In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Viaggio nella valle dei Mòcheni

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Ci sono valli dimenticate dagli uomini. Ci sono genti dimenticate dalla storia. E non è necessario viaggiare all’altro capo del mondo. Basta salire a Pergine, nel basso Trentino, pochi chilometri a monte dell’azzurro lago di Caldonazzo che segna il confine meridionale della Valsugana sorvegliato dall’imponente castello che sin dal medioevo ha difeso i territori dei Principi Vescovi di Trento dalle mire espansionistiche della Serenissima. Ma invece di salire a nord, percorrendo i morbidi rilievi della Valsugana, dirigiamoci a est, dove la montagna è più aspra e gli spazi vallivi più stretti richiamano i prossimi paesaggi dolomitici. Qui si trova la valle dei Mòcheni.


E non preoccupatevi se non ne avete mai sentito parlare prima. Sono pochi anche in Trentino a sapere che oltre ai più famosi popoli ladino e cimbro, esiste un’altra minoranza etnica e linguistica, ufficialmente riconosciuta dallo Stato italiano sin dal dopoguerra ed espressamente citata nell’accordo De Gasperi - Gruber, sottoscritto il 5 settembre ’46, per il riconoscimento e la tutela delle minoranze di lingua tedesca in Trentino e in Alto Adige. Stiamo parlando delle genti mòchene che scesero dall’alta Boemia per stabilirsi in questa stretta e scoscesa valle attorno al 1200, chiamati dai signori di Caldonazzo col compito di dissodare e di coltivare a cereali queste ripide pendici montuose che i locali usavano solo come pascolo o bosco. Erano un popolo di “roncadori”, di contadini, che non si tiravano indietro davanti al lavoro duro e che, quando gli veniva affidato un compito, rispondevano “mache ich”, "faccio io", così che ben presto, i valligiani cominciarono a chiamarli i “mòchen”. Gente dura, che non aveva paura di rimanere isolata per il lungo letargo invernale, quando la neve bloccava quell’unico passo che scendeva a valle. Così che, sino alla costruzione della prima chiesa e del relativo cimitero, nel 1522, le famiglie conservavano i cadaveri dei defunti al freddo, nelle soffitte, attendendo la primavera e lo scioglimento della neve per poter dar loro cristiana sepoltura a valle, in terra consacrata.
In questo periodo, la valle, che nel frattempo era caduta sotto la dominazione del Capitolo vescovile di Trento, conobbe una seconda ondata migratoria. La provenienza era principalmente sempre la stessa: l’alta Boemia cui va aggiunta, secondo alcuni storici, anche la Baviera. Ma i migranti, questa volta, non erano più contadini ma minatori. Nella valle infatti erano stati scoperti ricchi giacimenti di rame, ferro, stagno, argento e altri minerali preziosi. I migranti si integrarono perfettamente con la popolazione locale, con la quale d’altra parte, condividevano lingua e cultura, e cominciarono a cavare i preziosi tesori nascosti nelle viscere dei monti, scavando miniere profonde centinaia di metri che ancor oggi sono visitabili. Erano operai, diremmo oggi, specializzati e, per i criteri dell’epoca, ben pagati. Eppure il loro lavoro era durissimo e raramente la vita media sforava i trent’anni. L’estrazione dei minerali impegnava tutta la famiglia; gli uomini scavavano e portavano all’aria aperta il materiale che le donne separavano, pulivano e portavano a valle. Anche i bambini avevano il loro compito. Dovevano entrare nelle viscere della montagna, infilarsi nelle gallerie più strette ed esplorare i cunicoli più profondi in cerca della vena da sfruttare. Vestivano abito dai coloro sgargianti, rossi in particolare, per essere più visibili al buio e più facilmente recuperati in caso di frana. In testa portavano un cappuccio a punta, riempito di paglia, che aveva lo scopo di segnalare come un’antenna gli abbassamenti della volta e attutire eventuali zuccate contro la roccia. L’immagine vi ricorda qualcosa? Proprio così. I nani e gli gnomi delle leggende che tutti i popoli delle montagne si sono creati nascono proprio da queste miniere. La stessa fiaba di Biancaneve e dei suoi amici nani, che la Disney ha ridotto a sette ma che in origine erano una intera tribù, è stata rielaborata dai fratelli Grimm sulla base di una leggenda mòchena. Il che autorizza le guide turistiche che accompagnano gli escursionisti a visitare le spettacolari miniere della valle a raccontare che quella che andiamo a vedere è proprio la “miniera dei sette nani”. Una favola che a guardarci dentro nasconde la tragica storia di tanti bambini che hanno trascorso la loro infanzia a lavorare nel buio di una miniera. E di favole e di leggende, la valle dei Mòcheni, ne racconta tante. Storie di draghi fiammeggianti che escono dalle viscere della terra per arrostire gli impavidi cavalieri, così come i gas naturali infiammati bruciavano gli sfortunati minatori. Oppure la vicenda dell’orribile “donnona” che si aggira nelle notti mòchene per rubare le noci agli agricoltori e i bambini alle loro mamme. Le noci infatti servivano a fare l’olio delle lampade con le quali i piccoli minatori scendevano nel ventre della montagna. Oggi, le lampade ad olio di noce non si usano più. E i bambini, grazie a dio, si vestono da gnomi per carnevale e non più per fare i minatori. La storia è sbiadita nel mito ma la paura si è trasformata in leggenda ed rimasta a colorare d’incanto la bella valle dei mòcheni.

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Dalle miniere ai piccoli frutti
Le miniere che hanno scavato la storia della valle dei mòcheni oggi sono tutte chiuse. Gli escursionisti che non temono la claustrofobia le possono visitare accompagnati da guide esperte ma il volano economico che dà vita a questa valle ancora lontana dai circuiti del turismo di massa, ruota attorno ad una produzione tutta particolare: quella dei piccoli frutti. L’ultima miniera mòchena fu chiusa per esaurimento della vena negli anni in cui governava Maria Teresa d’Austria (1717 - 1780). La regina preoccupata per il futuro di quella gente che, pur vivendo in una vallata italiana, parlava una lingua simile alla sua concesse loro il permesso di commerciare nell’Impero austro germanico. I mòcheni allora divennero ambulanti, valicarono le alpi nel senso ripercorrendo in senso opposto i sentieri dei loro progenitori, e camminarono per tutte le strade della Boemia e della Baviera dove la gente rideva nel sentirli parlare con dei termini e una cadenza che usavano i loro trisnonni. Vendevano bottoni, cristalli e altri prodotti del loro artigianato.
Con la caduta dell’impero austriaco e l’arrivo del Tricolore, il commercio con l’Austria collassò e per i mòcheni divenne ancor più duro mantenere la loro lingua e le loro tradizioni. Il periodo fascista fu quello più duro: parlare mòcheno era punito col carcere e, in tempo di guerra, anche con la fucilazione. Con la Liberazione e con gi accordi De Gasperi – Gruber, i mòcheni divennero una delle tre minoranze linguistiche con i ladini e i cimbri, ufficialmente riconosciute in Trentino dallo Stato. La lingua mòchena è insegnata nelle scuole ed è usata nella cartellonistica stradale. Anche l’economia era profondamente mutata. La valle sopravviveva grazie all’allevamento di bovini e alla coltivazione delle mele. Ben presto, i fu evidente che i frutteti che crescevano negli impervi versanti della valle non potevano reggere il confronto con i prodotti coltivati in altre vallate trentine, come ad esempio la val di Non. L’ultima risorsa, l’allevamento, entrò in crisi negli anni settanta e per la valle venne il tempo dello spopolamento. A salvare le genti mòchene fu, come per altre realtà trentine, il modello cooperativo. Una dozzina di imprese agricole a conduzione familiare si riunirono nella cooperativa Sant’Orsola. C’era un tesoro nella loro valle. E non era un tesoro nascosto sotto terra come ai tempi delle miniere, ma un tesoro che cresceva alla luce del sole, nelle penombre di quel sottobosco che copre l’intera vallata. I piccoli frutti: mirtilli, fragoline, ciliegie, lamponi… Prodotti di altissima qualità che hanno conquistato prima i palati dei consumatori e poi i mercati. Oggi la cooperativa di agricoltura integrata Sant’Orsola conta oltre 1200 piccoli produttori anche al di fuori della vallata dei mòcheni, impegnati a rispettare i rigidissimi standard qualitativi imposti dal marchio. Una mezza dozzina di questi produttori, diciamocela, con la lingua mòchena hanno ben poco a che fare. Sono calabresi. Entrati nella grande famiglia mòchena grazie ai buoni uffici del vescovo antimafia monsignor Bagnasco, impegnato ad esportare il modello di cooperazione trentina nelle terre confiscate alle cosche.

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Bersntoler Museum, il museo della pietra viva
Il museo delle Pietra viva, o se parlate la lingua mòchena, “Bersntoler Museum”, si trova in un antico mulino in località Stefani di Sant’Orsola terme. Siamo nel cuore della valle dei Mòcheni. Lo curano due veri e propri cercatori di tesori: i gemelli Mario e Lino Pallaoro, di cui probabilmente ricorderete qualche apparizione nella trasmissione televisiva “Geo&Geo”. Due autentici personaggi cui va l’innegabile compito di aver saputo dare vita alle pietre. L’esposizione pare fatta apposta per far cambiare idea a quanti ritengono che i sassi non sono altro che sassi. Il museo infatti, racconta attraverso i minerali la storia della valle, dalla sua particolare formazione geologica, passando per la storia antica, quando i romani scavavano la montagna alla ricerca di quel cristallo che ritenevano fosse “ghiaccio fossile” e al quale attribuivano magiche proprietà. da qui la leggenda della magica sfera di cristallo dentro la quale la fattucchiera legge il presente, il passato e il futuro. Ed in effetti, il passato, presente e futuro della storia del mondo sono davvero scritti nella pietra. Basta solo saperli leggere. E non serve neppure l’immaginazione di una fattucchiera.

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S kloà bersntoler beirterpuach
Ovverossia: piccolo vocabolario della lingua mòchena. E’ uscito in questi giorni, pubblicato dall’istituto di Cultura Mòcheno, il primo vocabolario mòcheno – italiano – tedesco. Un’opera che non esitiamo a definire indispensabile per tutti coloro che vogliono cimentarsi a parlare il mòcheno. Più seriamente, il libro è un interessante studio sulle particolarità di una parlata che trae origine dal tedesco in voga nell’alta Boemia del 1500 ed è rimasta pressoché uguale nei secoli, importando di tanto in tanto, termini trentini e italiani. Un classico esempio è quello della parola “patata”. Il tubero è stato introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America. I mòcheni, che all’epoca vivevano separati dalla madre patria germanica, non potevano conoscere il termine “kartoffel”. Cosa han fatto quindi? Hanno usato la parola italiana declinandola ala tedesca. E così oggi nei piatti della valle si mangiano le “pataten”.

Allarme trivelle a Monselice

I rappresentanti dell’AleAnna Resources Llc, società con sede legale a Houston (Texas) e ufficio operativo per l’Italia a Ferrara, l’hanno definita “una grande opportunità economica”. I comitati per la difesa del territorio, al contrario, hanno già subodorato il grave rischio per la salute e per l’ambiente che si nasconde dietro questa ennesima “grande opportunità”. Parliamo dei due progetti di ricerca d’idrocarburi presentati in regione Veneto col nome «Tre Ponti» e «Le Saline» che riguardano 23 Comuni del padovano.
Progetti che sono solo la proverbiale punta dell’iceberg, considerato che questa multinazionale attiva nei campi d’esplorazione e produzione di petrolio e gas che fa parte del Gruppo Assomineraria, in cui siedono anche Eni, Shell, e Bp, punta ad estendere in futuro la ricerca anche nel rodigino e poi ancora più a sud, sino a Ferrara. Una ricerca nel più puro stile “oro nero”: quel che conta è quello che c’è sotto, quel che c’è sopra non è affar nostro. Non è un segreto che le trivellazioni esplorative - se il progetto verrà approvato - saranno compiute non solo in in aree agricole ma anche in zone protette. La stessa AleAnna Resources ha pubblicamente dichiarato che “l’intervento ricade all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394: SIC IT3270017 “Delta del Po: tratto terminale e delta veneto” (Regione Veneto); la ZPS IT3270023 “Delta del Po” (Regione Veneto); la ZPS IT3250045 “Palude le Marice - Cavarzere” (Regione Veneto) e la SIC-ZPS IT4060016 “Fiume Po da Stellata a Mesola e Cavo Napoleonico” (Regione Emilia Romagna)”.
“Con la legislazione vigente - ha dichiarato Francesco Miazzi, consigliere comunale ambientalista a Monselice e portavoce del comitato Lasciateci repirare- per queste società petrolifere, l’Italia è divenuta una specie di El Dorado, in quanto le royalties, i diritti d’estrazione incamerati dallo Stato, sono tra le più basse del mondo visto che sono tra il 4 e il 7% per il gas, mentre in media negli altri Paesi si oscilla tra il 30 e il 70%. Praticamente regaliamo il territorio a che lo devasta per depredarne le ricchezze lasciandoci in cambio solo povertà e malattie”.
Come era prevedibile, i progetti d’indagine geofisica presentati dalla società AleAnna Resources, hanno già attirato l’attenzione dei comitati che si battono per la salvaguardia della salute e dell’ambiente, e che non hanno nessuna voglia di lasciare trivellare la loro terra sino a 3000 o 3500 metri di profondità. Senza contare poi quel che succederebbe nel malaugurato caso si scoprissero giacimenti di idrocarburi. “Quelli che credono che le perforazioni siamo una grande opportunità economica - conclude Miazzi - farebbero bene ad andare a vedere gli effetti prodotti ad esempio in Val D'Agri, in Basilicata, dove proprio l’AleAnna Resources ha in corso attività d’estrazione di idrocarburi: tante patologie sono aumentate in percentuale e si registrano continui casi d’emissioni nocive nell'ambiente da parte degli impianti di prelevamento e lavorazione. Nel nostro Veneto inoltre, i prelievi di gas-metano dal sottosuolo hanno già prodotto rilevanti fenomeni di subsidenza le cui conseguenze nel futuro sono ancora incalcolabili”. Con la legge 99 del 2009, il cosiddetto “decreto energia”, varata dal Governo, le comunità locali hanno ben poco peso nelle decisioni che pure si prendono sulla loro pelle e sul loro territorio. La decisione finale in materia di estrazioni petrolifere spetta al Ministero per lo sviluppo economico, mentre alla Regione resta il parere vincolante legato alla Valutazione d’Impatto Ambientale. I Comuni e le Provincie, con i loro pareri possono comunque giocare un ruolo politico molto importante. “I termini per le osservazioni scadono tra pochi giorni - conclude Miazzi-. Dati i tempi strettissi, sarebbe opportuno che la Province interessate, mettessero a disposizione le loro capacità tecniche per aiutare i Comuni a stendere le osservazioni al progetto. Sarebbe inoltre fondamentale che tutti i consigli Comunali, provinciali e regionali, esprimessero la propria contrarietà con apposite delibere. La bassa padovana ha già dato in termini di salute e ambiente, e ha già troppe attività inquinanti e nocive. Non sentiamo certo bisogno anche di queste trivellazioni”.

Antinucleari in Mostra

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Quello sul nucleare è un film che non vogliamo più rivedere. Lo ha ribadito il migliaio di persone che sabato 4 settembre ha accolto l’invito lanciato dalla rete veneta contro il nucleare e ha pacificamente sfilato nel pomeriggio lungo il gran Viale del Lido di Venezia; il “salotto buono” della 67esima mostra del cinema internazionale che si sta svolgendo in questi giorni nell’isola della città lagunare. La manifestazione è stata prima di tutto una risposta a quanti, come ha recentemente affermato anche il delegato dell’Enel Fulvio Conti, hanno dichiarato che gli italiani sono in gran parte favorevoli al nucleare e che l’opposizione a questa cosiddetta “energia del futuro” è appannaggio di poche ed isolate frange di violenti.


“Questa manifestazione ha dimostrato che è tutto il contrario - ha dichiarato Roberto Rossi, uno dei portavoce della rete anti nucleare -. La grande partecipazione alla nostra iniziativa di associazioni, movimenti, semplici cittadini ha ribadito che l’Italia non vuole tornare indietro di vent’anni. Gli applausi che hanno accompagnato il corteo provenivano tanto dai turisti quanto da residenti e commercianti. Persone che magari hanno votato questo governo o che non sfilano nelle manifestazioni ma che sono giustamente preoccupati di quale sarebbe l’impatto sul turismo e sul commercio se nella laguna sorgesse una centrale nucleare. Alle accuse di essere una minoranza rispondiamo che la minoranza sono quelli che appoggiano il nucleare. E in quanto alla violenza, non è certo una nostra peculiarità. Casomai un esame di coscienza dovrebbero farselo coloro che impongono queste scelte dall’alto senza coinvolgere la popolazione locale. E’ questa la vera violenza e l’attentato alla democrazia”. Rossi si riferisce in particolare al governatore veneto Luca Zaia che da ministro ha votato una legge che delega al governo centrale la scelta sulle politiche energentiche nucleari e sulla scelta dei siti, mentre da presidente della giunta regionale si schiera contro la centrale nel suo territorio. “Un bell’esempio di coerenza e di federalismo” ironizza Rossi.
La scelta della vetrina della mostra del cinema, se da un lato ha efficacemente servito da megafono internazionale alle denuncie dela rete, dall’altro ha presentato notevoli difficoltà organizzative. Per portare gli attivisti nell’isola, la erta ha organizzato una piccola flottiglia di motonavi che ha fatto da spola tra la terraferma - con base a Chioggia e al Tronchetto - e il Lido. Il servizio ha permesso ai tanti comitati regionali di portare i propri striscioni alla manifestazione. Tra i partecipanti più numerosi ricordiamo la rete nunuke di Chioggia e il Chioggialab, il comitati provenienti dalla bassa padovana come “lasciateci respirare” e “salute e ambiente”, l’assemblea permanente contro il rischio chimico di Marghera, centri sociali come il Pedro, il Rivolta e il Morion, e i movimenti del Polesine, una delle aree papabili per la realizzazione di una centrale nucleare. Presenti anche gli attivisti di formazioni sindacali o politiche come verdi, federazione della sinistra, grillini che hanno comunque lasciato a casa le bandiere del partito per sventolare quella contro il nucleare. Alla fine del corteo, proprio davanti al palazzo del cinema, una applaudita delegazione dei manifestanti è salita sulla passerella delle star per spiegare a giornalisti, attori, registi e spettatori, le motivazioni della manifestazione. Da sottolineare la presenza di una delegazione di biondi turisti austriaci e tedeschi, coordinata da Greenpeace, che hanno distribuito volantini “Für ein atomkraft-frese italien” (per una Italia libera dal nucleare) invitando gli altri turisti - che in estate e con la mostra del cinema al Lido sono davero tanti! - a chiedere al proprio albergatore e alla propria agenzia turistica di mobilitarsi col governo perché il Belpaese scelga la strada delle energie pulite e rinnovabili. Davvero, chiedevano, gli italiani vogliono inserire nel paesaggio lagunare di piazza San Marco, della Giudecca e dell’isola di San Giorgio, anche il minaccioso profilo di un reattore nucleare?

Venezia e i tagli alla cultura

Taglio sì, tagli no, tagli forse. Del doman non v’è certezza, scriveva tempo fa un certo Lorenzo. Un vero mecenate, lui, che quando amministrava Firenze non si sarebbe mai sognato di penalizzare la cultura. Ma oggi che al Governo non c’è nessun Magnifico, l’unica certezza è che il settore delle arti si sente come il condannato con la testa sul ceppo. Aspetta solo di vedere come e quando calerà la mannaia.
“Vediamo come andrà a finire – commenta laconico Marino Cortese, presidente della Querini Stampalia, la fondazione che gestisce una delle più frequentate biblioteche di Venezia – ma certo non ci attendiamo nulla di buono”. Più duro il commento di Gian Antonio Danieli, presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti che, se sopravviverà, a dicembre festeggerà i duecento anni dalla fondazione: “Stiamo a vedere cosa succederà ma di sicuro non nutriamo nessuna illusione. In Italia, oltre ai tre poteri costituzionali, ce n’è un quarto, che non è la stampa, ma l’ignoranza. Un potere trasversale e pervasivo, ulteriormente potenziato dalla sua ostentata esibizione mediatica". Questi due istituti, assieme all’Ateneo Veneto, alla Fondazione Levi e alla Cini – per restare in ambito lagunare – figuravano nella famosa lista di 232 associazioni culturali che il ministro Giulio Tremonti si arrogava il diritto di potare come rami secchi. Tremonti ministro delle finanze e non della cultura. “E’ sorprendente, oltre che grave, che il ministro della cultura che è Sandro Bondi, uno che peraltro ha il suo peso all’interno del Pdl, sia stato completamente esautorato da una scelta che spettava solo a lui, come il ridimensionamento finanziario di associazioni che fanno riferimento alla sua delega – ha commentato Gianfranco Cerasoli, segretario Uil Beni e attività culturali -. E oltretutto hanno cercato di far passare la manovra come una vittoria del Governo contro enti parassiti”. La successiva sfuriata di Bondi, che era quella di uno cui han pestato i calli dei piedi, ha avuto se non altro il merito di congelare questi tagli. Ma certo, come abbiamo visto in apertura, la sospensoria non ha tranquillizzato nessuno. Anche perché, nel caso i paventati tagli non arrivassero dal Governo, di sicuro arriveranno dalla Regione Veneto che già in tante occasioni si è sempre dimostrata sorda alla voce di una cultura che non sia quella legata a supposte sagre di identità veneta, parate di miss padane o esposizioni di trofei venatori. Un incubo questo, ancora peggiore perché i contributi regionali al settore sono maggiori di quelli che provengono – o provenivano – dallo Stato. Da Palazzo Balbi, sede del Governo regionale, ancora non arrivano notizie sicure se non quella che i tagli ci saranno e sono indispensabili proprio in virtù della manovra Tremonti che, se da un lato ha deviato la scure dalle fondazioni, dall’altro ha troncato di netto i finanziamenti alle Regioni. Il Veneto, ad esempio, riceverà nei prossimi due anni, un miliardo e 600 milioni di euro in meno rispetto al biennio scorso. Inevitabile che a farne le spese saranno ancora una volta i settori considerati dall’amministrazione regionale, deboli se non addirittura parassitari. A torto, ci assicura Pierluigi Sacco pro rettore allo Iuav di Venezia e docente di economia della cultura: “L'azienda Veneto non ritiene la cultura un ramo strategico e di conseguenza lo taglia. Ma è un errore grossolano e gravissimo. La cultura non è solo divertimento elitario, per fortuna. Ma un elemento essenziale di economia della società della conoscenza che è il modello di crescita per tutto l'Occidente. Il concetto di cultura non si ferma al concerto o al film ma sveglia le menti libere e ricettive. Produce nuove idee. L'intreccio tra economia e cultura è più stretto di quanto non appaia. Noi economisti lo sappiamo bene e lo sa bene Joseph Nye, ascoltato consigliere di Obama e teorico del soft power, che ha posto al presidente americano questa domanda: secondo lei è più importante avere una forte identità culturale o un forte esercito?" Non sappiamo cosa abbia risposto Obama, ma sappiamo bene cosa risponderebbe il nostro governo.

Politica e sapere. Intervista con Camilla Seibezzi

Se le chiedi che mestiere fa per vivere, si guarda attorno e poi ti sussurra “cultural manager” con lo stesso tono in cui un altro direbbe “suono il piano in un bordello”. E subito precisa: “Sì, lo so. Non piace neppure a me far sfoggio di anglicismi, ma il nome esatto è questo. Non c’è un equivalente italiano per descrivere quello che faccio. Il termine ‘promotrice culturale’, che qualche volta si adopera, è quantomeno riduttivo. Un altro distintivo esempio dell’arretratezza che pesa sulla cultura italiana rispetto agli altri Paesi europei”. Camilla Seibezzi è uno dei volti nuovi della politica veneziana.
“Nuova nel senso che è la prima volta che mi sono messa in lista. Perché la politica, io l’ho sempre fatta – puntualizza –. Fare cultura è anche fare politica, giusto?” Candidatasi nella lista “In Comune con Bettin” nelle ultimi amministrative, Camilla ha portato in dote una valanga di preferenza che, non senza qualche sorpresa, le hanno spalancato le porte del consiglio comunale, dietro ai soli Gianfranco Bettin e Beppe Caccia. La sua innegabile esperienza nel campo delle arti visive contemporanee le hanno fatto ottenere la nomina di presidente della sesta commissione consiliare, quella della cultura. La incontriamo tra calli e campielli, che porta, o meglio, si fa portare a spasso da un cagnone nero di pura razza bastarda, reduce da una estenuante seduta di commissione. Camilla, non ti sarai già pentita di esserti candidata? Ride. E quando Camilla ride, si gira tutta la calle. “Dai, concedimi ancora un paio di mesi prima di farmi questa domanda. Certo che non mi aspettavo la delirante faziosità di tante discussioni. Io sono abituata a discutere con le argomentazioni, ma in consiglio c’è gente che parla solo per ricavarne due righe sui quotidiani locali. Ogni tanto mi fermo e mi domando: ma di cosa stanno parlando questi qui?” Con le argomentazioni, in politica, non si convince mai nessuno. Tu ti sei sempre occupata di cultura affrontando l’argomento dal punto di vista dell’artista o della promotrice… scusa, della cultural manager. Come vivi l’esperienza sul fronte amministrativo? “Io son sempre la stessa, così come le difficoltà che mi si parano davanti. C’è una enorme arretratezza della classe politica sul tema della cultura. Sono pochi coloro che si sono posti domande su cosa sia la cultura, cosa serva, quali meccanismi la attivino e cosa se ne possa ricavare… non è un caso che, se si parla di tagli, il primo settore ad essere colpito è questo che considerano, al massimo, un divertimento per pochi. Eppure c’è una serie infinita di studi, anche italiani, che svelano quanto la cultura possa essere una leva economica capace di raggiungere fatturati superiori all’industria automobilistica”. Le statistiche che in questi giorni si rincorrono sui giornali, confermano che l’Italia investe nel settore perlomeno sette volte di meno rispetto ad altri Paesi europei come, ad esempio la Francia. “Non solo. La ricchezza del patrimonio artistico che abbiamo è sconfinata. Questa è un’arma a doppio taglio, perché comporta che la maggior parte dei fondi siano destinati al restauro e alla conservazione. Alla contemporaneità restano appena le briciole. Ma ciò che pesa di più, e di cui i tagli sono solo una naturale conseguenza, sono le deficienze culturali e politiche in materia. Come si misura, ad esempio, il successo di una esposizioni in Italia? Dal numero di visitatori oppure dall’indotto in settori come l’alberghiero o, più in generale, quello turistico. Ma non è questo il solo effetto che deve produrre un evento culturale! Deve anche creare fermento, produrre idee, dare linfa alla comunità artistica e produrre nuove opere. Altrimenti ci si limita, quando va bene, a creare il contenitore e non il contenuto. In Europa ci sono esempi di comunità artistiche che si auto sostengono. Certo, è un settore che non deve necessariamente produrre fatturato e che non lo puoi abbandonare al libero mercato”. Un bene comune come l’acqua? “Certamente. Prendiamo Venezia, ad esempio. La Biennale ha una enorme ricaduta economica sul privato, su chi affitta i palazzi e sugli alberghi, ma la produzione culturale veneziana o italiana ne viene appena intaccata. Bisognerebbe invece creare una politica di accoglienza per gli investitori e per gli stessi artisti. Soprattutto in questa città dove il mercato, come quello degli affitti o degli spazi per le esposizioni ad esempio, è drogato. In questo modo rimarrebbe qualcosa di duraturo e di valido anche al di fuori dei giorni di apertura dei padiglioni”. Invece, si preferisce applicare il ragionamento che sta alla base della “grandi opere” anche sulle “grandi mostre”. Magari non faranno i danni che gli ecomostri causano all’ambiente… “ma la produzione culturale in sé, non ne trae beneficio. Insomma, abbiamo di fronte a noi una enorme carenza di informazione e di riflessione sul tema della cultura. Parlo di tutti i livelli: dai politici agli imprenditori, senza risparmiare i mass media. Questo è anche il motivo per cui in Italia non è mai stata avviata una politica di defiscalizzazione per gli investimenti culturali come, ad esempio, negli Stati Uniti. Al massimo, da noi ci si auto defiscalizza evadendo le tasse; non certo a favore della cultura ma tutto a vantaggio dell’ignoranza”.

L'acqua supera il primo scoglio

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Lo scoglio delle 500 mila firme necessarie per presentare il referendum è stato superato. Adesso bisogna informare la gente su quali sono gli effetti della privatizzazione dell’acqua. E dovremo fare noi questo lavoro, perché dalle televisioni e dai grandi media che vivono anche grazie alle sponsorizzazioni delle acque minerali non avremo nessun aiuto”. Lo ha dichiarato il giurista Ugo Mattei, uno dei principali estensori dei tre quesiti referendari, in un incontro promosso dal comitato cittadino "Venezia per l'acqua pubblica" svoltosi lo scorso giovedì al centro culturale Candiani di Mestre. Tra i relatori, Valter Bonan, responsabile regionale del "Forum dei movimenti per la pubblicizzazione dell'acqua", e Paolo Cacciari, della rete dei comitati e delle associazioni per un Altro Veneto.


A far gli onori di casa, il verde Gianfranco Bettin, non a caso, assessore con delega oltre che all’Ambiente anche ai Beni Comuni di Venezia. Città questa, che con la sua Provincia ha dato un notevole contributo alla raccolta delle firme, sfiorando il tetto delle 10 mila adesioni. Un risultato più che soddisfacente che va rapportato anche alla buona risposta regionale: 46 mila firme già raccolte. Il raggiungimento dell’obbiettivo delle 500 mila firme non deve comunque farci illudere che la battaglia sia già vinta, ha spiegato Valter Bonan. Ci attende un cammino tutto in salita. Un cammino che val comunque la pena di percorrere sino in fondo. “Il tema dell’acqua – ha spiegato Bettin –è uno dei pochi su cui oggi è possibile costruire un percorso di alternativa, rovesciare la prospettiva anche e soprattutto sul piano culturale e aprire nuovi scenari sulla gestione partecipata di tutti i beni comuni”. Il giurista Ugo Mattei ha chiuso la serata ripercorrendo le vicende che hanno spinto il comitato referendario a proporre i tre quesiti per la ri pubblicizzazione dell’acqua - dalla legge Galli al recente decreto che privatizza la gestione dell’acqua - raccontando come il modello della “società per azioni” sembrava, sul finire dello scorso secolo, un modello vincente anche per il pubblico. Ma oggi, che siamo di fronte alla crisi di un sistema economico basato sul libero mercato, gli effetti della privatizzazione sono davanti agli occhi di tutti. Ad Atlanta, negli Usa, tanto per fare un esempio con un paese a capitalismo avanzato, la svendita degli acquedotti alla multinazionale della Coca Cola ha progressivamente deteriorato il sistema idrico col risultato che l’acqua del rubinetto oggi è imbevibile e i consumatori sono costretti ad acquistare le bottiglie messe in commercio dalla stessa multinazionale che gestisce la risorsa idrica. Ma per trovare storie simili non serve volare oltre l’oceano. “In Sicilia gli stessi concessionari dell’acqua minerale, che per la maggior parte appartengono ai gruppi Catalgirone, sono anche gestori dell’acqua pubblica. Un conflitto d’interessi evidente – ha commentato Mattei – perché il loro interesse sta tutto nel mettere in circolo nell’acquedotto un’acqua più schifosa e singhiozzo possibile”. Il referendum, hanno sottolineato tutti i relatori, sarà una occasione per ripensare alla gestione dei beni comuni. “Con i nostri tre quesiti, prestate attenzione, non chiediamo che sia lo Stato a gestire l’acqua – ha concluso Mattei -. Sia lo Stato che le Corporation sono strutture con un livello di potere concentrato. Noi non vogliamo che si torni indietro. E’ questa la differenza principale tra i nostri tre quesiti e quello di Di Pietro. Noi chiediamo che l’acqua, in quanto bene comune, sia gestito dalla comunità tramite un processo di diffusione del potere al di là di ogni valore di mercato, con il solo scopo di mantenere nei nostri acquedotti un’acqua di qualità buona per tutti”. Un referendum quindi, che non decide solo sulla proprietà dell’acqua ma che potrebbe diventare il punto di leva per una inversione di rotta su temi come la democrazia di base e la gestione partecipata di tutti i beni comuni.

Emergency a Porto Marghera

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Emergency si prepara ad aprire un altro ambulatorio medico in un paese culturalmente arretrato dove l’accesso ai sevizi sanitari non è garantito a tutti: l’Italia. L'annuncio è stato dato dallo stesso Gino Strada in occasione di una manifestazione organizzata dalla rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti. "Il nostro poliambulatorio offrirà cure gratuite ai tanti migranti non solo che arrivano nel Veneto e non hanno la possibilità di accedere ai presidi sanitari pubblici - ha dichiarato il fondatore di Emergency - ma anche ai cittadini di questo nuovo paese del terzo mondo, l'Italia che sta svilendo i diritti e la dignità delle persone".


Il poliambulatorio sarà inaugurato a settembre e sorgerà a porto Marghera, nella palazzina comunale di via Varé, già sede del centro di salute mentale dell'asl. Questa sarà la seconda struttura che Emergency realizza in Italia dopo l'ambulatorio di Palermo, inaugurata il 3 aprile 2006 e che ha già erogato quasi 35 mila prestazioni.
Responsabili dell'organizzazione della nuova struttura, sono i dottori Mimmo Risica e Guido Pullia. “Nel nostro ambulatorio saranno presenti, oltre ai medici, anche operatori culturali che aiuteranno il nostro personale sanitario a fare da tramite con quanti si rivolgono al nostro servizio – spiega Pullia -. Teniamo presente che molti migranti non hanno la cultura del servizio sanitario gratuito e continuativo. In casi come questi è indispensabile che oltre al medico, il paziente venga avvicinato da operatori culturali che gli spiegano come funziona il servizio sanitario”.
Il primo problema da superare, ha spiegato Pullia, è stato quello di accordarsi con gli ambulatori dell’Asl per garantire ai pazienti curati da Emergency di accedere agli esami medici necessari. Come comportarsi, ad esempio, se a un migrante irregolare occorre una radiografia? “La legge italiana in questi casi stabilisce la possibilità di avere un codice chiamato Stp, che significa straniero temporaneamente presente. Non è una possibilità riservata ai soli clandestini ma anche a quanti in regola col permesso di soggiorno provengono da paesi come ad esempio la Romania che non hanno stipulato accordi con il nostro ministero della sanità. Con questa tessera il migrante può accedere alle prestazioni sanitarie che i nostri medici vorranno prescriverli". L’iniziativa di Emergency ha immediatamente provocato una levata di scudi da parte del centro destra. Antonio Cavaliere, consigliere comunale del Pdl, ha inoltrato una piccata interrogazione al sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, in cui gli chiede di negare l’uso della palazzina sostenendo che la creazione di tale ambulatorio comporterebbe per le casse comunali una spesa eccessiva ed inutile in quanto le prestazioni mediche, in Italia, sarebbero già accessibili a tutti nelle strutture sanitarie pubbliche e private. In Friuli, ad esempio, la regione di centro destra ha già manifestato la propria contrarietà a strutture simili.
“Non vogliamo e possiamo sostituirci all’Asl o al servizio sanitario nazionale – commenta Pullia – ma non possiamo far finta di non sapere che molti migranti non hanno neppure la possibilità di avere un medico di base. Il nostro ambulatorio fornisce questo servizio ed inoltre, grazie ai nostri operatori culturali possiamo fare da tramite, anche per una questione di maggiore fiducia e di disponibilità, tra i migranti e le strutture già esistenti”.

Ecomafie a casa nostra

Grandi opere e traffico dei rifiuti. Due settori che non conoscono crisi. Due settori in cui la criminalità organizzata continua ad investire denaro sporco ed a ricavarne enormi guadagni, condizionando la democrazia e le politiche di gestione del territorio. Le numerose operazioni condotte dai carabinieri del Noe negli ultimi mesi, testimoniano come il Veneto ha assunto un ruolo da protagonista nei traffici illeciti nazionali ed internazionali. Il 24 giugno scorso la procura di Padova ha scoperto un traffico di rifiuti spacciati per materia prima e fatti arrivare nella Repubblica popolare cinese.
Si trattava di sostanze altamente tossiche e pericolose contrabbandate come normali merci o come rifiuti già trattati. L'operazione denominata “Serenissima” ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare e numerosi provvedimenti di arresto domiciliare nei confronti di titolari e dipendenti di aziende dedite alla gestione dei rifiuti a Padova e Rovigo. Le ipotesi di reato contestate agli arrestati sono di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e falso documentale. La procura ha documentato il trattamento di oltre 230 mila tonnellate di rifiuti altamente tossici, per lo più carta e plastica contaminata con inquinanti velenosi di diversa natura, che sono salpati dai porti di Venezia verso la Cina. Il valore dei beni sequestrati si aggira sui 60 milioni di euro per un volume di affari stimato in circa 6 milioni di euro. I rifiuti venivano utilizzati nel paese asiatico per produrre articoli di vario tipo destinati al mercato europeo con evidenti rischi di tossicità tanto gli ignari futuri consumatori di casa nostra quanto per gli operai cinesi costretti a lavorare con materie prime inquinate.
Ancora il porto di Venezia, secondo un rapporto dei carabinieri, è lo svincolo di un’impressionante mole di amianto killer non trattato, trafficato e gestito in maniera criminale: una fibra che secondo gli ultimi dati dell’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro) ucciderebbe in Italia circa 4 mila persone ogni anno. “Il porto di Venezia si rivela, dunque, ancora una volta la testa di ponte di traffici illeciti di rifiuti destinati in Estremo Oriente – ha spiegato Michele Bertucco, responsabile veneto di Legambiente presentando il rapporto Ecomafia 2010 -. Nonostante la crisi economica, l’immenso giro d’affari dei reati contro l’ambiente ha visto aumentare il suo fatturato superando i 20 miliardi di euro all’anno. Il Veneto, in questa speciale classifica dell’illegalità, conferma il suo trend positivo, avanzando posizione su posizione”. Per quanto riguarda i reati accertati, la nostra Regione si colloca nell'undicesima posizione con 777 reati al primo posto la Campania con 4874 infrazioni. Il Veneto è comunque la seconda regione del nord Italia dietro la Liguria con 1231 reati accertati con un forte incremento, come abbiamo visto, nel cosiddetto ciclo dei rifiuti tossici. “Ma va registrato anche come di fronte ad una profonda crisi del settore immobiliare legale, le holding del cemento abusivo stiano facendo affari d'oro - conclude Bertucco -. L’abusivismo organizzato opera in nero in tutta la sua filiera, dall’acquisto dei materiali, alla manodopera e all’utilizzazione e alla vendita del bene, selezionando le occasioni migliori e a maggior valore aggiunto quali ad esempio, ville costiere, cascine in aree naturalisticamente pregiate”.

Una Regione in deroga

La chiamano la legge “ammazza fringuelli”. Ma potrebbero chiamarla anche legge ammazza storni, oppure ammazza peppole, o prispoloni o pispole e via dicendo. Tutte specie di uccelli che hanno in comune due caratteristiche, oltre a quella di essere piccoli volatili insettivori utili all'agricoltura: essere protetti dalla comunità europea di essere ambiti trofei di caccia. Stiamo parlando della cosiddetta “legge deroga” che la Regione Veneto ha varato sin dal 2002 e che ogni estate ripropone per consentire alle doppiette di sparare ad animali che sono tutelati tanto dalla legge italiana che da quella europea, per tacere del semplice buonsenso.
Vale la pena di ricordare che, a tale proposito, la Corte di Giustizia europea il 15 luglio scorso ha condannato l’Italia a pesanti sanzioni per la legge deroga ed è in corso un processo contro il nostro Paese perché questa legge viola la Direttiva Comunitaria “Uccelli”. Ma nonostante questo, la Regione Veneto, che ha tradizionalmente mantiene un canale preferenziale con gli ambienti più retrogradi delle associazioni venatorie, continua imperterrita a riproporre ogni anno il meccanismo della deroga. Solo lo scorso anno, la pesante campagna di ostruzionismo dell’allora consigliere regionale verde Gianfranco Bettin, che depositò oltre 5 chili di emendamenti (più o meno diecimila proposte di modifica), riuscì a bloccare la deroga scatenando le ire dei cacciatori che non a caso cambiarono partito di riferimento: dall’ala ex An del Popolo delle Libertà alla Lega. Ed è proprio la lega infatti che quest’anno si è incaricata di pagare dazio alle doppiette presentando un’altra proposta di legge in deroga per la stagione venatoria che si aprirà a settembre. Il pdl è stato licenziato dalla commissione agricoltura il 20 luglio dove, oltre ai prevedibili voti favorevoli del centrodestra al governo (Lega, Pdl e Udc) ha incassato anche una significativa astensione degli esponenti del partito democratico. Tanto per ricordare agli ambientalisti che non sono loro certo loro l’alternativa a questa destra. Privi di un riferimento verde in consiglio regionale, le associazioni anticaccia hanno deciso di diffidare tutti e sessanta i consigliere regionali a votare a favore di un provvedimento considerato illegittimo e già sanzionato dalla Corte europea. “Bisogna chiedere al Parlamento italiano – ha dichiarato Andrea Zanoni presidente della Lac, lega per l’Abolizione caccia – di approvare una legge con la quale venga previsto che chi paga le spese e le sanzioni europee per la caccia in deroga non siano tutti i cittadini italiani, bensì tutti gli assessori, consiglieri regionali, europarlamentari che hanno approvato queste disposizioni illecite”. Lac, Lav, Enpa, Lipu, Legambiente, Wwf, Anpana, Lida e le altre associazioni contro la caccia hanno lanciato una campagna chiedendo ai sostenitori di farsi sentire in consiglio regionale tempestando di mail, di fax e di telefonate i consiglieri della maggioranza e dell’opposizione per chiedere loro di rispettare, oltre la fauna selvatica, anche la legalità. Il pdl per la caccia in deroga presentato dalla maggioranza di centrodestra andrà ora in consiglio regionale dove nessuno si attende una opposizione neppure di facciata da parte dei democratici.

Hydrogen Park

E’ la prima centrale ad idrogeno del mondo. Produce energia (quasi) pulita, sufficiente al fabbisogno medio di 20 mila famiglie. Sfrutta un ciclo di lavorazione “chiuso” con emissioni (quasi) zero e vorrebbe essere il primo passo importante lungo il difficile cammino per trasformare il petrolchimico in un polo di energie rinnovabili.
L’Hydrogen Park appena inaugurato a Fusina, cuore energetico di Porto Marghera, è nato nel 2003 da una compartecipazione tra Enel, Regione Veneto, ministero dell'Ambiente e associazione industriali di Venezia. L’idea che sta alla base del progetto è quella di utilizzare a fini energetici l’idrogeno di scarto dei cicli di lavorazione dei vicini impianti industriali.
Il gas viene convogliato in una speciale camera di combustione e quindi bruciato per alimentare una turbine produrre energia elettrica. La centrale appena inaugurata ha una potenza di 12 megawatt, sufficienti al fabbisogno energetico medio di 20 mila famiglie circa. La combustione dell’idrogeno, a differenza del carbone, non produce CO2. I fumi di scarico sono costituiti solo da vapore acqueo e da ossidi di azoto. Questi ultimi sono fortemente inquinanti, ma un impianto di filtraggio consente di abbattere le emissioni a livelli accettabili. Teniamo anche conto che una centrale a carbone della stessa potenza scaraventa nell’atmosfera 20 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ecco perché nel caso dell’idrogeno si parla di emissioni (quasi) zero. L’Hydrogen Park è stato progettato per integrare le installazioni industriali già presenti a Marghera. Il vapore ad alta temperatura risultato dalla combustione del gas, inoltre, viene inviato alla vicina centrale a carbone che aumenta così il suo rendimento di circa il 42 per cento, aggiungendo altri 4 megawatt di potenza. Complessivamente il nuovo impianto fornisce quindi una potenza di 16 megawatt. Un risultato soddisfacente che ha fatto spinto il presidente della regione, Luca Zaia, ha ribadire che “Il Veneto non ha bisogno del nucleare. Il nostro fabbisogno è ampiamente soddisfatto dall’energia che produciamo a casa”. Una svolta ambientalista in casa padana? Niente paura. “Rispetto al fabbisogno del Veneto di 30 gigawatt - ha specificato il governatore Veneto - il bilancio energetico della regione è in pareggio con l’avvio del carbone pulito a Porto Tolle”. Zaia non ha risparmiato un’altra stoccata agli ambientalisti che considerano il concetto di “carbone pulito” un perfetto esempio di ossimoro: “L’impianto a idrogeno dimostra che a noi l’età della pietra non ci piace. La politica energetica va programmata, ma noi ci troviamo a combattere quotidianamente con chi non vuole questa programmazione e vorrebbe tornare all’età della pietra”.
Ma è davvero pulita la centrale ad idrogeno di Fusina? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la provenienza dell’idrogeno che finisce nella camera di combustione della centrale. “L’idrogeno non è una fonte energetica rinnovabile ma un vettore di energia – commenta il verde Ezio Da Villa, già assessore provinciale all’ambiente - possiamo parlare di idrogeno pulito solo se questo idrogeno proviene da fonti rinnovabili, come ad esempio dall’acqua attraverso l’idrolisi. Ma non è il caso della centrale di Fusina che è nata per sfruttare il gas derivante dal cracking o dall’impianto, oggi chiuso, del cloro soda. Come facciamo a parlare di energia pulita quando l’idrogeno bruciato proviene dalla chimica pesante e da lavorazioni altamente inquinanti?”
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