In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Fiaccole di pace
11/01/2011Terra
Il presidio invita quindi tutti i cittadini ad illuminare Vicenza con una grande fiaccolata, la sera di sabato prossimo, portando in piazza la stessa dignità e la stessa indignazione di quattro anni fa e di far sentire forte la voce di un movimento tutt’altro che sconfitto ma cresciuto e maturato in anni duri ma anche straordinari. Un movimento che ha contribuito a cambiare il linguaggio della politica strutturando e riempiendo di significati concetti come “beni comuni” e democrazia dal basso”, e ottenendo anche importanti risultati. Ne sia un esempio, si legge in un comunicato del presidio, il Parco della Pace. I primi progetti della base prevedevano il passaggio dell’intero perimetro del Dal Molin all’esercito Usa. Se oggi questa prospettiva è cambiata, sottraendo spazio alla base militare per destinarlo ad un uso pubblico verde, è solo grazie alla mobilitazione dei vicentini. “Per questo – conclude Olol Jackson – in occasione della fiaccolata chiederemo che il Parco della Pace venga consegnato al più presto alla comunità vicentina. Su questo punto, come sui reali danni al territorio che la costruzione della base sta causando, dobbiamo pretendere verità e giustizia, consapevoli del fatto che nessuno ci regalerà nulla ma tutto ce lo dovremo conquistare con le nostre mobilitazioni”.
Nasce a Venezia l'Osservatorio contro la Discriminazione
23/12/2010TerraL’ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, Unar, ha sottoscritto un protocollo d'intesa con il Comune di Venezia che prevede l’istituzione di un osservatorio contro il razzismo nella città lagunare. L’annuncio è stato dato dal direttore dell’Unar, Massimiliano Monnanni, in occasione dell’incontro “Io non discrimino”, organizzato dalla rete Tuttiidirittiumanipertutti lunedì 20 dicembre nella scoletta dei Calegheri. L’accordo tra l’ufficio del ministero per le Pari opportunità e il Comune è stato fortemente voluto dall’assessore alla pace, Gianfranco Bettin. Sarà, questo di Venezia, un osservatorio atipico per due motivi principali. Il primo, lo ha sottolineato lo stesso Monnanni, sta nel fatto che, per la prima volta, un osservatorio Unar avrà una dimensione comunale e non regionale.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Tutti i tentativi dall’Ufficio anti discriminazioni di avviare una struttura veneta, così come fatto in altre regioni d’Italia, sono sempre naufragati di fronte allo scarso interesse dimostrato dalla giunta regionale. Che è un modo edulcorato per dire che ai leghisti che la fanno da padrone in Regione Veneto, dell’antirazzismo non gliene frega niente. Anzi.
L’osservatorio veneziano avrà il difficile compito di uscire dai confini lagunari, bypassando il menefreghismo regionale, di monitorare la situazione ed intervenire - anche avviando procedure legali - in un territorio dove gli episodi a fondo razzista non soltanto non sono più casi isolati, ma spesso hanno per protagonisti gli stessi rappresentanti delle istituzioni. Ricordiamo solo le dichiarazioni della sindaca di Cison di Treviso, Cristina Pin, che recentemente ha invocato il “taglio delle mani” per castigare i ladri. Solo per i ladri di origine rom, si intende. Per i finanzieri bancarottieri, gli imprenditori mafiosetti o i politici mazzettari invece, niente taglio delle mani ma va applicata sempre la solita corsia privilegiata. Un ruolo importante in questo senso lo giocano i giornali che troppo spesso continuano ad usare termini fuorvianti come “nomade” o “clandestino”, o che riportano acriticamente affermazioni a sfondo razzista. Il diritto di cronaca è una cosa, scrivere fesserie un’altra. Un esempio? Le continue dichiarazioni della presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, che continua ad attaccare i sinti definendoli “extracomunitari”, “nomadi” o “stranieri” quando sa benissimo che non sono affatto nomadi ma “stanziali” perlomeno quanto lei, hanno tutti la cittadinanza italiana e risiedono a nell’entroterra veneziano dal primo dopoguerra. E comunque erano italiani anche prima considerato che la loro comunità proviene da Trieste.
Ma oltre a controbattere dichiarazioni becere, l’osservatorio avrà un secondo compito fondamentale: fare da grimaldello per entrare con i crismi dell’ufficio ministeriale, dentro quel “bunker” che fa da barriera ai più elementari diritti umani che è il porto di Venezia. La morte del giovane Zaher e di altri richiedenti asilo non sono bastate alla polizia di frontiera che – in nome della sicurezza nazionale - ancora continua a chiudere i cancelli in faccia alle associazioni e ai mediatori del Comune che chiedono solo di assistere i richiedenti asilo nelle procedure previste dalla legge italiana ed internazionale. “Il porto di Venezia, così come il porto di Brindisi, – ha spiegato Alessadra Sciurba – continua ad essere un limbo dove i più elementari diritti umani sono negati. I migranti, molti dei quali minorenni, vengono illegalmente rispediti a Patrasso e da là ai paesi di origine dove li attende un carcere disumano. E dico illegalmente perché il tribunale europeo ha accolto un nostro esposto e ha sanzionato sia l’Italia che la Grecia. La polizia di frontiera, nonostante le nostre richieste, non ci ha mai fornito neppure una statistica a proposito. Si comportano proprio come se questa gente non esistesse. Mi auguro che l’osservatorio possa essere un ariete per buttare giù tutta questa vergognosa indifferenza”.
Foreste certificate
21/12/2010TerraIl tavolo di legno che avete a casa non è soltanto un semplice pezzo di legno lavorato. Neanche la credenza, le travi del soffitto, le porte, gli infissi delle finestre, la vostra biblioteca e i libri della vostra biblioteca. La carta, ricordiamocelo, è anch’essa un prodotto ligneo. E neppure le “bricole” che, nella mia città, Venezia, delimitano i canali navigabili dalle secche, sono solo pezzi di legno piantati in acqua. Perché, la prima cosa da mettere in chiaro, è che c’è legno e legno. E non è una sottigliezza da poco. Uno studio commissionato dalla Comunità europea ha dimostrato che oltre il 35% del legno che circola in Europa proviene da fonte illegale. Che significa “fonte illegale” nel caso di un’asse di legno da lavorare?
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Significa che proviene da un albero abbattuto abusivamente (il “bracconaggio” del legname nei parchi è un fenomeno in forte crescita nell’est Europa, Romania e Bosnia soprattutto) oppure frutto di una politica di deforestazione selvaggia in atto in paesi come Brasile, Congo e Indonesia. Non è il caso di tornare in questa sede su tematiche cui Terra ha dato ampio spazio come le drammatiche conseguenze sociali, ambientali e climatiche causate dal disboscamento delle foreste tropicali. Vediamo piuttosto cosa possiamo fare noi e cosa possono fare le nostre amministrazioni per combattere tutto questo.
Tra due anni, nel gennaio del 2013, entrerà in vigore nella Comunità Europea la cosiddetta “Due diligence”, traducibile con “diligenza dovuta”. Si tratta di un regolamento che mira a scoraggiare il commercio illegale del legno e dei suoi derivati, prevedendo una serie di adempimenti da parte degli operatori per garantire l’identificazione del prodotto e la sua tracciabilità. Ma anche senza aspettare il 2013, qualcosa possiamo fare anche noi consumatori chiedendo alle aziende lavorano il legno – dal mobilificio all’editore – di dotarsi di un marchio di certificazione forestale che garantisca che la pianta da cui proviene il materiale proviene da una foresta rintracciabile e gestita con criteri di sostenibilità ambientale. Attualmente sono in vigore due marchi, Pefc e Fsc, considerati equivalenti dalla Comunità Europea, nati da diverse associazioni ambientali e aziende produttrici, ma che offrono le stesse garanzie di rintracciabilità delle filiera verde del prodotto. “Il marchio di certificazione forestale garantisce il consumatore che l’ambiente non è stato devastato per produrre la sua matita, il suo fazzoletto da naso, il giornale che legge o la stessa casa in legno che abita – spiega Antonio Brunori, segretario generale Pefc Italia -. Dal punto di vista dell’azienda che lavora il legno, il certificato dimostra che è attenta alle politiche ambientali e che i suoi sono prodotti verdi. Per molte aziende, questo è un passo necessario per rimanere sul mercato. Ma un passo decisivo lo stanno facendo tutte quelle pubbliche amministrazioni che negli appalti inseriscono i criteri Gpp, Green Public Procurement (acquisti verdi.ndr), e impongono come standard di gara il possesso di una certificazione forestale”. C’è da dire che anche sulla certificazione forestale, come su tutte le politiche di acquisto verde, il nostro Paese non brilla quanto il resto d’Europa. Solo 900 aziende che lavorano il legno su un totale di 83 mila usano prodotti certificati. C’è da considerare che tra queste 83 mila, buona parte sono piccole botteghe tradizionali che adoperano il legno del proprio bosco, non certificato ma comunque “pulito”. Ma la percentuale rimane comunque troppo bassa. Inoltre, quasi tutte queste aziende certificate risiedono nel Trentino Alto Adige. Una regione che ha fatto della sostenibilità ambientale e dei Gpp il suo marchio di fabbrica.
“Sia nella mia provincia che in quella di Bolzano – spiega Giovanni Giovannini, guardia forestale della provincia autonoma di Trento – siamo riusciti a certificare Pefc l’85 dei nostri boschi contro una media italiana che sta attorno all’8%. Il che significa che il nostro legno è tagliato e lavorato rispettando l’ambiente secondo criteri sia di sostenibilità e di oculata gestione forestale. Il che garantisce anche un reddito a chi lavora in montagna e può continuare ad abitarla e a farla vivere. Il Pefc non è solo legno ma anche miele, frutti di bosco, funghi, estratti come il pino mugo. Prodotti verdi da una foresta certificata verde. Non è per caso che nel Trentino ci siano più alberi oggi che mezzo secolo fa”.
Trieste: Sandro Metz candidato sindaco
14/12/2010TerraFosse al potere la fantasia, “Sandrone” Metz sarebbe il candidato sindaco del centro sinistra alle prossime amministrative di Trieste. Non fosse altro per la campagna elettorale tutta al contrario che si era inventato: “Io non voto Alessandro Metz perché…” e a seguire video, fotografie e mail di personaggi noti ma anche di persone comuni, tutti a spiegare sorridendo che un tipo così non lo avrebbero mai votato perché “preferisco una triste inquinata e un po’ mafiosetta” oppure perché “ci ha un cognome da extracomunitario clandestino!” Invece l’avventura del candidato sindaco Alessandro Metz termina alle 21 di domenica 12 dicembre, quando si aprono le urne e i risultati parlano chiaro: il 56 per cento degli elettori del centrosinistra ha scelto Roberto Casolini.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Sarà lui a sfidare il candidato che la destra metterà in campo per continuare a governare il capoluogo giuliano, come già fa da oltre dieci anni. A Trieste insomma, non si è ripetuto il miracolo a Milano. I 4400 elettori – pochi per la verità – hanno scelto la continuità e rispettato l’ordine di scuderia impartito dal Pd. Roberto Casolini è il classico politico di professione: segretario provinciale dei democratici, già assessore regionale nella precedente giunta di centrosinistra e delfino di quel Riccardo Illy che da queste parti ben pochi ricordano con nostalgia, espressione come era di una sinistra ben poco sinistra, tutta schierata dalla parte di Confindustria, che nel Friuli ha portato avanti una politica ambientale che neppure col bilancino si riuscirebbe a distinguerla da quella del centrodestra. Da sottolineare il buon risultato del candidato di Rifondazione, Marino Andolina, che si è portato a casa il 35% dei voti impostando la campagna elettorale sullo slogan “prima il lavoro”, appiattendosi a difendere situazioni occupazionali insostenibili tanto dal punto di vista economico quanto da quello ambientale, come l’inquinantissima Ferriera di Servola; residuato di un ciclo siderurgico nato nel 1896 in epoca asburgica e che da oltre un secolo si trascina tra fallimenti, gestioni commissariate, casse integrazioni, licenziamenti e riduzioni di personale, compravendite più o meno chiare, rilanci produttivi più o meno finanziati dallo Stato, ma che comunque continua ad ammorbare l’aria di Trieste nel sacro nome di una economia capitalista e sviluppista il cui destino, presto o tardi, è già segnato. Ma c’è sempre chi dice ancora “prima il lavoro”. “Sandrone” Metz con il suo 9% di preferenze ottenuto da Progetto Comune, ha provato ad andare oltre tutto questo. Oltre gli schemi di una vecchia politica. Oltre la destra ma soprattutto oltre la sinistra. Ha cercato di coalizzare movimenti e ambientalismo senza bussare prima alle segreterie dei partiti. Segreterie sempre più in crisi ma che hanno comunque ancora il potere di far candidare i loro segretari. Toccherà quindi ad un segretario di partito, il democratico Roberto Casolini, inventarsi qualcosa per provare a convincere gli elettori triestini che questa sinistra riuscirebbe comunque a governare meglio di questa destra. Dall’altra parte della barricata, il candidato sindaco del Pdl, nonché senatore di provata fede berlusconiana, Roberto Antonione, più che Casolini, teme gli ex alleati finiani. Il destino della città dipende da una alta questione di etica politica: cioè da come andranno le cose a livello nazionale con quella menata di “fiducia sì e fiducia no”. Ma è evidente che Trieste potrebbe rivelarsi la piazza ideale per una bella vendetta trasversale. Nessuno esclude che, a mo’ di regalo di Natale, il Fli triestino del “dissidente” Roberto Menia decida di mettere in campo un proprio candidato. Come dire “dagli amici mi guardi dio che dai nemici mi guardo io”. E così, anche a Trieste, come in tante altre città italiane, un centro sinistra senza orizzonte e senza novità riuscirà a spuntarla solo se la destra farà peggio di lui. Impresa difficile ma non impossibile.
Zaher, due anni dopo
14/12/2010TerraDue anni fa un ragazzino afghano moriva stritolato dalle ruote di un camion in manovra nella banchina del porto di Venezia. Si chiamava Zaher Rezai, aveva appena 12 anni e scriveva poesie. “Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi o dio, che non lascerai che finisca la mia primavera” troveremo scritto nel suo taccuino sporco del suo sangue. Zaher era sbarcato da una di quelle grandi navi traghetto che percorrono incessantemente la rotta Patrasso – Venezia. Aveva attraversato l’Adriatico nascosto in uno dei tanti container, così come fanno tutti gli altri profughi che sbarcano nel porto lagunare.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.
Come sia riuscito a scappare dal’Afghanistan, come, ancora bambino, abbia attraversato la Turchia e la Grecia sino a riuscire ad imbarcarsi nel porto di Patrasso, è una storia che non conosceremo mai perché è morta con lui, l’11 dicembre di due anni fa, sotto le ruote di quel camion, mentre cercava di eludere i controlli della polizia di frontiera. Polizia che, Zaher lo sapeva bene, lo avrebbe rispedito in Grecia nonostante la legge italiana e le normative internazionali dichiarino l’obbligatorietà di tutelare i richiedenti asilo, soprattutto se minorenni. Una pratica illegittima, già condannata dal tribunale europeo che ha accolto a tale proposito un ricorso presentato dalla rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti, ma che continua ad essere la norma nei porti italiani. Nonostante Zaher e altri che come lui hanno perso la vita alle nostre frontiere, i porti continuano ad essere zone franche dove i diritti non contano e la discrezionalità della polizia di frontiera è elevata a legge. Gli operatori per i rifugiati e i mediatori culturali sono tenuti fuori della zona portuale per non meglio precisate “questioni di sicurezza” e l’autorità portuale si rifiuta sistematicamente di fornire dati sul numero di migranti che puntualmente vengono rispediti in Grecia senza che i servizi competenti possano valutare la legittimità delle loro richieste di accoglienza. Neppure le donne incinta e i bambini, Zaher non è stato un caso, subiscono un trattamento migliore.
“Rimandare indietro un richiedente asilo è una pratica illegale – ha dichiarato Alessandra Sciurba della rete Tuttiidirittiumanipertutti -. Illegale e omicida, perché in Grecia il diritto d’asilo non esiste: i migranti vengono barbaramente deportati in Turchia e poi nei paesi di origine. Oppure uccisi come è successo solo poche settimane a un altro afghano di 25 anni sulla strada di Patrasso. Zaher non è morto per caso. Lo sistema di controllo che lo ha ucciso continua a funzionare ogni giorno annientando i diritti di migliaia di persone. Ricordare lui significa continuare a lottare anche per tutti gli altri che dalle frontiere dell’Adriatico e da quelle del Sud Italia vengono respinti verso la violenza o la morte e abbandonati nelle mani dei criminali”. Per ricordare Zaher e quanti come lui hanno perso la vita nel tentativo di vedere riconosciuto il loro diritto di asilo, la Rete ha deposto una lapide davanti al porto di Venezia. Davanti, perché l’autorità portuale non ha neppure concesso il permesso di depositarla nella strada dove è stato ucciso. “In ricordo di Zaher – si legge - ragazzo e poeta, fuggito dalla guerra, ucciso a una frontiera che sognava di pace”.
L'Italia che parte da un sogno. Intervista con Michele Dotti
30/11/2010TerraDifficile presentare Michele Dotti. Scrittore e giornalista ma anche educatore e formatore, collabora con il Centro Ricerca Educazione allo Sviluppo ed è volontario, da oltre 16 anni, dell'associazione Mani Tese. Ha lanciato l'appello nazionale "Abbiamo un sogno" per avviare un cambiamento sociale e politico "dal basso" che in breve mesi ha raccolto migliaia di adesioni e ha scritto con Marco Boschini “L’anticasta. L’Italia che funziona”, editrice Missionaria Italiana. Gli chiediamo come mai ha scelto un titolo così controcorrente.
Perché credo che l'Italia reale non sia quella che ci mostrano ogni giorno i mass media, ma abbia un valore molto più grande al quale occorre dare visibilità. In questo senso, forse, il sottotitolo de "L'anticasta" ("L'Italia che funziona") è ancora più importante de titolo stesso ed esprime perfettamente lo spirito con cui, Marco ed io, abbiamo concepito questo libro. Noi pensiamo che "denunciare" gli sprechi, i privilegi e tutte le vergogne della Casta sia necessario e indubbiamente Rizzo e Stella lo hanno fatto con coraggio e grande lucidità nel loro splendido libro, ma forse questo non è sufficiente. Occorre in parallelo anche saper "annunciare" le alternative possibili, concrete e già realizzate con successo in tanti Comuni del nostro paese, che potrebbero diffondersi ancora più rapidamente di quanto già non stia avvenendo se solo avessero la visibilità che meritano. Ecco perché abbiamo scelto di dare loro voce, affinché queste esperienze virtuose possano replicarsi ovunque con grandi benefici da tutti i punti di vista: ecologico, economico, sociale, occupazionale, culturale... Questo è il nostro futuro!
Hai presentato questo volume in tante parti d’Italia, hai incontrato tanta gente e tante associazioni, cosa ti ha suscitato questa esperienza?
Sono sempre più ottimista, mano a mano che prendo consapevolezza del valore e della forza della società civile del nostro paese! Girando l’Italia per i miei numerosi incontri respiro una crescente sete di verità. La stanchezza e lo scoraggiamento che hanno paralizzato il nostro paese negli ultimi anni si stanno rapidamente trasformando in una straordinaria energia di rinnovamento dal basso, capace di mobilitare le parti più attente e sensibili della nostra società e anche di coagulare ampi consensi quando sa mostrarsi credibile nelle proposte. Backminster Fuller scrive: "Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta". E' questo che sta avvenendo nel nostro paese, nonostante l’assordante silenzio delle tv al proposito!
Esiste davvero “un’altra Italia”?
Questo è sicuro!!! E non mi riferisco solo ai 4 milioni e 400mila attivisti che operano nel volontariato e che con il loro impegno quotidiano tengono in piedi questo paese nonostante le scelte scellerate della nostra classe dirigente. Credo che anche fra la gente comune non ci sia bisogno di andare tanto lontano per trovare persone che sognano un paese più onesto, accogliente, solidale. Proviamo a guardarci intorno e magari proprio dietro di noi, o al nostro fianco ne troveremo già qualcuna... Il fatto che i grandi media spesso non li mostrino non significa che queste persone oneste non esistano e non stiano già creando un cambiamento concreto con le loro scelte quotidiane; io sono fermamente convinto che essi rappresentino la maggioranza dei nostri concittadini!
“Dudal Jam, a scuola di pace” è il tuo nuovo libro, presto partirai per l’Africa, quanto ami questo continente e quali emozioni ti suscita?
L'esperienza di volontariato in Burkina Faso mi ha cambiato profondamente. Ho imparato dai miei fratelli africani che è possibile prendere il proprio avvenire in mano e unendo le forze costruire un domani migliore, nonostante tutte le difficoltà possibili. Come dice un proverbio burkinabé: "Quando le formiche uniscono le loro bocche possono trasportare un elefante!" Io ho visto degli autentici miracoli, ho visto tanti sogni diventare realtà, sono testimone di innumerevoli percorsi concreti partiti dal basso che hanno cambiato la storia di intere comunità, coinvolgendole attivamente e riportando dignità, autonomia e speranza a centinaia di migliaia di persone. E' un'esperienza straordinaria, che mi lega al continente nero in modo saldo e profondo. E ora sto cercando di portare questa esperienza anche nel mio impegno qui in Italia.
“Abbiamo un sogno” e “Io Cambio” per la costituente ecologista: due appelli ma anche due speranze per cambiare l’Italia dal basso, possono avere una strada in comune?
Dobbiamo riuscirci! Io lo spero vivamente, perché la frammentazione è uno dei principali problemi che hanno afflitto il nostro paese in questi ultimi decenni. Occorre unire tutte le forze, con fiducia e rispetto reciproco, lavorando sui contenuti con pazienza e umiltà, cercando i punti comuni su cui costruire insieme il cammino condiviso. E' indispensabile un processo partecipativo assolutamente trasparente, democratico e inclusivo. Se sapremo fare questo e farlo insieme, sono certo che scriveremo una pagina di storia per il nostro paese. C'è una grandissima sete di cambiamento a cui noi dobbiamo dare una risposta chiara e coraggiosa.
Come vedi la situazione politica italiana e quanto questi appelli possono incidere davvero per cambiare le cose e riavvicinare la gente comune e i giovani alla politica?
La situazione italiana è difficilissima. L'Italia è un paese in ginocchio, con problemi difficili da risolvere perché frutto di scelte folli stratificatesi nei decenni. Basti pensare alla cementificazione selvaggia che devasta il nostro territorio, alla disoccupazione giovanile che è ormai al triplo della media europea, all'assurdità delle enormi spese militari a fronte di tante emergenze sociali... La politica ha perso ogni credibilità, ma questo non significa che le cose non possano cambiare e che la gente, specialmente i govani, non possano riavvicinarsi all'impegno e alla passione civile. Tocca a noi mostrare una via credibile per uscire dalla crisi, attraverso un progetto che offra una visione a medio e lungo termine di una società desiderabile, che punti alla qualità di vita, al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona, che veda la sostenibiltà ambientale come una opportunità e non come un problema. Di questo parlano i nostri appelli! E credo che questo possa essere fatto solo coinvolgendo attivamente tutta la società civile, nelle sue diverse anime ecologista, pacifista, della solidarietà e della legalità, per ridare voce e speranza alla parte sana del nostro paese. E' quello che stiamo cercando di fare, insieme.
Perché credo che l'Italia reale non sia quella che ci mostrano ogni giorno i mass media, ma abbia un valore molto più grande al quale occorre dare visibilità. In questo senso, forse, il sottotitolo de "L'anticasta" ("L'Italia che funziona") è ancora più importante de titolo stesso ed esprime perfettamente lo spirito con cui, Marco ed io, abbiamo concepito questo libro. Noi pensiamo che "denunciare" gli sprechi, i privilegi e tutte le vergogne della Casta sia necessario e indubbiamente Rizzo e Stella lo hanno fatto con coraggio e grande lucidità nel loro splendido libro, ma forse questo non è sufficiente. Occorre in parallelo anche saper "annunciare" le alternative possibili, concrete e già realizzate con successo in tanti Comuni del nostro paese, che potrebbero diffondersi ancora più rapidamente di quanto già non stia avvenendo se solo avessero la visibilità che meritano. Ecco perché abbiamo scelto di dare loro voce, affinché queste esperienze virtuose possano replicarsi ovunque con grandi benefici da tutti i punti di vista: ecologico, economico, sociale, occupazionale, culturale... Questo è il nostro futuro!
Hai presentato questo volume in tante parti d’Italia, hai incontrato tanta gente e tante associazioni, cosa ti ha suscitato questa esperienza?
Sono sempre più ottimista, mano a mano che prendo consapevolezza del valore e della forza della società civile del nostro paese! Girando l’Italia per i miei numerosi incontri respiro una crescente sete di verità. La stanchezza e lo scoraggiamento che hanno paralizzato il nostro paese negli ultimi anni si stanno rapidamente trasformando in una straordinaria energia di rinnovamento dal basso, capace di mobilitare le parti più attente e sensibili della nostra società e anche di coagulare ampi consensi quando sa mostrarsi credibile nelle proposte. Backminster Fuller scrive: "Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta". E' questo che sta avvenendo nel nostro paese, nonostante l’assordante silenzio delle tv al proposito!
Esiste davvero “un’altra Italia”?
Questo è sicuro!!! E non mi riferisco solo ai 4 milioni e 400mila attivisti che operano nel volontariato e che con il loro impegno quotidiano tengono in piedi questo paese nonostante le scelte scellerate della nostra classe dirigente. Credo che anche fra la gente comune non ci sia bisogno di andare tanto lontano per trovare persone che sognano un paese più onesto, accogliente, solidale. Proviamo a guardarci intorno e magari proprio dietro di noi, o al nostro fianco ne troveremo già qualcuna... Il fatto che i grandi media spesso non li mostrino non significa che queste persone oneste non esistano e non stiano già creando un cambiamento concreto con le loro scelte quotidiane; io sono fermamente convinto che essi rappresentino la maggioranza dei nostri concittadini!
“Dudal Jam, a scuola di pace” è il tuo nuovo libro, presto partirai per l’Africa, quanto ami questo continente e quali emozioni ti suscita?
L'esperienza di volontariato in Burkina Faso mi ha cambiato profondamente. Ho imparato dai miei fratelli africani che è possibile prendere il proprio avvenire in mano e unendo le forze costruire un domani migliore, nonostante tutte le difficoltà possibili. Come dice un proverbio burkinabé: "Quando le formiche uniscono le loro bocche possono trasportare un elefante!" Io ho visto degli autentici miracoli, ho visto tanti sogni diventare realtà, sono testimone di innumerevoli percorsi concreti partiti dal basso che hanno cambiato la storia di intere comunità, coinvolgendole attivamente e riportando dignità, autonomia e speranza a centinaia di migliaia di persone. E' un'esperienza straordinaria, che mi lega al continente nero in modo saldo e profondo. E ora sto cercando di portare questa esperienza anche nel mio impegno qui in Italia.
“Abbiamo un sogno” e “Io Cambio” per la costituente ecologista: due appelli ma anche due speranze per cambiare l’Italia dal basso, possono avere una strada in comune?
Dobbiamo riuscirci! Io lo spero vivamente, perché la frammentazione è uno dei principali problemi che hanno afflitto il nostro paese in questi ultimi decenni. Occorre unire tutte le forze, con fiducia e rispetto reciproco, lavorando sui contenuti con pazienza e umiltà, cercando i punti comuni su cui costruire insieme il cammino condiviso. E' indispensabile un processo partecipativo assolutamente trasparente, democratico e inclusivo. Se sapremo fare questo e farlo insieme, sono certo che scriveremo una pagina di storia per il nostro paese. C'è una grandissima sete di cambiamento a cui noi dobbiamo dare una risposta chiara e coraggiosa.
Come vedi la situazione politica italiana e quanto questi appelli possono incidere davvero per cambiare le cose e riavvicinare la gente comune e i giovani alla politica?
La situazione italiana è difficilissima. L'Italia è un paese in ginocchio, con problemi difficili da risolvere perché frutto di scelte folli stratificatesi nei decenni. Basti pensare alla cementificazione selvaggia che devasta il nostro territorio, alla disoccupazione giovanile che è ormai al triplo della media europea, all'assurdità delle enormi spese militari a fronte di tante emergenze sociali... La politica ha perso ogni credibilità, ma questo non significa che le cose non possano cambiare e che la gente, specialmente i govani, non possano riavvicinarsi all'impegno e alla passione civile. Tocca a noi mostrare una via credibile per uscire dalla crisi, attraverso un progetto che offra una visione a medio e lungo termine di una società desiderabile, che punti alla qualità di vita, al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona, che veda la sostenibiltà ambientale come una opportunità e non come un problema. Di questo parlano i nostri appelli! E credo che questo possa essere fatto solo coinvolgendo attivamente tutta la società civile, nelle sue diverse anime ecologista, pacifista, della solidarietà e della legalità, per ridare voce e speranza alla parte sana del nostro paese. E' quello che stiamo cercando di fare, insieme.
Quiz contro la Gelmini
23/11/2010TerraProviamo anche con l’arma dell’ironia - si devono essere detti studenti e ricercatori di Ca’ Foscari -. Vediamo se così riusciamo a far capire anche a chi non vive nel mondo dell’istruzione, che catastrofe si abbatterà sulla scuola e sul libero sapere italiano con l’uragano Gelmini. E così hanno chiamato “’15 – ‘18” gli anni della grande guerra, la grande mobilitazione svoltasi proprio nella settimana a cavallo tra il 15 e il 18 novembre, in difesa della scuola. La scuola pubblica, intendiamo. Quella privata ci ha già pensato a difenderla il governo.
Nelle varie manifestazioni e iniziative che sono state organizzate a Venezia, studenti e docenti – per una volta dalla stessa parte del banco – hanno distribuito un “quiz a risposta multipla senza premi per aspiranti studenti dopo la riforma Gelmini”. Una mezza dozzina di domande con tre o quattro possibili risposte ciascuna. Proprio come un test universitario. Il tutto a cura dei ricercatori della Rete 29 aprile e dal coordinamento degli studenti universitari di Venezia. Ve ne propongo qualcuno così vediamo se passate l’esame.
Amministrazione efficiente. Secondo l’articolo 2, comma 1, il consiglio di amministrazione di una università statale diverrà: a) simile al Cda di una azienda privata con manager che rispondono agli azionisti del loro operato; b) simile al Cda di una Usl con manager esterni provenienti dalla politica; c) simile all’attuale con rappresentanze di studenti e ricercatori. (Risposta esatta la b).
Onore al merito. Secondo l’articolo 4, quale tra i seguenti metodi di finanziamento contribuirà al fondo per le borse di studio per gli studenti meritevoli: a) una parte del 5% versato al fisco per il rientro dei capitali illegalmente detenuti all’estero mediante lo scudo fiscale 2010; b) una parte del 5% irpef versato dai contribuenti alle associazioni senza scopo di lucro; c) tasse aggiuntive pagate dagli studenti che, ritenendosi meritevoli, chiedono di partecipare alle prove di valutazione de merito: d) tasse aggiuntive richieste agli studenti meno meritevoli. (Risposta esatta la c).
Mai più concorsi ad personam. Secondo l’articolo 17, per ogni posto di professore bandito dall’università: a) sarà una commissione indipendente a decidere il vincitore; b) si assume il primo in ordine di merito da una lista di candidati giudicati idonei da una commissione indipendente; c) il dipartimento potrà assumere un candidato qualsiasi da una lista di candidati non ancora assunti. (Risposta esatta la c).
Onore al merito 2. Ricercatori. Secondo l’articolo 21, il passaggio di un ricercatore a tempo determinato a professore associato una volta ottenuta l’idoneità: a) sarà automatico; b) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università; c) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università e dai blocchi di turn over, sospensioni e limiti decisi dal Governo. (Risposta esatta la c).
Avrete capito che… basta rispondere il peggio e ci si azzecca sempre!
“La riforma colpisce l’intera università e in particolare i suoi settori più deboli – spiega Marta Canino portavoce del coordinamento studenti -. Non intacca i poteri dei baroni, riduce il ruolo del senato accademico e individua in un Cda a nomina politica e controllato dal governo, l’organo decisionale non solo per le questioni economiche ma per la stessa didattica. Aziende private e partiti al governo potranno decidere il futuro del sapere in Italia. La riforma Gelmini è una attacco diretto alla libera cultura”.
Nelle varie manifestazioni e iniziative che sono state organizzate a Venezia, studenti e docenti – per una volta dalla stessa parte del banco – hanno distribuito un “quiz a risposta multipla senza premi per aspiranti studenti dopo la riforma Gelmini”. Una mezza dozzina di domande con tre o quattro possibili risposte ciascuna. Proprio come un test universitario. Il tutto a cura dei ricercatori della Rete 29 aprile e dal coordinamento degli studenti universitari di Venezia. Ve ne propongo qualcuno così vediamo se passate l’esame.
Amministrazione efficiente. Secondo l’articolo 2, comma 1, il consiglio di amministrazione di una università statale diverrà: a) simile al Cda di una azienda privata con manager che rispondono agli azionisti del loro operato; b) simile al Cda di una Usl con manager esterni provenienti dalla politica; c) simile all’attuale con rappresentanze di studenti e ricercatori. (Risposta esatta la b).
Onore al merito. Secondo l’articolo 4, quale tra i seguenti metodi di finanziamento contribuirà al fondo per le borse di studio per gli studenti meritevoli: a) una parte del 5% versato al fisco per il rientro dei capitali illegalmente detenuti all’estero mediante lo scudo fiscale 2010; b) una parte del 5% irpef versato dai contribuenti alle associazioni senza scopo di lucro; c) tasse aggiuntive pagate dagli studenti che, ritenendosi meritevoli, chiedono di partecipare alle prove di valutazione de merito: d) tasse aggiuntive richieste agli studenti meno meritevoli. (Risposta esatta la c).
Mai più concorsi ad personam. Secondo l’articolo 17, per ogni posto di professore bandito dall’università: a) sarà una commissione indipendente a decidere il vincitore; b) si assume il primo in ordine di merito da una lista di candidati giudicati idonei da una commissione indipendente; c) il dipartimento potrà assumere un candidato qualsiasi da una lista di candidati non ancora assunti. (Risposta esatta la c).
Onore al merito 2. Ricercatori. Secondo l’articolo 21, il passaggio di un ricercatore a tempo determinato a professore associato una volta ottenuta l’idoneità: a) sarà automatico; b) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università; c) dipenderà dalle disponibilità economiche dell’Università e dai blocchi di turn over, sospensioni e limiti decisi dal Governo. (Risposta esatta la c).
Avrete capito che… basta rispondere il peggio e ci si azzecca sempre!
“La riforma colpisce l’intera università e in particolare i suoi settori più deboli – spiega Marta Canino portavoce del coordinamento studenti -. Non intacca i poteri dei baroni, riduce il ruolo del senato accademico e individua in un Cda a nomina politica e controllato dal governo, l’organo decisionale non solo per le questioni economiche ma per la stessa didattica. Aziende private e partiti al governo potranno decidere il futuro del sapere in Italia. La riforma Gelmini è una attacco diretto alla libera cultura”.
La battaglia per l'acqua attraversa la Biennale
23/11/2010Terra
L’incontro è stato promosso dal comitato Abc, acronimo di Acqua Bene Comune “ma abc sono anche le prime lettere dell’alfabeto – ha commentato il portavoce Francesco Penzo – perché è da queste lettere che rappresentano i beni comuni che bisogna ripartire per riscrivere il vocabolario politico della partecipazione e della democrazia nel nostro Paese”. Ospite d’onore dell’iniziativa, un applauditissimo Marco Bersani, ricercatore, saggista e uno dei promotori del referendum. “Non era mai successo in Italia che un movimento raccogliesse oltre un milione e 400 mila firme per un referendum. Firme raccolte a testa alta, da un movimento dal basso senza finanziatori e senza partiti politici a sostegno – ha commentato Bersani – Questo è indubbiamente un qualcosa di nuovo in un Paese come il nostro dove la cultura e la politica stagna. Significa che ci sono persone, e non sono poche, che hanno avuto il coraggio di dire che non tutto va lasciato al mercato. La crisi che attraversa l’Italia come il mondo non è solo economica ma anche di democrazia, perché per sopravvivere questo sistema in crisi non ha altro modo che mettere sul mercato i beni comuni e i diritti. La nostra battaglia per l’acqua non è soltanto per l’acqua”. Molte delle domande che il pubblico ha rivolto a Marco Bersani riguardava l’iter del referendum, appeso agli ultimi rantoli della crisi di governo. “Non abbiamo ancora certezze – ha risposto l’ambientalista – ma di sicuro le firme depositate non bastano a garantircelo. La politica dei palazzi non ha nessuna intenzione di farlo passare. Dovremo conquistarcelo, il nostro referendum, mantenendo alta la mobilitazione. E ricordiamoci che il referendum è anche un fine in sé. Tutti devono avere la possibilità di dire la loro su temi che sono di tutti come i beni comuni e la democrazia”. Le conclusioni le ha tirate Valter Bonan, battagliero portavoce dei comitati veneti. “Nella nostra regione abbiamo raccolto 130 mila firme anche allargando il tema della ripubblicizzazione al ciclo integrato dell’acqua, dalla cementificazione degli argini alla gestione dei fiumi e della risorsa idrica, tutt’ora a rischio di un devastante sfruttamento idroelettrico. Argomenti di cui la politica non parla. A Venezia si sta discutendo lo statuto regionale. In consiglio, si fa un gran discorrere di un inno veneto ma nessuno parla di democrazia partecipativa e i comitato che hanno proposto di introdurre un riferimento statutario al diritto all’acqua come bene comune, non sono stati neppure invitati in commissione per una consultazione”. Anche per questo il Veneto si mobiliterà, sabato 4 dicembre, in concomitanza con le altre regioni italiane per il referendum sull’acqua e con le giornate di Cancun per ribadire che non tutto si compra e non tutto si vende. L’appuntamento è in piazzale della stazione a Venezia, alle ore 14, con due cortei di terra e un corteo lungo il canal Grande. Un corteo d’acqua, per l‘appunto.
Giù le mani da pediatria
9/11/2010TerraQuattrocento agguerriti genitori che si mobilitano per contestare la chiusura di un servizio sanitario, non si erano mai visti a Venezia. E’ accaduto sabato 23 ottobre e accadrà ancora sabato, prossimo, 13 novembre. “E ancora il sabato successivo e quello ancora successivo – ha spiegato una signora con braccio una bambina di pochi mesi e un cartello con la scritta ‘Giù le mani da pediatria’ – sino a che non verrà ripristinato un servizio essenziale per la cura dei nostri figli”.
Motivo del contendere, la chiusura del servizio di pronto soccorso pediatrico a Venezia e a Mestre.
Chiusura che è avvenuta questa estate con una modalità oramai consueta per la sanità veneta: prima il servizio viene interrotto per una pausa estiva, poi l’apertura viene via via posticipata sino a che un comunicato dell’Asl fa sapere che “per motivi di bilancio” la struttura non sarà più aperta.
“Non ci vengano a dire che il buco nei conti della sanità regionale l’hanno provocato i nostri bambini – ha spiegato la consigliera della lista in Comune, Camilla Seibezzi, che con il collega Beppe Caccia ha animato la protesta -. E non ci vengano neppure a raccontare che il servizio non era indispensabile e che i bambini malati possono mettersi in fila al pronto soccorso come gli adulti. La straordinaria partecipazione al sit-in dimostra il contrario. Il servizio di pronto soccorso pediatrico in questi anni è stato utilizzato da centinaia di genitori cui veniva garantita una continuità di cure e di assistenza per i loro figli che altre strutture non possono dare”. A tutela del servizio sanitario, su richiesta dei due consiglieri della lista In Comune, si è mobilitato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, prima in Conferenza dei sindaci e poi incontrando il Direttore generale dell’Asl 12 Antonio Padoan. “Intanto migliaia di famiglie continuano ad essere ostaggio dell'assurdo braccio di ferro tra la direzione generale dell'azienda sanitaria e i pediatri di base. – conclude Camilla Seibezzi - Bambine e bambini, mestrini e veneziani, sono privi della copertura di un servizio di assistenza pediatrica di base, la cui necessità e' particolarmente sentita nei giorni festivi e prefestivi, quando gli spazi del Pronto Soccorso, già alle prese con pesanti problemi di organico, sono ingolfati di piccoli pazienti. Così non può continuare. Sino a che Asl e medici non troveranno un accordo, noi saremo tutti i sabati a manifestare davanti all’ospedale civile, in campo San Giovanni e Paolo. Il tempo della pazienza è scaduto".
Motivo del contendere, la chiusura del servizio di pronto soccorso pediatrico a Venezia e a Mestre.
Chiusura che è avvenuta questa estate con una modalità oramai consueta per la sanità veneta: prima il servizio viene interrotto per una pausa estiva, poi l’apertura viene via via posticipata sino a che un comunicato dell’Asl fa sapere che “per motivi di bilancio” la struttura non sarà più aperta.
“Non ci vengano a dire che il buco nei conti della sanità regionale l’hanno provocato i nostri bambini – ha spiegato la consigliera della lista in Comune, Camilla Seibezzi, che con il collega Beppe Caccia ha animato la protesta -. E non ci vengano neppure a raccontare che il servizio non era indispensabile e che i bambini malati possono mettersi in fila al pronto soccorso come gli adulti. La straordinaria partecipazione al sit-in dimostra il contrario. Il servizio di pronto soccorso pediatrico in questi anni è stato utilizzato da centinaia di genitori cui veniva garantita una continuità di cure e di assistenza per i loro figli che altre strutture non possono dare”. A tutela del servizio sanitario, su richiesta dei due consiglieri della lista In Comune, si è mobilitato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, prima in Conferenza dei sindaci e poi incontrando il Direttore generale dell’Asl 12 Antonio Padoan. “Intanto migliaia di famiglie continuano ad essere ostaggio dell'assurdo braccio di ferro tra la direzione generale dell'azienda sanitaria e i pediatri di base. – conclude Camilla Seibezzi - Bambine e bambini, mestrini e veneziani, sono privi della copertura di un servizio di assistenza pediatrica di base, la cui necessità e' particolarmente sentita nei giorni festivi e prefestivi, quando gli spazi del Pronto Soccorso, già alle prese con pesanti problemi di organico, sono ingolfati di piccoli pazienti. Così non può continuare. Sino a che Asl e medici non troveranno un accordo, noi saremo tutti i sabati a manifestare davanti all’ospedale civile, in campo San Giovanni e Paolo. Il tempo della pazienza è scaduto".
Solidarietà vicentina
9/11/2010TerraIn tanti, in tantissimi, hanno risposto all’appello del presidio permanente contro la base Dal Molin e si sono rimboccati le maniche per aiutare tutti coloro che sono stati colpiti dall’alluvione. Considerando tutti i vari coordinamenti, perlomeno quattrocento volontari da tutto il Veneto sono confluiti a Vicenza tra giovedì e venerdì. Più di duemila – per l’esattezza 2230 persone – si sono aggiunte tra sabato e domenica.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.