In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

L'acqua supera il primo scoglio

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Lo scoglio delle 500 mila firme necessarie per presentare il referendum è stato superato. Adesso bisogna informare la gente su quali sono gli effetti della privatizzazione dell’acqua. E dovremo fare noi questo lavoro, perché dalle televisioni e dai grandi media che vivono anche grazie alle sponsorizzazioni delle acque minerali non avremo nessun aiuto”. Lo ha dichiarato il giurista Ugo Mattei, uno dei principali estensori dei tre quesiti referendari, in un incontro promosso dal comitato cittadino "Venezia per l'acqua pubblica" svoltosi lo scorso giovedì al centro culturale Candiani di Mestre. Tra i relatori, Valter Bonan, responsabile regionale del "Forum dei movimenti per la pubblicizzazione dell'acqua", e Paolo Cacciari, della rete dei comitati e delle associazioni per un Altro Veneto.


A far gli onori di casa, il verde Gianfranco Bettin, non a caso, assessore con delega oltre che all’Ambiente anche ai Beni Comuni di Venezia. Città questa, che con la sua Provincia ha dato un notevole contributo alla raccolta delle firme, sfiorando il tetto delle 10 mila adesioni. Un risultato più che soddisfacente che va rapportato anche alla buona risposta regionale: 46 mila firme già raccolte. Il raggiungimento dell’obbiettivo delle 500 mila firme non deve comunque farci illudere che la battaglia sia già vinta, ha spiegato Valter Bonan. Ci attende un cammino tutto in salita. Un cammino che val comunque la pena di percorrere sino in fondo. “Il tema dell’acqua – ha spiegato Bettin –è uno dei pochi su cui oggi è possibile costruire un percorso di alternativa, rovesciare la prospettiva anche e soprattutto sul piano culturale e aprire nuovi scenari sulla gestione partecipata di tutti i beni comuni”. Il giurista Ugo Mattei ha chiuso la serata ripercorrendo le vicende che hanno spinto il comitato referendario a proporre i tre quesiti per la ri pubblicizzazione dell’acqua - dalla legge Galli al recente decreto che privatizza la gestione dell’acqua - raccontando come il modello della “società per azioni” sembrava, sul finire dello scorso secolo, un modello vincente anche per il pubblico. Ma oggi, che siamo di fronte alla crisi di un sistema economico basato sul libero mercato, gli effetti della privatizzazione sono davanti agli occhi di tutti. Ad Atlanta, negli Usa, tanto per fare un esempio con un paese a capitalismo avanzato, la svendita degli acquedotti alla multinazionale della Coca Cola ha progressivamente deteriorato il sistema idrico col risultato che l’acqua del rubinetto oggi è imbevibile e i consumatori sono costretti ad acquistare le bottiglie messe in commercio dalla stessa multinazionale che gestisce la risorsa idrica. Ma per trovare storie simili non serve volare oltre l’oceano. “In Sicilia gli stessi concessionari dell’acqua minerale, che per la maggior parte appartengono ai gruppi Catalgirone, sono anche gestori dell’acqua pubblica. Un conflitto d’interessi evidente – ha commentato Mattei – perché il loro interesse sta tutto nel mettere in circolo nell’acquedotto un’acqua più schifosa e singhiozzo possibile”. Il referendum, hanno sottolineato tutti i relatori, sarà una occasione per ripensare alla gestione dei beni comuni. “Con i nostri tre quesiti, prestate attenzione, non chiediamo che sia lo Stato a gestire l’acqua – ha concluso Mattei -. Sia lo Stato che le Corporation sono strutture con un livello di potere concentrato. Noi non vogliamo che si torni indietro. E’ questa la differenza principale tra i nostri tre quesiti e quello di Di Pietro. Noi chiediamo che l’acqua, in quanto bene comune, sia gestito dalla comunità tramite un processo di diffusione del potere al di là di ogni valore di mercato, con il solo scopo di mantenere nei nostri acquedotti un’acqua di qualità buona per tutti”. Un referendum quindi, che non decide solo sulla proprietà dell’acqua ma che potrebbe diventare il punto di leva per una inversione di rotta su temi come la democrazia di base e la gestione partecipata di tutti i beni comuni.

Emergency a Porto Marghera

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Emergency si prepara ad aprire un altro ambulatorio medico in un paese culturalmente arretrato dove l’accesso ai sevizi sanitari non è garantito a tutti: l’Italia. L'annuncio è stato dato dallo stesso Gino Strada in occasione di una manifestazione organizzata dalla rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti. "Il nostro poliambulatorio offrirà cure gratuite ai tanti migranti non solo che arrivano nel Veneto e non hanno la possibilità di accedere ai presidi sanitari pubblici - ha dichiarato il fondatore di Emergency - ma anche ai cittadini di questo nuovo paese del terzo mondo, l'Italia che sta svilendo i diritti e la dignità delle persone".


Il poliambulatorio sarà inaugurato a settembre e sorgerà a porto Marghera, nella palazzina comunale di via Varé, già sede del centro di salute mentale dell'asl. Questa sarà la seconda struttura che Emergency realizza in Italia dopo l'ambulatorio di Palermo, inaugurata il 3 aprile 2006 e che ha già erogato quasi 35 mila prestazioni.
Responsabili dell'organizzazione della nuova struttura, sono i dottori Mimmo Risica e Guido Pullia. “Nel nostro ambulatorio saranno presenti, oltre ai medici, anche operatori culturali che aiuteranno il nostro personale sanitario a fare da tramite con quanti si rivolgono al nostro servizio – spiega Pullia -. Teniamo presente che molti migranti non hanno la cultura del servizio sanitario gratuito e continuativo. In casi come questi è indispensabile che oltre al medico, il paziente venga avvicinato da operatori culturali che gli spiegano come funziona il servizio sanitario”.
Il primo problema da superare, ha spiegato Pullia, è stato quello di accordarsi con gli ambulatori dell’Asl per garantire ai pazienti curati da Emergency di accedere agli esami medici necessari. Come comportarsi, ad esempio, se a un migrante irregolare occorre una radiografia? “La legge italiana in questi casi stabilisce la possibilità di avere un codice chiamato Stp, che significa straniero temporaneamente presente. Non è una possibilità riservata ai soli clandestini ma anche a quanti in regola col permesso di soggiorno provengono da paesi come ad esempio la Romania che non hanno stipulato accordi con il nostro ministero della sanità. Con questa tessera il migrante può accedere alle prestazioni sanitarie che i nostri medici vorranno prescriverli". L’iniziativa di Emergency ha immediatamente provocato una levata di scudi da parte del centro destra. Antonio Cavaliere, consigliere comunale del Pdl, ha inoltrato una piccata interrogazione al sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, in cui gli chiede di negare l’uso della palazzina sostenendo che la creazione di tale ambulatorio comporterebbe per le casse comunali una spesa eccessiva ed inutile in quanto le prestazioni mediche, in Italia, sarebbero già accessibili a tutti nelle strutture sanitarie pubbliche e private. In Friuli, ad esempio, la regione di centro destra ha già manifestato la propria contrarietà a strutture simili.
“Non vogliamo e possiamo sostituirci all’Asl o al servizio sanitario nazionale – commenta Pullia – ma non possiamo far finta di non sapere che molti migranti non hanno neppure la possibilità di avere un medico di base. Il nostro ambulatorio fornisce questo servizio ed inoltre, grazie ai nostri operatori culturali possiamo fare da tramite, anche per una questione di maggiore fiducia e di disponibilità, tra i migranti e le strutture già esistenti”.

Ecomafie a casa nostra

Grandi opere e traffico dei rifiuti. Due settori che non conoscono crisi. Due settori in cui la criminalità organizzata continua ad investire denaro sporco ed a ricavarne enormi guadagni, condizionando la democrazia e le politiche di gestione del territorio. Le numerose operazioni condotte dai carabinieri del Noe negli ultimi mesi, testimoniano come il Veneto ha assunto un ruolo da protagonista nei traffici illeciti nazionali ed internazionali. Il 24 giugno scorso la procura di Padova ha scoperto un traffico di rifiuti spacciati per materia prima e fatti arrivare nella Repubblica popolare cinese.
Si trattava di sostanze altamente tossiche e pericolose contrabbandate come normali merci o come rifiuti già trattati. L'operazione denominata “Serenissima” ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare e numerosi provvedimenti di arresto domiciliare nei confronti di titolari e dipendenti di aziende dedite alla gestione dei rifiuti a Padova e Rovigo. Le ipotesi di reato contestate agli arrestati sono di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e falso documentale. La procura ha documentato il trattamento di oltre 230 mila tonnellate di rifiuti altamente tossici, per lo più carta e plastica contaminata con inquinanti velenosi di diversa natura, che sono salpati dai porti di Venezia verso la Cina. Il valore dei beni sequestrati si aggira sui 60 milioni di euro per un volume di affari stimato in circa 6 milioni di euro. I rifiuti venivano utilizzati nel paese asiatico per produrre articoli di vario tipo destinati al mercato europeo con evidenti rischi di tossicità tanto gli ignari futuri consumatori di casa nostra quanto per gli operai cinesi costretti a lavorare con materie prime inquinate.
Ancora il porto di Venezia, secondo un rapporto dei carabinieri, è lo svincolo di un’impressionante mole di amianto killer non trattato, trafficato e gestito in maniera criminale: una fibra che secondo gli ultimi dati dell’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro) ucciderebbe in Italia circa 4 mila persone ogni anno. “Il porto di Venezia si rivela, dunque, ancora una volta la testa di ponte di traffici illeciti di rifiuti destinati in Estremo Oriente – ha spiegato Michele Bertucco, responsabile veneto di Legambiente presentando il rapporto Ecomafia 2010 -. Nonostante la crisi economica, l’immenso giro d’affari dei reati contro l’ambiente ha visto aumentare il suo fatturato superando i 20 miliardi di euro all’anno. Il Veneto, in questa speciale classifica dell’illegalità, conferma il suo trend positivo, avanzando posizione su posizione”. Per quanto riguarda i reati accertati, la nostra Regione si colloca nell'undicesima posizione con 777 reati al primo posto la Campania con 4874 infrazioni. Il Veneto è comunque la seconda regione del nord Italia dietro la Liguria con 1231 reati accertati con un forte incremento, come abbiamo visto, nel cosiddetto ciclo dei rifiuti tossici. “Ma va registrato anche come di fronte ad una profonda crisi del settore immobiliare legale, le holding del cemento abusivo stiano facendo affari d'oro - conclude Bertucco -. L’abusivismo organizzato opera in nero in tutta la sua filiera, dall’acquisto dei materiali, alla manodopera e all’utilizzazione e alla vendita del bene, selezionando le occasioni migliori e a maggior valore aggiunto quali ad esempio, ville costiere, cascine in aree naturalisticamente pregiate”.

Una Regione in deroga

La chiamano la legge “ammazza fringuelli”. Ma potrebbero chiamarla anche legge ammazza storni, oppure ammazza peppole, o prispoloni o pispole e via dicendo. Tutte specie di uccelli che hanno in comune due caratteristiche, oltre a quella di essere piccoli volatili insettivori utili all'agricoltura: essere protetti dalla comunità europea di essere ambiti trofei di caccia. Stiamo parlando della cosiddetta “legge deroga” che la Regione Veneto ha varato sin dal 2002 e che ogni estate ripropone per consentire alle doppiette di sparare ad animali che sono tutelati tanto dalla legge italiana che da quella europea, per tacere del semplice buonsenso.
Vale la pena di ricordare che, a tale proposito, la Corte di Giustizia europea il 15 luglio scorso ha condannato l’Italia a pesanti sanzioni per la legge deroga ed è in corso un processo contro il nostro Paese perché questa legge viola la Direttiva Comunitaria “Uccelli”. Ma nonostante questo, la Regione Veneto, che ha tradizionalmente mantiene un canale preferenziale con gli ambienti più retrogradi delle associazioni venatorie, continua imperterrita a riproporre ogni anno il meccanismo della deroga. Solo lo scorso anno, la pesante campagna di ostruzionismo dell’allora consigliere regionale verde Gianfranco Bettin, che depositò oltre 5 chili di emendamenti (più o meno diecimila proposte di modifica), riuscì a bloccare la deroga scatenando le ire dei cacciatori che non a caso cambiarono partito di riferimento: dall’ala ex An del Popolo delle Libertà alla Lega. Ed è proprio la lega infatti che quest’anno si è incaricata di pagare dazio alle doppiette presentando un’altra proposta di legge in deroga per la stagione venatoria che si aprirà a settembre. Il pdl è stato licenziato dalla commissione agricoltura il 20 luglio dove, oltre ai prevedibili voti favorevoli del centrodestra al governo (Lega, Pdl e Udc) ha incassato anche una significativa astensione degli esponenti del partito democratico. Tanto per ricordare agli ambientalisti che non sono loro certo loro l’alternativa a questa destra. Privi di un riferimento verde in consiglio regionale, le associazioni anticaccia hanno deciso di diffidare tutti e sessanta i consigliere regionali a votare a favore di un provvedimento considerato illegittimo e già sanzionato dalla Corte europea. “Bisogna chiedere al Parlamento italiano – ha dichiarato Andrea Zanoni presidente della Lac, lega per l’Abolizione caccia – di approvare una legge con la quale venga previsto che chi paga le spese e le sanzioni europee per la caccia in deroga non siano tutti i cittadini italiani, bensì tutti gli assessori, consiglieri regionali, europarlamentari che hanno approvato queste disposizioni illecite”. Lac, Lav, Enpa, Lipu, Legambiente, Wwf, Anpana, Lida e le altre associazioni contro la caccia hanno lanciato una campagna chiedendo ai sostenitori di farsi sentire in consiglio regionale tempestando di mail, di fax e di telefonate i consiglieri della maggioranza e dell’opposizione per chiedere loro di rispettare, oltre la fauna selvatica, anche la legalità. Il pdl per la caccia in deroga presentato dalla maggioranza di centrodestra andrà ora in consiglio regionale dove nessuno si attende una opposizione neppure di facciata da parte dei democratici.

Hydrogen Park

E’ la prima centrale ad idrogeno del mondo. Produce energia (quasi) pulita, sufficiente al fabbisogno medio di 20 mila famiglie. Sfrutta un ciclo di lavorazione “chiuso” con emissioni (quasi) zero e vorrebbe essere il primo passo importante lungo il difficile cammino per trasformare il petrolchimico in un polo di energie rinnovabili.
L’Hydrogen Park appena inaugurato a Fusina, cuore energetico di Porto Marghera, è nato nel 2003 da una compartecipazione tra Enel, Regione Veneto, ministero dell'Ambiente e associazione industriali di Venezia. L’idea che sta alla base del progetto è quella di utilizzare a fini energetici l’idrogeno di scarto dei cicli di lavorazione dei vicini impianti industriali.
Il gas viene convogliato in una speciale camera di combustione e quindi bruciato per alimentare una turbine produrre energia elettrica. La centrale appena inaugurata ha una potenza di 12 megawatt, sufficienti al fabbisogno energetico medio di 20 mila famiglie circa. La combustione dell’idrogeno, a differenza del carbone, non produce CO2. I fumi di scarico sono costituiti solo da vapore acqueo e da ossidi di azoto. Questi ultimi sono fortemente inquinanti, ma un impianto di filtraggio consente di abbattere le emissioni a livelli accettabili. Teniamo anche conto che una centrale a carbone della stessa potenza scaraventa nell’atmosfera 20 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ecco perché nel caso dell’idrogeno si parla di emissioni (quasi) zero. L’Hydrogen Park è stato progettato per integrare le installazioni industriali già presenti a Marghera. Il vapore ad alta temperatura risultato dalla combustione del gas, inoltre, viene inviato alla vicina centrale a carbone che aumenta così il suo rendimento di circa il 42 per cento, aggiungendo altri 4 megawatt di potenza. Complessivamente il nuovo impianto fornisce quindi una potenza di 16 megawatt. Un risultato soddisfacente che ha fatto spinto il presidente della regione, Luca Zaia, ha ribadire che “Il Veneto non ha bisogno del nucleare. Il nostro fabbisogno è ampiamente soddisfatto dall’energia che produciamo a casa”. Una svolta ambientalista in casa padana? Niente paura. “Rispetto al fabbisogno del Veneto di 30 gigawatt - ha specificato il governatore Veneto - il bilancio energetico della regione è in pareggio con l’avvio del carbone pulito a Porto Tolle”. Zaia non ha risparmiato un’altra stoccata agli ambientalisti che considerano il concetto di “carbone pulito” un perfetto esempio di ossimoro: “L’impianto a idrogeno dimostra che a noi l’età della pietra non ci piace. La politica energetica va programmata, ma noi ci troviamo a combattere quotidianamente con chi non vuole questa programmazione e vorrebbe tornare all’età della pietra”.
Ma è davvero pulita la centrale ad idrogeno di Fusina? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la provenienza dell’idrogeno che finisce nella camera di combustione della centrale. “L’idrogeno non è una fonte energetica rinnovabile ma un vettore di energia – commenta il verde Ezio Da Villa, già assessore provinciale all’ambiente - possiamo parlare di idrogeno pulito solo se questo idrogeno proviene da fonti rinnovabili, come ad esempio dall’acqua attraverso l’idrolisi. Ma non è il caso della centrale di Fusina che è nata per sfruttare il gas derivante dal cracking o dall’impianto, oggi chiuso, del cloro soda. Come facciamo a parlare di energia pulita quando l’idrogeno bruciato proviene dalla chimica pesante e da lavorazioni altamente inquinanti?”

Voglie di cemento al Lido

Venezia è storicamente un’isola schierata a sinistra in una regione fortemente schierata a destra. Ma nella laguna c’è anche un’altra isola che marcia in senso contrario. Parliamo del Lido, undici chilometri di terra, sabbia e “murazzi” che separano la laguna dal mare. Il Lido delle spiagge, degli alberghi e della mostra del Cinema. Oggi l’isola rischia di diventare un ennesimo paradiso della speculazione edilizia sottocosta. Un trend, già avviato ai tempi della giunta di Massimo Cacciari che in più occasioni si era scontrata con la municipalità del Lido votata al popolo della libertà. Con la riconferma di una coalizione di destra alla guida dell’Isola d’Oro, come la chiamano i suoi isolani, i pericoli di una deriva amministrativa del tutto subordinata agli interessi speculativi urbanistici sono sempre più marcati.

Per contrastare la cementificazione e l’alberghizzazione del Lido si è costituito un comitato trasversale la cui prima uscita ufficiale sarà domani, mercoledì 14 luglio, alle ore 21, nella sala della municipalità lidense con un incontro pubblico al quale parteciperanno l’assessore comunale all’ambiente, Gianfranco Bettin, l’urbanista Roberto d’Agostino e il coordinatore delle associazioni ambientaliste dell’isola, Bruno Amendola.
Il punto focale attorno al quale ruotano gli interessi speculativi dell’isola è il commissariamento dei lavori per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema. Ennesima grande opera della quale ben pochi in laguna avvertivano la necessità. Fatto sta che, con la scusa che il palazzone doveva essere assolutamente inaugurato nel giugno 2011 in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia – appuntamento che col cinema centra comunque ben poco – il Governo la imposto un Commissario governativo della Protezione Civile, Vincenzo Spaziante. L’obiettivo è sempre quello: velocizzare le pratiche, snellire i burocraticismi, eccetera eccetera. Poco alla volta, con l’incoraggiamento della Regione Veneto e con i democratici di Venezia che si guardano bene dal provare a contrastarlo, il commissario finisce per mangiarsi tutto il Lido e le isole adiacenti: prima viene incaricato a pieni poteri di sovrintendere al rilancio di tutta l’isola, poi gli viene dato mandato di rilanciare il parco della vicina isola della Certosa. Il commissario ha quindi il potere, su mandato del Governo centrale (la Roma ladrona dei leghisti) di decidere cosa, dove, quanto e come edificare, alla faccia del Comune e del piano regolatore, senza dover rispettare normative urbanistiche ed edilizie, pareri e visti della Commissione di Salvaguardia.
Il commissariamento dell’isola avviene in concomitanza con l’acquisizione di vari immobili e aree da parte di una grande finanziaria, la Est Capital che subito compra i due più grandi alberghi storici del Lido, l’Excelsior e il Des Bains. Su quest’ultimo sono già in corso i lavori per trasformarlo in Residence lusso. Quindi la Est Capital acquisisce l’area dell’ex Ospedale al Mare e il forte di Malamocco. Aree verdi che diventano improvvisamente edificabili. Non c’è nessun obbligo di rispettare parchi, costruzioni storiche e di pregio architettonico, luoghi di interesse artistico e ambientale. Tutto sotto la betoniera per far spazio ad alberghi, villette, condomini, piscine e centri commerciali.
Questa gigantesca operazione immobiliare viene promossa dal commissario governativo e avallata senza una voce di critica dalla Conferenza dei Servizi e dalla stessa Sovrintendente ai Beni artistici e ambientali. Eppure i progetti prevedono edifici di venti metri e passa, di devastante impatto paesaggistico e ambientale. Per non parlare dei “villini di lusso” all’interno del Forte di Malamocco che ne offendono la sua dignità storica. Quel che è peggio, è che tutta l’operazione viene decisa tenendo all’oscuro gli abitanti del Lido che avranno anche votato per il centrodestra ma che, ci auguriamo, non intendevano con questo dare una delega in bianco a Spaziante per far piazza pulita della loro isola a vantaggio di cementificatori e speculatori. E in cambio di che cosa poi? Di un nuovo palazzo del cinema? Macché! Per quello bisognerà aspettare il 200esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Spaziante ha già dichiarato che, per varie e ineludibili contingenze, sarà impossibile rispettare i tempi previsti. Basta fare un salto al cantiere del nuovo palazzone per costatare che non ci lavora più nessuno da mesi. Che cosa ha fatto allora il nostro commissario della protezione civile in tutto questo tempo? Ha raso al suolo una indimenticabile pineta che era là dal tempo dei dogi, ha devastare un giardino storico tutelato dal Palav, ha distrutto la storica scalinata del Casinò e cementato un bel po’ di aree verdi come quelle che sorgevano in via Selva e nella "curva della morte" a Malamocco. Nessuno, nessuno può accusarlo di non essersi dato da fare.

La cultura ed i parcheggi sotto il balcone di Giulietta

Di che pasta fosse fatto Flavio Tosi, primo cittadino di Verona, lo si era capito una settimana dopo la sua elezione, quando aveva nominato di suo pugno, alla presidenza dell’associazione per gli studi sulla Resistenza, un esponente di Forza Nuova. E se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è neppure da stupirsi più di tanto del macello che la sua amministrazione sta facendo del patrimonio museale della città di Romeo e Giulietta.

Casomai c’è solo da vergognarsi a vedere che certe svendite di palazzi pubblici a prezzi stracciati, certe collezioni scientifiche di valore mondiale ammassate a marcire negli scantinati, destino più scandalo nei giornali d’oltralpe che nei quotidiani locali. Per non parlare della rassegnazione con la quale la cittadinanza – partiti di opposizione compresi – accetta la situazione e china il capo di fronte ad un sindaco che sbotta “Meglio fare un parcheggio che conservare quattro sassi» con lo stesso tono con il quale nel Ventennio si argomentava con un bel “Me ne frego” e contorno di manganellate. Cosa che per altro i suoi vigili hanno fatto in più di una occasione contro rom, senza casa e altri disgraziati. Ma andiamo con ordine e cominciamo a vedere quali sono i “quattro sassi” che tanto stanno sulle scatole al sindaco Tosi. Non serve essere archeologi per aver sentito perlomeno accennare ai ritrovamenti di fossili nei monti Lessini dove hanno vissuto sino a 33 mila anni fa gli ultimi uomini di neandertal. Istituti di ricerca prestigiosi come il Weizmann Institute di Gerusalemme e il Max Planck Institute di Liepzig, analizzando il Dna di alcuni frammenti di questi fossili hanno dimostrato come i neandertaliani avessero gli occhi azzurri e i capelli rossi (ben diversi da quella sorta di “scimmioni” dipinti in tanti tasti scolastici) e nello stesso tempo hanno escluso ogni parentela con il sapiens moderno, che pure, 33 mila anni era già diventata la specie dominante. La scoperta si è meritata, tra l’altro, anche la copertina di un numero della celebre rivista Science. Questi sarebbero i “quattro sassi” di Tosi. Ma no è tutto: bisogna aggiungere anche le selci preistoriche scavate nelle cave più antiche d’Europa, i ritrovamenti nel villaggio palafitticolo sul Garda, probabilmente il più conosciuto a livello mondiale, i resti della galea di Lasize, l’unica “nave lunga” (cioè da guerra) veneziana, sino ad ora scoperta, che hanno scritto la storia dell’archeosub e dell’archeologia navale. E ci fermiamo qua, anche se ci sarebbe da ricordare perlomeno i bronzi della necropoli preistorica di Franzine Nuove. Questi “quattro sassi” che non valgono un bel parcheggio, facevano parte del museo civico di storia naturale di Verona. Museo che da 13 anni non ha neppure un direttore. Tanto per capire il peso che ha la cultura nella città scaligera. Le collezioni sino a poco tempo fa, erano ammassate tra palazzo Gobetti e palazzo Pompei, prima in quattro stanze e poi, siccome quattro parevano troppe, in un solo stanzone. Sistemazione indecorosa ma perlomeno sufficiente a salvaguardare i reperti. Ed è qui che entra in scena Flavio Tosi. L’idea di partenza, va detto, non sarebbe neppure malvagia. Ristrutturare il vecchio Arsenale militare e trasferire là i “quattro sassi”. Il problema è che il progetto di ristrutturazione – l’amministrazione di Verona fa le cose in grande – chiesto ad un architetto di fama mondiale, costa una vagonata di milioni. Dove trovare i soldi? Ed è qui che entra in scena il federalismo demaniale. Come dire: quando pensi di aver toccato il fondo, comincia a scavare. L’amministrazione decide di mettere in vendita i gioielli di casa tra cui i palazzi Gobetti e Pompei. Il museo chiude quindi i battenti e i “quattro sassi” vengono impacchettati alla bell’è meglio e spediti a marcire nei sotterranei dell’Arsenale, dove sono tutt’ora e dove resteranno per un pezzo. Con i due palazzi storici, vanno all’asta anche Castel San Pietro, palazzo Forti, l’ex convento di San Domenico. Le banche veronesi ringraziano il loro sindaco. Per le svendite, ma soprattutto per la delibera che le accompagna e che consente agli acquirenti, testuale, “la più ampia possibilità di utilizzo”. In pratica, potranno sventrare il palazzo storico per farci un Mac Donald, un outlet di lusso o un’altra casa di Giulietta in stile Disneyland. Ma anche per il prezzo le banche ringraziano. Per far cassa “tutto e subito” nel più puro stile “federalismo demaniale”, in sede d’asta i prezzi sono stati abbattuti al limite del regalo. Per palazzo Forti, la Cariverona ha tirato fuori 33 milioni invece dei 65 richiesti. Per palazzo Gobetti, i 10 milioni di partenza sono scesi a poco più di 6. Neanche al mercato delle pulci ti scontano con queste percentuali. Alla fine dell’asta, tirando due conti della serva, Verona non ha messo in cassa neppure un quarto di quei 115 milioni ipotizzati. Beh, qualcuno osserverà, perlomeno sistemeranno parte delle collezioni del museo! Buonanotte. Il sindaco Tosi l’ha già spiegato che preferisce un bel parcheggio di cemento a quei quattro sassi che, tra l’altro si sono già rovinati a stare in una insalubre cantina. Già. Perché le selci preistoriche, per uno strano fenomeno che non ha ancora trovato spiegazione, sono diventate tutte di colore blu. Cosa ne faranno allora dei soldi ricavati con questi affaroni da “3 x 2”? Parcheggi a parte, un milione se ne è già andato in un paio di rotatorie. Un altro milione e 100 mila euro è stato regalato ad una società sportiva che al sindaco Tosi evidentemente rievoca vecchi furori di giovinezza: l’Audace.

La Goletta sulla coste venete

Abusivismo edilizio, pesca non sostenibile, depuratori (che non ci sono e che quando ci sono non funzionano), scarichi fognari insufficienti e persistente inquinamento da idrocarburi. La fotografia dello stato delle coste venete scattata da Legambiente è impietosa. L’associazione ambientalista è approdata in laguna con la sua celebre goletta per lanciare la campagna Mare Monstrum e “dare i numeri” della qualità ambientale di quello che un tempo i latini avevano battezzato Mare Nostrum.
Le cattive notizie per il mare veneto – ha spiegato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - viaggiano lungo i corsi dei fiumi e arrivano dalle foci dei corsi d’acqua, che rappresentano tre dei cinque punti critici rilevati dall’imbarcazione ambientalista. Fortemente inquinate le foce dell’Adige, del Livenza e del Lemene, dove arriva il canale in cui scarica il depuratore. Gravemente contaminati anche i punti campionati nei comuni di San Michele al Tagliamento e Venezia, nelle località Bibione e Campalto, a valle dei rispettivi depuratori.
Il primo nemico del nostro mare sono gli scarichi non depurati o insufficientemente depurati.
All’incirca soltanto il 78% della rete fognaria risulta coperto da impianti di depurazione. Il che significa che oltre un milione di residenti del Veneto (in particolare nel trevigiano) rimane escluso dal servizio di decontaminazione delle acque reflue. Questa è la principale causa della forte contaminazione microbiologica rilevata nella acque marine venete dove la Goletta Verde ha rilevato una concentrazione di inquinamento microbiologico ben oltre i limiti di legge anche tenendo conto delle nuove normative in materia di balneazione, molto più permissive delle precedenti varate dal Governo con decreto legge.
Ma il pericolo, ha sottolineato l’indagine di Legambiente, non proviene solo dai batteri. Cemento selvaggio, speculazioni edilizie e consumo scriteriato del suolo sono il pericolo numero uno delle nostre coste. Un esempio per tutti, lo sfacelo che si sta consumando al Lido di Venezia. “La zona dell’ex Ospedale al Mare e il parco della Favorita – ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Venezia - si stanno trasformando in una ghiotta occasione per il ‘partito del cemento’. L’area, già venduta dal Comune di Venezia per 81 milioni di euro, somma destinata a finanziare il nuovo Palazzo del Cinema, è stata acquistata da Est Capital Sgr, finanziaria padovana presieduta da Gianfranco Mossetto, per realizzare un grande centro residenziale con case di lusso, albergo, centri commerciali, negozi, piscina e parcheggi sotterranei. Peccato che la delibera del consiglio comunale prevedesse solo ‘un’edificazione massima di due edifici di altezza di 9,50 e 12,50 metri, su una porzione corrispondente a un quarto dell’area interessata, riservando la restante superficie a verde sportivo’, mentre il progetto di Est Capital prevede un piano di edificazione residenziale costituito da una trentina di ville da circa 200 metri cubi ciascuna, accanto alle quali dovrebbero svettare anche tre torri alte 20 metri. Cubature che finirebbero per coprire per intero l’area della Favorita”. In sostanza, siamo di fronte alla volontà di fare piazza pulita del parco della Favorita e di edificare una zona oggi ben conservata del litorale del Lido. La solita operazione di lottizzazione edilizia spacciata come intervento di riqualificazione.
“Terremo nella massima considerazione i dati raccolti e presentati da Goletta Verde di Legambiente – ha commentato l'assessore comunale all'Ambiente, Gianfranco Bettin - specialmente i dati relativi alla situazione di stress del mare Adriatico e, in generale, alle ferite subite dal territorio e dall’ambiente nella nostra realtà. Per quanto riguarda la situazione nel Comune di Venezia, troviamo confermate le nostre preoccupazioni per l’arrivo in laguna di inquinanti attraverso i corsi d’acqua dovuto alla mancata depurazione di acque che, dall’entroterra giungono in laguna. L’altro aspetto critico riguardante l’impatto del grande investimento immobiliare di Est Capital al Lido, che molto preoccupa l’associazione ambientalista. L’attuale amministrazione è, fin dal primo giorno, impegnata nel confronto con i promotori dell’intervento e con il commissario straordinario Spaziante, per verificare il reale impatto del progetto e i margini tuttora esperibili per ridurne l’impatto ambientale”.

Venezia United. Una squadra per tutte le stagioni

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La notizia non è esattamente una di quelle che ogni giorno vengono sparate nelle prime pagine dei quotidiani nazionali. Al massimo si guadagna un paio di colonne nei quotidiani locali, incastrate tra una pubblicità e l’altra, nell’ultima pagina di cronaca della città. Neppure l’onore di una apertura nelle pagine dello sport, pur se di calcio stiamo parlando, che continuano a puntare i riflettori sulla figuraccia mondiale della nostra nazionale e a invidiare le prodezze di Villa e Klose. Niente da eccepire: il destino di una squadra sprofondata in serie D, pur se dal glorioso passato come il Venezia, non ha certo la stessa rilevanza giornalistica della prossima maglia di Balotelli o degli acquisti stellari di Milan e Juve.


Eppure anche questo è calcio. Anzi, potremmo dire che proprio questo è il calcio. Il calcio che ci piace, lontano da scandali, veline, sponsorizzazioni miliardarie e capitali di dubbia provenienza. Utopie? Può darsi. Ma “fioi, ghea podemo far!” Ragazzi, ce la possiamo fare! Più un incoraggiamento che uno slogan, questo che capeggiava sopra lo striscione appeso, mercoledì 30 giugno al Palaplip di Mestre, durante l’assemblea costitutiva di Venezia United. Di che si tratta? Venezia United è una neonata associazione con lo scopo di creare una “public company” che affianchi gli attuali proprietari della squadra del Venezia. In pratica, Venezia United ha lanciato un’operazione di azionariato popolare per trasformare i tifosi da semplici spettatori a proprietari della loro squadra del cuore. Nel Belpaese, dove il calcio si misura col metro dei milioni di euro, pare quasi di bestemmiare a raccontare di impiegati, operai, casalinghe, studenti, commercianti e gondolieri (siamo pur sempre a Venezia) che si costituiscono in società per comperarsi la loro squadra. Eppure oltralpe, dove l’azionariato popolare ha ben altra tradizione, il fenomeno è consolidato e vanta precedenti illustri come, tanto per portare un paio di beneauguranti esempi, Barcellona e l'F. C. United of Manchester.
Il Football Club Unione Venezia – così si chiama la squadra di casa reduce da una lunga ed ininterrotta serie di fallimenti e retrocessioni che l’hanno vista sprofondare dalla serie B al campionato dilettante – sta per diventare il primo, e sino ad ora anche unico, club italiano a partecipazione pubblica. Non a caso, a tenere a battesimo la nuova associazione, costituita da tanti tifosi storici arancioneroverdi, è stato il Comune di Venezia con il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore allo sport Andrea Ferrazzi che hanno garantito il costante impegno dell’amministrazione ad accompagnare Venezia United su questo difficile percorso.
Per “far parte di un sogno” e diventare “proprietario del tuo club”, come si legge nei depliant distribuiti dalla nuova public company, è sufficiente acquistare una azione da 10 euro o da 50 (quota sostenitore). Per le aziende è prevista una “partnership for business” di 500 euro o più con rilascio di regolare fattura e relativa deducibilità fiscale. Il primo obiettivo è di associare 3 mila persone e raccogliere 300 mila euro da investire nell’aumento del capitale sociale del Fbc Unione Venezia. “All’interno dell’associazione ogni socio avrà diritto ad un voto, indipendentemente dal numero di azioni in suo possesso – spiega Franco Vianello Moro, eletto presidente pressoché all’unanimità dall’assemblea costituente-. Venezia United è una associazione aperta a tutti e vuole rispondere in maniera positiva alla crisi generalizzata del calcio. C’è tanto da lavorare, ma la grande e qualificata partecipazione della cittadinanza alla fase propedeutica di questa iniziativa, ci stimola e conforta. Il sostegno e la partecipazione della gente aiuterà ad aprire un processo virtuoso di cui si sente tanto il bisogno in questo calcio prefallimentare o fallito".

Veneto record. Di evasori fiscali

Vi siete mai chiesti da dove tragga combustibile la decantata “locomotiva veneta”? Una risposta potrebbe essere quella che ha dato la Guardia di Finanza qualche giorno fa, quando ha celebrato il suo 236esimo anniversario: dall’evasione fiscale.
Perché, se è vero che la pressione fiscale nel nordest è più elevata che in altre regioni d’Italia (in media un veneto versa allo Stato 9 mila 500 euro all’anno contro i 5 mila e 200 della Puglia e i 4mila e 900 dei calabresi, tanto per citare due regioni in fondo alla classifica dei contribuenti), è anche vero che il record degli evasori totali è tutto nostro. Ed è pure un fenomeno in forte crescita, considerando che nei soli primi cinque mesi di quest’anno, i finanzieri ne hanno scoperto e denunciato ben 338 “furbetti”, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. Ha un bel dire il neo governatore Luca Zaia che “nel Veneto l’illegalità fiscale è davvero una realtà molto piccola”. I dati lo smentiscono alla grande. La Guardia di Finanza ha documentato nel laborioso e onesto Veneto, una evasione totale all’Iva di 270 milioni di euro e una mancata dichiarazione di reddito di circa un miliardo e trecento milioni. Le frodi fiscali con fatturazioni false sono state, parliamo sempre dello scorso anno, 411. E anche questo è una percentuale in aumento: 22% in più rispetto all’anno precedente. Un dato sorprendente è quello che riguarda le contraffazioni: le indagini della Guardia di Finanza nel Veneto hanno portato al sequestro di ben 5 milioni di euro di mercanzia. Per dirla in percentuale, il 10% dei sequestri operati in Italia sono “cosa nostra”.
Insomma, evadere il fisco rimane lo sport preferito dei nostri imprenditori. E, considerato che viviamo in un mondo “globalizzato”, pure le evasioni fiscali sono state “globalizzate”: oltre 231 milioni di euro sono stati sottratti alla tassazione internazionale per finire in uno dei tanti paradisi fiscali. Un modo come un altro per esportare il “Made in Veneto” in tutto il mondo!
Ma il dato più inquietante portato allo scoperto dalle indagini della guardia di finanza, riguarda il fenomeno del lavoro nero. Lo sfruttamento, in particolare di categorie deboli e scarsamente sindacalizzate come donne e migranti, ha come conseguenza anche il mancato versamento da parte dell’imprenditore di tasse e contributi vari allo Stato (oltre che al lavoratore sfruttato). Sotto questa lente, le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato allo denuncia di 839 casi di persone costrette a lavoratore completamente in nero e di 372 lavoratori irregolari. Un dato sicuramente sottostimato, a detta della stessa Guardia di Finanza, perché non tiene conto di tutti quei migranti che si sono macchiati del “reato di clandestinità” e sono al di là di qualsiasi controllo, oltre che tutela. Anche questa, una conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione. "Il compito della polizia economica nel nordest - ha spiegato il generale della Guardia di Finanza Pasquale Debidda - è quello di assicurare le condizioni ideali del mercato garantendo una equità fiscale”. Garantire anche una equità sociale non è compito delle Fiamme Gialle. Ma farebbe comunque bene ad un mercato che non sia solo sfruttamento del lavoro e delle risorse comuni.
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