In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Solidarietà vicentina
9/11/2010TerraIn tanti, in tantissimi, hanno risposto all’appello del presidio permanente contro la base Dal Molin e si sono rimboccati le maniche per aiutare tutti coloro che sono stati colpiti dall’alluvione. Considerando tutti i vari coordinamenti, perlomeno quattrocento volontari da tutto il Veneto sono confluiti a Vicenza tra giovedì e venerdì. Più di duemila – per l’esattezza 2230 persone – si sono aggiunte tra sabato e domenica.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.
“Abbiamo trovato interi quartieri sommersi dal fango e dall’acqua. I piani terra delle case erano stati spazzati dall’alluvione, i garage sotterranei erano praticamente riempiti di fanghiglia. Le auto erano state sollevate sino a toccare i soffitti dal fango salito dagli scarichi. Davvero impressionante” racconta Michele Valentini che ha coordinato i volontari provenienti dai centri sociali Morion e Rivolta di Venezia. Tra loro, numerosi i migranti. Da segnalare anche la grande partecipazione degli studenti medi. “Anche la nostra sede è stata travolto dall’alluvione – commenta Olol Jackson, portavoce del No Dal Molin -. Abbiamo comunque scelto di rimandare i lavori alle strutture del presidio permanente, preferendo dare la priorità ai bisogni della gente che si è trovata con la casa riempita di fango”. I volontari hanno affiancato gli uomini della protezione civile, lavorando di pala e secchio, per rimediare alle catastrofi. Catastrofi che, val la pena di ricordare, non sono mai naturali. “Non è un caso che solo Venezia, la città più acquatica di tutte, sia stata risparmiata dall’alluvione – commenta Tommaso Cacciari, uno dei volontari del Morion -. Queste situazioni sono solo segnali che ci avvisano che il consumo che stiamo facendo del territorio non è più sostenibile. Non è solo l’Amazzonia, quella che sta sparendo, ma anche l’Italia”. Grandi opere, grandi disastri. Venezia stavolta si è salvata. Ma se ci fosse stato il Mose? Col metro e 5 di marea le paratie si sarebbero sollevate automaticamente e l’acqua proveniente dalla terraferma invece di defluire in mare avrebbe spazzato via la città. Le catastrofi, dicevamo, non sono mai naturali.
Mediatori di pace
3/11/2010TerraFornire gli strumenti di base per intervenire in zone internazionali di conflitto attraverso lo strumento dei Corpi Civili di Pace. Questo è quanto si propone il corso organizzato dall’Alon – Ganfc, l’associazione locale Obiezione e nonviolenza gruppo azione nonviolenta, di Forlì (Cesena). L’obiettivo del seminario è quello di offrire gli strumenti di base a persone interessate a studiare e sperimentare modalità di soluzione nonviolenta dei conflitti intervenendo in aree di crisi con azioni pianificate nonviolente, come ad esempio la prevenzione, il monitoraggio, la mediazione, l’interposizione, la riconciliazione.
Il corso comincerà giovedì 2 dicembre 2010 con l’accoglienza e la registrazione dei corsisti presso la sala del Rivellino del centro congressi residenziale universitario del Comune di Bertinoro, vicino a Forlì, in via Frangipane 6. Il seminario di studio si articola su tre giorni - venerdì, sabato e domenica dal 3 al 5 dicembre - con modalità formative interattive e partecipative e comprende una serata, quella del venerdì sera, aperta all’intera. Il corso costituisce un titolo preferenziale, pur se non esclusivo, per la partecipazione ad iniziative in zone di guerra predisposte da alcune delle associazioni aderenti alla rete nazionale dei corpi civili di pace, quali: Berretti Bianchi di Lucca, Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) di Rimini, Gavci-Cefa di Bologna, Peace Brigades International Italia, associazione per la pace di Roma, Servizio Civile Internazionale Italia. Tra i qualificati relatori segnaliamo: Michele Di Domenico, Alessandra Antonelli, Riccardo Prati, Carlo Schenone, Silvio Masala, Fabiana Bruschi, Massimo Tesei, Deema Darawshy, Yahav Zohar. I corpi civili di pace, risalgono ad una proposta di legge portata in parlamento europeo ai tempi della guerra nei Balcani da Alexander Langer che aveva ipotizzato la creazione di un contingente civile misto di professionisti e volontari, addestrati e fortemente motivati, da impiegare in operazioni di mantenimento e costruzione della pace, ricostruzione post-bellica, dialogo e riconciliazione, dentro o i confini europei. Questo il programma di massima del corso. Venerdì: Teoria e pratica della nonviolenza, Simulazione di un conflitto, visita al museo Interreligioso, in serata dibattito aperto al pubblico su “Perché è così difficile fare la pace in Palestina?”. Sabato: la gestione dei conflitti con modalità nonviolente, simulazione in gruppi, verifiche collettive, video “Azioni Dirette Nonviolente”, testimonianza dirette di esperienze in zone di conflitto. Domenica: i corpi civili di pace come prospettiva di innovazione nella soluzione dei conflitti nell’ambito della politica estera dell'Unione Europea, quale rapporto con la politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, gestione umanitaria e gestione dei conflitti, prospettive e operative e lavorative nel campo degli aiuti umanitari e degli interventi civili di pace. Il corso è a numero chiuso. Massimo 30 partecipanti. Per ulteriori informazioni o per iscrivervi collegatevi al sito www.alon.it.
Il corso comincerà giovedì 2 dicembre 2010 con l’accoglienza e la registrazione dei corsisti presso la sala del Rivellino del centro congressi residenziale universitario del Comune di Bertinoro, vicino a Forlì, in via Frangipane 6. Il seminario di studio si articola su tre giorni - venerdì, sabato e domenica dal 3 al 5 dicembre - con modalità formative interattive e partecipative e comprende una serata, quella del venerdì sera, aperta all’intera. Il corso costituisce un titolo preferenziale, pur se non esclusivo, per la partecipazione ad iniziative in zone di guerra predisposte da alcune delle associazioni aderenti alla rete nazionale dei corpi civili di pace, quali: Berretti Bianchi di Lucca, Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) di Rimini, Gavci-Cefa di Bologna, Peace Brigades International Italia, associazione per la pace di Roma, Servizio Civile Internazionale Italia. Tra i qualificati relatori segnaliamo: Michele Di Domenico, Alessandra Antonelli, Riccardo Prati, Carlo Schenone, Silvio Masala, Fabiana Bruschi, Massimo Tesei, Deema Darawshy, Yahav Zohar. I corpi civili di pace, risalgono ad una proposta di legge portata in parlamento europeo ai tempi della guerra nei Balcani da Alexander Langer che aveva ipotizzato la creazione di un contingente civile misto di professionisti e volontari, addestrati e fortemente motivati, da impiegare in operazioni di mantenimento e costruzione della pace, ricostruzione post-bellica, dialogo e riconciliazione, dentro o i confini europei. Questo il programma di massima del corso. Venerdì: Teoria e pratica della nonviolenza, Simulazione di un conflitto, visita al museo Interreligioso, in serata dibattito aperto al pubblico su “Perché è così difficile fare la pace in Palestina?”. Sabato: la gestione dei conflitti con modalità nonviolente, simulazione in gruppi, verifiche collettive, video “Azioni Dirette Nonviolente”, testimonianza dirette di esperienze in zone di conflitto. Domenica: i corpi civili di pace come prospettiva di innovazione nella soluzione dei conflitti nell’ambito della politica estera dell'Unione Europea, quale rapporto con la politica estera, di sicurezza e di difesa dell'Unione, gestione umanitaria e gestione dei conflitti, prospettive e operative e lavorative nel campo degli aiuti umanitari e degli interventi civili di pace. Il corso è a numero chiuso. Massimo 30 partecipanti. Per ulteriori informazioni o per iscrivervi collegatevi al sito www.alon.it.
Non lasciamoli soli. Intervista con Nicola Grigion
2/11/2010TerraPiù che una associazione Melting Pot Europa è un vero e proprio progetto operativo che dal ’96, anno della sua nascita, si è evoluto al passo con la società e le nuove esigenze, da semplice trasmissione telefonica, sino a diventare una sorta “servizio pubblico” rivolto tanto ai suoi originari utenti - i migranti - quanto agli amministratori locali, agli operatori sociali, alla stampa e a quanti sono interessati alle tematiche dell’integrazione. Nicola Grigion, trentenne padovano, è il direttore di Melting Pot anche se, per non fare troppo “giacca e cravatta” preferisce farsi chiamare portavoce o responsabile. Ai giornalisti che gli chiedono quale mondo ci sia dietro le statistiche stilate dalla Caritas risponde invitandoli a passare una mattinata dietro gli sportelli dell’associazione dove ogni giorno centinaia di migranti si mettono in fila per avere informazioni, consigli e assistenza.
Il dossier mette in evidenza come la crisi economica stia colpendo in maniera particolare i migranti. Questo perché occupano il gradino più basso nella scala occupazionale?
Direi che non è questo il motivo. E’ vero che i migranti per un buon 90 per cento fanno i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono fare” ma dobbiamo tener presente che, specie in tempo di crisi, le aziende hanno un gran bisogno proprio di bassa manovalanza che si accontenta di salari minimi. Il problema vero è che a questi lavori sono associati minori diritti. Sono occupazioni più precarie e più facilmente derogabili. Pensiamo ad esempio a quanto avviene per le cooperative di logistica e di trasporto che nella nostra regione che è il crocevia verso l’Europa dell’est. I lavoratori, migranti e non, hanno contratti a tempo indeterminato, anzi, sono addirittura “soci” della cooperativa. Ma questo comporta una condizione generale per quanto riguarda i diritti del lavoro, molto peggiore. Basta un semplice cambio di appalto per trovarsi spasso. La spada di Damocle del licenziamento è costante.
Licenziamento che significa anche la perdita del permesso di soggiorno...
Che a sua volta significa diventare irregolari. Un reato penale, per la nostra legislazione. Come se essere licenziati fosse un delitto! Tutto questo ha fatto sì che i migranti diventassero lavoratori estremamente ricattabili: una merce appetibile per le aziende. I dati sull’aumento generico di assunzioni di migranti che ha riportato la Caritas, oltre a non considerare che molte cooperative operano a nordest ma hanno sede legale a sud, non tengono conto di fattori comunque determinanti. Di che posto di lavoro stiamo parlando, mi chiedo? E fuori dalle statistiche rimane l’esercito dei cosiddetti invisibili, che poi invisibili non sono. Sappiamo tutti come l’assistenza domestica, la raccolta nei campi e l’edilizia si basi sul loro sfruttamento. La crisi si nutre di lavoratori non in regola. Ha tutto l’interessa a relegarli in un limbo e a concedere loro permessi saltuari, facilmente revocabili, per tenerli in un continuo fluttuare tra regolarità e irregolarità.
Il rapporto della Caritas sottolinea l’apporto di ricchezza portato dai migranti. Anche i giornali locali hanno battuto questo aspetto. Ma è possibile che il problema possa essere confinato all’economia?
Certo che no. Si rischia di fare un discorso del tipo: benvenuti perché ci siete utili. E quando non ci sarete più utili, arrivederci. Sotto sotto qualcuno pensa che sono utili sino a che lavorano duro, non pretendono diritti, non protestano... Invece il problema non può essere letto solo sotto le lente dell’economia. Tutti i rapporti statistici ci dicono che i migranti portano ricchezza. La stessa Inps ci spiega che senza l’apporto dei lavoratori stranieri non potrebbe pagare le pensioni. Giusto. Ma se confrontiamo il grande apporto economico dei migranti con il prezzo più alto da loro pagato in questa la cosiddetta crisi, si capisce che l’importanza del loro ruolo è soprattutto sociale. E’ a questo livello, quello sociale, che producono la vera ricchezza. Il che ci fa anche capire quanto sia allucinante, oltre che ingiusto, legare il permesso di soggiorno all’occupazione.
Perché allora il migrante continua ad essere percepito come un problema?
Perché lo è, per certi versi. Solo che non sono i problemi di cui parlano certa stampa e il Governo. Un problema lo portano prima di tutto a noi stessi: quello di cominciare a costruire una ipotesi di mondo diverso da quello che ci stanno imponendo. Vedi, quando parliamo di migrazioni, anche all’interno dei movimenti, giochiamo fuori casa. Vince sempre l’autorità e non riusciamo a costruire percorsi di lotta che portino a risultati concreti. Prendi ad esempio, Terzigno. La gente scende in piazza contro la discarica e, dopo le inevitabili lotte, riesce a mettere in scacco il governo. Pochi giorni dopo, arriva un gruppo di rifugiati a Catania e, alla faccia di tutti i diritti costituzionali e internazionali, la polizia li rispedisce indietro senza se e senza ma, tra le inutili proteste della comunità europea per un rimpatri eseguito al di fuori di ogni procedura legale. Anche gli osservatori dell’Onu vengono lasciati fuori dei cancelli dell’aeroporto. Mi chiedo, come possiamo intervenire in casi come questo?
Senza scendere sino a Catania, basta assistere a quanto succede al porto di Venezia, per quel che riguarda i respingimenti illegali. Le mobilitazioni della rete Tuttiidirittiumanipertutti sono servite perlomeno a portarli alla luce.
Già. Ma siamo ancora lontani dal portare i diritti all’interno del porto, purtroppo. Il fatto è, come ti dicevo, che i migranti innescano una questione di identità. Mettono in discussione chi siamo. C’è il rischio che facciano scattare meccanismi frammentativi invece che ricompositivi. Sono il capro espiatorio di una crisi che fa paura. Addossare tutte le colpe ai migranti è più facile che individuare il nemico comune in una economia dove a dettar legge è il capitalismo predatorio. In altre parole, il vero problema che ci portano i migranti è questo: ci obbligano ad intraprendere un percorso e a compiere una scelta: quella di innescare una guerra tra i poveri o quella di costruire insieme un mondo diverso.
Un problema di democrazie e diritti, dunque?
Sì. Noi di Melting Pot ce ne accorgiamo nel nostro quotidiano rapporto con questure ed enti locali. Non serve a niente agitare la legge o la Costituzione. Il rilascio di un documento, anche se il migrante ne ha diritto, comporta una stressante contrattazione e negoziazione. Assistere i migranti significa condurre una battaglia continua contro l’arbitrarietà e in alcuni casi anche l’illegalità. E qua bisogna fare attenzione. La deroga dei diritti che nel caso dei migranti viene tanto facile accettare, non si ferma in nessun confine e alla fine colpisce la democrazia, l’ambiente, la scuola, il lavoro... i diritti o sono di tutti o non ce n’è per nessuno.
Come possiamo far capire che la lotta dei migranti è una lotta di tutti?
Il punto è proprio questo. Credo che non dobbiamo mai lasciarli soli, anzi non dovremmo neppure considerarli una categoria a parte. Non lasciamoli all’auto organizzazione non perché non ne siano capaci, ci sono esperienze bellissime a questo proposito, ma avrebbero di fronte una battaglia senza orizzonte. A meno che non pensiamo che sia un orizzonte comune.
Il dossier mette in evidenza come la crisi economica stia colpendo in maniera particolare i migranti. Questo perché occupano il gradino più basso nella scala occupazionale?
Direi che non è questo il motivo. E’ vero che i migranti per un buon 90 per cento fanno i cosiddetti “lavori che gli italiani non vogliono fare” ma dobbiamo tener presente che, specie in tempo di crisi, le aziende hanno un gran bisogno proprio di bassa manovalanza che si accontenta di salari minimi. Il problema vero è che a questi lavori sono associati minori diritti. Sono occupazioni più precarie e più facilmente derogabili. Pensiamo ad esempio a quanto avviene per le cooperative di logistica e di trasporto che nella nostra regione che è il crocevia verso l’Europa dell’est. I lavoratori, migranti e non, hanno contratti a tempo indeterminato, anzi, sono addirittura “soci” della cooperativa. Ma questo comporta una condizione generale per quanto riguarda i diritti del lavoro, molto peggiore. Basta un semplice cambio di appalto per trovarsi spasso. La spada di Damocle del licenziamento è costante.
Licenziamento che significa anche la perdita del permesso di soggiorno...
Che a sua volta significa diventare irregolari. Un reato penale, per la nostra legislazione. Come se essere licenziati fosse un delitto! Tutto questo ha fatto sì che i migranti diventassero lavoratori estremamente ricattabili: una merce appetibile per le aziende. I dati sull’aumento generico di assunzioni di migranti che ha riportato la Caritas, oltre a non considerare che molte cooperative operano a nordest ma hanno sede legale a sud, non tengono conto di fattori comunque determinanti. Di che posto di lavoro stiamo parlando, mi chiedo? E fuori dalle statistiche rimane l’esercito dei cosiddetti invisibili, che poi invisibili non sono. Sappiamo tutti come l’assistenza domestica, la raccolta nei campi e l’edilizia si basi sul loro sfruttamento. La crisi si nutre di lavoratori non in regola. Ha tutto l’interessa a relegarli in un limbo e a concedere loro permessi saltuari, facilmente revocabili, per tenerli in un continuo fluttuare tra regolarità e irregolarità.
Il rapporto della Caritas sottolinea l’apporto di ricchezza portato dai migranti. Anche i giornali locali hanno battuto questo aspetto. Ma è possibile che il problema possa essere confinato all’economia?
Certo che no. Si rischia di fare un discorso del tipo: benvenuti perché ci siete utili. E quando non ci sarete più utili, arrivederci. Sotto sotto qualcuno pensa che sono utili sino a che lavorano duro, non pretendono diritti, non protestano... Invece il problema non può essere letto solo sotto le lente dell’economia. Tutti i rapporti statistici ci dicono che i migranti portano ricchezza. La stessa Inps ci spiega che senza l’apporto dei lavoratori stranieri non potrebbe pagare le pensioni. Giusto. Ma se confrontiamo il grande apporto economico dei migranti con il prezzo più alto da loro pagato in questa la cosiddetta crisi, si capisce che l’importanza del loro ruolo è soprattutto sociale. E’ a questo livello, quello sociale, che producono la vera ricchezza. Il che ci fa anche capire quanto sia allucinante, oltre che ingiusto, legare il permesso di soggiorno all’occupazione.
Perché allora il migrante continua ad essere percepito come un problema?
Perché lo è, per certi versi. Solo che non sono i problemi di cui parlano certa stampa e il Governo. Un problema lo portano prima di tutto a noi stessi: quello di cominciare a costruire una ipotesi di mondo diverso da quello che ci stanno imponendo. Vedi, quando parliamo di migrazioni, anche all’interno dei movimenti, giochiamo fuori casa. Vince sempre l’autorità e non riusciamo a costruire percorsi di lotta che portino a risultati concreti. Prendi ad esempio, Terzigno. La gente scende in piazza contro la discarica e, dopo le inevitabili lotte, riesce a mettere in scacco il governo. Pochi giorni dopo, arriva un gruppo di rifugiati a Catania e, alla faccia di tutti i diritti costituzionali e internazionali, la polizia li rispedisce indietro senza se e senza ma, tra le inutili proteste della comunità europea per un rimpatri eseguito al di fuori di ogni procedura legale. Anche gli osservatori dell’Onu vengono lasciati fuori dei cancelli dell’aeroporto. Mi chiedo, come possiamo intervenire in casi come questo?
Senza scendere sino a Catania, basta assistere a quanto succede al porto di Venezia, per quel che riguarda i respingimenti illegali. Le mobilitazioni della rete Tuttiidirittiumanipertutti sono servite perlomeno a portarli alla luce.
Già. Ma siamo ancora lontani dal portare i diritti all’interno del porto, purtroppo. Il fatto è, come ti dicevo, che i migranti innescano una questione di identità. Mettono in discussione chi siamo. C’è il rischio che facciano scattare meccanismi frammentativi invece che ricompositivi. Sono il capro espiatorio di una crisi che fa paura. Addossare tutte le colpe ai migranti è più facile che individuare il nemico comune in una economia dove a dettar legge è il capitalismo predatorio. In altre parole, il vero problema che ci portano i migranti è questo: ci obbligano ad intraprendere un percorso e a compiere una scelta: quella di innescare una guerra tra i poveri o quella di costruire insieme un mondo diverso.
Un problema di democrazie e diritti, dunque?
Sì. Noi di Melting Pot ce ne accorgiamo nel nostro quotidiano rapporto con questure ed enti locali. Non serve a niente agitare la legge o la Costituzione. Il rilascio di un documento, anche se il migrante ne ha diritto, comporta una stressante contrattazione e negoziazione. Assistere i migranti significa condurre una battaglia continua contro l’arbitrarietà e in alcuni casi anche l’illegalità. E qua bisogna fare attenzione. La deroga dei diritti che nel caso dei migranti viene tanto facile accettare, non si ferma in nessun confine e alla fine colpisce la democrazia, l’ambiente, la scuola, il lavoro... i diritti o sono di tutti o non ce n’è per nessuno.
Come possiamo far capire che la lotta dei migranti è una lotta di tutti?
Il punto è proprio questo. Credo che non dobbiamo mai lasciarli soli, anzi non dovremmo neppure considerarli una categoria a parte. Non lasciamoli all’auto organizzazione non perché non ne siano capaci, ci sono esperienze bellissime a questo proposito, ma avrebbero di fronte una battaglia senza orizzonte. A meno che non pensiamo che sia un orizzonte comune.
Ricchezza migrante. Il dossier Caritas
2/11/2010TerraSara ha 14 anni e frequenta una scuola media della provincia di Venezia. Ha sempre vissuto tra Milano e Mestre. I suoi si sono trasferiti dal capoluogo lombardo alle sponde della laguna due anni dopo la sua nascita. Sara è una ragazzina come tante altre se non fosse che appartiene a quella categoria chiamata “migranti di seconda generazione”. Mamma e papà sono nativi di Isfahan e in tasca hanno un passaporto iraniano. Due mesi fa, Sara è andata a Madrid con la scuola. All’aeroporto, i suoi compagni di classe hanno passato la dogana senza la minima formalità, Sara no.
L’hanno fermata, le hanno rovistato nel bagaglio, hanno chiamato un ufficiale che ha posto un sacco di domande sia a lei che ai suoi professori. Eppure Sara non porta neppure il velo. I suoi genitori l’hanno educata alla fede bahai. Ma non è tutto. Nel caso il padre perdesse il lavoro, Sara rischia l’espulsione. Lei, nata e cresciuta in Italia, potrebbe essere costretta a migrare in un paese che conosce solo dai racconti dei genitori, un paese di cui parla poco la lingua e non legge la scrittura. Perché l’Italia è l’unico paese europeo dove la cittadinanza si acquisisce dai genitori e non dal luogo in cui si è nati. Cosi che un canadese col nonno di Genova è considerato più italiano di Sara, nata a Milano e cresciuta a Mestre. “Sono italiana o sono iraniana? - ha scritto Sara in una lettera ad un quotidiano locale -. I miei amici mi hanno detto che sono una italiana del futuro. Che tantissimi bambini che ora crescono in Italia hanno i genitori con passaporti stranieri e un domani saranno tutti ‘italiani’ come me. Il problema non sta qui, però. Sta nell’Italia che dobbiamo cominciare a costruire per far stare bene tutti questi bambini, qualunque cosa siano”.
Questa di Sara è una delle tante, tantissime storie che si possono leggere tra i numeri e le percentuali presentate dalla Caritas nel suo ultimo rapporto che fotografa lo stato dell’immigrazione nelle nostre città. Il dossier è stato presentato martedì 26 ottobre, nell’aula magna del Laurentianum, in centro a Mestre. Al di là dei numeri, già abbondantemente riportati da siti e giornali locali e che sono sostanzialmente quelli degli anni scorsi con la sola sottolineatura che i migranti sono stati i primi ad essere colpiti dalla crisi, sono le storie come quella di Sara che ci aiutano a farci un quadro più chiaro di cosa sia in realtà il fenomeno della migrazione. Un fenomeno che, dati alla mano, rappresenta una risorsa insostituibile per la nostra economia ma che al contrario viene percepito come un pericolo. “Certe campagne politiche che puntano sulla paura del diverso per ritorni elettorali - ha commentato don Elia Ferro, delegato della Caritas nella consulta regionale per l’immigrazione - confondono ad arte il micro con il macro. I dati parlano di una comunità migrante ben diversa da quella stereotipata dipinta da certa stampa”. “Bisogna essere ciechi, o chiudere gli occhi apposta, per non vedere le ricchezze sia economiche che sociali che l’immigrazione porta con se - ha concluso monsignor Dino Pistolato direttore della Caritas di Venezia -. Soprattutto in questi tempi di crisi, l’apporto dato dai migranti è fondamentale. In particolare se teniamo presente che sono loro i primi a pagare i costi di questa crisi. Ma in una situazione critica, in cui ai poveri si aggiungono i nuovi impoveriti, il rischio è che aumentino le frizioni sociali tra italiani e stranieri. Per questo, la politica sull’immigrazione dovrebbe al più presto uscire dai luoghi comuni e dalla logica dell’emergenza e affrontare la situazione con criteri basati più sui fatti concreti che sulle paure insulse”.
L’hanno fermata, le hanno rovistato nel bagaglio, hanno chiamato un ufficiale che ha posto un sacco di domande sia a lei che ai suoi professori. Eppure Sara non porta neppure il velo. I suoi genitori l’hanno educata alla fede bahai. Ma non è tutto. Nel caso il padre perdesse il lavoro, Sara rischia l’espulsione. Lei, nata e cresciuta in Italia, potrebbe essere costretta a migrare in un paese che conosce solo dai racconti dei genitori, un paese di cui parla poco la lingua e non legge la scrittura. Perché l’Italia è l’unico paese europeo dove la cittadinanza si acquisisce dai genitori e non dal luogo in cui si è nati. Cosi che un canadese col nonno di Genova è considerato più italiano di Sara, nata a Milano e cresciuta a Mestre. “Sono italiana o sono iraniana? - ha scritto Sara in una lettera ad un quotidiano locale -. I miei amici mi hanno detto che sono una italiana del futuro. Che tantissimi bambini che ora crescono in Italia hanno i genitori con passaporti stranieri e un domani saranno tutti ‘italiani’ come me. Il problema non sta qui, però. Sta nell’Italia che dobbiamo cominciare a costruire per far stare bene tutti questi bambini, qualunque cosa siano”.
Questa di Sara è una delle tante, tantissime storie che si possono leggere tra i numeri e le percentuali presentate dalla Caritas nel suo ultimo rapporto che fotografa lo stato dell’immigrazione nelle nostre città. Il dossier è stato presentato martedì 26 ottobre, nell’aula magna del Laurentianum, in centro a Mestre. Al di là dei numeri, già abbondantemente riportati da siti e giornali locali e che sono sostanzialmente quelli degli anni scorsi con la sola sottolineatura che i migranti sono stati i primi ad essere colpiti dalla crisi, sono le storie come quella di Sara che ci aiutano a farci un quadro più chiaro di cosa sia in realtà il fenomeno della migrazione. Un fenomeno che, dati alla mano, rappresenta una risorsa insostituibile per la nostra economia ma che al contrario viene percepito come un pericolo. “Certe campagne politiche che puntano sulla paura del diverso per ritorni elettorali - ha commentato don Elia Ferro, delegato della Caritas nella consulta regionale per l’immigrazione - confondono ad arte il micro con il macro. I dati parlano di una comunità migrante ben diversa da quella stereotipata dipinta da certa stampa”. “Bisogna essere ciechi, o chiudere gli occhi apposta, per non vedere le ricchezze sia economiche che sociali che l’immigrazione porta con se - ha concluso monsignor Dino Pistolato direttore della Caritas di Venezia -. Soprattutto in questi tempi di crisi, l’apporto dato dai migranti è fondamentale. In particolare se teniamo presente che sono loro i primi a pagare i costi di questa crisi. Ma in una situazione critica, in cui ai poveri si aggiungono i nuovi impoveriti, il rischio è che aumentino le frizioni sociali tra italiani e stranieri. Per questo, la politica sull’immigrazione dovrebbe al più presto uscire dai luoghi comuni e dalla logica dell’emergenza e affrontare la situazione con criteri basati più sui fatti concreti che sulle paure insulse”.
Quella centrale da bocciare
2/11/2010TerraUn mero business per la società proponente. Nessun beneficio per la comunità locale che paga il prezzo in termini di qualità ambientale e sicurezza. Così il Wwf seppellisce il progetto avanzato dalla Lucchini Energia di realizzare una centrale elettrica da 400 megawatt nell’area industriale del porto di Trieste. La società con sede legale a Brescia e controllata dal colosso russo Severstal, aveva presentato un progetto di un impianto termoelettrico a ciclo combinato nel novembre del 2008, suscitando sin dall’inizio le perplessità non solo delle associazioni ambientaliste ma anche degli stessi amministratori locali, sia a livello comunale che regionale.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Storie di Paese
1/11/2010TerraImmerso nel bel mezzo della marca trevigiana, Paese – anche nel nome stesso – è un tipico paese “spaesato”, direbbe il poeta Andrea Zanzotto, del Veneto più profondo. Poco meno di ventiduemila abitanti, fedelissimo feudo democristiano negli anni della Balena Bianca, oggi roccaforte padana con la Lega a percentuali “bulgare”. Se andiamo ancora indietro con la storia, ai tempi del referendum tra monarchia e repubblica, Paese scelse a grandi numeri la monarchia. Sotto il fascio littorio, Paese vantava una delle percentuali più alte di iscritti al partito di tutto il Veneto.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Il Po di Legambiente
26/10/2010TerraQuel disastro ambientale che chiamano Po è l’oggetto della campagna di Legambiente in atto e che propone venti giorni di dibattiti, incontri e iniziative varie che si stanno in tutti i punti più devastati del fiume più lungo d’Italia. Ricordiamo che il grande bacino del Po comprende ben 2423 comuni a forte rischio idrogeologico, molti dei quali periodicamenti flagellati da alluvioni, e che meriterebbero una attenzione maggiore e una serie di politiche di tutela e messa in sicurezza che gli enti competenti sono ben lontani dall’affrontare. Se è vero che dal 2005 prelevare sabbia dal fiume è vietato è anche vero che le estrazioni abusive continuano indisturbate.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
No Dal Molin e il futuro. Intervista con Olol Jackson
26/10/2010TerraConcluso da poco il festival, tredici giorni densi di iniziative, dibattiti e tanta voglia di confrontarsi, i No Dal Molin cercano adesso di ragionare sul prossimo futuro, anche alla luce delle tante suggestioni emerse durante l’annuale appuntamento vicentino. Ne parliamo con Olol Jackson, che sin dalla sua costituzione è stato una delle voci più autorevoli del presidio permanente. Che bilancio possiamo tirare dal festival?
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
Ai leghisti non piace il cine
19/10/2010TerraRicco sfondato, ignorante come una capra, prepotente con i più deboli, vile con i forti, untuoso con chi può favorire i suoi interessi, contaballe come Pinocchio ma senza la poesia del burattino senza fili (lui di fili ce ne ha e pure parecchi), ammanicato con la pubblica amministrazione che considera al suo esclusivo servizio, filosofo del “tutto si compra e tutto si vende”. Inoltre, padrone di una rete locale da cui, quando non trasmette squallide televendite, lancia lunghi e sgrammaticati proclami razzisti e xenofobi.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Minaccia Revamping
19/10/2010TerraLo scorso marzo, l’azienda Italcementi spa Cementeria di Monselice, ha presentato alla Provincia di Padova la domanda di VIA e d’Autorizzazione Integrata Ambientale, per un progetto denominato “Adeguamento tecnologico alle migliori tecniche disponibili” degli impianti della cementeria Italcementi di Monselice – denominato “Revamping”. In pratica, l’azienda propone di sostituire i 3 vecchi forni con un “nuovo forno di cottura tecnologicamente all’avanguardia”, una nuova torre di “preriscaldo” alta 122 metri, assicurando un notevole abbattimento delle emissioni in atmosfera, una riduzione nel consumo di risorse oltre che la solita “garanzia occupazionale”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.