rifiutato persino di accogliere una delegazione che intendeva portargli una petizione di oltre 5 mila firme contro la cosiddetta “trasversale veneta”, così Terna ha battezzato il mega elettrodotto. Una accelerazione questa della Giunta provinciale, inaspettata sotto molti aspetti e che va messa in relazione con la nuova politica energetica italiana. Impossibile non pensare ai famosi siti top secret dove sorgeranno le centrali nucleari italiane. Quei famosi siti “già individuati” ma che, ha affermato l’amministratore delegato dell’Enel, “non li dico neanche sotto tortura”. Il mega elettrodotto che dovrebbe attraversare la marca trevigiana infatti, si spiega solo in relazione alla scelta nucleare. Nonostante le promesse della Giunta provinciale guidata dal leghista Leonardo Muraro di ascoltare il parere delle autonomie locali, il progetto dell’elettrodotto va avanti. Anche perché su questa ennesima grande opera, le autonomie locali si sono già pronunciate. E pronunciate in maniera nettamente contraria. A parte gli scontati “sì” del Comune di Volpago, che tra l’altro si è fatto impugnare dal Tar l’atto deliberativo, e del Comune di Quinto sul cui territorio la linea corre solo per un paio di centinaia di metri, tutti gli altri sindaci – tanto di destra che di sinistra – hanno risposto con un chiaro ed inequivocabile “no, grazie”. Martellago, Scorzè, Zero Branco e Paese tutti concordi nel ribadire alla Provincia e alla Regione che non hanno nessuna intenzione di pagare i costi dell’inquinamento elettromagnetico e della svalutazione dei terreni in cui, ricordiamolo, dovrebbero essere costruiti piloni alti oltre 50 metri e in aree Sic e Zps, per un’opera che non rappresenta certo gli interessi delle popolazioni residenti. Ricordiamo che la società Terna, assieme all’Enel, nel febbraio del 2008 è stata condannata dal tribunale civile di Venezia a rifondere con 632 mila euro i 79 cittadini di Scorzè, vittime riconosciute dell’inquinamento elettromagnetico, che nel 2002 le avevano intentato causa per i danni subiti dalle linee elettriche che correvano sopra il loro quartiere. L’indagine mise in evidenza un picco di casi di aborti, leucemie, tumori e cefalee. Fu una sentenza storica. Per la prima volta in Italia, un tribunale ha riconosciuto i danni derivanti dall’inquinamento da Cem (campi elettro magnetici). Tutto questo nonostante la normativa italiana conceda margini di sicurezza molto blandi, stabilendo valori pari a 3 o addirittura 10 microtesla quando la comunità scientifica è d’accordo nel ritenere pericolose le esposizioni prolungate oltre gli 0,2 microtesla. “Un elettrodotto da 380 mila volt è una autostrada di energia che non serve alla comunità locale – ha dichiarato Paride Danieli, portavoce dei verdi di Treviso – e che punta solo a concentrare la distribuzione nelle mani di pochi seguendo le politiche energetiche che puntano ancora sui carburanti fossili destinati a scomparire. Una politica che guarda al futuro, come dovrebbe insegnare Copenhagen, dovrebbe andare in tutt’altra direzione: reti diffuse e non concentrate, alimentate da molteplici autoproduzioni a base di energie rinnovabili, controllate dalle istituzioni locali più vicine ai bisogni dei cittadini”.
Sg31 a Marghera. Ogni tanto ci riprovano
12/12/2009TerraMarghera pattumiera. Marghera capitale dei veleni. Porto di barriera per i migranti che vengono da fuori, porto ospitale per i veleni che vengono da dentro. Un destino di lotta, quello scritto nel suo futuro. Per ogni battaglia vinta, ne ricomincia un’altra da vincere. Perché è sempre vero che ogni tanto ci riprovano. E la Regione non ha ancora abbandonato l’idea di farne una piazza di stoccaggio da cento e passa mila tonnellate di rifiuti tossici da bruciare in quel famigerato inceneritore Sg31.
Lo stesso inceneritore che negli anni ’90 spandeva nell’aria per conto della società Monteco le emissioni dei rifiuti contenenti uranio e stoccate nelle stive della motonave Jolly Rosso. Oggi l’inceneritore è chiuso. E’ stato spento lo scorso anno semplicemente perché quel che rimane del polo chimico non produceva sufficienti rifiuti per coprire le spese del suo utilizzo. Ma il colossale impianto rimane comunque una tentazione troppo grande per i faccendieri dello smaltimento dei rifiuti pericolosi. Ogni tanto ci riprovano, abbiamo detto. E così ad agosto, il mese delle vacanze e delle delibere da non pubblicizzare troppo, arriva al Via un progetto presentato dalla Ste srl che prevede la realizzazione nell'area serbatoi ex PA2/4 di un impianto di stoccaggio di rifiuti pericolosi e speciali. Val la pena ricordare che la Ste srl è una ditta specializzata nello smaltimento di rifiuti pericolosi. Tra i proprietari figurano Gianfranco Jeoroncich (indagato nell'ambito di un'inchiesta su traffico illecito di rifiuti) e Stefano Gavioli (già amministratore della Sirma messa in liquidazione). Presidente è nientemeno che un certo Salvatore Provenzano. Sui quotidiani non compare una sola riga sino a metà ottobre, quando i verdi organizzano una infuocata assemblea a Marghera che ha il merito di portare la questione all’attenzione della cittadinanza. Attualmente il progetto è ancora in commissione Via con poche probabilità di venire approvato così come è. Soprattutto con le elezioni vicine. Ma quel che esce dalla porta può sempre rientrare dalla finestra. Perché l’Sg31 rischia di essere riacceso un’altra volta, potenziato del 25 per cento e raddoppiato con un inceneritore gemello.
Una ipotesi inquietante che vede dietro le quinte la regia della Regione Veneto che con una delibera, la 2514 del 4 agosto 2009, ha autorizzato un megaimpianto di depurazione delle acque reflue civili e industriali, Pif, a Fusina con scarico finale in mar Adriatico. Il Pif doveva essere finanziato da aziende private ma la chiusura di alcune di esse ha fatto saltare il quadro economico di previsione. Per finanziarlo, la Regione ha deciso di comprare l’inceneritore SG31 tramite la società Sifa che comprende anche Veritas e la Mantovani. Da sottolineare che la presenza di una società a gestione pubblica è indispensabile per bypassare il piano regolatore che altrimenti vieterebbe la riapertura a Marghera di impianti pericolosi. Pericolosi? Già. Il polo chimico non produce più rifiuti da incenerite e per alimentare l’Sg31 bisogna bruciare rifiuti tossici privati provenienti dall’esterno per far quadrare i conti. Potrebbe così tornare in pista la Ste srl con la sua nota specialità: stoccare e smaltire rifiuti pericolosi. Morale della favola: mentre a Copenhagen si discute su come limitare le emissioni gassose, la Regione Veneto utilizza fondi pubblici per favorire i traffici di società private gestite da personaggi di moralità quantomeno dubbia, allo scopo di inquinare l’ambiente e avvelenare i cittadini.
Lo stesso inceneritore che negli anni ’90 spandeva nell’aria per conto della società Monteco le emissioni dei rifiuti contenenti uranio e stoccate nelle stive della motonave Jolly Rosso. Oggi l’inceneritore è chiuso. E’ stato spento lo scorso anno semplicemente perché quel che rimane del polo chimico non produceva sufficienti rifiuti per coprire le spese del suo utilizzo. Ma il colossale impianto rimane comunque una tentazione troppo grande per i faccendieri dello smaltimento dei rifiuti pericolosi. Ogni tanto ci riprovano, abbiamo detto. E così ad agosto, il mese delle vacanze e delle delibere da non pubblicizzare troppo, arriva al Via un progetto presentato dalla Ste srl che prevede la realizzazione nell'area serbatoi ex PA2/4 di un impianto di stoccaggio di rifiuti pericolosi e speciali. Val la pena ricordare che la Ste srl è una ditta specializzata nello smaltimento di rifiuti pericolosi. Tra i proprietari figurano Gianfranco Jeoroncich (indagato nell'ambito di un'inchiesta su traffico illecito di rifiuti) e Stefano Gavioli (già amministratore della Sirma messa in liquidazione). Presidente è nientemeno che un certo Salvatore Provenzano. Sui quotidiani non compare una sola riga sino a metà ottobre, quando i verdi organizzano una infuocata assemblea a Marghera che ha il merito di portare la questione all’attenzione della cittadinanza. Attualmente il progetto è ancora in commissione Via con poche probabilità di venire approvato così come è. Soprattutto con le elezioni vicine. Ma quel che esce dalla porta può sempre rientrare dalla finestra. Perché l’Sg31 rischia di essere riacceso un’altra volta, potenziato del 25 per cento e raddoppiato con un inceneritore gemello.
Una ipotesi inquietante che vede dietro le quinte la regia della Regione Veneto che con una delibera, la 2514 del 4 agosto 2009, ha autorizzato un megaimpianto di depurazione delle acque reflue civili e industriali, Pif, a Fusina con scarico finale in mar Adriatico. Il Pif doveva essere finanziato da aziende private ma la chiusura di alcune di esse ha fatto saltare il quadro economico di previsione. Per finanziarlo, la Regione ha deciso di comprare l’inceneritore SG31 tramite la società Sifa che comprende anche Veritas e la Mantovani. Da sottolineare che la presenza di una società a gestione pubblica è indispensabile per bypassare il piano regolatore che altrimenti vieterebbe la riapertura a Marghera di impianti pericolosi. Pericolosi? Già. Il polo chimico non produce più rifiuti da incenerite e per alimentare l’Sg31 bisogna bruciare rifiuti tossici privati provenienti dall’esterno per far quadrare i conti. Potrebbe così tornare in pista la Ste srl con la sua nota specialità: stoccare e smaltire rifiuti pericolosi. Morale della favola: mentre a Copenhagen si discute su come limitare le emissioni gassose, la Regione Veneto utilizza fondi pubblici per favorire i traffici di società private gestite da personaggi di moralità quantomeno dubbia, allo scopo di inquinare l’ambiente e avvelenare i cittadini.
Bettin candidato sindaco
12/12/2009TerraGianfranco Bettin si è candidato alle primarie per il Comune di Venezia. L’annuncio è stato dato ieri pomeriggio, nella bella cornice del parco San Giuliano, ideale collegamento tra la terraferma e la laguna. Un luogo simbolico per l’ambientalismo veneziano. Settecento ettari di verde recuperati che ne fanno il parco più grande d’Europa. A lanciare ufficialmente la sua candidatura a sindaco sono le associazioni Venezia Metropoli Sostenibile, Fondamente e Per Venezia Metropoli. “Non sarò il candidato dei Verdi né di nessun altro partito – mette in chiaro Bettin-. La mia candidatura è stata avanzata da un gruppo di associazioni attive che da tempo stanno lavorando nella stesura di un programma di governo per aprire una fase nuova nella nostra città. Ovviamente, auspico che a questa avventura si affianchino anche altre forze politiche”.
Il programma, un discreto malloppo di fogli distribuito in occasione della conferenza stampa, vuole essere - si legge- “uno strumento aperto al contributo di tutti coloro che lo leggeranno” da integrare e migliorare “nel corso delle discussioni che avverranno ininterrottamente fino alla vigilia delle elezioni amministrative”. Si tratta, allo stesso tempo, di un programma di continuità e di rottura: idealmente si riallaccia alle elaborazioni che sono state alla base delle precedenti amministrazioni di centrosinistra ma nel contempo ne sottolinea i limiti, evidenziando quanto oggi sia “necessario modificare profondamente gli assetti di potere che si sono determinati negli ultimi anni e che vedono le decisioni sempre più distanti dai cittadini e sempre più nelle mani di potentati separati, autocratici e sottratti al controllo democratico”. Casomai ciò non fosse ancora sufficiente a far andare in escandescenze una bella fetta del Pd, il programma continua rilevando come i partiti politici debbano “ritrovare la loro giusta collocazione” e smettere “di identificarsi con il momento ed i luoghi dell’amministrazione e di occupare gli spazi della cosa pubblica”. Insomma, sarà una bella sfida, questa lanciata da Bettin. “Sì, sarà una sfida interessante - conclude l’ambientalista -. Come quando ci si arrampica in montagna. Una sfida tanto faticosa quanto gratificante”. Una sfida che va al di là della semplice corsa ad una poltrona. Venezia è oggi un “formidabile, inquieto e inquietante, laboratorio globale” – per riprendere una definizione dello stesso Bettin – in cui si gioca una partita fondamentale nel futuro dell’ambientalismo. I continui tentativi della Regione di fare di Marghera un pericoloso deposito di stoccaggio per i rifiuti tossici provenienti da tutto il Paese, l’ipotesi del Governo di realizzare una centrale nucleare proprio sulle rive della laguna, sono solo due esempi delle battaglie che il futuro sindaco dovrà affrontare per tutelare la città, il suo ambiente e i suoi stessi cittadini. Alle primarie, gli elettori del centrosinistra dovranno dire se a condurre queste battaglie vedono meglio Gianfranco Bettin o il candidato del Pd Giorgio Orsoni. “Stiamo attraversando una stagione cruciale – conclude Bettin – E’ il momento di tirare fuori il meglio da noi stessi. Aguzzare le intelligenze e massimizzare le energie. Tutti quanti”.
Il programma, un discreto malloppo di fogli distribuito in occasione della conferenza stampa, vuole essere - si legge- “uno strumento aperto al contributo di tutti coloro che lo leggeranno” da integrare e migliorare “nel corso delle discussioni che avverranno ininterrottamente fino alla vigilia delle elezioni amministrative”. Si tratta, allo stesso tempo, di un programma di continuità e di rottura: idealmente si riallaccia alle elaborazioni che sono state alla base delle precedenti amministrazioni di centrosinistra ma nel contempo ne sottolinea i limiti, evidenziando quanto oggi sia “necessario modificare profondamente gli assetti di potere che si sono determinati negli ultimi anni e che vedono le decisioni sempre più distanti dai cittadini e sempre più nelle mani di potentati separati, autocratici e sottratti al controllo democratico”. Casomai ciò non fosse ancora sufficiente a far andare in escandescenze una bella fetta del Pd, il programma continua rilevando come i partiti politici debbano “ritrovare la loro giusta collocazione” e smettere “di identificarsi con il momento ed i luoghi dell’amministrazione e di occupare gli spazi della cosa pubblica”. Insomma, sarà una bella sfida, questa lanciata da Bettin. “Sì, sarà una sfida interessante - conclude l’ambientalista -. Come quando ci si arrampica in montagna. Una sfida tanto faticosa quanto gratificante”. Una sfida che va al di là della semplice corsa ad una poltrona. Venezia è oggi un “formidabile, inquieto e inquietante, laboratorio globale” – per riprendere una definizione dello stesso Bettin – in cui si gioca una partita fondamentale nel futuro dell’ambientalismo. I continui tentativi della Regione di fare di Marghera un pericoloso deposito di stoccaggio per i rifiuti tossici provenienti da tutto il Paese, l’ipotesi del Governo di realizzare una centrale nucleare proprio sulle rive della laguna, sono solo due esempi delle battaglie che il futuro sindaco dovrà affrontare per tutelare la città, il suo ambiente e i suoi stessi cittadini. Alle primarie, gli elettori del centrosinistra dovranno dire se a condurre queste battaglie vedono meglio Gianfranco Bettin o il candidato del Pd Giorgio Orsoni. “Stiamo attraversando una stagione cruciale – conclude Bettin – E’ il momento di tirare fuori il meglio da noi stessi. Aguzzare le intelligenze e massimizzare le energie. Tutti quanti”.
Le primarie di Venezia
12/12/2009TerraSaranno primarie vere. Primarie “aperte” non solo ai sostenitori dei quattro partiti che le hanno promosse (Pd, socialisti, Italia dei Valori e Verdi) ma a tutti gli elettori veneziani che si riconoscono nel programma del centrosinistra. Saranno primarie vere, dicevamo, sempre che qualcuno non metta il classico bastone tra le ruote. Anche in questo senso va letta la candidatura di Gianfranco Bettin: far uscire allo scoperto quel Pd che sino ad ora ha proposto un solo candidato, Giorgio Orsoni.
Un candidato legittimato dal sindaco uscente, Massimo Cacciari, e che sin dall’inizio si è detto contrario al passaggio delle primarie, insistendo per una “investitura” unica e di largo respiro da parte della base democratica. Operazione ben al di là dal concretizzarsi, considerato che l’assemblea comunale del Pd che doveva lanciare Orsoni è stata fatta slittare varie volte e ancora non è chiaro se e quando si svolgerà. Una corrente del partito inoltre, quella che fa capo a Marino e a Casson, ha già annunciato la presenza di un suo candidato, l’avvocato Alfiero Farinea. Quando saranno quindi i candidati sindaci per il centrosinistra? A sfidare Gianfranco Bettin, ci sarà, per restare alle candidature ad oggi ufficializzate, il citato Orsoni, già assessore comunale al Patrimonio, e nome più conosciuto nei salotti che contano che nelle piazze: vicepresidente della Fondazione Cini, presidente della Compagnia della Vela, primo procuratore di San Marco e via discorrendo. Per chi lo ignorasse, i procuratori di San Marco, all’epoca della Serenissima, erano la carica più importante dopo il doge e si occupavano dell’amministrazione della basilica marciana e del suo tesoro. L’ordine è sopravvissuto anche alla caduta della Repubblica ma solo nominalmente. Oggi indossano bei costumi, sfilano alla festa del Boccolo e sono ben visti dal Patriarca. Orsoni rappresenta le mozioni democratiche Bersani e Franceschini più l’Udc. Primo incomodo in casa democratica dovrebbe essere, come abbiamo detto, Alfiero Farinea, che all’epoca del Petrolkiller fu uno degli avvocati di parte civile. Lo candida l’ex magistrato Felice Casson a nome della mozione Marino. La sua discesa in campo tuttavia non è ancora stata formalizzata. Pressoché certa invece, è la terza candidatura, quelle della vicentina Laura Fincato. Sempre di area democratica, attuale assessore alla Pianificazione della giunta Cacciari, ex socialista con un ricco curriculum politico alle spalle e moglie dell’attuale presidente della Fondazione Venezia, Giuliano Segre. Neppure a lei fa difetto quel “carburante pecuniario” così importante per la corsa elettorale. La Fincato ammicca all’area di Rifondazione. Proprio il partito comunista e la sua presenza o meno alle primarie, è stato uno principali motivi di discussione. Non è un mistero che i democratici abbiano alzato muri da guerra fredda contro la partecipazione degli eredi della Falce&martello. Alla fine, l’ipotesi che è emersa è semplicemente quella che promotori delle primarie debbano essere solo i partiti attualmente al Governo della città ma che, come abbiamo detto in apertura, le urne siano aperte a tutti quanti si riconoscono nel programma del centrosinistra. Spetterà al candidato sindaco vincente, decidere su eventuali alleanze al primo o al secondo turno. Non è neppure un segreto che il pensiero del sindaco uscente Cacciari si possa sintetizzare così: “Per vincere, in Italia come a Venezia, è necessario lasciar fuori Rifondazione, allearsi con l’Udc e costruire un centro sinistra che guardi sempre di più al centro e sempre meno a sinistra”. Il prossimo marzo, Venezia dovrà dire se il suo sindaco uscente ha ragione. Per adesso lo scoglio da superare è quello della raccolta firme per la candidatura. Ce ne vogliono duemila da trovare in dieci giorni. Son tante. La gara, democratici permettendo, parte il 16 dicembre. E pochi si stupirebbero se a Natale i candidati fossero meno di quattro.
Un candidato legittimato dal sindaco uscente, Massimo Cacciari, e che sin dall’inizio si è detto contrario al passaggio delle primarie, insistendo per una “investitura” unica e di largo respiro da parte della base democratica. Operazione ben al di là dal concretizzarsi, considerato che l’assemblea comunale del Pd che doveva lanciare Orsoni è stata fatta slittare varie volte e ancora non è chiaro se e quando si svolgerà. Una corrente del partito inoltre, quella che fa capo a Marino e a Casson, ha già annunciato la presenza di un suo candidato, l’avvocato Alfiero Farinea. Quando saranno quindi i candidati sindaci per il centrosinistra? A sfidare Gianfranco Bettin, ci sarà, per restare alle candidature ad oggi ufficializzate, il citato Orsoni, già assessore comunale al Patrimonio, e nome più conosciuto nei salotti che contano che nelle piazze: vicepresidente della Fondazione Cini, presidente della Compagnia della Vela, primo procuratore di San Marco e via discorrendo. Per chi lo ignorasse, i procuratori di San Marco, all’epoca della Serenissima, erano la carica più importante dopo il doge e si occupavano dell’amministrazione della basilica marciana e del suo tesoro. L’ordine è sopravvissuto anche alla caduta della Repubblica ma solo nominalmente. Oggi indossano bei costumi, sfilano alla festa del Boccolo e sono ben visti dal Patriarca. Orsoni rappresenta le mozioni democratiche Bersani e Franceschini più l’Udc. Primo incomodo in casa democratica dovrebbe essere, come abbiamo detto, Alfiero Farinea, che all’epoca del Petrolkiller fu uno degli avvocati di parte civile. Lo candida l’ex magistrato Felice Casson a nome della mozione Marino. La sua discesa in campo tuttavia non è ancora stata formalizzata. Pressoché certa invece, è la terza candidatura, quelle della vicentina Laura Fincato. Sempre di area democratica, attuale assessore alla Pianificazione della giunta Cacciari, ex socialista con un ricco curriculum politico alle spalle e moglie dell’attuale presidente della Fondazione Venezia, Giuliano Segre. Neppure a lei fa difetto quel “carburante pecuniario” così importante per la corsa elettorale. La Fincato ammicca all’area di Rifondazione. Proprio il partito comunista e la sua presenza o meno alle primarie, è stato uno principali motivi di discussione. Non è un mistero che i democratici abbiano alzato muri da guerra fredda contro la partecipazione degli eredi della Falce&martello. Alla fine, l’ipotesi che è emersa è semplicemente quella che promotori delle primarie debbano essere solo i partiti attualmente al Governo della città ma che, come abbiamo detto in apertura, le urne siano aperte a tutti quanti si riconoscono nel programma del centrosinistra. Spetterà al candidato sindaco vincente, decidere su eventuali alleanze al primo o al secondo turno. Non è neppure un segreto che il pensiero del sindaco uscente Cacciari si possa sintetizzare così: “Per vincere, in Italia come a Venezia, è necessario lasciar fuori Rifondazione, allearsi con l’Udc e costruire un centro sinistra che guardi sempre di più al centro e sempre meno a sinistra”. Il prossimo marzo, Venezia dovrà dire se il suo sindaco uscente ha ragione. Per adesso lo scoglio da superare è quello della raccolta firme per la candidatura. Ce ne vogliono duemila da trovare in dieci giorni. Son tante. La gara, democratici permettendo, parte il 16 dicembre. E pochi si stupirebbero se a Natale i candidati fossero meno di quattro.
Vicenza tra basi e inceneritori
12/12/2009TerraIn linea d’aria, Vicenza dista da Copenhagen pressappoco mille e cento chilometri. In linea di principio, tanto, tanto di più. Perlomeno nel modus pensandi dei democratici al governo della città che hanno proposto la costruzione di un inceneritore, indispensabile dicono “per non finire sommersi dai rifiuti come a Napoli”. L’ipotesi di un inceneritore di rifiuti nel capoluogo berico è stata avanzata dal consigliere democratico Luca Balzi che a gennaio la porterà in commissione e proporrà provocatoriamente che l’impianto venga realizzato proprio nell’area est del Dal Molin, dove migliaia di vicentini hanno sottoscritto un appello lanciato dal presidio No Dal Molin per la costruzione di un parco.
“Oggi nelle nostre discariche sotterriamo combustibile – ha sostenuto il consigliere del Pd - e se avete dei dubbi andate a vedere come funziona lo stabilimento di Brescia che ricava energia bruciano i rifiuti!” Balzi si riferisce alle cosiddette “ecoballe”, i grossi blocchi di rifiuti non riciclabili che, dopo varie fasi di trattamento, vengono bruciate per produrre energia verde. O meglio, energia che di verde ha solo il nome. La normativa italiana consente infatti l’utilizzo nelle “eco balle, sia pure per percentuali non superiori al 50 per cento, di vari rifiuti riciclabili come plastiche non clorurate, imballaggi come gli poliaccoppiati plastici, gomme sintetiche e altro, la cui combustione genera diossine. La stessa Unione Europea ha condannato l’Italia con sentenza del 22 dicembre 2008, perché il Cdr – sia pure la qualità migliore - non può essere considerato un nuovo prodotto “pulito” ma comunque un rifiuto e che quindi deve sottostare alle norme di sicurezza per salvaguardare la salute dei residenti. Ricordiamo, è storia recente, che la magistratura ha posto sotto inchiesta uno dei presunti “fiori all’occhiello” di questo genere di impianti, l’inceneritore di Pietrasanta, gestito dalla Veolia Environnement, per presunte manomissioni al software dell'impianto che avrebbero segnalato valori di diossina inferiori rispetto alla realtà. Il discorso sta tutto qua: se le ecoballe sono sufficientemente pulite da fibre contenenti cloro non producono diossina ma non riscaldano a sufficienza per coprire le spese dell’energia prodotta. Se sono ecoballe insufficientemente trattate, producono sì energia, ma pure diossine. Il nocciolo della questione sta tutta nei finanziamenti statali con cui il Governo “premia” – è proprio il caso di usare questo verbo – i comportamenti antiecologici. Ce lo spiega bene Cinzia Bottene, consigliera eletta nelle liste del No Dal Molin: “Questo inceneritore è una proposta arretrata, antieconomica, irrispettosa dell’ambiente e completamente estranea al progresso tecnologico. Aspetto che il Pd porti il progetto in commissione per dare battaglia perché questa è una scelta sbagliata, che non tiene conto delle nuove tecnologie, dei rischi legati alle emissioni, o al fatto che, come ha detto perfino Bertolaso, questi impianti sono addirittura antieconomici. La verità è che nessuno costruirebbe più inceneritori se non ci fossero i finanziamenti statali garantiti dai Cip 6. Un vero e proprio inganno, questo. Quei soldi dovrebbero essere destinati alle fonti rinnovabili. Solo nel nostro Paese il combustibile ricavato dai rifiuti e le fonti rinnovabili vengono messi sullo stesso piano”.
“Oggi nelle nostre discariche sotterriamo combustibile – ha sostenuto il consigliere del Pd - e se avete dei dubbi andate a vedere come funziona lo stabilimento di Brescia che ricava energia bruciano i rifiuti!” Balzi si riferisce alle cosiddette “ecoballe”, i grossi blocchi di rifiuti non riciclabili che, dopo varie fasi di trattamento, vengono bruciate per produrre energia verde. O meglio, energia che di verde ha solo il nome. La normativa italiana consente infatti l’utilizzo nelle “eco balle, sia pure per percentuali non superiori al 50 per cento, di vari rifiuti riciclabili come plastiche non clorurate, imballaggi come gli poliaccoppiati plastici, gomme sintetiche e altro, la cui combustione genera diossine. La stessa Unione Europea ha condannato l’Italia con sentenza del 22 dicembre 2008, perché il Cdr – sia pure la qualità migliore - non può essere considerato un nuovo prodotto “pulito” ma comunque un rifiuto e che quindi deve sottostare alle norme di sicurezza per salvaguardare la salute dei residenti. Ricordiamo, è storia recente, che la magistratura ha posto sotto inchiesta uno dei presunti “fiori all’occhiello” di questo genere di impianti, l’inceneritore di Pietrasanta, gestito dalla Veolia Environnement, per presunte manomissioni al software dell'impianto che avrebbero segnalato valori di diossina inferiori rispetto alla realtà. Il discorso sta tutto qua: se le ecoballe sono sufficientemente pulite da fibre contenenti cloro non producono diossina ma non riscaldano a sufficienza per coprire le spese dell’energia prodotta. Se sono ecoballe insufficientemente trattate, producono sì energia, ma pure diossine. Il nocciolo della questione sta tutta nei finanziamenti statali con cui il Governo “premia” – è proprio il caso di usare questo verbo – i comportamenti antiecologici. Ce lo spiega bene Cinzia Bottene, consigliera eletta nelle liste del No Dal Molin: “Questo inceneritore è una proposta arretrata, antieconomica, irrispettosa dell’ambiente e completamente estranea al progresso tecnologico. Aspetto che il Pd porti il progetto in commissione per dare battaglia perché questa è una scelta sbagliata, che non tiene conto delle nuove tecnologie, dei rischi legati alle emissioni, o al fatto che, come ha detto perfino Bertolaso, questi impianti sono addirittura antieconomici. La verità è che nessuno costruirebbe più inceneritori se non ci fossero i finanziamenti statali garantiti dai Cip 6. Un vero e proprio inganno, questo. Quei soldi dovrebbero essere destinati alle fonti rinnovabili. Solo nel nostro Paese il combustibile ricavato dai rifiuti e le fonti rinnovabili vengono messi sullo stesso piano”.
Arrivederci a Copenaghen
5/12/2009TerraSee you in Copenhagen. Ci vediamo tutti a Copenhagen, consapevoli che il Cop15 sarà solo una tappa di un percorso già avviato ma ancora tutto da decidere. I movimenti italiani arrivano all’appuntamento con una solida preparazione alle spalle. Tanto teorica quanto pratica. “Andiamo a Copenhagen con gli zaini colmi di idee, di proposte e di lotte – spiega Eugenio Pappalardo (Ya Basta) che ha organizzato la presenza della delegazione italiana No Logo Meeting nella capitale danese -. Solo per citare le ultime iniziative, ti ricordo l’occupazione dell’inceneritore di Schio nel vicentino sabato 28 gennaio, l’iniziativa sull’acqua bene comune a Belluno, la manifestazione davanti ai padiglioni di Stati Uniti e Cina alla Biennale di Venezia. Senza contare convegni e incontri tra cui quello nell’isola di San Servolo organizzato dall’Uni.Nomade”.
Gli italiani a Copenhagen saranno circa 250, un centinaio dei quali provenienti del Veneto. La rete No Logo Meeting avrà uno spazio tutto suo all’interno del network internazionale Climate Justice Action. “Copenhagen – conclude Eugenio – sarà soprattutto un trampolino da cui rilanciare tutta una serie di battaglie per il clima da articolare nei territori”. La questione centrale del Cop15 non è tanto rispondere alla domanda “Come sarà la terra tra cento anni?” quanto stabilire quello che c’è da fare sin da subito. “La modificazione del pianeta è in atto già da qualche anno – spiega il verde Beppe Caccia – tutti i giorni dobbiamo fare i conti con miriadi di catastrofi ambientali che hanno pesanti ricadute sociali. Pensiamo all’organizzazione della produzione agroalimentare e del consumo, pensiamo solo al drammatico fenomeno dei profughi ambientali e delle migrazioni per ragioni climatiche. E’ oggi e non tra cent’anni che dobbiamo aprire una nuova fase. Il balletto dei governo maggiormente responsabili di emissioni di Co2 che propongono di dilazionare gli interventi proponendo la scadenza del 2050 è solo un tentativo di dilazionare le loro responsabilità”. Copenhagen sarà essenzialmente una grande vetrina in cui si misurerà il livello di coscienza planetaria. Quello che non sarà, come qualcuno auspica e qualcun’altro paventa, una Seattle 2.0. Allora, la rivolta scoppiò all’interno di un quadro trionfante in cui il neo liberismo dettava la ricetta della globalizzazione, imponendo organismo sovranazionali quali il Wto. Oggi, questo quadro sta attraversando una profonda crisi. “Crisi che ha confermato la correttezza di molte analisi avanzate a suo tempo dal movimento no global – conclude Caccia – I trent’anni ingloriosi del neo liberalismo sono stati messi in crisi dagli effetti della sua stessa economia nonostante qualcuno, busines as usual, reagisca allo sbandamento riproponendo quegli stessi strumenti finanziari virtuali ma con effetti concreti nella vita quotidiana di milioni di persone che avevano prodotto le bolle speculative che hanno originato la crisi. Oggi attraversiamo una stagione segnata dalla fine del mito illusorio dello sviluppo insostenibile ma anche dalla fine dell’illusione che i processi di globalizzazione possano essere guidati da una sola superpotenza: gli Stati Uniti. Qualcuno dovrà pur dirlo che la più grande multinazionale oggigiorno è il partito comunista cinese”.
Gli italiani a Copenhagen saranno circa 250, un centinaio dei quali provenienti del Veneto. La rete No Logo Meeting avrà uno spazio tutto suo all’interno del network internazionale Climate Justice Action. “Copenhagen – conclude Eugenio – sarà soprattutto un trampolino da cui rilanciare tutta una serie di battaglie per il clima da articolare nei territori”. La questione centrale del Cop15 non è tanto rispondere alla domanda “Come sarà la terra tra cento anni?” quanto stabilire quello che c’è da fare sin da subito. “La modificazione del pianeta è in atto già da qualche anno – spiega il verde Beppe Caccia – tutti i giorni dobbiamo fare i conti con miriadi di catastrofi ambientali che hanno pesanti ricadute sociali. Pensiamo all’organizzazione della produzione agroalimentare e del consumo, pensiamo solo al drammatico fenomeno dei profughi ambientali e delle migrazioni per ragioni climatiche. E’ oggi e non tra cent’anni che dobbiamo aprire una nuova fase. Il balletto dei governo maggiormente responsabili di emissioni di Co2 che propongono di dilazionare gli interventi proponendo la scadenza del 2050 è solo un tentativo di dilazionare le loro responsabilità”. Copenhagen sarà essenzialmente una grande vetrina in cui si misurerà il livello di coscienza planetaria. Quello che non sarà, come qualcuno auspica e qualcun’altro paventa, una Seattle 2.0. Allora, la rivolta scoppiò all’interno di un quadro trionfante in cui il neo liberismo dettava la ricetta della globalizzazione, imponendo organismo sovranazionali quali il Wto. Oggi, questo quadro sta attraversando una profonda crisi. “Crisi che ha confermato la correttezza di molte analisi avanzate a suo tempo dal movimento no global – conclude Caccia – I trent’anni ingloriosi del neo liberalismo sono stati messi in crisi dagli effetti della sua stessa economia nonostante qualcuno, busines as usual, reagisca allo sbandamento riproponendo quegli stessi strumenti finanziari virtuali ma con effetti concreti nella vita quotidiana di milioni di persone che avevano prodotto le bolle speculative che hanno originato la crisi. Oggi attraversiamo una stagione segnata dalla fine del mito illusorio dello sviluppo insostenibile ma anche dalla fine dell’illusione che i processi di globalizzazione possano essere guidati da una sola superpotenza: gli Stati Uniti. Qualcuno dovrà pur dirlo che la più grande multinazionale oggigiorno è il partito comunista cinese”.
L'acqua e il federalismo
5/12/2009TerraFederalismo. Chi sarà mai costui? Prendiamo ad esempio l’acqua. La provincia di Venezia decide all’unanimità – da destra a sinistra passando per il centro - che l’acqua della gronda lagunare è e deve restare pubblica. Il Governo impone che l’acqua deve essere privatizzata. E non ha importanza se il servizio in loco funziona, se il servizio è più economico tanto per il pubblico quanto per le tasche del contribuente. Non ha importanza neppure la qualità complessiva del servizio integrato di gestione delle acque e quanto di buono è stato realizzato all’interno di codesto servizio come, tanto per fare un esempio, la campagna per aiutare le popolazioni colpite dalla siccità.
Tutto questo non conta. L’acqua va comunque privatizzata. Ecco. Non è questo, il federalismo. Qui si va in direzione contraria. E con tutta probabilità, il verde Ezio Da Villa, aveva annusato l’aria di tempesta che tirava da Roma quando, nel maggio scorso, in una delle sue ultime azioni come assessore provinciale all’Ambiente aveva convinto il consiglio dell’Aato (autorità d'ambito territoriale ottimale della laguna che comprende 26 Comuni dell’entroterra) ad affidare per i prossimi dieci anni la gestione dell’acqua veneziana a Veritas, una spa a capitale interamente pubblico finanziata dai Comuni dell’entroterra veneziano. Perlomeno per i prossimi dieci anni quindi, a Venezia potremmo continuare a bere in tutta tranquillità l’ottima “acqua del sindaco” e a un prezzo tra i più bassi d’Italia. E proprio il sindaco di Venezia, è notizia di questi giorni, sta valutando l’ipotesi di presentare un ricorso alla corte costituzionale contro la legge del Governo che impone la privatizzazione forzata. Un ricorso, anche questo, da presentare in nome dell’autonomia di un Comune nella gestione di un bene che appartiene alla gente del Comune. Che è anche un altro modo per dire “federalismo”, quello vero. Gli dà mandato a tal proposito, una delibera presentata dal gruppo verdi e approvata a larga maggioranza dal consiglio comunale. Un’altra delibera, anch’essa votata dal consiglio di Venezia, introduce il concetto di acqua come bene comune a gestione pubblica anche nello statuto comunale. Battaglie queste, che gli ambientalisti stanno portando avanti non per difendere acriticamente carrozzoni statali o principi ideologici del genere “pubblico sempre bello, privato sempre cattivo”, ma nel nome di un autentico federalismo. Un federalismo che pone al primo posto l’autonomia delle comunità locali nella scelta della gestione di un bene comune. Perché non spetta al parlamento nazionale e tanto meno al governo centrale aprire forzatamente la porta dell’azionariato privato alla gestione dell’acqua di Venezia né di altre città. Una battaglia, lo avrete intuito, che scava come un badile nelle contraddizioni della Lega.
Tutto questo non conta. L’acqua va comunque privatizzata. Ecco. Non è questo, il federalismo. Qui si va in direzione contraria. E con tutta probabilità, il verde Ezio Da Villa, aveva annusato l’aria di tempesta che tirava da Roma quando, nel maggio scorso, in una delle sue ultime azioni come assessore provinciale all’Ambiente aveva convinto il consiglio dell’Aato (autorità d'ambito territoriale ottimale della laguna che comprende 26 Comuni dell’entroterra) ad affidare per i prossimi dieci anni la gestione dell’acqua veneziana a Veritas, una spa a capitale interamente pubblico finanziata dai Comuni dell’entroterra veneziano. Perlomeno per i prossimi dieci anni quindi, a Venezia potremmo continuare a bere in tutta tranquillità l’ottima “acqua del sindaco” e a un prezzo tra i più bassi d’Italia. E proprio il sindaco di Venezia, è notizia di questi giorni, sta valutando l’ipotesi di presentare un ricorso alla corte costituzionale contro la legge del Governo che impone la privatizzazione forzata. Un ricorso, anche questo, da presentare in nome dell’autonomia di un Comune nella gestione di un bene che appartiene alla gente del Comune. Che è anche un altro modo per dire “federalismo”, quello vero. Gli dà mandato a tal proposito, una delibera presentata dal gruppo verdi e approvata a larga maggioranza dal consiglio comunale. Un’altra delibera, anch’essa votata dal consiglio di Venezia, introduce il concetto di acqua come bene comune a gestione pubblica anche nello statuto comunale. Battaglie queste, che gli ambientalisti stanno portando avanti non per difendere acriticamente carrozzoni statali o principi ideologici del genere “pubblico sempre bello, privato sempre cattivo”, ma nel nome di un autentico federalismo. Un federalismo che pone al primo posto l’autonomia delle comunità locali nella scelta della gestione di un bene comune. Perché non spetta al parlamento nazionale e tanto meno al governo centrale aprire forzatamente la porta dell’azionariato privato alla gestione dell’acqua di Venezia né di altre città. Una battaglia, lo avrete intuito, che scava come un badile nelle contraddizioni della Lega.
C'era una volta un ghiacciaio
5/12/2009TerraC’era una volta un ghiacciaio. Lassù, nel cuore delle Dolomiti. Alle pendici delle vette più alte della Marmolada si stendeva il ghiacciaio più grande. Per arrivarci toccava scarpinare su uno delle vie più famose delle Alpi, la via ferrata della Marmolada, che dal lago Fadaia, un tempo confine tra la Serenissima e il principato di Bressanone, per il versante nord del gruppo ci porta alla Forcella sino ai 3 mila e 342 metri di altezza di Punta Penia. Il viennese Paul Grohmann, il pioniere dell'alpinismo dolomitico, accompagnato dalle storiche guide cortinesi Angelo e Fulgenzio Dimai, fu il primo ad arrampicarsi su questi monti, percorrendo quella che ancora oggi si chiama via "del ghiacciaio". Era il 28 settembre del 1864. Oggi, solo le immagini in bianco e nero scattate nell’epoca dell’alpinismo eroico, possono riportarci indietro di oltre cent’anni e restituirci quei maestosi paesaggi che non vedremo più. Il fronte del grande ghiacciaio della Marmolada arretra sempre più velocemente: 45 metri negli ultimi 15 anni, secondo la mappatura realizzata dal centro sperimentale Valanghe e difesa idrogeologica di Arabba.
Miglior sorte non arride agli altri ghiacciai dolomitici: l’Antelao nello stesso periodo di tempo ha perso di 50 metri. Un grafico, quello delle temperature e dei conseguenti scioglimenti, che registra impennate sempre più verticali. Negli ultimi 5 anni, l’innalzamento delle medie stagionali ha cacciato indietro il ghiacciaio della Fradusta nelle Pale di San Martino di 35 metri, quello del Travignolo di 75 e il maestoso ghiacciaio del Cristallo di ben 90 metri. A voler ridurre il problema ad una statistica, possiamo affermare che i fronti dei ghiacciai dolomitici, dal 1980, registrano un costante arretramento medio di 5 o 6 metri all’anno. Di tanti giganti, le cui “nevi eterne immacolate al sol” erano inneggiate nelle canzoni popolari, resistono ancora soltanto spruzziate di neve nelle zone più protette, negli anfratti posti sotto i ripidi pendii delle cime. Irrimediabilmente estinti i ghiacciai più piccoli come il ghiacciaio delle Mesules e quello di Pisciadù nel settore settentrionale del Gruppo del Sella, il ghiacciaio di Cimo Cadin e di Antemia nella Marmolada, il ghiacciaio di Dentro del Froppa sulle Marmarole e il ghiacciaio del Pelmo. In compenso, la storia ha lasciato sui sentieri montuosi altri ricordi: trincee, caserme, piazzole per l’artiglieria, camminamenti militari, resti di teleferiche... Mute testimonianze delle tragedie che insanguinarono le forcelle durante la Grande Guerra.
Ma non è neppure necessario riavvolgere l’orologio della storia sino alla prima guerra mondiale per ricordare la montagna com’era e come non è più. Non è neppure necessario essere scalatori. Bastano due piedi e la passione di camminare “tra boschi e valli d’or”. Vent’anni fa, per percorrere le vie che salivano oltre i 2 mila e 200 – 2 mila e 400 metri, era indispensabile munirsi di un buon equipaggiamento da neve. Oggi, già a metà giugno, negli alti sentieri delle Dolomiti è scomparsa qualsiasi traccia di neve.
“Quando si parla di cambiamenti climatici, si citano sempre statistiche a lungo termine e discussioni accademiche dove esperti o presunti tali disquisiscono a lungo con ragionamenti che ben difficilmente vengono calati nella vita quotidiana. Chi vive in montagna, o meglio, chi vive la montagna, non ha bisogno di tanti dati per capire che qualcosa è già cambiata per sempre: stagioni o troppo calde o troppo fredde, periodi di inaspettata siccità seguiti da momenti di forti precipitazioni. Stiamo vivendo un rapido susseguirsi di eventi meteorologici estremi. E questo è un dato che nessuno può più negare”. Luigi Casanova è uno che a buon diritto può affermare di “vivere la montagna”; prima boscaiolo, poi guardaboschi nel Comune di Moena, quindi sindacalista, sempre attivista di tante associazioni ambientali e pacifiste. Adesso è vicepresidente di Cipra Italia, acronimo che sta per commissione internazionale per la Protezione delle Alpi. “I mutamenti climatici non sono solo questioni percettive di caldo - freddo o umido- secco che possono essere soggettive o dipendere dal luogo o anche dalla memoria storica di una persona – spiega -. La montagna sta cambiando. Negli anni sessanta la copertura boschiva di larici arrivava ai 1700 metri o al massimo ai 1900. Oggi il rimboschimento nelle Dolomiti sfora i 2 mila e 100 metri. E gli animali? Anche le loro abitudini stanno cambiando. Vent’anni fa per fotografare il re dei boschi, il gallo cedrone, dovevo stare tra i mille e 300 e i mille 600 metri. Oggi, quei pochi esemplari rimasti si spingono oltre i 2 mila metri”.
Ma le grandi vittime del clima impazzito sono i ghiacciai. I grandi vecchi delle Dolomiti sembravano eterni ed invece erano così fragili. Un aumento statistico di pochi gradi in pochi decenni è bastato per cancellarli dalla geografia. Luigi Casanova ne parla come di vecchi amici scomparsi: “Non ci sono più ghiacciai nelle Dolomiti. O sono sciolti o sono talmente ridimensionati che parlarne come di ghiacciai sembra una presa in giro. Il grande Marmolada che neanche tanto tempo fa, ancora negli anni ’70, scendeva a 2 mila 550 metri, oggi lo prendi a 2 mila 750. E ogni stagione si ritira sempre di più”. Siamo riusciti ad ammazzare pure i ghiacciai? “Pare proprio di sì. Anche nella migliore delle ipotesi, sarebbe impossibile ripristinare le condizioni climatiche di un secolo fa. Teniamo anche presente che di fronte a questi mutamenti epocali, la politica è sorda, cieca e muta. Chi governa è incapace di programmare una politica di lungo periodo, pure se la tecnologia per ridurre le emissioni di Co2 già sarebbe disponibile. Viviamo in un mondo che ci sta crollando sotto i piedi, sia in senso fisico che metaforico. Le certezze dei nostri vecchi, la sacralità delle risorse comuni... tutto è stato fagocitato da quel ‘progresso scorsoio’ di cui ha scritto Zanzotto. In questa corsa sfrenata, chi si ferma ad immaginare l’aspetto che il mondo che verrà tra vent’anni? Anche la cultura, anche il pensare è diventato un prodotto di consumo. La pigrizia dei politici e la politica di pigrizia della Confindistra arroccata a difendere un sistema economico insostenibile, ostacolano qualsiasi cambiamento, in un mondo in cambiamento”.
Miglior sorte non arride agli altri ghiacciai dolomitici: l’Antelao nello stesso periodo di tempo ha perso di 50 metri. Un grafico, quello delle temperature e dei conseguenti scioglimenti, che registra impennate sempre più verticali. Negli ultimi 5 anni, l’innalzamento delle medie stagionali ha cacciato indietro il ghiacciaio della Fradusta nelle Pale di San Martino di 35 metri, quello del Travignolo di 75 e il maestoso ghiacciaio del Cristallo di ben 90 metri. A voler ridurre il problema ad una statistica, possiamo affermare che i fronti dei ghiacciai dolomitici, dal 1980, registrano un costante arretramento medio di 5 o 6 metri all’anno. Di tanti giganti, le cui “nevi eterne immacolate al sol” erano inneggiate nelle canzoni popolari, resistono ancora soltanto spruzziate di neve nelle zone più protette, negli anfratti posti sotto i ripidi pendii delle cime. Irrimediabilmente estinti i ghiacciai più piccoli come il ghiacciaio delle Mesules e quello di Pisciadù nel settore settentrionale del Gruppo del Sella, il ghiacciaio di Cimo Cadin e di Antemia nella Marmolada, il ghiacciaio di Dentro del Froppa sulle Marmarole e il ghiacciaio del Pelmo. In compenso, la storia ha lasciato sui sentieri montuosi altri ricordi: trincee, caserme, piazzole per l’artiglieria, camminamenti militari, resti di teleferiche... Mute testimonianze delle tragedie che insanguinarono le forcelle durante la Grande Guerra.
Ma non è neppure necessario riavvolgere l’orologio della storia sino alla prima guerra mondiale per ricordare la montagna com’era e come non è più. Non è neppure necessario essere scalatori. Bastano due piedi e la passione di camminare “tra boschi e valli d’or”. Vent’anni fa, per percorrere le vie che salivano oltre i 2 mila e 200 – 2 mila e 400 metri, era indispensabile munirsi di un buon equipaggiamento da neve. Oggi, già a metà giugno, negli alti sentieri delle Dolomiti è scomparsa qualsiasi traccia di neve.
“Quando si parla di cambiamenti climatici, si citano sempre statistiche a lungo termine e discussioni accademiche dove esperti o presunti tali disquisiscono a lungo con ragionamenti che ben difficilmente vengono calati nella vita quotidiana. Chi vive in montagna, o meglio, chi vive la montagna, non ha bisogno di tanti dati per capire che qualcosa è già cambiata per sempre: stagioni o troppo calde o troppo fredde, periodi di inaspettata siccità seguiti da momenti di forti precipitazioni. Stiamo vivendo un rapido susseguirsi di eventi meteorologici estremi. E questo è un dato che nessuno può più negare”. Luigi Casanova è uno che a buon diritto può affermare di “vivere la montagna”; prima boscaiolo, poi guardaboschi nel Comune di Moena, quindi sindacalista, sempre attivista di tante associazioni ambientali e pacifiste. Adesso è vicepresidente di Cipra Italia, acronimo che sta per commissione internazionale per la Protezione delle Alpi. “I mutamenti climatici non sono solo questioni percettive di caldo - freddo o umido- secco che possono essere soggettive o dipendere dal luogo o anche dalla memoria storica di una persona – spiega -. La montagna sta cambiando. Negli anni sessanta la copertura boschiva di larici arrivava ai 1700 metri o al massimo ai 1900. Oggi il rimboschimento nelle Dolomiti sfora i 2 mila e 100 metri. E gli animali? Anche le loro abitudini stanno cambiando. Vent’anni fa per fotografare il re dei boschi, il gallo cedrone, dovevo stare tra i mille e 300 e i mille 600 metri. Oggi, quei pochi esemplari rimasti si spingono oltre i 2 mila metri”.
Ma le grandi vittime del clima impazzito sono i ghiacciai. I grandi vecchi delle Dolomiti sembravano eterni ed invece erano così fragili. Un aumento statistico di pochi gradi in pochi decenni è bastato per cancellarli dalla geografia. Luigi Casanova ne parla come di vecchi amici scomparsi: “Non ci sono più ghiacciai nelle Dolomiti. O sono sciolti o sono talmente ridimensionati che parlarne come di ghiacciai sembra una presa in giro. Il grande Marmolada che neanche tanto tempo fa, ancora negli anni ’70, scendeva a 2 mila 550 metri, oggi lo prendi a 2 mila 750. E ogni stagione si ritira sempre di più”. Siamo riusciti ad ammazzare pure i ghiacciai? “Pare proprio di sì. Anche nella migliore delle ipotesi, sarebbe impossibile ripristinare le condizioni climatiche di un secolo fa. Teniamo anche presente che di fronte a questi mutamenti epocali, la politica è sorda, cieca e muta. Chi governa è incapace di programmare una politica di lungo periodo, pure se la tecnologia per ridurre le emissioni di Co2 già sarebbe disponibile. Viviamo in un mondo che ci sta crollando sotto i piedi, sia in senso fisico che metaforico. Le certezze dei nostri vecchi, la sacralità delle risorse comuni... tutto è stato fagocitato da quel ‘progresso scorsoio’ di cui ha scritto Zanzotto. In questa corsa sfrenata, chi si ferma ad immaginare l’aspetto che il mondo che verrà tra vent’anni? Anche la cultura, anche il pensare è diventato un prodotto di consumo. La pigrizia dei politici e la politica di pigrizia della Confindistra arroccata a difendere un sistema economico insostenibile, ostacolano qualsiasi cambiamento, in un mondo in cambiamento”.
Google map della solidarietà
20/11/2009TerraC’è una mappa diversa dalle altre, su Google Earth. La mappa di una “Città senza paura”. Una mappa per dire che gli uomini sono tutti uguali, che i diritti sono diritti di tutti e che non c’è sicurezza se la sicurezza non è di tutti. è la mappa di “Venezia libera”. E come tutte le mappe che si rispettino, anche questa invita a mettersi in cammino. Il primo passo sarà fatto questa sera a partire dalle ore 18:30 all’ex Plip di Mestre, via San Donà 195.
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
Tregua per i Paesi Baschi
14/11/2009TerraUna tregua immediata e una proposta in sette punti per cominciare a costruire un processo partecipato di pace nei Paesi Baschi. Alle 12,30 precise, in contemporanea con quanto avveniva nel capoluogo basco Vitoria-Gasteiz, nella sala dibattiti della biblioteca Marciana, Jone Goirizelaia, avvocata e portavoce della sinistra indipendentista basca – il braccio politico di Herri Batasuna – ha letto il comunicato con cui si invita il governo spagnolo a stabilire una tregua e a dare avvio ad un dialogo per trovare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina l’intero paese sin dalla morte di Francisco Franco.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
Promesse di futuro. Intervista con Edoardo Salzano
15/10/2009TerraPromesse per il futuro. Ecco una perfetta sintesi di quanto vedremo oggi e domani a Forte Marghera. Incontri, film, documentari, spettacoli e assemblee. Tanti temi per un solo scopo: inventare tutti insieme un modo diverso di immaginare il nostro futuro.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Il Veneto che vogliamo
15/10/2009TerraForte Marghera ha la forma di una stella e una storia antica alle spalle. Il più antico e il più grande dei forti storici che circondano Mestre e che un tempo costituivano l’anello difensivo della città lagunare, sul finire degli anni ’90 è stato restituito alla società civile come palcoscenico per una miriade di attività che spaziano dalla scuola di fumetto al mercatino biologico. Ma oggi e domani, negli ampi spazi verdi di Forte Marghera – quasi 50 ettari tra spazi verdi, canali navigabili, piste ciclabili e strutture coperte – andrà in scena il futuro. Per meglio dire, il futuro che vogliamo.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Corazon del tiempo
27/09/2009Terra
“Eppure Corazon del Tiempo non è un film di propaganda – ha spiegato Hermann Bellinghausen, in occasione dell’anteprima nazionale al Sale Docks di Venezia, venerdì 25 settembre – e non è neppure uno dei tanti documentari sullo zapatismo. Corazon del Tiempo è un film vero. Una fiction con attori che recitano un copione e che interpretano personaggi di fantasia, pur se il contesto è quello della quotidianità della lotta indigena volta a costruire autonomia e a difendere le terre recuperate e la biodiversità della selva”.
Il film che è già alla terza settimana di programmazione nelle sale di Città del Messico – “Un successo che certo non ci aspettavamo! In Messico stiamo sfiorando gli spettatori di Harry Potter!” confessa Hermann - è stato girato da una troupe di professionisti che per sei settimane si è trasferita nella selva Lacandona per lavorare con la giunta del Buon Governo Hacia La Esperanza. Non professionisti sono invece tutti gli attori. “Non potevamo fare a meno di utilizzare indigeni – conclude Hermann – Il film è loro ed è giusto che fossero loro a recitare. E, da quanto ne so, questo è il primo film in cui gli indigeni recitano da indigeni con piena coscienza. Il film non è un docudramma in cui una famiglia rappresenta la sua vita quotidiana. L’accordo iniziale infatti era che gli attori dovevano interpretare i vari personaggi all’interno di una sceneggiatura stabilita ma rimanendo sempre se stessi. Nessuno doveva fingere di essere zapatista a tutti i costi, piuttosto dovevano rappresentare lo zapatismo in forma collettiva”.
Dopo l’anteprima al Sale Docks, Corazon del Tiempo è stato proiettato a Vicenza, Milano e Firenze. Mercoledì 30 sarà a Napoli, e giovedì 1 ottobre a Roma. Agli incontri saranno presenti lo sceneggiatore Hermann Bellinghausen e Vilma Mazza, portavoce dell’associazione Ya Basta. Sempre a Ya Basta, può rivolgersi chi è interessato ad organizzare altre proiezioni. Tutti gli indirizzi sul sito www.yabasta.it.
Il battello dei diritti negati
2/08/2009Terra
La rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa una ventina di associazioni ha voluto denunciare con questa pacifica iniziativa i respingimenti che quotidianamente avvengono nel porto di Venezia dove i richiedenti asilo, minorenni compresi, sono espulsi in maniera assolutamente illegale, come ha sancito la stessa Corte di Giustizia europea, e rimandati in paesi dove li attende un destino di fame, torture e morte.
Il battello dei diritti ha concluso il suo navigare nelle acque antistanti il porto di Venezia dove i manifestanti hanno gettato in acqua corone di fiori per ricordare tutti coloro che, come il tredicenne Zaher Rezai, hanno attraversato il mare per cercare un posto in cui vivere in pace e, proprio nel porto della città lagunare, sono morti nel tentativo di esercitare un diritto legittimo come quello della richiesta d’asilo.
Da riva, nessuna disponibilità al dialogo da parte dell’autorità portuale. Ii commissario Paolo Costa, personaggio che a Vicenza significa “Dal Molin”, a Venezia “Mose” e in val di Susa “Tav”, ha rifiutato qualsiasi incontro e qualsiasi spazio informativo, sostenendo che “l’area della marittima non può essere concessa per alcuna manifestazione”. E intendeva quella stessa area in cui ogni anno si organizzano feste di carnevale, saloni nautici, fiere enogastronomiche, mostre di cani e gatti. I diritti umani, si vede, su queste banchine non contano niente.