In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Quella centrale da bocciare
2/11/2010TerraUn mero business per la società proponente. Nessun beneficio per la comunità locale che paga il prezzo in termini di qualità ambientale e sicurezza. Così il Wwf seppellisce il progetto avanzato dalla Lucchini Energia di realizzare una centrale elettrica da 400 megawatt nell’area industriale del porto di Trieste. La società con sede legale a Brescia e controllata dal colosso russo Severstal, aveva presentato un progetto di un impianto termoelettrico a ciclo combinato nel novembre del 2008, suscitando sin dall’inizio le perplessità non solo delle associazioni ambientaliste ma anche degli stessi amministratori locali, sia a livello comunale che regionale.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Favorevoli solo confindustria e... sindacati! Sin dal suo lancio, infatti, la Lucchini ha sostenuto il progetto legandolo al futuro occupazionale dei dipendenti degli impianti siderurgici triestini, per molti dei quali è già scattata da tempo la cassa integrazione. La crisi dell’impianto siderurgico di Servola, storico quartiere di Trieste, era cominciata sin dai primi anni del secolo, legata al drastico calo di profitti e di richieste sul comparto che ha investito gli stabilimenti dell’Europa intera e che ancora continua a pesare in termini occupazionali. In varie occasioni, anche nei momenti più duri in cui è stato fatto ritorso alla cassaintegrazione, la società ha sempre ribadito la sua volontà di non abbandonare Trieste e di investire in nuove strategie. Come, per l’appunto, la centrale termoelettrica. Nel luglio del 2009, la Lucchini ha presentato in Regione uno studio di impatto ambientale redatto dalla Medea Engineering. Guarda caso, la stessa società che ha redatto gli studi per il contestato rigassificatore proposta da GasNatural. la Lucchini comunque ha sempre sostenuto che rigassificatore e centrale sono due cose diverse e non hanno nessuna relazione tra di loro. Fatto sta, che l’ufficio Via della Regione Friuli Venezia Giulia ha ritenuto insufficiente la documentazione presentata dall’azienda, anche alla luce delle numerose osservazioni presentate dalle associazioni ambientaliste, e ha chiesto una lunga serie di integrazioni. Integrazione che la Lucchini ha successivamente consegnato al Via ma che non hanno convinto il Wwf. I presunti benefici ambientali, ad esempio, derivanti dalla costruzione della centrale sono inoltre solo teorici e vengono addirittura messi in discussione dalle stesse integrazioni prodotte da Lucchini, sostiene il Wwf. Il “ciclo chiuso delle acque” che in teoria dovrebbe integrare gli scarichi caldi della centrale con quelli freddi del rigassificatore riducendo l’impatto sulle acque marine, è reso problematico dal fatto che il funzionamento della centrale previsto è pari a 3.800 ore all’anno mentre quello del rigassificatore di 7.500. I due impianti sarebbero del resto gestiti da società diverse, con i conseguenti e pressoché insormontabili problemi di coordinamento tra cicli produttivi del tutto indipendenti. Inoltre l’azienda non si è ancora espressa nei confronti della chiusura della Ferriera di Servola che anzi continua ad apparire intatti nelle simulazioni paesaggistiche presentate da Lucchini, riportando in forte perdita il bilancio complessivo delle emissioni.
“Il Friuli Venezia Giulia da molti anni è in testa per i consumi pro capite in Italia, è quindi del tutto irrazionale prevedere un ulteriore incremento dell’overcapacity ed è senz’altro preferibile una politica energetica orientata all’efficienza che è anche la più redditizia - si legge in una nota del Wwf -. In un simile contesto non sorprende che il Consiglio comunale di Trieste abbia votato a maggioranza contro il progetto della centrale. Stupisce semmai la canea di reazioni indignate, contro questo voto, da parte di politici, Confindustria e sindacati quasi che la centrale con meno di 30 occupati previsti a regime, possa in qualche modo rappresentare una reale alternativa alla dismissione della Ferriera che dà lavoro, indotto compreso a circa 900 persone”.
Storie di Paese
1/11/2010TerraImmerso nel bel mezzo della marca trevigiana, Paese – anche nel nome stesso – è un tipico paese “spaesato”, direbbe il poeta Andrea Zanzotto, del Veneto più profondo. Poco meno di ventiduemila abitanti, fedelissimo feudo democristiano negli anni della Balena Bianca, oggi roccaforte padana con la Lega a percentuali “bulgare”. Se andiamo ancora indietro con la storia, ai tempi del referendum tra monarchia e repubblica, Paese scelse a grandi numeri la monarchia. Sotto il fascio littorio, Paese vantava una delle percentuali più alte di iscritti al partito di tutto il Veneto.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Ancora più indietro, all’epoca della lega di Cambrai, la comunità di Paese fu una delle poche a tradire la Repubblica Serenissima e a rispondere alla santa crociata contro Venezia schierandosi con il Regno Pontificio. Da queste parti, insomma, il termine “tradizionalismo” ha radici che affondano nella genetica più che nella cronaca. E oggi? Cosa resta a Paese? Intanto un bel primato: la cava più profonda d’Europa. La Morganella è un grattacielo di 25 piani. Solo che, invece di innalzarsi al cielo, affonda – e fin sotto la falda acquifera – per ben 70 metri. E non è tutto. Reggetevi forte che andiamo con l’elenco. Nei 38 chilometri quadrati del territorio comunale troviamo: 9 discariche, 29 cave tra le quali la Morganella, 11 siti contaminati, 9 scarichi industriali, un corridoio aereo militare, 2 grosse fonderie improduttive, 9 antenne per telefonia mobile, una fabbrica di asfalti chiusa da tempo, un deposito di carburanti militari, 5 grossi elettrodotti, una fabbrica di bombe, per fortuna, chiusa da tempo, un deposito di gas butano. Che il Pm 10 sia costantemente oltre i limiti di legge, stupisce solo i leghisti. Che le altissime percentuali di tumori tra la popolazione siamo imputabili a “Roma ladrona” è anche questa una ipotesi di cui sono convinti solo i leghisti. Ma da queste parti, se c’è una cosa di cui tutti conoscono l’importanza, quella è i “schei”, i soldi. Schei che non hanno né odore né colore politico. L’importante è farli. E se per farli bisogna inquinare alla vecchia maniera, bene. Se bisogna vendersi a questa nuova moda dell’ambientalismo… pazienza. In fondo, si dice da queste parti, “la politica xe ‘na roba sporca”. Accade così che i gruppi di cavatori Biasuzzi, Calcestruzzi e Superbeton di Grigolin hanno offerto ai Comuni del trevigiano enormi ed ecologissimi impianti fotovoltaici in cambio della poter continuare a scavare anche dove ora non è consentito. Il Comune di Ponzano Veneto ha già accettato e ora potrà scavare ancora 8 milioni di metri cubi di ghiaia per 20 anni proprio nella Morganella che sta ai confini con il comune di Paese. In cambio ora il Comune ha un bell’impianto fotovoltaico galleggiante da 800 KWp e tre cogeneratori. Pulito? No. Funziona ad olio di palma. Pianta che non è propriamente a chilometraggio zero, da queste parti. E sappiamo tutti cosa comportano queste coltivazioni nel sud del mondo. Ma dire “alimentazione ad olio vegetale” fa tanto “eco”. E, da queste parti, è già abbastanza.
Il Po di Legambiente
26/10/2010TerraQuel disastro ambientale che chiamano Po è l’oggetto della campagna di Legambiente in atto e che propone venti giorni di dibattiti, incontri e iniziative varie che si stanno in tutti i punti più devastati del fiume più lungo d’Italia. Ricordiamo che il grande bacino del Po comprende ben 2423 comuni a forte rischio idrogeologico, molti dei quali periodicamenti flagellati da alluvioni, e che meriterebbero una attenzione maggiore e una serie di politiche di tutela e messa in sicurezza che gli enti competenti sono ben lontani dall’affrontare. Se è vero che dal 2005 prelevare sabbia dal fiume è vietato è anche vero che le estrazioni abusive continuano indisturbate.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
Vanno anche considerati i problemi legati alla qualità delle acque. Il fenomeno di inquinamento delle acque superficiali più rilevante è legato agli scarichi provenienti dal comparto agro-zootecnico. Sommando all’impatto della popolazione umana quello determinato dagli allevamenti intensivi e dalle attività agricole, il carico inquinante complessivo è pari a 114 milioni di abitanti equivalenti. Per fare un esempio, è come se nel bacino del Po vivessero, e scaricassero, il doppio degli abitanti dell’Italia intera.
“Il Po - ha dichiarato il presidente di Legambiente Veneto Michele Bertucco - è il più importante e sfruttato fiume d’Italia, ma su di esso manca ancora oggi una politica unitaria ed efficace per la gestione dell’intero bacino idrografico, che supplisca agli scarsi effetti della miriade di enti ed istituzioni locali che – con poco successo - cercano di far fronte alle piene, ai momenti di scarsa portata e a tutte le problematiche che riguardano il fiume e il territorio circostante”. Nel bacino idrografico del Po, il 95 per cento dei prelievi superficiali e il 47 per cento di quelli sotterranei - spiega Legambiente - viene finalizzato all’irrigazione. A questo dato si aggiungono le numerosissime situazioni locali di progetti di speculazione e cementificazione del territorio e la mancanza di rispetto dei vincoli istituiti proprio per preservare il fiume e le sue sponde o particolari casi di rischio ambientale, come la presenza del deposito di scorie radioattive a Saluggia nel Vercellese, nei pressi della confluenza del Po, dove sorgono gli impianti e i depositi di scorie radioattive più grandi d’Italia, collocati nella fascia di pertinenza fluviale della Dora Baltea. Per non parlare della minaccia di nuove installazioni nucleari che necessitano di acqua per il raffreddamento dei generatori. Secondo l’associazione ambientalista, solo l’avvio di una pianificazione di sistema basata su principi di prevenzione, precauzione e sostenibilità può offrire la possibilità concreta di intervenire per ripristinare gli equilibri idrogeologici e ambientali e al tempo stesso agire per tutelare la sicurezza idraulica delle città e dei paesi situati sulle sue sponde. Il risanamento delle sue acque e la valorizzazione delle grandi risorse naturali, paesaggistiche e culturali potranno inoltre sostenere la rinascita economica necessaria a garantire un futuro migliore per le popolazioni rivierasche. “Il Polesine è un territorio plasmato dall’incessante azione costruttiva del Po - spiega Giorgia Businaro, direttrice di Legambiente Rovigo –. E’ un luogo di terre e acque. Dalla continua interazione di questi elementi è stato condizionato e caratterizzato nel corso dei millenni. Occorre ora che la popolazione riprenda contatto con il fiume e con l’inestimabile ricchezza che esso rappresenta. Occorre valutare e imparare a valorizzare le caratteristiche del territorio. I piccoli comuni rivieraschi rappresentano una risorsa per lo sviluppo economico locale e per la nascita di nuove imprenditorialità legate all’acqua”. “Senza dubbio – conclude l’ambientalista - la condizione affinché il fiume possa esprimere tutte le sue potenzialità è quella di favorire la tutela, la riqualificazione del paesaggio e la buona salute delle acque”.
No Dal Molin e il futuro. Intervista con Olol Jackson
26/10/2010TerraConcluso da poco il festival, tredici giorni densi di iniziative, dibattiti e tanta voglia di confrontarsi, i No Dal Molin cercano adesso di ragionare sul prossimo futuro, anche alla luce delle tante suggestioni emerse durante l’annuale appuntamento vicentino. Ne parliamo con Olol Jackson, che sin dalla sua costituzione è stato una delle voci più autorevoli del presidio permanente. Che bilancio possiamo tirare dal festival?
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
“Nonostante le avversità atmosferiche, sette giorni di pioggia battente su tredici di festival abbiamo avuto all’incirca la stessa affluenza degli scorsi anni, segno che il Festival è diventato ormai un appuntamento importante per la città.”
La questione del Parco della Pace, cioè di quell’enorme area del Dal Molin che, grazie alla vostra mobilitazione, è stata sottratta alla militarizzazione, così come la lotta per la difesa dei beni comuni, hanno in qualche modo indicato delle nuove prospettive rispetto?
“Assolutamente sì. Non dimentichiamoci che questo movimento è nato proprio grazie a una lettura complessiva del problema Dal Molin, capace di includere i contrari alla guerra così come le persone sensibili alla difesa dell’ambiente, o a quelli schifati dai metodi antidemocratici con cui si è voluta imporre la base Usa alla nostra città. Non vogliamo tralasciare nessuna di queste tematiche perché il loro intreccio e la capacità di tenerle legate tra loro è stata la vera forza, oltre che l’elemento di novità di questo movimento.”
Adesso si è aperta una fase nuova. Il cantiere della base, seppur drasticamente ridimensionato, va avanti.
“Questo è sotto gli occhi di tutti, senza dimenticare che quel mostro è stato imposto dallo Stato con la forza. Guardiamo anche chi avevamo di fronte gli Stati Uniti, la Nato, tutte le istituzioni italiane, e nonostante questa sfida impari siamo riusciti da un lato a fargli ridurre di due terzi la base, dall’altra a costruire, in città e non solo, una nuova coscienza collettiva, un nuovo linguaggio comune. Per questo ragionare in termini di vittoria o sconfitta è semplicemente assurdo.”
Adesso avete lanciato una proposta di riflessione aperta alla città, con che obiettivo?
“Partiamo da un dato, che è stato confermato anche dal Festival, e cioè che i vicentini hanno ancora voglia di essere protagonisti nella difesa del loro territorio. Per noi è importante mantenere aperta la discussione in città, favorire la partecipazione dei vicentini, attraverso delle campagne sui temi fin qui affrontati. Basti pensare alla questione dell’acqua. Partendo da tutto quello che abbiamo fatto in questi anni sul problema della falda acquifera sotto il Dal Molin, si è creata una nuova sensibilità su questi temi. Non a caso in questa provincia si è raggiunto un risultato straordinario nella raccolta firme per il referendum nazionale sulla ripubblicizzazione dell’acqua. Qualcosa di nuovo e di positivo si è radicato nell’immaginario collettivo. I problemi legati alla militarizzazione del nostro territorio rimangono tutti, ci aspetta ancora un lungo lavoro. Allo stesso tempo, è utile ricordare ciò che è stato uno dei nostri punti fermi. Il Dal Molin, oltre ad essere un problema in sé, è anche una chiave di lettura, un paradigma. Tra i sostenitori della base e noi c’è una concezione del mondo completamente opposta. Parlare del Dal Molin per noi significa parlare di guerra e di democrazia, di beni comuni e di lotta ai cambiamenti climatici. La vera sfida è quella di declinare sul piano locale queste contraddizioni globali, ricercando continuamente possibili soluzioni a partire da noi, dal nostro territorio. Se pensassimo di essere isolati, se non fossimo capaci di legare la nostra vertenza con ciò che avviene oltre noi, avremmo già perso.”
Cosa può rappresentare sotto questo aspetto il Parco della Pace?
“Intanto la mobilitazione sul Parco va avanti, perché non c’è stato ancora nessun atto formale che consegni alla città quell’area. Per noi il Parco dovrà essere uno spazio collettivo, pensato e gestito dai cittadini, non uno spazio neutro. Lo vediamo come un luogo dove i vicentini tornino a tessere relazioni, capace di produrre linguaggi e iniziative contro la guerra, contro la devastazione ambientale, oltretutto un punto d’osservazione privilegiato per tenere sotto controllo e circondare continuamente quella struttura di morte che sta sorgendo pochi metri più in là. Il Parco dovrà essere accogliente per i cittadini e inospitale per la guerra. Anche questa è una sfida suggestiva.”
Ai leghisti non piace il cine
19/10/2010TerraRicco sfondato, ignorante come una capra, prepotente con i più deboli, vile con i forti, untuoso con chi può favorire i suoi interessi, contaballe come Pinocchio ma senza la poesia del burattino senza fili (lui di fili ce ne ha e pure parecchi), ammanicato con la pubblica amministrazione che considera al suo esclusivo servizio, filosofo del “tutto si compra e tutto si vende”. Inoltre, padrone di una rete locale da cui, quando non trasmette squallide televendite, lancia lunghi e sgrammaticati proclami razzisti e xenofobi.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Vi viene in mente qualcuno? No, non sforzatevi che è meglio. Diciamo solo che al sindaco di Treviso, il 100% padano Paolo Gobbo, nel leggere il ritratto di questo bel personaggio, Libero Golfetto, interpretato da Diego Abatantuono e protagonista di un film attualmente in produzione, è subito venuto in mente il prototipo del perfetto leghista. E l’ha detto lui, non noi. Fatto sta che ha cacciato dalla “sua” città – per difenderne l’onorato nome, ovviamente – l’intera troupe della Medusa che stava girando il film il cui titolo che è già un ritratto della situazione: “Cose dell’altro mondo”. “Volevano che mettessimo a loro disposizione vigili, personale, uffici del Comune e addirittura pretendevano di portare un toro nelle piazze – ha spiegato il sindaco lumbard -. E poi ci hanno chiesto anche di chiudere certe strade al traffico. Per i miei concittadini ci sarebbero stati troppi disagi. E’ questo il motivo per cui sono stato costretto a dirgli di no, non certo perché ho paura di un film che attacca la lega e infanga il buon nome di Treviso”. “Ma quali vigili? Quali disagi?– ha ribattuto in un comunicato l’ufficio stampa della produzione, cui non era mai capitato di dover spostare la location del film all’ultimo momento per le bizze di un sindaco – abbiamo solo notificato i luoghi e i tempi in cui avremmo girato come si fa sempre in tutte le città del mondo. E ci è stato fatto capire senza mezze misure che non eravamo graditi e che l’amministrazione ci avrebbe ostacolato in tutti i modi”. Vien da chiedersi come si sarebbe comportato Gobbo se Steven Spielberg lo avesse contattato per girare il remake di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Lo avrebbe spedito a Bassano, come invece toccherà fare ad Abatantuono e soci?
Da sottolineare che il film che ha come regista il napoletano Francesco Patierno, non cita mai espressamente lega e leghismi, ma punta a denunciare le ipocrisie di un ambiente che – e le rabbiose reazioni lo confermano – evidentemente è ben radicato nell’entroterra veneto.
Il sindaco Gobbo non è stato il solo ad andare in escandescenze. Thomas, figlio dello scomparso imprenditore Giorgio Panto, patron di varie tv locali e fondatore del Progetto Nordest (il cui programma elettorale sotto la voce “ambiente” aveva un solo punto: pulire dalla sporcizia i bordi delle strade camionabili), ha già querelato la produzione del film sostenendo di riconoscere in Libero Golfetto – il protagonista del film - un calzante ritratto del padre. Vai a capire il perché… Cose dell’altro mondo, appunto.
Minaccia Revamping
19/10/2010TerraLo scorso marzo, l’azienda Italcementi spa Cementeria di Monselice, ha presentato alla Provincia di Padova la domanda di VIA e d’Autorizzazione Integrata Ambientale, per un progetto denominato “Adeguamento tecnologico alle migliori tecniche disponibili” degli impianti della cementeria Italcementi di Monselice – denominato “Revamping”. In pratica, l’azienda propone di sostituire i 3 vecchi forni con un “nuovo forno di cottura tecnologicamente all’avanguardia”, una nuova torre di “preriscaldo” alta 122 metri, assicurando un notevole abbattimento delle emissioni in atmosfera, una riduzione nel consumo di risorse oltre che la solita “garanzia occupazionale”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.
Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.
Scuola e armi son due cose distinte. Intervista con Michele Termine
19/10/2010TerraPrima di dedicarsi all’insegnamento e di diventare insegnante di sostegno - “Insegnante precario” tiene a precisare - in una scuola superiore della provincia di Venezia, Michele Termine è stato un paracadutista con la sua quindicesima compagnia “Diavoli neri” di Siena, ha partecipato alla missione Ibis in Somalia negli anni ’92 e ’93. L’esperienza gli ha aperto gli occhi su quello che sono le “missioni di pace” condotte con un mitra in mano e, in generale, sul rapporto tra la pratica militare e la cultura di pace.
A parte il fatto che Ibis non era e non voleva neppure essere una missione di pace, come ad esempio pretenderebbe di essere quella che il nostro esercito sta conducendo in Afghanistan, quello che ho imparato in Somalia e che, credo, nessuno, può contestare è che qualsiasi intervento armato va in direzione completamente opposta ai processi di pace e condivisione delle culture. Le armi portano solo scontro e divisione. Esattamente il contrario di quello che fa, o dovrebbe fare, la scuola. Se avessimo portato più libri che fucili, più insegnanti che soldati, il risultato sarebbe stato sicuramente migliore.
E anche più economico, scommetto?
Puoi dirlo. Lo sai quanti quaderni ci si compra col prezzo di un fucile?
Un ex soldato...
Paracadutista, prego!
Va bene. Un ex paracadutista che ora fa il professore, come vede le ipotesi di corsi di sopravvivenza, tiro con la pistola e quant’altro che alcuni ambienti governativi vorrebbero introdurre nelle scuole?
Un corso di sopravvivenza non è negativo di per sé. Si sente parlare anche di tiro con l’arco, che è una disciplina olimpica rispettabilissima. Il problema non è il corso, ma il contesto che, in questo caso, è quello della scuola. A scuola ci si va per studiare, comunicare, parlare, imparare, trasferire idee e non per sparare. La ‘filosofia’ che passa attraverso un corso di sopravvivenza non è compatibile con una struttura come la scuola che dovrebbe insegnare ad interagire tra culture diverse. E potremmo anche rovesciare il discorso affermando che imparare ad interagire con le culture diverse è già un corso di sopravvivenza, in una società mutliculturale come la nostra”. L'uomo è un animale sociale che ha bisogno di stare insieme agli altri. Le armi, i corsi di sopravvivenza, il mondo militare creano solo squilibri che allontano gli esseri umani e amplificano i conflitti. Solo la pratica del sapere e delle arti danno un apporto concreto alla capacità di stare insieme, aiutando i nostri neuroni a trovare le giuste soluzioni ai problemi di interazione. Chi pretende di educare all'uso delle armi non unisce ma divide, favorendo alcune ideologie di matrice violenta.
Nel romanzo “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi ambientato ai tempi della dittatura portoghese, il protagonista annota tristemente l’aumento degli esercizi ginnici nei cortili delle scuole a scapito delle ore di studio.
Diciamo le cose come stanno: tutte queste proposte hanno un solo scopo: fascitizzare scuola e studenti ed introdurre una carica di violenza che mi fa paura. Le ore dedicate ai corsi di sopravvivenza o di tiro vanno per forza di cose a discapito dello studio di discipline scientifiche che, al contrario della pratica delle armi, insegnano a pensare, trovare soluzioni, utilizzare le capacità mentali. Ora il problema è: perché togliere spazio ai libri e alla capacita educativa dei libri per fare posto ai metodi militari? La risposta è perche siamo in una società sempre meno democratica.
Che futuro daremo agli studenti di oggi?
Non ti so rispondere. Ma non pensare che questa deriva militaresca sia dettata dal caso. Fa parte di un processo che qualcuno ha ben chiaro in testa. Pensa a Sparta e Atene. Una praticava la democrazia attraverso l’arte, la filosofia, il concetto del bello, l’altra attraverso l’educazione militare, la sopressione dei “diversi” e l’esaltazione della violenza patriottica. Ecco. Fino ad ora la scuola ha, pur con risultati altalenanti, seguito l’esempio di Atene, oggi vogliono farci diventare tutti spartani. Non sraà neppure un passaggio difficile: sparare o saltare un ostacolo è più facile e anche più divertente per un ragazzino che studiare matematica. ma io che sono insegnante di sostegno mi chiedo: cosa faranno i diversamente abili? Possono fare anche loro i corsi di sopravvivenza? Oppure introdurremo una discriminazione in più?
Tu sei di origine siciliana, nel sud molti ragazzini vanno a sparare e imparano sulla strada tecniche di… sopravvivenza quanto meno discutibili
Già. Ed infatti di questo corsi si parla solo nel nord. Al sud, ci pensa la mafia a mettere in mano le pistole ai ragazzini. Ma è una forma di degrado. Un ragazzo che proviene da una famiglia, per così dire sana, studia e non usa le pistole. Nel nord la scuola si propone di fare quello che la mafia fa a sud.
Nel tuo tempo libero, insegni italiano ai migranti a Marghera. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
La scuola Liberalaparola è un esempio vivente che la condivisione delle culture passa attraverso lo studio e la conoscenza reciproca, passa traverso la pace e non la violenza, la vita e non la morte, i ponti e non i muri. Le ideologie e le pratiche militari sono l’antitesi di tutto quello che in una società libera e democratica significa la parola “scuola”.
Box - "La scuola rimanga un veicolo di cultura"
Claudia Nardini ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno del liceo classico Marco Polo di Venezia. Possiamo considerarla, una studentessa “impegnata” – con tutto quello che significa questo termine, in quanto, oltre a seguire gli studi, fa parte della redazione del giornale della scuola, “Senza filtro. Voci libere in campo” che ha affrontato – e non di rado con più criterio dei quotidiani locali – capitoli scottanti della vita veneziana come il Mose, il petrolchimico, oltre a temi più generali come l’immigrazione, la xenofobia e, per l’appunto, la varie riforme scolastiche.
Le chiediamo la sua opinione sul progetto formativo denominato “Allenati per la vita” frutto di un protocollo tra ministero dell’Istruzione e della Difesa e che prevede l’introduzione nelle scuole di addestramenti militari come lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa, percorsi ginnico-militari: arrampicata, nuoto e salvataggio e orienteering.
“Ricordo che alla scuola elementare ho partecipato ad un progetto che si chiamava Ecolandia, dove noi bambini dovevamo animare con disegni e filmini la storia di due vecchietti che ripulivano il mondo dall’inquinamento. Successivamente, al mio liceo, ho avuto l’opportunità di frequentare corsi di approfondimento: lettura dantesca, canto corale, pratica filosofica, tecniche teatrali, laboratori di storia, cineforum. Adesso in Lombardia è partita questa iniziativa promossa dai ministri dell’Istruzione e della Difesa, che porta nelle scuole corsi di addestramento che possiamo definire paramilitari, completi di arrampicata, percorsi ginnici, tiro con l’arco nonché precisi insegnamenti su come sparare con pistole ad aria compressa. Magari non sarò un’esperta nei metodi di insegnamento, ma questo mi sembra un passo indietro. La scuola dovrebbe rimanere veicolo di cultura e non di tensioni e violenza. La scuola ha il compito di far crescere persone che sappiano diventare il futuro della società civile. Le “allena alla vita”, aiutandole a sviluppare una ragione critica, ad approcciarsi agli altri in termini di accoglienza e dialogo, a maturare una consapevolezza di sé stesse, a formare una coscienza morale e civile. Invece il nome dato a questo nuovo progetto formativo presuppone un’altra concezione di vita. Siccome un addestramento paramilitare, come suggerisce la parola stessa, allena a operazioni militari, si avverte nel nome scelto per il programma una pericolosa e sottointesa equazione vita- operazione militare: come se la vita fosse una battaglia, passata a combattere contro dei nemici.Il cuore del problema non sta nel fatto che l’addestramento paramilitare a scuola sia o non sia obbligatorio, il problema è che ci sia e basta. Il problema è che la proposta sull’educazione a “Cittadinanza e Costituzione” che viene da chi ci governa, non partorisca un cittadino, bensì un soldato. Desta parecchia perplessità su un metodo di insegnare la Costituzione ai ragazzi che sembra in aperto contrasto con ciò che la Costituzione stessa stabilisce perentoria nell’articolo 11, “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
A parte il fatto che Ibis non era e non voleva neppure essere una missione di pace, come ad esempio pretenderebbe di essere quella che il nostro esercito sta conducendo in Afghanistan, quello che ho imparato in Somalia e che, credo, nessuno, può contestare è che qualsiasi intervento armato va in direzione completamente opposta ai processi di pace e condivisione delle culture. Le armi portano solo scontro e divisione. Esattamente il contrario di quello che fa, o dovrebbe fare, la scuola. Se avessimo portato più libri che fucili, più insegnanti che soldati, il risultato sarebbe stato sicuramente migliore.
E anche più economico, scommetto?
Puoi dirlo. Lo sai quanti quaderni ci si compra col prezzo di un fucile?
Un ex soldato...
Paracadutista, prego!
Va bene. Un ex paracadutista che ora fa il professore, come vede le ipotesi di corsi di sopravvivenza, tiro con la pistola e quant’altro che alcuni ambienti governativi vorrebbero introdurre nelle scuole?
Un corso di sopravvivenza non è negativo di per sé. Si sente parlare anche di tiro con l’arco, che è una disciplina olimpica rispettabilissima. Il problema non è il corso, ma il contesto che, in questo caso, è quello della scuola. A scuola ci si va per studiare, comunicare, parlare, imparare, trasferire idee e non per sparare. La ‘filosofia’ che passa attraverso un corso di sopravvivenza non è compatibile con una struttura come la scuola che dovrebbe insegnare ad interagire tra culture diverse. E potremmo anche rovesciare il discorso affermando che imparare ad interagire con le culture diverse è già un corso di sopravvivenza, in una società mutliculturale come la nostra”. L'uomo è un animale sociale che ha bisogno di stare insieme agli altri. Le armi, i corsi di sopravvivenza, il mondo militare creano solo squilibri che allontano gli esseri umani e amplificano i conflitti. Solo la pratica del sapere e delle arti danno un apporto concreto alla capacità di stare insieme, aiutando i nostri neuroni a trovare le giuste soluzioni ai problemi di interazione. Chi pretende di educare all'uso delle armi non unisce ma divide, favorendo alcune ideologie di matrice violenta.
Nel romanzo “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi ambientato ai tempi della dittatura portoghese, il protagonista annota tristemente l’aumento degli esercizi ginnici nei cortili delle scuole a scapito delle ore di studio.
Diciamo le cose come stanno: tutte queste proposte hanno un solo scopo: fascitizzare scuola e studenti ed introdurre una carica di violenza che mi fa paura. Le ore dedicate ai corsi di sopravvivenza o di tiro vanno per forza di cose a discapito dello studio di discipline scientifiche che, al contrario della pratica delle armi, insegnano a pensare, trovare soluzioni, utilizzare le capacità mentali. Ora il problema è: perché togliere spazio ai libri e alla capacita educativa dei libri per fare posto ai metodi militari? La risposta è perche siamo in una società sempre meno democratica.
Che futuro daremo agli studenti di oggi?
Non ti so rispondere. Ma non pensare che questa deriva militaresca sia dettata dal caso. Fa parte di un processo che qualcuno ha ben chiaro in testa. Pensa a Sparta e Atene. Una praticava la democrazia attraverso l’arte, la filosofia, il concetto del bello, l’altra attraverso l’educazione militare, la sopressione dei “diversi” e l’esaltazione della violenza patriottica. Ecco. Fino ad ora la scuola ha, pur con risultati altalenanti, seguito l’esempio di Atene, oggi vogliono farci diventare tutti spartani. Non sraà neppure un passaggio difficile: sparare o saltare un ostacolo è più facile e anche più divertente per un ragazzino che studiare matematica. ma io che sono insegnante di sostegno mi chiedo: cosa faranno i diversamente abili? Possono fare anche loro i corsi di sopravvivenza? Oppure introdurremo una discriminazione in più?
Tu sei di origine siciliana, nel sud molti ragazzini vanno a sparare e imparano sulla strada tecniche di… sopravvivenza quanto meno discutibili
Già. Ed infatti di questo corsi si parla solo nel nord. Al sud, ci pensa la mafia a mettere in mano le pistole ai ragazzini. Ma è una forma di degrado. Un ragazzo che proviene da una famiglia, per così dire sana, studia e non usa le pistole. Nel nord la scuola si propone di fare quello che la mafia fa a sud.
Nel tuo tempo libero, insegni italiano ai migranti a Marghera. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
La scuola Liberalaparola è un esempio vivente che la condivisione delle culture passa attraverso lo studio e la conoscenza reciproca, passa traverso la pace e non la violenza, la vita e non la morte, i ponti e non i muri. Le ideologie e le pratiche militari sono l’antitesi di tutto quello che in una società libera e democratica significa la parola “scuola”.
Box - "La scuola rimanga un veicolo di cultura"
Claudia Nardini ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno del liceo classico Marco Polo di Venezia. Possiamo considerarla, una studentessa “impegnata” – con tutto quello che significa questo termine, in quanto, oltre a seguire gli studi, fa parte della redazione del giornale della scuola, “Senza filtro. Voci libere in campo” che ha affrontato – e non di rado con più criterio dei quotidiani locali – capitoli scottanti della vita veneziana come il Mose, il petrolchimico, oltre a temi più generali come l’immigrazione, la xenofobia e, per l’appunto, la varie riforme scolastiche.
Le chiediamo la sua opinione sul progetto formativo denominato “Allenati per la vita” frutto di un protocollo tra ministero dell’Istruzione e della Difesa e che prevede l’introduzione nelle scuole di addestramenti militari come lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa, percorsi ginnico-militari: arrampicata, nuoto e salvataggio e orienteering.
“Ricordo che alla scuola elementare ho partecipato ad un progetto che si chiamava Ecolandia, dove noi bambini dovevamo animare con disegni e filmini la storia di due vecchietti che ripulivano il mondo dall’inquinamento. Successivamente, al mio liceo, ho avuto l’opportunità di frequentare corsi di approfondimento: lettura dantesca, canto corale, pratica filosofica, tecniche teatrali, laboratori di storia, cineforum. Adesso in Lombardia è partita questa iniziativa promossa dai ministri dell’Istruzione e della Difesa, che porta nelle scuole corsi di addestramento che possiamo definire paramilitari, completi di arrampicata, percorsi ginnici, tiro con l’arco nonché precisi insegnamenti su come sparare con pistole ad aria compressa. Magari non sarò un’esperta nei metodi di insegnamento, ma questo mi sembra un passo indietro. La scuola dovrebbe rimanere veicolo di cultura e non di tensioni e violenza. La scuola ha il compito di far crescere persone che sappiano diventare il futuro della società civile. Le “allena alla vita”, aiutandole a sviluppare una ragione critica, ad approcciarsi agli altri in termini di accoglienza e dialogo, a maturare una consapevolezza di sé stesse, a formare una coscienza morale e civile. Invece il nome dato a questo nuovo progetto formativo presuppone un’altra concezione di vita. Siccome un addestramento paramilitare, come suggerisce la parola stessa, allena a operazioni militari, si avverte nel nome scelto per il programma una pericolosa e sottointesa equazione vita- operazione militare: come se la vita fosse una battaglia, passata a combattere contro dei nemici.Il cuore del problema non sta nel fatto che l’addestramento paramilitare a scuola sia o non sia obbligatorio, il problema è che ci sia e basta. Il problema è che la proposta sull’educazione a “Cittadinanza e Costituzione” che viene da chi ci governa, non partorisca un cittadino, bensì un soldato. Desta parecchia perplessità su un metodo di insegnare la Costituzione ai ragazzi che sembra in aperto contrasto con ciò che la Costituzione stessa stabilisce perentoria nell’articolo 11, “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Un parco tutto per i cacciatori
6/10/2010TerraNei depliant dell’assessorato, viene definito “il bosco sotto casa” o, più pomposamente, “il parco urbano più grande d’Europa”. In effetti, con i suoi 67 ettari di superficie coperti da olmi, sanguinelle, pioppi, salici e altri alberi tipici di terreni palustri o comunque ricchi d’acqua, il parco della Storga si colloca ai primi posti della classifica europea di ex aree agricole adiacenti ad una grande città, recuperate sotto il profilo ambientale. Siamo a due passi da Treviso. Il parco della Storga è un’oasi di verde che offre rifugio, oltre ai bipedi cittadini stufi di respirare gas di scarico, anche a centinaia di “altre” specie animali come ricci, toporagni, talpe, volpi e donnole. Nei cieli del parco volano, di giorno, varie specie di uccelli acquatici come la gallinella d'acqua o il martin pescatore. Di notte: cacciano barbagianni, allocchi e civette.
Nella stagione delle migrazioni, tra le fronde del parco trovano ristoro allodole, usignoli, pendolini, pigliamosche. Nelle polle di risorgiva, sguazzano tritoni, rospi comuni e rospi smeraldini e si abbeverano testuggini, orbetti, ramarri e natrici.
Il progetto di un parco urbano da realizzare nei campi di una ex tenuta agricola dismessa, ha preso corpo nel ’91, quando la Provincia di Treviso ha ottenuto dalla Comunità Europea un finanziamento per un piano volto a tutelare la zona delle risorgive mediante i vincoli di un parco. Il bosco della Storga infatti si situa proprio al limite superiore della fascia delle risorgive, dove le acque sotterranee fuoriescono formando le caratteristiche polle d'acqua che danno vita ai fiumi Limbraga, Piavon e, per l’appunto, Storga.
Per farla corta, stiamo parlando di un bel posto e di un progetto tutto sommato positivo, pur se criticabile per l’invasività di tante, troppe, inutili cementificazioni come parcheggi e piste che la Provincia ha voluto a tutti i costi inserire all’interno del perimetro verde con lo scopo di rendere “fruibile” l’oasi ai visitatori ed evitar loro di sporcarsi le scarpe con l’erba. Va detto, che gli euro per completare l’opera, così come le direttive realizzative, sono tutti di provenienza europea. Compito della Provincia, oltre a quello di realizzare il progetto, rimane comunque l’affido della gestione del parco. Cosa che l’amministrazione ha provveduto a fare cercando, tramite bando di concorso, una associazione con sufficienti meriti ambientalisti cui affidare l’oasi. E l’associazione alla fine, l’hanno trovata. Era anche l’unica partecipante al bando, a dir la verità. Wwf, Lipu, Legambiente e compagnia bella non hanno neppure ritenuto il caso di sprecare carta e bolli per concorrere. A vincere il concorso, infatti, che prevede anche la gestione del centro di recupero di animali feriti, è stato l’Ekoclub. Eko scritto con la k. Perché di “eco” con la c, non ha proprio nulla a che fare. L’associazione, si legge in un documento del Wwf “non è altro che il cavallo di Troia della Federcaccia per sabotare, anche con il meccanismo della somma dei voti dei rappresentanti della Federcaccia e d'Ekoclub, le posizioni delle vere associazioni ambientaliste e sostituirsi ad esse nel controllo e nella gestione dell’attività venatoria”. Insomma la Provincia di Treviso ha trovato il modo di finanziare una associazione di cacciatori dandole, per di più, in gestione non solo un parco ma pure l’annesso centro di cura della fauna selvatica. L’Ekoclub, gli animali, li ama alla follia. Fuori del parco li impallinano, dentro li curano, così son pronti per essere impallinati un’altra volta. E in questo modo, si evitano pure tutti quei fastidiosi controlli su presunti episodi di bracconaggio. Un bell’affare per l’Ekoclub che ha già messo “nel carniere” alcune interessanti manifestazioni per valorizzare il parco. Valorizzare, intendiamo, secondo i criteri cari ai cacciatori. Il primo evento sarà una imperdibile esposizione di cani da caccia e di trofei venatori. In futuro, l’Ekoclub ha promesso di arricchire la fauna locale introducendo altre specie animali come caprioli, cinghiali, daini, rapaci. Specie non autoctone ma comunque “sparabili”. Per sistemarle, alzeranno dei grandi recinti e delle speciali gabbie su tutta l’area del parco. Ma quel che lascia più esterrefatti, è che, ha spiegato candidamente l’Ekoclub, questa operazione avrebbe lo scopo dichiarato di “arricchire la biodiversità della zona”. Proprio così: il concetto di “biodiversità”, per loro, equivale a quello di “zoo”.
Nella stagione delle migrazioni, tra le fronde del parco trovano ristoro allodole, usignoli, pendolini, pigliamosche. Nelle polle di risorgiva, sguazzano tritoni, rospi comuni e rospi smeraldini e si abbeverano testuggini, orbetti, ramarri e natrici.
Il progetto di un parco urbano da realizzare nei campi di una ex tenuta agricola dismessa, ha preso corpo nel ’91, quando la Provincia di Treviso ha ottenuto dalla Comunità Europea un finanziamento per un piano volto a tutelare la zona delle risorgive mediante i vincoli di un parco. Il bosco della Storga infatti si situa proprio al limite superiore della fascia delle risorgive, dove le acque sotterranee fuoriescono formando le caratteristiche polle d'acqua che danno vita ai fiumi Limbraga, Piavon e, per l’appunto, Storga.
Per farla corta, stiamo parlando di un bel posto e di un progetto tutto sommato positivo, pur se criticabile per l’invasività di tante, troppe, inutili cementificazioni come parcheggi e piste che la Provincia ha voluto a tutti i costi inserire all’interno del perimetro verde con lo scopo di rendere “fruibile” l’oasi ai visitatori ed evitar loro di sporcarsi le scarpe con l’erba. Va detto, che gli euro per completare l’opera, così come le direttive realizzative, sono tutti di provenienza europea. Compito della Provincia, oltre a quello di realizzare il progetto, rimane comunque l’affido della gestione del parco. Cosa che l’amministrazione ha provveduto a fare cercando, tramite bando di concorso, una associazione con sufficienti meriti ambientalisti cui affidare l’oasi. E l’associazione alla fine, l’hanno trovata. Era anche l’unica partecipante al bando, a dir la verità. Wwf, Lipu, Legambiente e compagnia bella non hanno neppure ritenuto il caso di sprecare carta e bolli per concorrere. A vincere il concorso, infatti, che prevede anche la gestione del centro di recupero di animali feriti, è stato l’Ekoclub. Eko scritto con la k. Perché di “eco” con la c, non ha proprio nulla a che fare. L’associazione, si legge in un documento del Wwf “non è altro che il cavallo di Troia della Federcaccia per sabotare, anche con il meccanismo della somma dei voti dei rappresentanti della Federcaccia e d'Ekoclub, le posizioni delle vere associazioni ambientaliste e sostituirsi ad esse nel controllo e nella gestione dell’attività venatoria”. Insomma la Provincia di Treviso ha trovato il modo di finanziare una associazione di cacciatori dandole, per di più, in gestione non solo un parco ma pure l’annesso centro di cura della fauna selvatica. L’Ekoclub, gli animali, li ama alla follia. Fuori del parco li impallinano, dentro li curano, così son pronti per essere impallinati un’altra volta. E in questo modo, si evitano pure tutti quei fastidiosi controlli su presunti episodi di bracconaggio. Un bell’affare per l’Ekoclub che ha già messo “nel carniere” alcune interessanti manifestazioni per valorizzare il parco. Valorizzare, intendiamo, secondo i criteri cari ai cacciatori. Il primo evento sarà una imperdibile esposizione di cani da caccia e di trofei venatori. In futuro, l’Ekoclub ha promesso di arricchire la fauna locale introducendo altre specie animali come caprioli, cinghiali, daini, rapaci. Specie non autoctone ma comunque “sparabili”. Per sistemarle, alzeranno dei grandi recinti e delle speciali gabbie su tutta l’area del parco. Ma quel che lascia più esterrefatti, è che, ha spiegato candidamente l’Ekoclub, questa operazione avrebbe lo scopo dichiarato di “arricchire la biodiversità della zona”. Proprio così: il concetto di “biodiversità”, per loro, equivale a quello di “zoo”.
Venezia non ha paura
14/09/2010Terra
La civiltà della paura non va da nessuna parte, non prende decisioni, assiste e borbotta. Le disparità diventano più forti, i problemi da risolvere più gravi. Ma anche vicino a te, vincendo paure, qualcuno getta le basi di un mondo migliore”. Il riferimento, neppure tanto velato, è alla lega nord. Quella lega che, domenica 12 settembre, per il tredicesimo anno consecutivo, ha invaso la città lagunare, per la sua festa di partito. Avvenimento che tra i veneziani viene efficacemente indicato come il giorno della “calata dei barbari”. Val solo la pena di ricordare che lo scorso anno un gruppo di militanti leghisti ha mandato in ospedale due camerieri di colore con la motivazione che “non gli avevano mostrato il permesso di soggiorno”.
“Mettiamo subito in chiaro che la festa non è contro la lega ma contro l’ideologia della paura - ha spiegato Giancarlo Ghigi, uno dei portavoce dell’iniziativa partita dal gruppo Facebook Venezia città aperta -. Oramai si fa politica solo facendo leva sulle paure spesso ingiustificate della gente. Ma è solo un sistema per evitare di affrontare i problemi reali come, tanto per fare un esempio, quelli ambientali o quelli legati all’immigrazione. La lega non è l’unica formazione politica a creare ad arte paure per poi cavalcarle elettoralmente, purtroppo. E’ una tentazione presente tra i politici di pressoché tutti i partiti. Gli sceriffi si trovano a destra ma anche a sinistra. Questa festa che abbiamo chiamato Venezia non ha paura, l’abbiamo pensata proprio per ribadire attraverso il contatto e la discussione con la gente che non vogliamo una politica da spettacolo televisivo, che non possiamo arrenderci a questa imperante sub cultura del terrore diffuso. Per sentirci vivi, noi non abbiamo bisogno di aver paura”.
Venezia città aperta, il gruppo facebook che ha firmato la manifestazione, è il prodotto di un’orto. Al pari di zucchine e pomodori. L’Orto di Ca’ Tron: lo splendido palazzo sul canal Grande sede dell’università veneziana. Per protestare contra la sua ventilata vendita ad una grande catena alberghiera, un gruppo di studenti, un paio di anni, fa aveva dato vita ad una autogestione che presto si è trasferita in quella che un tempo era la casa del custode del palazzo. Attorno alla casupola, diventata nel frattempo uno dei luoghi alternativi di ritrovo della vita culturale e giovanile di Venezia, c’era un orto abbandonato che gli studenti hanno seminato. Ne sono cresciute delle ottime cose: zucchine, pomodori e... un folto gruppo di cittadini che non ha paura di dire che non ha paura.
Viaggio nella valle dei Mòcheni
7/09/2010Terra
E non preoccupatevi se non ne avete mai sentito parlare prima. Sono pochi anche in Trentino a sapere che oltre ai più famosi popoli ladino e cimbro, esiste un’altra minoranza etnica e linguistica, ufficialmente riconosciuta dallo Stato italiano sin dal dopoguerra ed espressamente citata nell’accordo De Gasperi - Gruber, sottoscritto il 5 settembre ’46, per il riconoscimento e la tutela delle minoranze di lingua tedesca in Trentino e in Alto Adige. Stiamo parlando delle genti mòchene che scesero dall’alta Boemia per stabilirsi in questa stretta e scoscesa valle attorno al 1200, chiamati dai signori di Caldonazzo col compito di dissodare e di coltivare a cereali queste ripide pendici montuose che i locali usavano solo come pascolo o bosco. Erano un popolo di “roncadori”, di contadini, che non si tiravano indietro davanti al lavoro duro e che, quando gli veniva affidato un compito, rispondevano “mache ich”, "faccio io", così che ben presto, i valligiani cominciarono a chiamarli i “mòchen”. Gente dura, che non aveva paura di rimanere isolata per il lungo letargo invernale, quando la neve bloccava quell’unico passo che scendeva a valle. Così che, sino alla costruzione della prima chiesa e del relativo cimitero, nel 1522, le famiglie conservavano i cadaveri dei defunti al freddo, nelle soffitte, attendendo la primavera e lo scioglimento della neve per poter dar loro cristiana sepoltura a valle, in terra consacrata.
In questo periodo, la valle, che nel frattempo era caduta sotto la dominazione del Capitolo vescovile di Trento, conobbe una seconda ondata migratoria. La provenienza era principalmente sempre la stessa: l’alta Boemia cui va aggiunta, secondo alcuni storici, anche la Baviera. Ma i migranti, questa volta, non erano più contadini ma minatori. Nella valle infatti erano stati scoperti ricchi giacimenti di rame, ferro, stagno, argento e altri minerali preziosi. I migranti si integrarono perfettamente con la popolazione locale, con la quale d’altra parte, condividevano lingua e cultura, e cominciarono a cavare i preziosi tesori nascosti nelle viscere dei monti, scavando miniere profonde centinaia di metri che ancor oggi sono visitabili. Erano operai, diremmo oggi, specializzati e, per i criteri dell’epoca, ben pagati. Eppure il loro lavoro era durissimo e raramente la vita media sforava i trent’anni. L’estrazione dei minerali impegnava tutta la famiglia; gli uomini scavavano e portavano all’aria aperta il materiale che le donne separavano, pulivano e portavano a valle. Anche i bambini avevano il loro compito. Dovevano entrare nelle viscere della montagna, infilarsi nelle gallerie più strette ed esplorare i cunicoli più profondi in cerca della vena da sfruttare. Vestivano abito dai coloro sgargianti, rossi in particolare, per essere più visibili al buio e più facilmente recuperati in caso di frana. In testa portavano un cappuccio a punta, riempito di paglia, che aveva lo scopo di segnalare come un’antenna gli abbassamenti della volta e attutire eventuali zuccate contro la roccia. L’immagine vi ricorda qualcosa? Proprio così. I nani e gli gnomi delle leggende che tutti i popoli delle montagne si sono creati nascono proprio da queste miniere. La stessa fiaba di Biancaneve e dei suoi amici nani, che la Disney ha ridotto a sette ma che in origine erano una intera tribù, è stata rielaborata dai fratelli Grimm sulla base di una leggenda mòchena. Il che autorizza le guide turistiche che accompagnano gli escursionisti a visitare le spettacolari miniere della valle a raccontare che quella che andiamo a vedere è proprio la “miniera dei sette nani”. Una favola che a guardarci dentro nasconde la tragica storia di tanti bambini che hanno trascorso la loro infanzia a lavorare nel buio di una miniera. E di favole e di leggende, la valle dei Mòcheni, ne racconta tante. Storie di draghi fiammeggianti che escono dalle viscere della terra per arrostire gli impavidi cavalieri, così come i gas naturali infiammati bruciavano gli sfortunati minatori. Oppure la vicenda dell’orribile “donnona” che si aggira nelle notti mòchene per rubare le noci agli agricoltori e i bambini alle loro mamme. Le noci infatti servivano a fare l’olio delle lampade con le quali i piccoli minatori scendevano nel ventre della montagna. Oggi, le lampade ad olio di noce non si usano più. E i bambini, grazie a dio, si vestono da gnomi per carnevale e non più per fare i minatori. La storia è sbiadita nel mito ma la paura si è trasformata in leggenda ed rimasta a colorare d’incanto la bella valle dei mòcheni.
Box Dalle miniere ai piccoli frutti
Le miniere che hanno scavato la storia della valle dei mòcheni oggi sono tutte chiuse. Gli escursionisti che non temono la claustrofobia le possono visitare accompagnati da guide esperte ma il volano economico che dà vita a questa valle ancora lontana dai circuiti del turismo di massa, ruota attorno ad una produzione tutta particolare: quella dei piccoli frutti. L’ultima miniera mòchena fu chiusa per esaurimento della vena negli anni in cui governava Maria Teresa d’Austria (1717 - 1780). La regina preoccupata per il futuro di quella gente che, pur vivendo in una vallata italiana, parlava una lingua simile alla sua concesse loro il permesso di commerciare nell’Impero austro germanico. I mòcheni allora divennero ambulanti, valicarono le alpi nel senso ripercorrendo in senso opposto i sentieri dei loro progenitori, e camminarono per tutte le strade della Boemia e della Baviera dove la gente rideva nel sentirli parlare con dei termini e una cadenza che usavano i loro trisnonni. Vendevano bottoni, cristalli e altri prodotti del loro artigianato.
Con la caduta dell’impero austriaco e l’arrivo del Tricolore, il commercio con l’Austria collassò e per i mòcheni divenne ancor più duro mantenere la loro lingua e le loro tradizioni. Il periodo fascista fu quello più duro: parlare mòcheno era punito col carcere e, in tempo di guerra, anche con la fucilazione. Con la Liberazione e con gi accordi De Gasperi – Gruber, i mòcheni divennero una delle tre minoranze linguistiche con i ladini e i cimbri, ufficialmente riconosciute in Trentino dallo Stato. La lingua mòchena è insegnata nelle scuole ed è usata nella cartellonistica stradale. Anche l’economia era profondamente mutata. La valle sopravviveva grazie all’allevamento di bovini e alla coltivazione delle mele. Ben presto, i fu evidente che i frutteti che crescevano negli impervi versanti della valle non potevano reggere il confronto con i prodotti coltivati in altre vallate trentine, come ad esempio la val di Non. L’ultima risorsa, l’allevamento, entrò in crisi negli anni settanta e per la valle venne il tempo dello spopolamento. A salvare le genti mòchene fu, come per altre realtà trentine, il modello cooperativo. Una dozzina di imprese agricole a conduzione familiare si riunirono nella cooperativa Sant’Orsola. C’era un tesoro nella loro valle. E non era un tesoro nascosto sotto terra come ai tempi delle miniere, ma un tesoro che cresceva alla luce del sole, nelle penombre di quel sottobosco che copre l’intera vallata. I piccoli frutti: mirtilli, fragoline, ciliegie, lamponi… Prodotti di altissima qualità che hanno conquistato prima i palati dei consumatori e poi i mercati. Oggi la cooperativa di agricoltura integrata Sant’Orsola conta oltre 1200 piccoli produttori anche al di fuori della vallata dei mòcheni, impegnati a rispettare i rigidissimi standard qualitativi imposti dal marchio. Una mezza dozzina di questi produttori, diciamocela, con la lingua mòchena hanno ben poco a che fare. Sono calabresi. Entrati nella grande famiglia mòchena grazie ai buoni uffici del vescovo antimafia monsignor Bagnasco, impegnato ad esportare il modello di cooperazione trentina nelle terre confiscate alle cosche.
Box Bersntoler Museum, il museo della pietra viva
Il museo delle Pietra viva, o se parlate la lingua mòchena, “Bersntoler Museum”, si trova in un antico mulino in località Stefani di Sant’Orsola terme. Siamo nel cuore della valle dei Mòcheni. Lo curano due veri e propri cercatori di tesori: i gemelli Mario e Lino Pallaoro, di cui probabilmente ricorderete qualche apparizione nella trasmissione televisiva “Geo&Geo”. Due autentici personaggi cui va l’innegabile compito di aver saputo dare vita alle pietre. L’esposizione pare fatta apposta per far cambiare idea a quanti ritengono che i sassi non sono altro che sassi. Il museo infatti, racconta attraverso i minerali la storia della valle, dalla sua particolare formazione geologica, passando per la storia antica, quando i romani scavavano la montagna alla ricerca di quel cristallo che ritenevano fosse “ghiaccio fossile” e al quale attribuivano magiche proprietà. da qui la leggenda della magica sfera di cristallo dentro la quale la fattucchiera legge il presente, il passato e il futuro. Ed in effetti, il passato, presente e futuro della storia del mondo sono davvero scritti nella pietra. Basta solo saperli leggere. E non serve neppure l’immaginazione di una fattucchiera.
Box S kloà bersntoler beirterpuach
Ovverossia: piccolo vocabolario della lingua mòchena. E’ uscito in questi giorni, pubblicato dall’istituto di Cultura Mòcheno, il primo vocabolario mòcheno – italiano – tedesco. Un’opera che non esitiamo a definire indispensabile per tutti coloro che vogliono cimentarsi a parlare il mòcheno. Più seriamente, il libro è un interessante studio sulle particolarità di una parlata che trae origine dal tedesco in voga nell’alta Boemia del 1500 ed è rimasta pressoché uguale nei secoli, importando di tanto in tanto, termini trentini e italiani. Un classico esempio è quello della parola “patata”. Il tubero è stato introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America. I mòcheni, che all’epoca vivevano separati dalla madre patria germanica, non potevano conoscere il termine “kartoffel”. Cosa han fatto quindi? Hanno usato la parola italiana declinandola ala tedesca. E così oggi nei piatti della valle si mangiano le “pataten”.