In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Hydrogen Park

E’ la prima centrale ad idrogeno del mondo. Produce energia (quasi) pulita, sufficiente al fabbisogno medio di 20 mila famiglie. Sfrutta un ciclo di lavorazione “chiuso” con emissioni (quasi) zero e vorrebbe essere il primo passo importante lungo il difficile cammino per trasformare il petrolchimico in un polo di energie rinnovabili.
L’Hydrogen Park appena inaugurato a Fusina, cuore energetico di Porto Marghera, è nato nel 2003 da una compartecipazione tra Enel, Regione Veneto, ministero dell'Ambiente e associazione industriali di Venezia. L’idea che sta alla base del progetto è quella di utilizzare a fini energetici l’idrogeno di scarto dei cicli di lavorazione dei vicini impianti industriali.
Il gas viene convogliato in una speciale camera di combustione e quindi bruciato per alimentare una turbine produrre energia elettrica. La centrale appena inaugurata ha una potenza di 12 megawatt, sufficienti al fabbisogno energetico medio di 20 mila famiglie circa. La combustione dell’idrogeno, a differenza del carbone, non produce CO2. I fumi di scarico sono costituiti solo da vapore acqueo e da ossidi di azoto. Questi ultimi sono fortemente inquinanti, ma un impianto di filtraggio consente di abbattere le emissioni a livelli accettabili. Teniamo anche conto che una centrale a carbone della stessa potenza scaraventa nell’atmosfera 20 mila tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ecco perché nel caso dell’idrogeno si parla di emissioni (quasi) zero. L’Hydrogen Park è stato progettato per integrare le installazioni industriali già presenti a Marghera. Il vapore ad alta temperatura risultato dalla combustione del gas, inoltre, viene inviato alla vicina centrale a carbone che aumenta così il suo rendimento di circa il 42 per cento, aggiungendo altri 4 megawatt di potenza. Complessivamente il nuovo impianto fornisce quindi una potenza di 16 megawatt. Un risultato soddisfacente che ha fatto spinto il presidente della regione, Luca Zaia, ha ribadire che “Il Veneto non ha bisogno del nucleare. Il nostro fabbisogno è ampiamente soddisfatto dall’energia che produciamo a casa”. Una svolta ambientalista in casa padana? Niente paura. “Rispetto al fabbisogno del Veneto di 30 gigawatt - ha specificato il governatore Veneto - il bilancio energetico della regione è in pareggio con l’avvio del carbone pulito a Porto Tolle”. Zaia non ha risparmiato un’altra stoccata agli ambientalisti che considerano il concetto di “carbone pulito” un perfetto esempio di ossimoro: “L’impianto a idrogeno dimostra che a noi l’età della pietra non ci piace. La politica energetica va programmata, ma noi ci troviamo a combattere quotidianamente con chi non vuole questa programmazione e vorrebbe tornare all’età della pietra”.
Ma è davvero pulita la centrale ad idrogeno di Fusina? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la provenienza dell’idrogeno che finisce nella camera di combustione della centrale. “L’idrogeno non è una fonte energetica rinnovabile ma un vettore di energia – commenta il verde Ezio Da Villa, già assessore provinciale all’ambiente - possiamo parlare di idrogeno pulito solo se questo idrogeno proviene da fonti rinnovabili, come ad esempio dall’acqua attraverso l’idrolisi. Ma non è il caso della centrale di Fusina che è nata per sfruttare il gas derivante dal cracking o dall’impianto, oggi chiuso, del cloro soda. Come facciamo a parlare di energia pulita quando l’idrogeno bruciato proviene dalla chimica pesante e da lavorazioni altamente inquinanti?”

Voglie di cemento al Lido

Venezia è storicamente un’isola schierata a sinistra in una regione fortemente schierata a destra. Ma nella laguna c’è anche un’altra isola che marcia in senso contrario. Parliamo del Lido, undici chilometri di terra, sabbia e “murazzi” che separano la laguna dal mare. Il Lido delle spiagge, degli alberghi e della mostra del Cinema. Oggi l’isola rischia di diventare un ennesimo paradiso della speculazione edilizia sottocosta. Un trend, già avviato ai tempi della giunta di Massimo Cacciari che in più occasioni si era scontrata con la municipalità del Lido votata al popolo della libertà. Con la riconferma di una coalizione di destra alla guida dell’Isola d’Oro, come la chiamano i suoi isolani, i pericoli di una deriva amministrativa del tutto subordinata agli interessi speculativi urbanistici sono sempre più marcati.

Per contrastare la cementificazione e l’alberghizzazione del Lido si è costituito un comitato trasversale la cui prima uscita ufficiale sarà domani, mercoledì 14 luglio, alle ore 21, nella sala della municipalità lidense con un incontro pubblico al quale parteciperanno l’assessore comunale all’ambiente, Gianfranco Bettin, l’urbanista Roberto d’Agostino e il coordinatore delle associazioni ambientaliste dell’isola, Bruno Amendola.
Il punto focale attorno al quale ruotano gli interessi speculativi dell’isola è il commissariamento dei lavori per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema. Ennesima grande opera della quale ben pochi in laguna avvertivano la necessità. Fatto sta che, con la scusa che il palazzone doveva essere assolutamente inaugurato nel giugno 2011 in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia – appuntamento che col cinema centra comunque ben poco – il Governo la imposto un Commissario governativo della Protezione Civile, Vincenzo Spaziante. L’obiettivo è sempre quello: velocizzare le pratiche, snellire i burocraticismi, eccetera eccetera. Poco alla volta, con l’incoraggiamento della Regione Veneto e con i democratici di Venezia che si guardano bene dal provare a contrastarlo, il commissario finisce per mangiarsi tutto il Lido e le isole adiacenti: prima viene incaricato a pieni poteri di sovrintendere al rilancio di tutta l’isola, poi gli viene dato mandato di rilanciare il parco della vicina isola della Certosa. Il commissario ha quindi il potere, su mandato del Governo centrale (la Roma ladrona dei leghisti) di decidere cosa, dove, quanto e come edificare, alla faccia del Comune e del piano regolatore, senza dover rispettare normative urbanistiche ed edilizie, pareri e visti della Commissione di Salvaguardia.
Il commissariamento dell’isola avviene in concomitanza con l’acquisizione di vari immobili e aree da parte di una grande finanziaria, la Est Capital che subito compra i due più grandi alberghi storici del Lido, l’Excelsior e il Des Bains. Su quest’ultimo sono già in corso i lavori per trasformarlo in Residence lusso. Quindi la Est Capital acquisisce l’area dell’ex Ospedale al Mare e il forte di Malamocco. Aree verdi che diventano improvvisamente edificabili. Non c’è nessun obbligo di rispettare parchi, costruzioni storiche e di pregio architettonico, luoghi di interesse artistico e ambientale. Tutto sotto la betoniera per far spazio ad alberghi, villette, condomini, piscine e centri commerciali.
Questa gigantesca operazione immobiliare viene promossa dal commissario governativo e avallata senza una voce di critica dalla Conferenza dei Servizi e dalla stessa Sovrintendente ai Beni artistici e ambientali. Eppure i progetti prevedono edifici di venti metri e passa, di devastante impatto paesaggistico e ambientale. Per non parlare dei “villini di lusso” all’interno del Forte di Malamocco che ne offendono la sua dignità storica. Quel che è peggio, è che tutta l’operazione viene decisa tenendo all’oscuro gli abitanti del Lido che avranno anche votato per il centrodestra ma che, ci auguriamo, non intendevano con questo dare una delega in bianco a Spaziante per far piazza pulita della loro isola a vantaggio di cementificatori e speculatori. E in cambio di che cosa poi? Di un nuovo palazzo del cinema? Macché! Per quello bisognerà aspettare il 200esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Spaziante ha già dichiarato che, per varie e ineludibili contingenze, sarà impossibile rispettare i tempi previsti. Basta fare un salto al cantiere del nuovo palazzone per costatare che non ci lavora più nessuno da mesi. Che cosa ha fatto allora il nostro commissario della protezione civile in tutto questo tempo? Ha raso al suolo una indimenticabile pineta che era là dal tempo dei dogi, ha devastare un giardino storico tutelato dal Palav, ha distrutto la storica scalinata del Casinò e cementato un bel po’ di aree verdi come quelle che sorgevano in via Selva e nella "curva della morte" a Malamocco. Nessuno, nessuno può accusarlo di non essersi dato da fare.

La cultura ed i parcheggi sotto il balcone di Giulietta

Di che pasta fosse fatto Flavio Tosi, primo cittadino di Verona, lo si era capito una settimana dopo la sua elezione, quando aveva nominato di suo pugno, alla presidenza dell’associazione per gli studi sulla Resistenza, un esponente di Forza Nuova. E se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è neppure da stupirsi più di tanto del macello che la sua amministrazione sta facendo del patrimonio museale della città di Romeo e Giulietta.

Casomai c’è solo da vergognarsi a vedere che certe svendite di palazzi pubblici a prezzi stracciati, certe collezioni scientifiche di valore mondiale ammassate a marcire negli scantinati, destino più scandalo nei giornali d’oltralpe che nei quotidiani locali. Per non parlare della rassegnazione con la quale la cittadinanza – partiti di opposizione compresi – accetta la situazione e china il capo di fronte ad un sindaco che sbotta “Meglio fare un parcheggio che conservare quattro sassi» con lo stesso tono con il quale nel Ventennio si argomentava con un bel “Me ne frego” e contorno di manganellate. Cosa che per altro i suoi vigili hanno fatto in più di una occasione contro rom, senza casa e altri disgraziati. Ma andiamo con ordine e cominciamo a vedere quali sono i “quattro sassi” che tanto stanno sulle scatole al sindaco Tosi. Non serve essere archeologi per aver sentito perlomeno accennare ai ritrovamenti di fossili nei monti Lessini dove hanno vissuto sino a 33 mila anni fa gli ultimi uomini di neandertal. Istituti di ricerca prestigiosi come il Weizmann Institute di Gerusalemme e il Max Planck Institute di Liepzig, analizzando il Dna di alcuni frammenti di questi fossili hanno dimostrato come i neandertaliani avessero gli occhi azzurri e i capelli rossi (ben diversi da quella sorta di “scimmioni” dipinti in tanti tasti scolastici) e nello stesso tempo hanno escluso ogni parentela con il sapiens moderno, che pure, 33 mila anni era già diventata la specie dominante. La scoperta si è meritata, tra l’altro, anche la copertina di un numero della celebre rivista Science. Questi sarebbero i “quattro sassi” di Tosi. Ma no è tutto: bisogna aggiungere anche le selci preistoriche scavate nelle cave più antiche d’Europa, i ritrovamenti nel villaggio palafitticolo sul Garda, probabilmente il più conosciuto a livello mondiale, i resti della galea di Lasize, l’unica “nave lunga” (cioè da guerra) veneziana, sino ad ora scoperta, che hanno scritto la storia dell’archeosub e dell’archeologia navale. E ci fermiamo qua, anche se ci sarebbe da ricordare perlomeno i bronzi della necropoli preistorica di Franzine Nuove. Questi “quattro sassi” che non valgono un bel parcheggio, facevano parte del museo civico di storia naturale di Verona. Museo che da 13 anni non ha neppure un direttore. Tanto per capire il peso che ha la cultura nella città scaligera. Le collezioni sino a poco tempo fa, erano ammassate tra palazzo Gobetti e palazzo Pompei, prima in quattro stanze e poi, siccome quattro parevano troppe, in un solo stanzone. Sistemazione indecorosa ma perlomeno sufficiente a salvaguardare i reperti. Ed è qui che entra in scena Flavio Tosi. L’idea di partenza, va detto, non sarebbe neppure malvagia. Ristrutturare il vecchio Arsenale militare e trasferire là i “quattro sassi”. Il problema è che il progetto di ristrutturazione – l’amministrazione di Verona fa le cose in grande – chiesto ad un architetto di fama mondiale, costa una vagonata di milioni. Dove trovare i soldi? Ed è qui che entra in scena il federalismo demaniale. Come dire: quando pensi di aver toccato il fondo, comincia a scavare. L’amministrazione decide di mettere in vendita i gioielli di casa tra cui i palazzi Gobetti e Pompei. Il museo chiude quindi i battenti e i “quattro sassi” vengono impacchettati alla bell’è meglio e spediti a marcire nei sotterranei dell’Arsenale, dove sono tutt’ora e dove resteranno per un pezzo. Con i due palazzi storici, vanno all’asta anche Castel San Pietro, palazzo Forti, l’ex convento di San Domenico. Le banche veronesi ringraziano il loro sindaco. Per le svendite, ma soprattutto per la delibera che le accompagna e che consente agli acquirenti, testuale, “la più ampia possibilità di utilizzo”. In pratica, potranno sventrare il palazzo storico per farci un Mac Donald, un outlet di lusso o un’altra casa di Giulietta in stile Disneyland. Ma anche per il prezzo le banche ringraziano. Per far cassa “tutto e subito” nel più puro stile “federalismo demaniale”, in sede d’asta i prezzi sono stati abbattuti al limite del regalo. Per palazzo Forti, la Cariverona ha tirato fuori 33 milioni invece dei 65 richiesti. Per palazzo Gobetti, i 10 milioni di partenza sono scesi a poco più di 6. Neanche al mercato delle pulci ti scontano con queste percentuali. Alla fine dell’asta, tirando due conti della serva, Verona non ha messo in cassa neppure un quarto di quei 115 milioni ipotizzati. Beh, qualcuno osserverà, perlomeno sistemeranno parte delle collezioni del museo! Buonanotte. Il sindaco Tosi l’ha già spiegato che preferisce un bel parcheggio di cemento a quei quattro sassi che, tra l’altro si sono già rovinati a stare in una insalubre cantina. Già. Perché le selci preistoriche, per uno strano fenomeno che non ha ancora trovato spiegazione, sono diventate tutte di colore blu. Cosa ne faranno allora dei soldi ricavati con questi affaroni da “3 x 2”? Parcheggi a parte, un milione se ne è già andato in un paio di rotatorie. Un altro milione e 100 mila euro è stato regalato ad una società sportiva che al sindaco Tosi evidentemente rievoca vecchi furori di giovinezza: l’Audace.

La Goletta sulla coste venete

Abusivismo edilizio, pesca non sostenibile, depuratori (che non ci sono e che quando ci sono non funzionano), scarichi fognari insufficienti e persistente inquinamento da idrocarburi. La fotografia dello stato delle coste venete scattata da Legambiente è impietosa. L’associazione ambientalista è approdata in laguna con la sua celebre goletta per lanciare la campagna Mare Monstrum e “dare i numeri” della qualità ambientale di quello che un tempo i latini avevano battezzato Mare Nostrum.
Le cattive notizie per il mare veneto – ha spiegato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - viaggiano lungo i corsi dei fiumi e arrivano dalle foci dei corsi d’acqua, che rappresentano tre dei cinque punti critici rilevati dall’imbarcazione ambientalista. Fortemente inquinate le foce dell’Adige, del Livenza e del Lemene, dove arriva il canale in cui scarica il depuratore. Gravemente contaminati anche i punti campionati nei comuni di San Michele al Tagliamento e Venezia, nelle località Bibione e Campalto, a valle dei rispettivi depuratori.
Il primo nemico del nostro mare sono gli scarichi non depurati o insufficientemente depurati.
All’incirca soltanto il 78% della rete fognaria risulta coperto da impianti di depurazione. Il che significa che oltre un milione di residenti del Veneto (in particolare nel trevigiano) rimane escluso dal servizio di decontaminazione delle acque reflue. Questa è la principale causa della forte contaminazione microbiologica rilevata nella acque marine venete dove la Goletta Verde ha rilevato una concentrazione di inquinamento microbiologico ben oltre i limiti di legge anche tenendo conto delle nuove normative in materia di balneazione, molto più permissive delle precedenti varate dal Governo con decreto legge.
Ma il pericolo, ha sottolineato l’indagine di Legambiente, non proviene solo dai batteri. Cemento selvaggio, speculazioni edilizie e consumo scriteriato del suolo sono il pericolo numero uno delle nostre coste. Un esempio per tutti, lo sfacelo che si sta consumando al Lido di Venezia. “La zona dell’ex Ospedale al Mare e il parco della Favorita – ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Venezia - si stanno trasformando in una ghiotta occasione per il ‘partito del cemento’. L’area, già venduta dal Comune di Venezia per 81 milioni di euro, somma destinata a finanziare il nuovo Palazzo del Cinema, è stata acquistata da Est Capital Sgr, finanziaria padovana presieduta da Gianfranco Mossetto, per realizzare un grande centro residenziale con case di lusso, albergo, centri commerciali, negozi, piscina e parcheggi sotterranei. Peccato che la delibera del consiglio comunale prevedesse solo ‘un’edificazione massima di due edifici di altezza di 9,50 e 12,50 metri, su una porzione corrispondente a un quarto dell’area interessata, riservando la restante superficie a verde sportivo’, mentre il progetto di Est Capital prevede un piano di edificazione residenziale costituito da una trentina di ville da circa 200 metri cubi ciascuna, accanto alle quali dovrebbero svettare anche tre torri alte 20 metri. Cubature che finirebbero per coprire per intero l’area della Favorita”. In sostanza, siamo di fronte alla volontà di fare piazza pulita del parco della Favorita e di edificare una zona oggi ben conservata del litorale del Lido. La solita operazione di lottizzazione edilizia spacciata come intervento di riqualificazione.
“Terremo nella massima considerazione i dati raccolti e presentati da Goletta Verde di Legambiente – ha commentato l'assessore comunale all'Ambiente, Gianfranco Bettin - specialmente i dati relativi alla situazione di stress del mare Adriatico e, in generale, alle ferite subite dal territorio e dall’ambiente nella nostra realtà. Per quanto riguarda la situazione nel Comune di Venezia, troviamo confermate le nostre preoccupazioni per l’arrivo in laguna di inquinanti attraverso i corsi d’acqua dovuto alla mancata depurazione di acque che, dall’entroterra giungono in laguna. L’altro aspetto critico riguardante l’impatto del grande investimento immobiliare di Est Capital al Lido, che molto preoccupa l’associazione ambientalista. L’attuale amministrazione è, fin dal primo giorno, impegnata nel confronto con i promotori dell’intervento e con il commissario straordinario Spaziante, per verificare il reale impatto del progetto e i margini tuttora esperibili per ridurne l’impatto ambientale”.

Venezia United. Una squadra per tutte le stagioni

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La notizia non è esattamente una di quelle che ogni giorno vengono sparate nelle prime pagine dei quotidiani nazionali. Al massimo si guadagna un paio di colonne nei quotidiani locali, incastrate tra una pubblicità e l’altra, nell’ultima pagina di cronaca della città. Neppure l’onore di una apertura nelle pagine dello sport, pur se di calcio stiamo parlando, che continuano a puntare i riflettori sulla figuraccia mondiale della nostra nazionale e a invidiare le prodezze di Villa e Klose. Niente da eccepire: il destino di una squadra sprofondata in serie D, pur se dal glorioso passato come il Venezia, non ha certo la stessa rilevanza giornalistica della prossima maglia di Balotelli o degli acquisti stellari di Milan e Juve.


Eppure anche questo è calcio. Anzi, potremmo dire che proprio questo è il calcio. Il calcio che ci piace, lontano da scandali, veline, sponsorizzazioni miliardarie e capitali di dubbia provenienza. Utopie? Può darsi. Ma “fioi, ghea podemo far!” Ragazzi, ce la possiamo fare! Più un incoraggiamento che uno slogan, questo che capeggiava sopra lo striscione appeso, mercoledì 30 giugno al Palaplip di Mestre, durante l’assemblea costitutiva di Venezia United. Di che si tratta? Venezia United è una neonata associazione con lo scopo di creare una “public company” che affianchi gli attuali proprietari della squadra del Venezia. In pratica, Venezia United ha lanciato un’operazione di azionariato popolare per trasformare i tifosi da semplici spettatori a proprietari della loro squadra del cuore. Nel Belpaese, dove il calcio si misura col metro dei milioni di euro, pare quasi di bestemmiare a raccontare di impiegati, operai, casalinghe, studenti, commercianti e gondolieri (siamo pur sempre a Venezia) che si costituiscono in società per comperarsi la loro squadra. Eppure oltralpe, dove l’azionariato popolare ha ben altra tradizione, il fenomeno è consolidato e vanta precedenti illustri come, tanto per portare un paio di beneauguranti esempi, Barcellona e l'F. C. United of Manchester.
Il Football Club Unione Venezia – così si chiama la squadra di casa reduce da una lunga ed ininterrotta serie di fallimenti e retrocessioni che l’hanno vista sprofondare dalla serie B al campionato dilettante – sta per diventare il primo, e sino ad ora anche unico, club italiano a partecipazione pubblica. Non a caso, a tenere a battesimo la nuova associazione, costituita da tanti tifosi storici arancioneroverdi, è stato il Comune di Venezia con il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore allo sport Andrea Ferrazzi che hanno garantito il costante impegno dell’amministrazione ad accompagnare Venezia United su questo difficile percorso.
Per “far parte di un sogno” e diventare “proprietario del tuo club”, come si legge nei depliant distribuiti dalla nuova public company, è sufficiente acquistare una azione da 10 euro o da 50 (quota sostenitore). Per le aziende è prevista una “partnership for business” di 500 euro o più con rilascio di regolare fattura e relativa deducibilità fiscale. Il primo obiettivo è di associare 3 mila persone e raccogliere 300 mila euro da investire nell’aumento del capitale sociale del Fbc Unione Venezia. “All’interno dell’associazione ogni socio avrà diritto ad un voto, indipendentemente dal numero di azioni in suo possesso – spiega Franco Vianello Moro, eletto presidente pressoché all’unanimità dall’assemblea costituente-. Venezia United è una associazione aperta a tutti e vuole rispondere in maniera positiva alla crisi generalizzata del calcio. C’è tanto da lavorare, ma la grande e qualificata partecipazione della cittadinanza alla fase propedeutica di questa iniziativa, ci stimola e conforta. Il sostegno e la partecipazione della gente aiuterà ad aprire un processo virtuoso di cui si sente tanto il bisogno in questo calcio prefallimentare o fallito".

Veneto record. Di evasori fiscali

Vi siete mai chiesti da dove tragga combustibile la decantata “locomotiva veneta”? Una risposta potrebbe essere quella che ha dato la Guardia di Finanza qualche giorno fa, quando ha celebrato il suo 236esimo anniversario: dall’evasione fiscale.
Perché, se è vero che la pressione fiscale nel nordest è più elevata che in altre regioni d’Italia (in media un veneto versa allo Stato 9 mila 500 euro all’anno contro i 5 mila e 200 della Puglia e i 4mila e 900 dei calabresi, tanto per citare due regioni in fondo alla classifica dei contribuenti), è anche vero che il record degli evasori totali è tutto nostro. Ed è pure un fenomeno in forte crescita, considerando che nei soli primi cinque mesi di quest’anno, i finanzieri ne hanno scoperto e denunciato ben 338 “furbetti”, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. Ha un bel dire il neo governatore Luca Zaia che “nel Veneto l’illegalità fiscale è davvero una realtà molto piccola”. I dati lo smentiscono alla grande. La Guardia di Finanza ha documentato nel laborioso e onesto Veneto, una evasione totale all’Iva di 270 milioni di euro e una mancata dichiarazione di reddito di circa un miliardo e trecento milioni. Le frodi fiscali con fatturazioni false sono state, parliamo sempre dello scorso anno, 411. E anche questo è una percentuale in aumento: 22% in più rispetto all’anno precedente. Un dato sorprendente è quello che riguarda le contraffazioni: le indagini della Guardia di Finanza nel Veneto hanno portato al sequestro di ben 5 milioni di euro di mercanzia. Per dirla in percentuale, il 10% dei sequestri operati in Italia sono “cosa nostra”.
Insomma, evadere il fisco rimane lo sport preferito dei nostri imprenditori. E, considerato che viviamo in un mondo “globalizzato”, pure le evasioni fiscali sono state “globalizzate”: oltre 231 milioni di euro sono stati sottratti alla tassazione internazionale per finire in uno dei tanti paradisi fiscali. Un modo come un altro per esportare il “Made in Veneto” in tutto il mondo!
Ma il dato più inquietante portato allo scoperto dalle indagini della guardia di finanza, riguarda il fenomeno del lavoro nero. Lo sfruttamento, in particolare di categorie deboli e scarsamente sindacalizzate come donne e migranti, ha come conseguenza anche il mancato versamento da parte dell’imprenditore di tasse e contributi vari allo Stato (oltre che al lavoratore sfruttato). Sotto questa lente, le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato allo denuncia di 839 casi di persone costrette a lavoratore completamente in nero e di 372 lavoratori irregolari. Un dato sicuramente sottostimato, a detta della stessa Guardia di Finanza, perché non tiene conto di tutti quei migranti che si sono macchiati del “reato di clandestinità” e sono al di là di qualsiasi controllo, oltre che tutela. Anche questa, una conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione. "Il compito della polizia economica nel nordest - ha spiegato il generale della Guardia di Finanza Pasquale Debidda - è quello di assicurare le condizioni ideali del mercato garantendo una equità fiscale”. Garantire anche una equità sociale non è compito delle Fiamme Gialle. Ma farebbe comunque bene ad un mercato che non sia solo sfruttamento del lavoro e delle risorse comuni.

Storie di sfruttamento

Non è neppure una storia originale, quella di Raffaele Turatto, “socio lavoratore” della cooperativa sociale Essegi di Padova. Storie così accadono tutti i giorni. Perché è una storia di soprusi e sfruttamento del lavoro. Ma è comunque una storia emblematica di cosa sia diventato oggi il mercato del lavoro. Socio e lavoratore, abbiamo detto. Ma non crediate che essere soci voglia dire aver voce ai piani alti. “Al contrario – commenta Raffaele – è una solenne fregatura. Essere socio vuol dire essere un lavoratore dipendente come gli altri solo con meno diritti degli altri.
Ci sono cooperative sociali nate solo con lo scopo di bypassare tutti le garanzie e i diritti con cui la legge tutela il lavoratore. Quella che mi ha licenziato, evidentemente, è una di queste“. Raffaele ha 43 anni. Da nove lavora, o meglio lavorava, come responsabile di servizio alla Essegi di Padova, una cooperativa di circa 120 soci che si occupa di “logistica e appalti”. In parole povere, presta manodopera alle aziende che ne hanno bisogno ma, vai a capire il perché, preferiscono evitare il “giogo” delle regolari assunzioni. Socio o no, il lavoro è comunque duro. Raffaele è referente del personale della Essegi impiegato in tra cartiere. Lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno ma si porta comunque a casa ogni mese quasi 1200 euro. D’accordo. I referenti come lui, regolarmente contrattuati e senza il “vantaggio” di essere soci, guadagnano molto di più. Ma il mercato è quello che è, e tocca accontentarsi. La frustata arriva a gennaio quando il socio che conta dell’Essegi – un tempo si scriveva “il padrone” - dichiara lo stato di crisi. “Non ne vedevamo il motivo - spiega Raffale-. Il lavoro era sempre di più e la faccenda ci pareva sospetta, anche perché non avevano tenuto conto di fatture che non erano ancora state pagate. Ma noi ci siamo comunque fidati e abbiamo accettato le nuove condizioni di lavoro”. Niente 14esima, niente festività, niente una tantum, massima flessibilità, diminuzione delle ore retribuite. Alla fine dei conti, in tasca non arrivava che 800 euro o poco più al mese. La quota sociale inoltre, che ogni socio deve versare per capitalizzare la cooperativa, è stata aumentata da 25 a 2mila euro. “Una bella botta. Non c’è che dire – continua Raffaele-. Anzi, una ingiustizia bella e buona. Che diritto avevano di trattarci così? Mi sono rivolto all’associazione difesa lavoratori e assieme al suo referente Gianni Boetto, siamo andati da un avvocato. Solo per il fatto che siamo soci non possono imporci le condizioni che vogliono, tanto più che abbiamo verificato che il bilancio della cooperativa era tutt’altro che in passivo”. Raffaelle diventa così il punto di riferimento di tutti i soci lavoratori della Essegi che non vogliono chinare la testa. E che ti fa la cooperativa? “Mi hanno proposto subito un avanzamento di carriera e di diventare il referente del personale di tutte le aziende servite dalla Essegi. Là per là, ero contento, pure se ho subito avvisato i responsabili che non per questo avevo intenzione di abbandonare la lotta sindacale”. Raffale quindi parte per le ferie, programmate da tempo. E al ritorno? “Mi trovo improvvisamente declassato a magazziniere. Ho chiesto più volte un incontro con i vertici ma niente da fare. Nessuno aveva tempo per spiegarmi i motivi”. Comincia il gioco duro. Raffaele ha gli occhi puntati addosso e alla prima occasione gli arriva una raccomandata di licenziamento. Gianni Boetto, responsabile padovano dell’Adl, l’associazione difesa lavoratori che a livello nazionale si riconosce nell’Usb, unione sindacale di base, commenta: “Quello che è accaduto a Raffaele accade ogni giorno a migliaia di lavoratori che per vivere sono costretti a diventare soci di cooperative che di sociale hanno solo il nome. Si tratta di un sistema criminale usato ormai da tutti, enti privati e pubblici, che usufruiscono di una manodopera soggetta ai peggiori ricatti e ai peggio soprusi. Chi, come Raffaele, cerca di opporsi allo sfruttamento viene perseguitato sino al licenziamento. Come Adl Usb ci siamo attivati per impugnare il licenziamento e difendere i suoi diritti in qualsiasi sede legale. Così faremo con tutti i lavoratori, soci e non. Le ingiustizie sono ingiustizie per tutti”.

Svendita demaniale

Pare di essere davanti ad una di quelle lotterie parrocchiali per raccogliere soldi per le missioni, dove la gente acquista il biglietto perché non può dir di no e poi scarta il “pacco”, appunto, sperando di cavarsela col minor danno possibile. Lo hanno chiamato “federalismo demaniale” ma col federalismo vero, quello che si conquista disperdendo il potere, non è neppure imparentato. Sotto sotto il concetto che sta alla base dell’operazione è sempre lo stesso: vendere (se non addirittura svendere) il patrimonio pubblico per far cassa sonante. Un concetto tutto capitalista, o anche marxista se preferite, secondo il quale lo Stato è padre e padrone di tutto quello che si trova dentro i suoi santi confini e ne dispone secondo criteri che alla fin fine son solo economici. Siamo distanti anni luce dall’idea di un governo non padrone ma gestore del suo patrimonio artistico e ambientale, che esercita il suo mandato attraverso le autonomie locali e la partecipazione dal basso dei cittadini, secondo criteri non basati sul profitto ma sulla salvaguardia e valorizzazione. Oggi domina il mercato. Tutto si vende e tutto si compra: acqua, aria, lavoro, montagne e castelli. E lo chiamano “federalismo”. Ai Comuni altro non rimane da fare se non scartare i “pacchi” e sperare per il meglio. Dentro c’è un po’ di tutto. Per rimanere in laguna, troviamo: casse di colmata che hanno bisogno di vagonate di soldi di manutenzione, ma anche lo splendido ex monastero di Santa Croce alle Zattere e altre aree di gran pregio come l’Arsenale. A Venezia spetta la classica parte del leone: su 364 milioni di euro di beni demaniali stimati trasferibili a tutta la Provincia, al capoluogo lagunare ne spettano circa 160. Ma non pensate che sia un regalo! Il denominatore comune di tutti questi trasferimenti è uno solo: costi, costi e ancora costi. L’assessore al patrimonio di Venezia, Bruno Filippini, ha già messo le mani avanti: “Il Comune non ha soldi per acquistare e mettere in funzione tutti questi beni. Saremo costretti a fare una selezione” e sottolinea come il Governo italiano con una mano dia cinque per togliere dieci con l’altra mano. “Questa è l’ultima trovata per scaricare sui Comuni i problemi dello Stato centrale”. E questo sarebbe il federalismo! Ma facciamo attenzione: il decreto Tremonti non obbliga i Comuni a farsi carico dei beni demaniali dismessi. Le amministrazioni sono liberissimi di scartare il “pacco” o lasciarlo sui banchi. Ma che succederà in quest’ultimo caso? Prendiamo l’esempio dell’Arsenale. “L’arzanà de' Viniziani” cantato da Dante, dove bolliva la tenace pece e dove è nato il concetto di fabbrica cinque secoli prima della rivoluzione industriale. Un’area grande pressappoco come un sesto dell’intera Venezia, oggi quasi tutta abbandonata al degrado. L’Arsenale potrebbe rivelarsi uno strumento di enorme efficacia per dare respiro alla Venezia reale, asfissiata dalla mancanza di spazi e pressata dalle alternative in terraferma. Ma il Comune ha le strutture e il denaro per farsene carico? “Il ministro Tremonti è stato chiaro – ha spiegato Filippini - nei prossimi due anni i trasferimenti ai Comuni saranno decurtati di quattro miliardi di euro. Il che significa che non avremo i soldi neppure per fare la metà dei restauri che servirebbero”. Che ne sarà allora dell’antico Arsenale dove gli artigiani della Serenissima varavano cocche e galee? Anche in questo caso il decreto è chiaro. Quello che non comprano i Comuni sarà battuto all’asta ai privati. Eccolo qua il futuro di questo bene pubblico: un enorme, lussuoso albergo con un outlet di gran marca. Proprio quello che ci mancava.

Duro mestiere il pendolare

Siete pendolari? Se la risposta è sì, fareste bene a cominciare a pensare sin da subito ad un mezzo alternativo per andare a lavorare. Se fosse un condannato a morte, il trasporto pubblico su rotaia, avrebbe già la testa sul ceppo e la domanda di grazia respinta dal re. Nessuna speranza in vista. Nessun salvataggio miracoloso all’ultimo istante. E i boia che si apprestano ad infierire sul condannato sono addirittura due: Stato e Regione.
Due i boia e due le mannaie che si apprestano a tagliare i finanziamenti necessari al funzionamento delle nostre ferrovie. E parliamo delle ferrovie utili, quelle che ogni giorno trasportano migliaia di pendolari sul tragitto casa – lavoro. L’alta velocità e le altre grandi opere non perderanno un euro. Anzi. E tra le regioni italiane sarà soprattutto il Veneto, che è la sesta regione italiana per numero di viaggiatori al giorno (135 mila in media di cui oltre 50 mila abbonati) con ad essere maggiormente penalizzato. Ai tagli già annunciati in finanziaria dai ministri Tremonti e Matteoli, sotto la voce “Servizi ferroviari di interesse regionale e locale in concessione”, pari a 1.223 milioni di euro per l’anno 2011, si aggiunge la scarsa volontà della Regione ad investire in quello che oramai viene considerato il “sistema di trasporto dei poveri”: il treno locale. Consideriamo soltanto che la percentuale per il servizio pendolare ferroviario stanziata dalla Regione Veneto nel 2009 è appena lo 0,04 per cento del bilancio totale di spesa. Una autentica miseria che ci porta in fondo alle classifiche delle regioni virtuose italiane. E meglio non fare paragoni con altri Paesi d’Europa come la Francia o la Germania. Ma per restare in Italia, anche il Molise spende più di noi. Il Lazio investe lo 0,13% del bilancio, La Campania l’1,52 %, la Lombardia lo 0,54%. Se rapportiamo l’irrisoria percentuale investita dalla nostra Regione a quella dei suoi pendolari, si capisce come mai nel Veneto assistiamo ad un fiorire di comitati di utenti ferroviari che puntualmente manifestano davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, per chiedere garanzie e tavoli di concertazione che, ancor più puntualmente, vengono disattesi perché, spiega l’assessore di turno, “non ci sono soldi”. Appunto.
La punto fondamentale è che per la Giunta, e questo vale tanto per l’ex presidente Galan quanto per l’attuale Zaia, la ferrovia continua ad essere la cenerentola delle infrastrutture in un campo in cui domina incontrastato l’asfalto. Conti alla mano, dal 2003 al 2009, il vento ha investito il 93,9 % della spesa infrastrutture per le strade e il rimanente 6,1% per la rotaia. Nello stesso periodo, tanto per fare un paragone, la Puglia ha investito il 40,5 per l’asfalto e il 59,5 % per le ferrovie.
Che accadrà quando a questo panorama già desolante il Governo aggiungerà l’ennesimo giro di vite? Secondo i dati diffusi da Legambiente che ha fatto le pulci alla manovra Tremonti sul capitolo del trasporto pubblico, i trasferimenti per i contratti di servizio nel Veneto per il 2011 saranno mutilati dagli attuali 43,2 milioni di euro a solo 14 milioni. E, come ha spiegato lo stesso ministro Tremonti, tutto lascia supporre che questi tagli, già definiti con chiarezza per le singole voci per il 2011, saranno incrementati nel 2012 e nel 2013. “Ma il ministro e il Governo hanno idea dell’effetto che la manovra provocherà a partire dal prossimo anno nelle città italiane? – si chiede Michele Bertucco, presidente di Legambiente Veneto -. Dovranno spiegare ai due milioni e 700mila italiani che ogni giorno prendono i treni per motivi di lavoro o di studio, quali soluzioni alternative hanno in mente per loro. Con meno di metà delle risorse rispetto a quest’anno, come si può pensare di far funzionare il servizio? Quella che abbiamo davanti è una vera e propria ecatombe del servizio ferroviario pendolare”.

Tentazioni nucleari

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Trenta miliardi di motivi per dire di sì al nucleare. Intendiamo motivi particolarmente… tangibili. A trenta miliardi di euro infatti, ammonta la torta nucleare che il Governo intende assegnare alle imprese che concorreranno a realizzare il reattore veneto. Lo stupefacente della vicenda è che nessuno si è ancora espresso su dove, come e quando dovrebbe venir realizzato l’impianto ma già tutti sanno quanto verrà speso e già le aziende cominciano a sgomitarsi per mettere le mani sulla marmellata. Sentite come gongola il presidente degli industriali di Venezia, Luigi Brugnaro, in una intervista rilasciata in occasione dell’ultimo convegno pro nucleare di Confindustria, il 18 maggio a Marghera: “Le nostre imprese sono tra le più competitive in tutto il Paese e certamente sapranno conquistarsi almeno il 40 per cento del business". Brugnaro è fondatore e padrone di Umana, la prima azienda italiana di collocamento di personale, ed è innegabilmente uno che sa fiutare in anticipo l’aria che tira.

Il convegno di Marghera non aveva nessuna pretesa scientifica. Nessun tecnico o scienziato figurava nella lista degli invitati. Nessuna pretesa di dialogo e di riflessione. Nessuno tra i relatori ha ricordato che la Spagna di Zapatero ha recentemente investito pressappoco la stessa cifra per le energie rinnovabili seguendo un piano energetico che porterà a soddisfare in minor tempo una percentuale più grande del fabbisogno del Paese iberico rispetto al nucleare italiano. Il convegno aveva soltanto lo scopo molto… tangibile, appunto, di convincere il neo governatore Luca Zaia a non opporsi alla costruzione di una centrale in Veneto. Impresa da poco. I “nyet” che Zaia lanciava in campagna elettorale han fatto presto ad ammorbidirsi e già il governatore è passato da un “Non ne vedo la necessità. Il nostro fabbisogno energetico è già soddisfatto” a un “Non sono contrario per principio. Vedremo quali saranno le proposte del Governo e cosa faranno per convincerci”. Insomma, sul fronte regionale c’è da attendersi ben poca resistenza, a meno che il reattore non lo vogliano costruire sopra i campi di radicchio del trevisano. Ma Chioggia, propaggine meridionale di una laguna che anche nelle ultime elezioni ha voltato per il centrosinistra, non ci metterà molto a salire sull’altare della vittima sacrificale. A dir di no, ancora una volta tocca ai movimenti. Verdi, sinistra, grillini e comitati cittadini venuti apposta da Chioggia per ricordare che l’economia della cittadina si fonda su due settori come pesca e turismo che sono incompatibili con i reattori nucleari, hanno dato vita ad un affollato sit in di protesta davanti alla sede del convegno. Un primo passo della resistenza è stata l’organizzazione di una rete contro il nucleare. “L'ipotesi di Chioggia o del Polesine come sito possibile per la costruzione di una centrale nucleare in Veneto – ha commentato Cacciari, attivista delle rete - ci ha messi di fronte ad una responsabilità evidente ed ineludibile.  In quanto persone che amano il proprio territorio non possiamo rimanere indifferenti di fronte allo scempio che una tale scelta comporterebbe. I rischi per la salute, la possibile contaminazione della terra e dei fiumi con conseguenze disastrose per l'agricoltura e la pesca, l'impatto negativo sul turismo, disegnano un panorama possibile che non vogliamo per noi e non vorremmo per nessuno.
E proprio perchè non lo vorremmo per nessuno siamo consapevoli che la scelta del ritorno al nucleare in Italia non è solamente un problema dei territori che ospiteranno le centrali, ma un problema di tutti. Il governo Berlusconi ha indicato nel 2013 l’inizio dei lavori per la costruzione della prima centrale e ha contemporaneamente annunciato un'opera di convincimento dell'opinione pubblica sulle meraviglie del nucleare. E questo prima ancora di rendere note le aree scelte per ospitare i reattori. E’ importante contrastare pubblicamente ed in ogni occasione sia la propaganda governativa, sia il tentativo di chi tenta di trarre profitto a scapito dell'ambiente e della nostra salute. Una battaglia da portare avanti in comune, indipendentemente dai partiti e da qualsiasi logica di appartenenza”.
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