In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Minaccia Revamping

Lo scorso marzo, l’azienda Italcementi spa Cementeria di Monselice, ha presentato alla Provincia di Padova la domanda di VIA e d’Autorizzazione Integrata Ambientale, per un progetto denominato “Adeguamento tecnologico alle migliori tecniche disponibili” degli impianti della cementeria Italcementi di Monselice – denominato “Revamping”. In pratica, l’azienda propone di sostituire i 3 vecchi forni con un “nuovo forno di cottura tecnologicamente all’avanguardia”, una nuova torre di “preriscaldo” alta 122 metri, assicurando un notevole abbattimento delle emissioni in atmosfera, una riduzione nel consumo di risorse oltre che la solita “garanzia occupazionale”.

Il costo totale per la realizzazione dell’intervento è di 160 milioni, un investimento per il quale i dirigenti di Italcementi hanno dichiarato, senza però dimostrare come, di poter rientrare in dieci anni, escludendo in ogni caso per il nuovo impianto l’utilizzo del cosiddetto “cdr”, il combustibile derivato da rifiuti, ma con la postilla “a meno che ciò non sia espressamente richiesto dalle autorità competenti”.
A supporto di questo progetto, ha svolto un ruolo importante ha svolto il sindaco di Monselice, Francesco Lunghi (Pdl), che sin da subito si è dichiarato favorevole all’uso del cdr. Con lui gli autotrasportatori, una parte considerevole del mondo politico, non solo del centrodestra, ed i sindacati, spaventati da apocalittici segnali per scenari apocalittici per l’occupazione e l’economia del territori, come già successo nel 1971, quando mobilitarono i lavoratori delle cave contro la chiusura di vere e proprie miniere a cielo aperto che si stavano letteralmente mangiando i colli euganei. In realtà la fine di queste devastanti lavorazioni diedero spazio e respiro ad una nuova economia basata sul rilancio delle terme, sul turismo e sulla valorizzazione della produzione locale. Nel 1989 i Colli Euganei sono stati riconosciuti come Parco Regionale ed il conseguente Piano Ambientale, ha confermato la definitiva chiusura di tutte le cave, anche di quelle in coltivazione per alimentare i cementifici, a loro volta definiti “incompatibili” con le finalità del Parco. Oggi, il nuovo pericolo per la salute e per l’ambiente viene dal revamping
Contro la ristrutturazione proposta dall’Italcementi, si sono prontamente mobilitati i comitati e le associazioni per la difesa della salute e dell’ambiente, affiancati da un inaspettato fronte trasversale composto di 27 amministrazioni del territorio a cui si è aggiunto il Consiglio Comunale di Monselice, che dopo un acceso confronto, ha votato un documento contrapposto a quello presentato dal sindaco. Anche la società civile si è mobilitata, alcune associazioni di categoria e i Consigli Pastorali delle Parrocchie hanno preso una netta posizione, decine di cittadini hanno inviato le loro rimostranze agli amministratori e alla stampa, a fine Maggio un migliaio di persone ha percorso in corteo le strade di Monselice. Un confronto dai toni aspri, che ha prodotto spaccature nei partiti, nelle associazioni, nella rete comunitaria del territorio.
“Il revamping è in aperto conflitto con l’articolo 19 dello statuto del Parco Colli Euganei, che definisce incompatibili ‘gli impianti produttivi ad alto impatto ambientale, quali le cementerei ‘ – spiega l’ambientalista Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare - . Al di la delle belle parole dei dirigenti dell’Italcementi, oramai tutti dovrebbero essersi resi conto che non si fa buona economia devastando e depredando quel che resta del territorio. I rifiuti d’ogni genere sono, per impianti di questo tipo, parte integrante del processo produttivo. L’impatto ambientale potrebbe incidere in modo irreversibile sul valore del territorio e sulla salute di lavoratori e residenti in una vasta area, in quanto i rifiuti nella combustione possono liberare, come ampiamente dimostrato, sostanze nocive, tossiche, cancerogene, teratogene e mutagene. Ciò è ancora più pericoloso nei cementifici in quanto questi impianti non sono soggetti, pur smaltendo e bruciando rifiuti come gli inceneritori, ai controlli e ai limiti d’emissione degli inceneritori di rifiuti”.

Scuola e armi son due cose distinte. Intervista con Michele Termine

Prima di dedicarsi all’insegnamento e di diventare insegnante di sostegno - “Insegnante precario” tiene a precisare - in una scuola superiore della provincia di Venezia, Michele Termine è stato un paracadutista con la sua quindicesima compagnia “Diavoli neri” di Siena, ha partecipato alla missione Ibis in Somalia negli anni ’92 e ’93. L’esperienza gli ha aperto gli occhi su quello che sono le “missioni di pace” condotte con un mitra in mano e, in generale, sul rapporto tra la pratica militare e la cultura di pace.


A parte il fatto che Ibis non era e non voleva neppure essere una missione di pace, come ad esempio pretenderebbe di essere quella che il nostro esercito sta conducendo in Afghanistan, quello che ho imparato in Somalia e che, credo, nessuno, può contestare è che qualsiasi intervento armato va in direzione completamente opposta ai processi di pace e condivisione delle culture. Le armi portano solo scontro e divisione. Esattamente il contrario di quello che fa, o dovrebbe fare, la scuola. Se avessimo portato più libri che fucili, più insegnanti che soldati, il risultato sarebbe stato sicuramente migliore.

E anche più economico, scommetto?
Puoi dirlo. Lo sai quanti quaderni ci si compra col prezzo di un fucile?

Un ex soldato...
Paracadutista, prego!

Va bene. Un ex paracadutista che ora fa il professore, come vede le ipotesi di corsi di sopravvivenza, tiro con la pistola e quant’altro che alcuni ambienti governativi vorrebbero introdurre nelle scuole?
Un corso di sopravvivenza non è negativo di per sé. Si sente parlare anche di tiro con l’arco, che è una disciplina olimpica rispettabilissima. Il problema non è il corso, ma il contesto che, in questo caso, è quello della scuola. A scuola ci si va per studiare, comunicare, parlare, imparare, trasferire idee e non per sparare. La ‘filosofia’ che passa attraverso un corso di sopravvivenza non è compatibile con una struttura come la scuola che dovrebbe insegnare ad interagire tra culture diverse. E potremmo anche rovesciare il discorso affermando che imparare ad interagire con le culture diverse è già un corso di sopravvivenza, in una società mutliculturale come la nostra”. L'uomo è un animale sociale che ha bisogno di stare insieme agli altri. Le armi, i corsi di sopravvivenza, il mondo militare  creano solo squilibri che allontano gli esseri umani e amplificano i conflitti. Solo la pratica del sapere e delle arti danno un apporto concreto alla capacità di stare insieme, aiutando i nostri neuroni a trovare le giuste soluzioni ai problemi di interazione. Chi pretende di educare all'uso delle armi non unisce ma divide, favorendo alcune ideologie di matrice violenta.

Nel romanzo “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi ambientato ai tempi della dittatura portoghese, il protagonista annota tristemente l’aumento degli esercizi ginnici nei cortili delle scuole a scapito delle ore di studio.
Diciamo le cose come stanno: tutte queste proposte hanno un solo scopo: fascitizzare scuola e studenti ed introdurre una carica di violenza che mi fa paura. Le ore dedicate ai corsi di sopravvivenza o di tiro vanno per forza di cose a discapito dello studio di discipline scientifiche che, al contrario della pratica delle armi, insegnano a pensare, trovare soluzioni, utilizzare le capacità mentali. Ora il problema è: perché togliere spazio ai libri e alla capacita educativa dei libri per fare posto ai metodi militari? La risposta è perche siamo in una società sempre meno democratica.

Che futuro daremo agli studenti di oggi?
Non ti so rispondere. Ma non pensare che questa deriva militaresca sia dettata dal caso. Fa parte di un processo che qualcuno ha ben chiaro in testa. Pensa a Sparta e Atene. Una praticava la democrazia attraverso l’arte, la filosofia, il concetto del bello, l’altra attraverso l’educazione militare, la sopressione dei “diversi” e l’esaltazione della violenza patriottica. Ecco. Fino ad ora la scuola ha, pur con risultati altalenanti, seguito l’esempio di Atene, oggi vogliono farci diventare tutti spartani. Non sraà neppure un passaggio difficile: sparare o saltare un ostacolo è più facile e anche più divertente per un ragazzino che studiare matematica. ma io che sono insegnante di sostegno mi chiedo: cosa faranno i diversamente abili? Possono fare anche loro i corsi di sopravvivenza? Oppure introdurremo una discriminazione in più?

Tu sei di origine siciliana, nel sud molti ragazzini vanno a sparare e imparano sulla strada tecniche di… sopravvivenza quanto meno discutibili
Già. Ed infatti di questo corsi si parla solo nel nord. Al sud, ci pensa la mafia a mettere in mano le pistole ai ragazzini. Ma è una forma di degrado. Un ragazzo che proviene da una famiglia, per così dire sana, studia e non usa le pistole. Nel nord la scuola si propone di fare quello che la mafia fa a sud.

Nel tuo tempo libero, insegni italiano ai migranti a Marghera. Cosa ti ha insegnato questa esperienza?
La scuola Liberalaparola è un esempio vivente che la condivisione delle culture passa attraverso lo studio e la conoscenza reciproca, passa traverso la pace e non la violenza, la vita e non la morte, i ponti e non i muri. Le ideologie e le pratiche militari sono l’antitesi di tutto quello che in una società libera e democratica significa la parola “scuola”.

Box - "La scuola rimanga un veicolo di cultura"
Claudia Nardini ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno del liceo classico Marco Polo di Venezia. Possiamo considerarla, una studentessa “impegnata” – con tutto quello che significa questo termine, in quanto, oltre a seguire gli studi, fa parte della redazione del giornale della scuola, “Senza filtro. Voci libere in campo” che ha affrontato – e non di rado con più criterio dei quotidiani locali – capitoli scottanti della vita veneziana come il Mose, il petrolchimico, oltre a temi più generali come l’immigrazione, la xenofobia e, per l’appunto, la varie riforme scolastiche.
Le chiediamo la sua opinione sul progetto formativo denominato “Allenati per la vita” frutto di un protocollo tra ministero dell’Istruzione e della Difesa e che prevede l’introduzione nelle scuole di addestramenti militari come lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa, percorsi ginnico-militari: arrampicata, nuoto e salvataggio e orienteering.
“Ricordo che alla scuola elementare ho partecipato ad un progetto che si chiamava Ecolandia, dove noi bambini dovevamo animare con disegni e filmini la storia di due vecchietti che ripulivano il mondo dall’inquinamento. Successivamente, al mio liceo, ho avuto l’opportunità di frequentare corsi di approfondimento: lettura dantesca, canto corale, pratica filosofica, tecniche teatrali, laboratori di storia, cineforum. Adesso in Lombardia è partita questa iniziativa promossa dai ministri dell’Istruzione e della Difesa, che porta nelle scuole corsi di addestramento che possiamo definire paramilitari, completi di arrampicata, percorsi ginnici, tiro con l’arco nonché precisi insegnamenti su come sparare con pistole ad aria compressa. Magari non sarò un’esperta nei metodi di insegnamento, ma questo mi sembra un passo indietro. La scuola dovrebbe rimanere veicolo di cultura e non di tensioni e violenza. La scuola ha il compito di far crescere persone che sappiano diventare il futuro della società civile. Le “allena alla vita”, aiutandole a sviluppare una ragione critica, ad approcciarsi agli altri in termini di accoglienza e dialogo, a maturare una consapevolezza di sé stesse, a formare una coscienza morale e civile. Invece il nome dato a questo nuovo progetto formativo presuppone un’altra concezione di vita. Siccome un addestramento paramilitare, come suggerisce la parola stessa, allena a operazioni militari, si avverte nel nome scelto per il programma una pericolosa e sottointesa equazione vita- operazione militare: come se la vita fosse una battaglia, passata a combattere contro dei nemici.Il cuore del problema non sta nel fatto che l’addestramento paramilitare a scuola sia o non sia obbligatorio, il problema è che ci sia e basta. Il problema è che la proposta sull’educazione a “Cittadinanza e Costituzione” che viene da chi ci governa, non partorisca un cittadino, bensì un soldato. Desta parecchia perplessità su un metodo di insegnare la Costituzione ai ragazzi che sembra in aperto contrasto con ciò che la Costituzione stessa stabilisce perentoria nell’articolo 11, “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Un parco tutto per i cacciatori

Nei depliant dell’assessorato, viene definito “il bosco sotto casa” o, più pomposamente, “il parco urbano più grande d’Europa”. In effetti, con i suoi 67 ettari di superficie coperti da olmi, sanguinelle, pioppi, salici e altri alberi tipici di terreni palustri o comunque ricchi d’acqua, il parco della Storga si colloca ai primi posti della classifica europea di ex aree agricole adiacenti ad una grande città, recuperate sotto il profilo ambientale. Siamo a due passi da Treviso. Il parco della Storga è un’oasi di verde che offre rifugio, oltre ai bipedi cittadini stufi di respirare gas di scarico, anche a centinaia di “altre” specie animali come ricci, toporagni, talpe, volpi e donnole. Nei cieli del parco volano, di giorno, varie specie di uccelli acquatici come la gallinella d'acqua o il martin pescatore. Di notte: cacciano barbagianni, allocchi e civette.
Nella stagione delle migrazioni, tra le fronde del parco trovano ristoro allodole, usignoli, pendolini, pigliamosche. Nelle polle di risorgiva, sguazzano tritoni, rospi comuni e rospi smeraldini e si abbeverano testuggini, orbetti, ramarri e natrici.
Il progetto di un parco urbano da realizzare nei campi di una ex tenuta agricola dismessa, ha preso corpo nel ’91, quando la Provincia di Treviso ha ottenuto dalla Comunità Europea un finanziamento per un piano volto a tutelare la zona delle risorgive mediante i vincoli di un parco. Il bosco della Storga infatti si situa proprio al limite superiore della fascia delle risorgive, dove le acque sotterranee fuoriescono formando le caratteristiche polle d'acqua che danno vita ai fiumi Limbraga, Piavon e, per l’appunto, Storga.
Per farla corta, stiamo parlando di un bel posto e di un progetto tutto sommato positivo, pur se criticabile per l’invasività di tante, troppe, inutili cementificazioni come parcheggi e piste che la Provincia ha voluto a tutti i costi inserire all’interno del perimetro verde con lo scopo di rendere “fruibile” l’oasi ai visitatori ed evitar loro di sporcarsi le scarpe con l’erba. Va detto, che gli euro per completare l’opera, così come le direttive realizzative, sono tutti di provenienza europea. Compito della Provincia, oltre a quello di realizzare il progetto, rimane comunque l’affido della gestione del parco. Cosa che l’amministrazione ha provveduto a fare cercando, tramite bando di concorso, una associazione con sufficienti meriti ambientalisti cui affidare l’oasi. E l’associazione alla fine, l’hanno trovata. Era anche l’unica partecipante al bando, a dir la verità. Wwf, Lipu, Legambiente e compagnia bella non hanno neppure ritenuto il caso di sprecare carta e bolli per concorrere. A vincere il concorso, infatti, che prevede anche la gestione del centro di recupero di animali feriti, è stato l’Ekoclub. Eko scritto con la k. Perché di “eco” con la c, non ha proprio nulla a che fare. L’associazione, si legge in un documento del Wwf “non è altro che il cavallo di Troia della Federcaccia per sabotare, anche con il meccanismo della somma dei voti dei rappresentanti della Federcaccia e d'Ekoclub, le posizioni delle vere associazioni ambientaliste e sostituirsi ad esse nel controllo e nella gestione dell’attività venatoria”. Insomma la Provincia di Treviso ha trovato il modo di finanziare una associazione di cacciatori dandole, per di più, in gestione non solo un parco ma pure l’annesso centro di cura della fauna selvatica. L’Ekoclub, gli animali, li ama alla follia. Fuori del parco li impallinano, dentro li curano, così son pronti per essere impallinati un’altra volta. E in questo modo, si evitano pure tutti quei fastidiosi controlli su presunti episodi di bracconaggio. Un bell’affare per l’Ekoclub che ha già messo “nel carniere” alcune interessanti manifestazioni per valorizzare il parco. Valorizzare, intendiamo, secondo i criteri cari ai cacciatori. Il primo evento sarà una imperdibile esposizione di cani da caccia e di trofei venatori. In futuro, l’Ekoclub ha promesso di arricchire la fauna locale introducendo altre specie animali come caprioli, cinghiali, daini, rapaci. Specie non autoctone ma comunque “sparabili”. Per sistemarle, alzeranno dei grandi recinti e delle speciali gabbie su tutta l’area del parco. Ma quel che lascia più esterrefatti, è che, ha spiegato candidamente l’Ekoclub, questa operazione avrebbe lo scopo dichiarato di “arricchire la biodiversità della zona”. Proprio così: il concetto di “biodiversità”, per loro, equivale a quello di “zoo”.

Venezia non ha paura

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Venezia non ha paura. E lo ha ribadito in una “tre giorni di festa” in campo S. Giacomo dell’Orio, cuore della vita popolare della città. Una “tre giorni” - da venerdì 10 a domenica 12 - di poesia, teatro, letture, video, incontri, musica cui ha partecipato con stand e con varie iniziative pressoché l’intero arcipelago associativo ambientalista, culturale e sociale di Venezia, delle sue isole e della sua terraferma. Venezia, con questa manifestazione, ha voluto dimostrare che non ha paura. Perché, come si legge nell’appello lanciato dai promotori, Venezia sa bene che “instillando paure qualcuno guadagna spettatori. Sfruttando paure qualcuno vince elezioni. Spostando paure qualcuno ignora la salute pubblica e la tutela dell'ambiente. Assediati dalle paure, perdiamo ogni giorno gocce di libertà.

La civiltà della paura non va da nessuna parte, non prende decisioni, assiste e borbotta. Le disparità diventano più forti, i problemi da risolvere più gravi. Ma anche vicino a te, vincendo paure, qualcuno getta le basi di un mondo migliore”. Il riferimento, neppure tanto velato, è alla lega nord. Quella lega che, domenica 12 settembre, per il tredicesimo anno consecutivo, ha invaso la città lagunare, per la sua festa di partito. Avvenimento che tra i veneziani viene efficacemente indicato come il giorno della “calata dei barbari”. Val solo la pena di ricordare che lo scorso anno un gruppo di militanti leghisti ha mandato in ospedale due camerieri di colore con la motivazione che “non gli avevano mostrato il permesso di soggiorno”.

“Mettiamo subito in chiaro che la festa non è contro la lega ma contro l’ideologia della paura - ha spiegato Giancarlo Ghigi, uno dei portavoce dell’iniziativa partita dal gruppo Facebook Venezia città aperta -. Oramai si fa politica solo facendo leva sulle paure spesso ingiustificate della gente. Ma è solo un sistema per evitare di affrontare i problemi reali come, tanto per fare un esempio, quelli ambientali o quelli legati all’immigrazione. La lega non è l’unica formazione politica a creare ad arte paure per poi cavalcarle elettoralmente, purtroppo. E’ una tentazione presente tra i politici di pressoché tutti i partiti. Gli sceriffi si trovano a destra ma anche a sinistra. Questa festa che abbiamo chiamato Venezia non ha paura, l’abbiamo pensata proprio per ribadire attraverso il contatto e la discussione con la gente che non vogliamo una politica da spettacolo televisivo, che non possiamo arrenderci a questa imperante sub cultura del terrore diffuso. Per sentirci vivi, noi non abbiamo bisogno di aver paura”.
Venezia città aperta, il gruppo facebook che ha firmato la manifestazione, è il prodotto di un’orto. Al pari di zucchine e pomodori. L’Orto di Ca’ Tron: lo splendido palazzo sul canal Grande sede dell’università veneziana. Per protestare contra la sua ventilata vendita ad una grande catena alberghiera, un gruppo di studenti, un paio di anni, fa aveva dato vita ad una autogestione che presto si è trasferita in quella che un tempo era la casa del custode del palazzo. Attorno alla casupola, diventata nel frattempo uno dei luoghi alternativi di ritrovo della vita culturale e giovanile di Venezia, c’era un orto abbandonato che gli studenti hanno seminato. Ne sono cresciute delle ottime cose: zucchine, pomodori e... un folto gruppo di cittadini che non ha paura di dire che non ha paura.

Viaggio nella valle dei Mòcheni

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Ci sono valli dimenticate dagli uomini. Ci sono genti dimenticate dalla storia. E non è necessario viaggiare all’altro capo del mondo. Basta salire a Pergine, nel basso Trentino, pochi chilometri a monte dell’azzurro lago di Caldonazzo che segna il confine meridionale della Valsugana sorvegliato dall’imponente castello che sin dal medioevo ha difeso i territori dei Principi Vescovi di Trento dalle mire espansionistiche della Serenissima. Ma invece di salire a nord, percorrendo i morbidi rilievi della Valsugana, dirigiamoci a est, dove la montagna è più aspra e gli spazi vallivi più stretti richiamano i prossimi paesaggi dolomitici. Qui si trova la valle dei Mòcheni.


E non preoccupatevi se non ne avete mai sentito parlare prima. Sono pochi anche in Trentino a sapere che oltre ai più famosi popoli ladino e cimbro, esiste un’altra minoranza etnica e linguistica, ufficialmente riconosciuta dallo Stato italiano sin dal dopoguerra ed espressamente citata nell’accordo De Gasperi - Gruber, sottoscritto il 5 settembre ’46, per il riconoscimento e la tutela delle minoranze di lingua tedesca in Trentino e in Alto Adige. Stiamo parlando delle genti mòchene che scesero dall’alta Boemia per stabilirsi in questa stretta e scoscesa valle attorno al 1200, chiamati dai signori di Caldonazzo col compito di dissodare e di coltivare a cereali queste ripide pendici montuose che i locali usavano solo come pascolo o bosco. Erano un popolo di “roncadori”, di contadini, che non si tiravano indietro davanti al lavoro duro e che, quando gli veniva affidato un compito, rispondevano “mache ich”, "faccio io", così che ben presto, i valligiani cominciarono a chiamarli i “mòchen”. Gente dura, che non aveva paura di rimanere isolata per il lungo letargo invernale, quando la neve bloccava quell’unico passo che scendeva a valle. Così che, sino alla costruzione della prima chiesa e del relativo cimitero, nel 1522, le famiglie conservavano i cadaveri dei defunti al freddo, nelle soffitte, attendendo la primavera e lo scioglimento della neve per poter dar loro cristiana sepoltura a valle, in terra consacrata.
In questo periodo, la valle, che nel frattempo era caduta sotto la dominazione del Capitolo vescovile di Trento, conobbe una seconda ondata migratoria. La provenienza era principalmente sempre la stessa: l’alta Boemia cui va aggiunta, secondo alcuni storici, anche la Baviera. Ma i migranti, questa volta, non erano più contadini ma minatori. Nella valle infatti erano stati scoperti ricchi giacimenti di rame, ferro, stagno, argento e altri minerali preziosi. I migranti si integrarono perfettamente con la popolazione locale, con la quale d’altra parte, condividevano lingua e cultura, e cominciarono a cavare i preziosi tesori nascosti nelle viscere dei monti, scavando miniere profonde centinaia di metri che ancor oggi sono visitabili. Erano operai, diremmo oggi, specializzati e, per i criteri dell’epoca, ben pagati. Eppure il loro lavoro era durissimo e raramente la vita media sforava i trent’anni. L’estrazione dei minerali impegnava tutta la famiglia; gli uomini scavavano e portavano all’aria aperta il materiale che le donne separavano, pulivano e portavano a valle. Anche i bambini avevano il loro compito. Dovevano entrare nelle viscere della montagna, infilarsi nelle gallerie più strette ed esplorare i cunicoli più profondi in cerca della vena da sfruttare. Vestivano abito dai coloro sgargianti, rossi in particolare, per essere più visibili al buio e più facilmente recuperati in caso di frana. In testa portavano un cappuccio a punta, riempito di paglia, che aveva lo scopo di segnalare come un’antenna gli abbassamenti della volta e attutire eventuali zuccate contro la roccia. L’immagine vi ricorda qualcosa? Proprio così. I nani e gli gnomi delle leggende che tutti i popoli delle montagne si sono creati nascono proprio da queste miniere. La stessa fiaba di Biancaneve e dei suoi amici nani, che la Disney ha ridotto a sette ma che in origine erano una intera tribù, è stata rielaborata dai fratelli Grimm sulla base di una leggenda mòchena. Il che autorizza le guide turistiche che accompagnano gli escursionisti a visitare le spettacolari miniere della valle a raccontare che quella che andiamo a vedere è proprio la “miniera dei sette nani”. Una favola che a guardarci dentro nasconde la tragica storia di tanti bambini che hanno trascorso la loro infanzia a lavorare nel buio di una miniera. E di favole e di leggende, la valle dei Mòcheni, ne racconta tante. Storie di draghi fiammeggianti che escono dalle viscere della terra per arrostire gli impavidi cavalieri, così come i gas naturali infiammati bruciavano gli sfortunati minatori. Oppure la vicenda dell’orribile “donnona” che si aggira nelle notti mòchene per rubare le noci agli agricoltori e i bambini alle loro mamme. Le noci infatti servivano a fare l’olio delle lampade con le quali i piccoli minatori scendevano nel ventre della montagna. Oggi, le lampade ad olio di noce non si usano più. E i bambini, grazie a dio, si vestono da gnomi per carnevale e non più per fare i minatori. La storia è sbiadita nel mito ma la paura si è trasformata in leggenda ed rimasta a colorare d’incanto la bella valle dei mòcheni.

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Dalle miniere ai piccoli frutti
Le miniere che hanno scavato la storia della valle dei mòcheni oggi sono tutte chiuse. Gli escursionisti che non temono la claustrofobia le possono visitare accompagnati da guide esperte ma il volano economico che dà vita a questa valle ancora lontana dai circuiti del turismo di massa, ruota attorno ad una produzione tutta particolare: quella dei piccoli frutti. L’ultima miniera mòchena fu chiusa per esaurimento della vena negli anni in cui governava Maria Teresa d’Austria (1717 - 1780). La regina preoccupata per il futuro di quella gente che, pur vivendo in una vallata italiana, parlava una lingua simile alla sua concesse loro il permesso di commerciare nell’Impero austro germanico. I mòcheni allora divennero ambulanti, valicarono le alpi nel senso ripercorrendo in senso opposto i sentieri dei loro progenitori, e camminarono per tutte le strade della Boemia e della Baviera dove la gente rideva nel sentirli parlare con dei termini e una cadenza che usavano i loro trisnonni. Vendevano bottoni, cristalli e altri prodotti del loro artigianato.
Con la caduta dell’impero austriaco e l’arrivo del Tricolore, il commercio con l’Austria collassò e per i mòcheni divenne ancor più duro mantenere la loro lingua e le loro tradizioni. Il periodo fascista fu quello più duro: parlare mòcheno era punito col carcere e, in tempo di guerra, anche con la fucilazione. Con la Liberazione e con gi accordi De Gasperi – Gruber, i mòcheni divennero una delle tre minoranze linguistiche con i ladini e i cimbri, ufficialmente riconosciute in Trentino dallo Stato. La lingua mòchena è insegnata nelle scuole ed è usata nella cartellonistica stradale. Anche l’economia era profondamente mutata. La valle sopravviveva grazie all’allevamento di bovini e alla coltivazione delle mele. Ben presto, i fu evidente che i frutteti che crescevano negli impervi versanti della valle non potevano reggere il confronto con i prodotti coltivati in altre vallate trentine, come ad esempio la val di Non. L’ultima risorsa, l’allevamento, entrò in crisi negli anni settanta e per la valle venne il tempo dello spopolamento. A salvare le genti mòchene fu, come per altre realtà trentine, il modello cooperativo. Una dozzina di imprese agricole a conduzione familiare si riunirono nella cooperativa Sant’Orsola. C’era un tesoro nella loro valle. E non era un tesoro nascosto sotto terra come ai tempi delle miniere, ma un tesoro che cresceva alla luce del sole, nelle penombre di quel sottobosco che copre l’intera vallata. I piccoli frutti: mirtilli, fragoline, ciliegie, lamponi… Prodotti di altissima qualità che hanno conquistato prima i palati dei consumatori e poi i mercati. Oggi la cooperativa di agricoltura integrata Sant’Orsola conta oltre 1200 piccoli produttori anche al di fuori della vallata dei mòcheni, impegnati a rispettare i rigidissimi standard qualitativi imposti dal marchio. Una mezza dozzina di questi produttori, diciamocela, con la lingua mòchena hanno ben poco a che fare. Sono calabresi. Entrati nella grande famiglia mòchena grazie ai buoni uffici del vescovo antimafia monsignor Bagnasco, impegnato ad esportare il modello di cooperazione trentina nelle terre confiscate alle cosche.

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Bersntoler Museum, il museo della pietra viva
Il museo delle Pietra viva, o se parlate la lingua mòchena, “Bersntoler Museum”, si trova in un antico mulino in località Stefani di Sant’Orsola terme. Siamo nel cuore della valle dei Mòcheni. Lo curano due veri e propri cercatori di tesori: i gemelli Mario e Lino Pallaoro, di cui probabilmente ricorderete qualche apparizione nella trasmissione televisiva “Geo&Geo”. Due autentici personaggi cui va l’innegabile compito di aver saputo dare vita alle pietre. L’esposizione pare fatta apposta per far cambiare idea a quanti ritengono che i sassi non sono altro che sassi. Il museo infatti, racconta attraverso i minerali la storia della valle, dalla sua particolare formazione geologica, passando per la storia antica, quando i romani scavavano la montagna alla ricerca di quel cristallo che ritenevano fosse “ghiaccio fossile” e al quale attribuivano magiche proprietà. da qui la leggenda della magica sfera di cristallo dentro la quale la fattucchiera legge il presente, il passato e il futuro. Ed in effetti, il passato, presente e futuro della storia del mondo sono davvero scritti nella pietra. Basta solo saperli leggere. E non serve neppure l’immaginazione di una fattucchiera.

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S kloà bersntoler beirterpuach
Ovverossia: piccolo vocabolario della lingua mòchena. E’ uscito in questi giorni, pubblicato dall’istituto di Cultura Mòcheno, il primo vocabolario mòcheno – italiano – tedesco. Un’opera che non esitiamo a definire indispensabile per tutti coloro che vogliono cimentarsi a parlare il mòcheno. Più seriamente, il libro è un interessante studio sulle particolarità di una parlata che trae origine dal tedesco in voga nell’alta Boemia del 1500 ed è rimasta pressoché uguale nei secoli, importando di tanto in tanto, termini trentini e italiani. Un classico esempio è quello della parola “patata”. Il tubero è stato introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America. I mòcheni, che all’epoca vivevano separati dalla madre patria germanica, non potevano conoscere il termine “kartoffel”. Cosa han fatto quindi? Hanno usato la parola italiana declinandola ala tedesca. E così oggi nei piatti della valle si mangiano le “pataten”.

Allarme trivelle a Monselice

I rappresentanti dell’AleAnna Resources Llc, società con sede legale a Houston (Texas) e ufficio operativo per l’Italia a Ferrara, l’hanno definita “una grande opportunità economica”. I comitati per la difesa del territorio, al contrario, hanno già subodorato il grave rischio per la salute e per l’ambiente che si nasconde dietro questa ennesima “grande opportunità”. Parliamo dei due progetti di ricerca d’idrocarburi presentati in regione Veneto col nome «Tre Ponti» e «Le Saline» che riguardano 23 Comuni del padovano.
Progetti che sono solo la proverbiale punta dell’iceberg, considerato che questa multinazionale attiva nei campi d’esplorazione e produzione di petrolio e gas che fa parte del Gruppo Assomineraria, in cui siedono anche Eni, Shell, e Bp, punta ad estendere in futuro la ricerca anche nel rodigino e poi ancora più a sud, sino a Ferrara. Una ricerca nel più puro stile “oro nero”: quel che conta è quello che c’è sotto, quel che c’è sopra non è affar nostro. Non è un segreto che le trivellazioni esplorative - se il progetto verrà approvato - saranno compiute non solo in in aree agricole ma anche in zone protette. La stessa AleAnna Resources ha pubblicamente dichiarato che “l’intervento ricade all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394: SIC IT3270017 “Delta del Po: tratto terminale e delta veneto” (Regione Veneto); la ZPS IT3270023 “Delta del Po” (Regione Veneto); la ZPS IT3250045 “Palude le Marice - Cavarzere” (Regione Veneto) e la SIC-ZPS IT4060016 “Fiume Po da Stellata a Mesola e Cavo Napoleonico” (Regione Emilia Romagna)”.
“Con la legislazione vigente - ha dichiarato Francesco Miazzi, consigliere comunale ambientalista a Monselice e portavoce del comitato Lasciateci repirare- per queste società petrolifere, l’Italia è divenuta una specie di El Dorado, in quanto le royalties, i diritti d’estrazione incamerati dallo Stato, sono tra le più basse del mondo visto che sono tra il 4 e il 7% per il gas, mentre in media negli altri Paesi si oscilla tra il 30 e il 70%. Praticamente regaliamo il territorio a che lo devasta per depredarne le ricchezze lasciandoci in cambio solo povertà e malattie”.
Come era prevedibile, i progetti d’indagine geofisica presentati dalla società AleAnna Resources, hanno già attirato l’attenzione dei comitati che si battono per la salvaguardia della salute e dell’ambiente, e che non hanno nessuna voglia di lasciare trivellare la loro terra sino a 3000 o 3500 metri di profondità. Senza contare poi quel che succederebbe nel malaugurato caso si scoprissero giacimenti di idrocarburi. “Quelli che credono che le perforazioni siamo una grande opportunità economica - conclude Miazzi - farebbero bene ad andare a vedere gli effetti prodotti ad esempio in Val D'Agri, in Basilicata, dove proprio l’AleAnna Resources ha in corso attività d’estrazione di idrocarburi: tante patologie sono aumentate in percentuale e si registrano continui casi d’emissioni nocive nell'ambiente da parte degli impianti di prelevamento e lavorazione. Nel nostro Veneto inoltre, i prelievi di gas-metano dal sottosuolo hanno già prodotto rilevanti fenomeni di subsidenza le cui conseguenze nel futuro sono ancora incalcolabili”. Con la legge 99 del 2009, il cosiddetto “decreto energia”, varata dal Governo, le comunità locali hanno ben poco peso nelle decisioni che pure si prendono sulla loro pelle e sul loro territorio. La decisione finale in materia di estrazioni petrolifere spetta al Ministero per lo sviluppo economico, mentre alla Regione resta il parere vincolante legato alla Valutazione d’Impatto Ambientale. I Comuni e le Provincie, con i loro pareri possono comunque giocare un ruolo politico molto importante. “I termini per le osservazioni scadono tra pochi giorni - conclude Miazzi-. Dati i tempi strettissi, sarebbe opportuno che la Province interessate, mettessero a disposizione le loro capacità tecniche per aiutare i Comuni a stendere le osservazioni al progetto. Sarebbe inoltre fondamentale che tutti i consigli Comunali, provinciali e regionali, esprimessero la propria contrarietà con apposite delibere. La bassa padovana ha già dato in termini di salute e ambiente, e ha già troppe attività inquinanti e nocive. Non sentiamo certo bisogno anche di queste trivellazioni”.

Antinucleari in Mostra

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Quello sul nucleare è un film che non vogliamo più rivedere. Lo ha ribadito il migliaio di persone che sabato 4 settembre ha accolto l’invito lanciato dalla rete veneta contro il nucleare e ha pacificamente sfilato nel pomeriggio lungo il gran Viale del Lido di Venezia; il “salotto buono” della 67esima mostra del cinema internazionale che si sta svolgendo in questi giorni nell’isola della città lagunare. La manifestazione è stata prima di tutto una risposta a quanti, come ha recentemente affermato anche il delegato dell’Enel Fulvio Conti, hanno dichiarato che gli italiani sono in gran parte favorevoli al nucleare e che l’opposizione a questa cosiddetta “energia del futuro” è appannaggio di poche ed isolate frange di violenti.


“Questa manifestazione ha dimostrato che è tutto il contrario - ha dichiarato Roberto Rossi, uno dei portavoce della rete anti nucleare -. La grande partecipazione alla nostra iniziativa di associazioni, movimenti, semplici cittadini ha ribadito che l’Italia non vuole tornare indietro di vent’anni. Gli applausi che hanno accompagnato il corteo provenivano tanto dai turisti quanto da residenti e commercianti. Persone che magari hanno votato questo governo o che non sfilano nelle manifestazioni ma che sono giustamente preoccupati di quale sarebbe l’impatto sul turismo e sul commercio se nella laguna sorgesse una centrale nucleare. Alle accuse di essere una minoranza rispondiamo che la minoranza sono quelli che appoggiano il nucleare. E in quanto alla violenza, non è certo una nostra peculiarità. Casomai un esame di coscienza dovrebbero farselo coloro che impongono queste scelte dall’alto senza coinvolgere la popolazione locale. E’ questa la vera violenza e l’attentato alla democrazia”. Rossi si riferisce in particolare al governatore veneto Luca Zaia che da ministro ha votato una legge che delega al governo centrale la scelta sulle politiche energentiche nucleari e sulla scelta dei siti, mentre da presidente della giunta regionale si schiera contro la centrale nel suo territorio. “Un bell’esempio di coerenza e di federalismo” ironizza Rossi.
La scelta della vetrina della mostra del cinema, se da un lato ha efficacemente servito da megafono internazionale alle denuncie dela rete, dall’altro ha presentato notevoli difficoltà organizzative. Per portare gli attivisti nell’isola, la erta ha organizzato una piccola flottiglia di motonavi che ha fatto da spola tra la terraferma - con base a Chioggia e al Tronchetto - e il Lido. Il servizio ha permesso ai tanti comitati regionali di portare i propri striscioni alla manifestazione. Tra i partecipanti più numerosi ricordiamo la rete nunuke di Chioggia e il Chioggialab, il comitati provenienti dalla bassa padovana come “lasciateci respirare” e “salute e ambiente”, l’assemblea permanente contro il rischio chimico di Marghera, centri sociali come il Pedro, il Rivolta e il Morion, e i movimenti del Polesine, una delle aree papabili per la realizzazione di una centrale nucleare. Presenti anche gli attivisti di formazioni sindacali o politiche come verdi, federazione della sinistra, grillini che hanno comunque lasciato a casa le bandiere del partito per sventolare quella contro il nucleare. Alla fine del corteo, proprio davanti al palazzo del cinema, una applaudita delegazione dei manifestanti è salita sulla passerella delle star per spiegare a giornalisti, attori, registi e spettatori, le motivazioni della manifestazione. Da sottolineare la presenza di una delegazione di biondi turisti austriaci e tedeschi, coordinata da Greenpeace, che hanno distribuito volantini “Für ein atomkraft-frese italien” (per una Italia libera dal nucleare) invitando gli altri turisti - che in estate e con la mostra del cinema al Lido sono davero tanti! - a chiedere al proprio albergatore e alla propria agenzia turistica di mobilitarsi col governo perché il Belpaese scelga la strada delle energie pulite e rinnovabili. Davvero, chiedevano, gli italiani vogliono inserire nel paesaggio lagunare di piazza San Marco, della Giudecca e dell’isola di San Giorgio, anche il minaccioso profilo di un reattore nucleare?

Venezia e i tagli alla cultura

Taglio sì, tagli no, tagli forse. Del doman non v’è certezza, scriveva tempo fa un certo Lorenzo. Un vero mecenate, lui, che quando amministrava Firenze non si sarebbe mai sognato di penalizzare la cultura. Ma oggi che al Governo non c’è nessun Magnifico, l’unica certezza è che il settore delle arti si sente come il condannato con la testa sul ceppo. Aspetta solo di vedere come e quando calerà la mannaia.
“Vediamo come andrà a finire – commenta laconico Marino Cortese, presidente della Querini Stampalia, la fondazione che gestisce una delle più frequentate biblioteche di Venezia – ma certo non ci attendiamo nulla di buono”. Più duro il commento di Gian Antonio Danieli, presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti che, se sopravviverà, a dicembre festeggerà i duecento anni dalla fondazione: “Stiamo a vedere cosa succederà ma di sicuro non nutriamo nessuna illusione. In Italia, oltre ai tre poteri costituzionali, ce n’è un quarto, che non è la stampa, ma l’ignoranza. Un potere trasversale e pervasivo, ulteriormente potenziato dalla sua ostentata esibizione mediatica". Questi due istituti, assieme all’Ateneo Veneto, alla Fondazione Levi e alla Cini – per restare in ambito lagunare – figuravano nella famosa lista di 232 associazioni culturali che il ministro Giulio Tremonti si arrogava il diritto di potare come rami secchi. Tremonti ministro delle finanze e non della cultura. “E’ sorprendente, oltre che grave, che il ministro della cultura che è Sandro Bondi, uno che peraltro ha il suo peso all’interno del Pdl, sia stato completamente esautorato da una scelta che spettava solo a lui, come il ridimensionamento finanziario di associazioni che fanno riferimento alla sua delega – ha commentato Gianfranco Cerasoli, segretario Uil Beni e attività culturali -. E oltretutto hanno cercato di far passare la manovra come una vittoria del Governo contro enti parassiti”. La successiva sfuriata di Bondi, che era quella di uno cui han pestato i calli dei piedi, ha avuto se non altro il merito di congelare questi tagli. Ma certo, come abbiamo visto in apertura, la sospensoria non ha tranquillizzato nessuno. Anche perché, nel caso i paventati tagli non arrivassero dal Governo, di sicuro arriveranno dalla Regione Veneto che già in tante occasioni si è sempre dimostrata sorda alla voce di una cultura che non sia quella legata a supposte sagre di identità veneta, parate di miss padane o esposizioni di trofei venatori. Un incubo questo, ancora peggiore perché i contributi regionali al settore sono maggiori di quelli che provengono – o provenivano – dallo Stato. Da Palazzo Balbi, sede del Governo regionale, ancora non arrivano notizie sicure se non quella che i tagli ci saranno e sono indispensabili proprio in virtù della manovra Tremonti che, se da un lato ha deviato la scure dalle fondazioni, dall’altro ha troncato di netto i finanziamenti alle Regioni. Il Veneto, ad esempio, riceverà nei prossimi due anni, un miliardo e 600 milioni di euro in meno rispetto al biennio scorso. Inevitabile che a farne le spese saranno ancora una volta i settori considerati dall’amministrazione regionale, deboli se non addirittura parassitari. A torto, ci assicura Pierluigi Sacco pro rettore allo Iuav di Venezia e docente di economia della cultura: “L'azienda Veneto non ritiene la cultura un ramo strategico e di conseguenza lo taglia. Ma è un errore grossolano e gravissimo. La cultura non è solo divertimento elitario, per fortuna. Ma un elemento essenziale di economia della società della conoscenza che è il modello di crescita per tutto l'Occidente. Il concetto di cultura non si ferma al concerto o al film ma sveglia le menti libere e ricettive. Produce nuove idee. L'intreccio tra economia e cultura è più stretto di quanto non appaia. Noi economisti lo sappiamo bene e lo sa bene Joseph Nye, ascoltato consigliere di Obama e teorico del soft power, che ha posto al presidente americano questa domanda: secondo lei è più importante avere una forte identità culturale o un forte esercito?" Non sappiamo cosa abbia risposto Obama, ma sappiamo bene cosa risponderebbe il nostro governo.

Politica e sapere. Intervista con Camilla Seibezzi

Se le chiedi che mestiere fa per vivere, si guarda attorno e poi ti sussurra “cultural manager” con lo stesso tono in cui un altro direbbe “suono il piano in un bordello”. E subito precisa: “Sì, lo so. Non piace neppure a me far sfoggio di anglicismi, ma il nome esatto è questo. Non c’è un equivalente italiano per descrivere quello che faccio. Il termine ‘promotrice culturale’, che qualche volta si adopera, è quantomeno riduttivo. Un altro distintivo esempio dell’arretratezza che pesa sulla cultura italiana rispetto agli altri Paesi europei”. Camilla Seibezzi è uno dei volti nuovi della politica veneziana.
“Nuova nel senso che è la prima volta che mi sono messa in lista. Perché la politica, io l’ho sempre fatta – puntualizza –. Fare cultura è anche fare politica, giusto?” Candidatasi nella lista “In Comune con Bettin” nelle ultimi amministrative, Camilla ha portato in dote una valanga di preferenza che, non senza qualche sorpresa, le hanno spalancato le porte del consiglio comunale, dietro ai soli Gianfranco Bettin e Beppe Caccia. La sua innegabile esperienza nel campo delle arti visive contemporanee le hanno fatto ottenere la nomina di presidente della sesta commissione consiliare, quella della cultura. La incontriamo tra calli e campielli, che porta, o meglio, si fa portare a spasso da un cagnone nero di pura razza bastarda, reduce da una estenuante seduta di commissione. Camilla, non ti sarai già pentita di esserti candidata? Ride. E quando Camilla ride, si gira tutta la calle. “Dai, concedimi ancora un paio di mesi prima di farmi questa domanda. Certo che non mi aspettavo la delirante faziosità di tante discussioni. Io sono abituata a discutere con le argomentazioni, ma in consiglio c’è gente che parla solo per ricavarne due righe sui quotidiani locali. Ogni tanto mi fermo e mi domando: ma di cosa stanno parlando questi qui?” Con le argomentazioni, in politica, non si convince mai nessuno. Tu ti sei sempre occupata di cultura affrontando l’argomento dal punto di vista dell’artista o della promotrice… scusa, della cultural manager. Come vivi l’esperienza sul fronte amministrativo? “Io son sempre la stessa, così come le difficoltà che mi si parano davanti. C’è una enorme arretratezza della classe politica sul tema della cultura. Sono pochi coloro che si sono posti domande su cosa sia la cultura, cosa serva, quali meccanismi la attivino e cosa se ne possa ricavare… non è un caso che, se si parla di tagli, il primo settore ad essere colpito è questo che considerano, al massimo, un divertimento per pochi. Eppure c’è una serie infinita di studi, anche italiani, che svelano quanto la cultura possa essere una leva economica capace di raggiungere fatturati superiori all’industria automobilistica”. Le statistiche che in questi giorni si rincorrono sui giornali, confermano che l’Italia investe nel settore perlomeno sette volte di meno rispetto ad altri Paesi europei come, ad esempio la Francia. “Non solo. La ricchezza del patrimonio artistico che abbiamo è sconfinata. Questa è un’arma a doppio taglio, perché comporta che la maggior parte dei fondi siano destinati al restauro e alla conservazione. Alla contemporaneità restano appena le briciole. Ma ciò che pesa di più, e di cui i tagli sono solo una naturale conseguenza, sono le deficienze culturali e politiche in materia. Come si misura, ad esempio, il successo di una esposizioni in Italia? Dal numero di visitatori oppure dall’indotto in settori come l’alberghiero o, più in generale, quello turistico. Ma non è questo il solo effetto che deve produrre un evento culturale! Deve anche creare fermento, produrre idee, dare linfa alla comunità artistica e produrre nuove opere. Altrimenti ci si limita, quando va bene, a creare il contenitore e non il contenuto. In Europa ci sono esempi di comunità artistiche che si auto sostengono. Certo, è un settore che non deve necessariamente produrre fatturato e che non lo puoi abbandonare al libero mercato”. Un bene comune come l’acqua? “Certamente. Prendiamo Venezia, ad esempio. La Biennale ha una enorme ricaduta economica sul privato, su chi affitta i palazzi e sugli alberghi, ma la produzione culturale veneziana o italiana ne viene appena intaccata. Bisognerebbe invece creare una politica di accoglienza per gli investitori e per gli stessi artisti. Soprattutto in questa città dove il mercato, come quello degli affitti o degli spazi per le esposizioni ad esempio, è drogato. In questo modo rimarrebbe qualcosa di duraturo e di valido anche al di fuori dei giorni di apertura dei padiglioni”. Invece, si preferisce applicare il ragionamento che sta alla base della “grandi opere” anche sulle “grandi mostre”. Magari non faranno i danni che gli ecomostri causano all’ambiente… “ma la produzione culturale in sé, non ne trae beneficio. Insomma, abbiamo di fronte a noi una enorme carenza di informazione e di riflessione sul tema della cultura. Parlo di tutti i livelli: dai politici agli imprenditori, senza risparmiare i mass media. Questo è anche il motivo per cui in Italia non è mai stata avviata una politica di defiscalizzazione per gli investimenti culturali come, ad esempio, negli Stati Uniti. Al massimo, da noi ci si auto defiscalizza evadendo le tasse; non certo a favore della cultura ma tutto a vantaggio dell’ignoranza”.

L'acqua supera il primo scoglio

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Lo scoglio delle 500 mila firme necessarie per presentare il referendum è stato superato. Adesso bisogna informare la gente su quali sono gli effetti della privatizzazione dell’acqua. E dovremo fare noi questo lavoro, perché dalle televisioni e dai grandi media che vivono anche grazie alle sponsorizzazioni delle acque minerali non avremo nessun aiuto”. Lo ha dichiarato il giurista Ugo Mattei, uno dei principali estensori dei tre quesiti referendari, in un incontro promosso dal comitato cittadino "Venezia per l'acqua pubblica" svoltosi lo scorso giovedì al centro culturale Candiani di Mestre. Tra i relatori, Valter Bonan, responsabile regionale del "Forum dei movimenti per la pubblicizzazione dell'acqua", e Paolo Cacciari, della rete dei comitati e delle associazioni per un Altro Veneto.


A far gli onori di casa, il verde Gianfranco Bettin, non a caso, assessore con delega oltre che all’Ambiente anche ai Beni Comuni di Venezia. Città questa, che con la sua Provincia ha dato un notevole contributo alla raccolta delle firme, sfiorando il tetto delle 10 mila adesioni. Un risultato più che soddisfacente che va rapportato anche alla buona risposta regionale: 46 mila firme già raccolte. Il raggiungimento dell’obbiettivo delle 500 mila firme non deve comunque farci illudere che la battaglia sia già vinta, ha spiegato Valter Bonan. Ci attende un cammino tutto in salita. Un cammino che val comunque la pena di percorrere sino in fondo. “Il tema dell’acqua – ha spiegato Bettin –è uno dei pochi su cui oggi è possibile costruire un percorso di alternativa, rovesciare la prospettiva anche e soprattutto sul piano culturale e aprire nuovi scenari sulla gestione partecipata di tutti i beni comuni”. Il giurista Ugo Mattei ha chiuso la serata ripercorrendo le vicende che hanno spinto il comitato referendario a proporre i tre quesiti per la ri pubblicizzazione dell’acqua - dalla legge Galli al recente decreto che privatizza la gestione dell’acqua - raccontando come il modello della “società per azioni” sembrava, sul finire dello scorso secolo, un modello vincente anche per il pubblico. Ma oggi, che siamo di fronte alla crisi di un sistema economico basato sul libero mercato, gli effetti della privatizzazione sono davanti agli occhi di tutti. Ad Atlanta, negli Usa, tanto per fare un esempio con un paese a capitalismo avanzato, la svendita degli acquedotti alla multinazionale della Coca Cola ha progressivamente deteriorato il sistema idrico col risultato che l’acqua del rubinetto oggi è imbevibile e i consumatori sono costretti ad acquistare le bottiglie messe in commercio dalla stessa multinazionale che gestisce la risorsa idrica. Ma per trovare storie simili non serve volare oltre l’oceano. “In Sicilia gli stessi concessionari dell’acqua minerale, che per la maggior parte appartengono ai gruppi Catalgirone, sono anche gestori dell’acqua pubblica. Un conflitto d’interessi evidente – ha commentato Mattei – perché il loro interesse sta tutto nel mettere in circolo nell’acquedotto un’acqua più schifosa e singhiozzo possibile”. Il referendum, hanno sottolineato tutti i relatori, sarà una occasione per ripensare alla gestione dei beni comuni. “Con i nostri tre quesiti, prestate attenzione, non chiediamo che sia lo Stato a gestire l’acqua – ha concluso Mattei -. Sia lo Stato che le Corporation sono strutture con un livello di potere concentrato. Noi non vogliamo che si torni indietro. E’ questa la differenza principale tra i nostri tre quesiti e quello di Di Pietro. Noi chiediamo che l’acqua, in quanto bene comune, sia gestito dalla comunità tramite un processo di diffusione del potere al di là di ogni valore di mercato, con il solo scopo di mantenere nei nostri acquedotti un’acqua di qualità buona per tutti”. Un referendum quindi, che non decide solo sulla proprietà dell’acqua ma che potrebbe diventare il punto di leva per una inversione di rotta su temi come la democrazia di base e la gestione partecipata di tutti i beni comuni.
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