In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Venezia tra Serenissima e modernità. Intervista con Tommaso Cacciari
4/05/2010TerraAlla presidente della provincia di Venezia, la leghista Francesca Zaccariotto, non è andato giù che a vincere il prestigioso premio messo in palio dall’associazione Gabriele Bortolozzo, sia stato un noto esponente dei No Mose come Tommaso Cacciari. Ancor meno digeribile, il fatto che detto premio sia stato consegnato all’interno di uno spazio gestito dalla stessa Provincia come il complesso situato nell’isola di San Servolo.
E non deve averle fatto neppure piacere che, dopo la consegna del premio, l’associazione abbia organizzato un giro in barca per far vedere ad un centinaio di attoniti spettatori un campionario dei disastri ambientali che si stanno confezionando in quella che un tempo era la laguna dei dogi. Disastri cui la Provincia mette generosamente del suo. Tutto ciò, dicevamo, non ha fatto piacere alla Zaccariotto. Tanto è vero che ha promesso un bel giro di vite sul consiglio di amministrazione in scadenza di San Servolo.
Tommaso, hai fatto arrabbiare la Zaccariotto?
E chi se ne frega?
Chiusa la polemica. Nella tesi che ti ha fruttato la laurea in storia e il premio Bortolozzo, tracci una storia ambientale di Venezia, dalla sua fondazione ad oggi. In particolare, evidenzi la modernità della Venezia Serenissima in rapporto all’arretratezza politica di oggi.
La modernità della Venezia dei dogi consisteva in quell’intreccio straordinario tra costruito, ambiente e cultura, su cui poggiava non solo la sopravvivenza ma la stessa ricchezza e prosperità della città. Se un pescatore che catturava un pesce troppo piccolo finiva ai remi per cinque anni, non era per una questione di animalismo spicciolo, ma per preservare l’equilibro indispensabile per difendere una risorsa comune come il pescato. E i pescatori stessi erano i primi ad applicare questa regola perché si consideravano i primi sorveglianti della laguna. Venezia era una città ben consapevole di vivere dentro un meccanismo globale. La laguna era considerata come un complesso organismo vivente che non poteva essere in nessun modo separato dalla città e dai suoi abitanti. Contrariamente a quanto credono in molti, nella laguna di Venezia non c’è niente di naturale. E’ un luogo dove il mare e i fiumi, l’acque dolce e l’acqua salata, si sono sfidati a braccio di ferro raggiungendo un equilibrio che non poteva durare nel tempo. La Serenissima questo lo aveva compreso e per centinaia di anni ha lavorato per mantenerlo e garantire la sopravvivenza di Venezia. Sono stati fatti continui ed innumerevoli lavori ma senza mai perdere di vista la complessità e il risultato d’insieme che era quello di mantenere viva la laguna, consapevoli che ogni intervento si sarebbe ripercosso secondo mille interazioni su tutto l'insieme. Circolazione delle acque, salubrità dell'aria, navigabilità erano i beni comuni a cui tutti dovevano non solo obbedienza, ma cooperazione consapevole. Quello che contava era l’equilibrio dell’ambiente circostante. Ma un equilibrio produttivo che donava ricchezza e prosperità. L’opposto del concetto fascista di parco naturale in cui dentro non si deve toccare nulla. E fuori però, si poteva cementare tutto.
Questo equilibrio viene spezzato nell’ottocento, con la perdita dell’indipendenza?
Le decisioni non erano più prese in loco ma prima a Vienna e poi a Roma. Sono anche gli anni dell’industralizzazione, che a Venezia ha portato più guai che altro. E’ il secolo del ferro e del carbone e la laguna viene vista come un fastidioso contrattempo. Se avessero potuto, l’avrebbero interrata tutta.
Che è quanto cercano di fare adesso, giusto?
Già. Il trend non è cambiato dall’ottocento ad oggi. Anzi, possiamo registrare una forte e preoccupante accelerazione proprio in questi ultimi anni in cui i cambiamenti climatici e le continue crisi economiche dovrebbe al contrario far riflettere sugli errori del cosiddetto sviluppo industriale. Da organismo vivente, complesso ma anche delicato, che dona la vita all’intera città, oggi la laguna viene considerata da una politica slegata sia dai saperi locali che dalla comunità scientifica, una sorta di catino pieno d’acqua che si può regolare con una valvola. Il Mose è forse l’esempio più eclatante, ma potremmo ricordare le barene sintetiche, gli interramenti, le valli da pesca con le rive in cemento, la statale romea, l’aeroporto, il Tronchetto, le casse di colmata, tutta la zona industriale, gli inceneritori come Sg31 e mi fermo qua. Manca solo la centrale nucleare, per adesso.
Venezia non ha mura. Vive nell’ambiente che la circonda e dell’ambiente che la circonda. Qui la parola “globale” ha un significato più chiaro che in qualsiasi altra grande città del mondo.
Lo ha spiegato bene Gianfranco Bettin che in suo libro quando sottolinea le ripercussioni che si sono registrate a Venezia a causa eventi di caratura mondiale apparentemente lontani. Faccio un esempio: la perestrojka. Gorbaciov pensiona il comunismo e Venezia va in tilt per l’invasione dei turisti dell’est. Ma potrei ricordare anche il bombardamento dell’iraq. Baghdad è sotto le bombe e il carnevale va in crisi. Fatti distanti nello spazio e in apparenza slegati con la nostra realtà, causano invece gravi problemi in una città globale come la nostra. Per non parlare dei cambiamenti climatici. Se il livello del mare dovesse salire, cosa credi che ne sarebbe di Venezia? E perché pensi che dal Sale siamo partiti in 25 per Copenhagen e ci siamo fatti arrestare tutti?
E non deve averle fatto neppure piacere che, dopo la consegna del premio, l’associazione abbia organizzato un giro in barca per far vedere ad un centinaio di attoniti spettatori un campionario dei disastri ambientali che si stanno confezionando in quella che un tempo era la laguna dei dogi. Disastri cui la Provincia mette generosamente del suo. Tutto ciò, dicevamo, non ha fatto piacere alla Zaccariotto. Tanto è vero che ha promesso un bel giro di vite sul consiglio di amministrazione in scadenza di San Servolo.
Tommaso, hai fatto arrabbiare la Zaccariotto?
E chi se ne frega?
Chiusa la polemica. Nella tesi che ti ha fruttato la laurea in storia e il premio Bortolozzo, tracci una storia ambientale di Venezia, dalla sua fondazione ad oggi. In particolare, evidenzi la modernità della Venezia Serenissima in rapporto all’arretratezza politica di oggi.
La modernità della Venezia dei dogi consisteva in quell’intreccio straordinario tra costruito, ambiente e cultura, su cui poggiava non solo la sopravvivenza ma la stessa ricchezza e prosperità della città. Se un pescatore che catturava un pesce troppo piccolo finiva ai remi per cinque anni, non era per una questione di animalismo spicciolo, ma per preservare l’equilibro indispensabile per difendere una risorsa comune come il pescato. E i pescatori stessi erano i primi ad applicare questa regola perché si consideravano i primi sorveglianti della laguna. Venezia era una città ben consapevole di vivere dentro un meccanismo globale. La laguna era considerata come un complesso organismo vivente che non poteva essere in nessun modo separato dalla città e dai suoi abitanti. Contrariamente a quanto credono in molti, nella laguna di Venezia non c’è niente di naturale. E’ un luogo dove il mare e i fiumi, l’acque dolce e l’acqua salata, si sono sfidati a braccio di ferro raggiungendo un equilibrio che non poteva durare nel tempo. La Serenissima questo lo aveva compreso e per centinaia di anni ha lavorato per mantenerlo e garantire la sopravvivenza di Venezia. Sono stati fatti continui ed innumerevoli lavori ma senza mai perdere di vista la complessità e il risultato d’insieme che era quello di mantenere viva la laguna, consapevoli che ogni intervento si sarebbe ripercosso secondo mille interazioni su tutto l'insieme. Circolazione delle acque, salubrità dell'aria, navigabilità erano i beni comuni a cui tutti dovevano non solo obbedienza, ma cooperazione consapevole. Quello che contava era l’equilibrio dell’ambiente circostante. Ma un equilibrio produttivo che donava ricchezza e prosperità. L’opposto del concetto fascista di parco naturale in cui dentro non si deve toccare nulla. E fuori però, si poteva cementare tutto.
Questo equilibrio viene spezzato nell’ottocento, con la perdita dell’indipendenza?
Le decisioni non erano più prese in loco ma prima a Vienna e poi a Roma. Sono anche gli anni dell’industralizzazione, che a Venezia ha portato più guai che altro. E’ il secolo del ferro e del carbone e la laguna viene vista come un fastidioso contrattempo. Se avessero potuto, l’avrebbero interrata tutta.
Che è quanto cercano di fare adesso, giusto?
Già. Il trend non è cambiato dall’ottocento ad oggi. Anzi, possiamo registrare una forte e preoccupante accelerazione proprio in questi ultimi anni in cui i cambiamenti climatici e le continue crisi economiche dovrebbe al contrario far riflettere sugli errori del cosiddetto sviluppo industriale. Da organismo vivente, complesso ma anche delicato, che dona la vita all’intera città, oggi la laguna viene considerata da una politica slegata sia dai saperi locali che dalla comunità scientifica, una sorta di catino pieno d’acqua che si può regolare con una valvola. Il Mose è forse l’esempio più eclatante, ma potremmo ricordare le barene sintetiche, gli interramenti, le valli da pesca con le rive in cemento, la statale romea, l’aeroporto, il Tronchetto, le casse di colmata, tutta la zona industriale, gli inceneritori come Sg31 e mi fermo qua. Manca solo la centrale nucleare, per adesso.
Venezia non ha mura. Vive nell’ambiente che la circonda e dell’ambiente che la circonda. Qui la parola “globale” ha un significato più chiaro che in qualsiasi altra grande città del mondo.
Lo ha spiegato bene Gianfranco Bettin che in suo libro quando sottolinea le ripercussioni che si sono registrate a Venezia a causa eventi di caratura mondiale apparentemente lontani. Faccio un esempio: la perestrojka. Gorbaciov pensiona il comunismo e Venezia va in tilt per l’invasione dei turisti dell’est. Ma potrei ricordare anche il bombardamento dell’iraq. Baghdad è sotto le bombe e il carnevale va in crisi. Fatti distanti nello spazio e in apparenza slegati con la nostra realtà, causano invece gravi problemi in una città globale come la nostra. Per non parlare dei cambiamenti climatici. Se il livello del mare dovesse salire, cosa credi che ne sarebbe di Venezia? E perché pensi che dal Sale siamo partiti in 25 per Copenhagen e ci siamo fatti arrestare tutti?
Il Trentino alle urne
4/05/2010TerraDomenica 16 maggio, 205 comuni del trentino andranno al voto per eleggere sindaco e consiglieri comunali. Un test elettorale che, diciamocelo francamente, non fa perdere il sonno ai palazzi romani, che ancora devono digerirsi l’ultima indigestione elettorale. Un test che non appassiona neppure troppi cittadini trentini, a voler scrivere la verità, considerato che in ben 42 Comuni (quasi un quarto dei totali) è stata presentata una lista sola e di conseguenza l’unica curiosità rimane quella dell’affluenza. In quanti si prenderanno il disturbo ad uscir di casa per mettere una croce su una scheda con un nome solo?
Addirittura, in quel di Cis, piccolo (poco più di trecento anime) ma incantevole paesino situato proprio nel cuore della val di Non, non ne è stata presentata nessuna, di lista! Il sindaco uscente, per raggiunti limiti di mandato, non ha più potuto ricandidarsi. E così il paese è stato commissariato, in attesa che qualcuno non si decida a sedersi sulla poltrona di sindaco. La lontananza dai riflettori della politica che conta, e che di solito è più spettacolo che politica, ha comunque avuto il pregio di riportare i temi ambientali al centro del dibattito e di tenere alla larga, per quanto possibile, l’invadenza dei partiti. Ciò si è verificato in particolare nei Comuni più piccoli, dove gli equilibri di coalizione, tanto di destra che di sinistra, hanno lasciato il posto a coalizioni civiche con solidi programmi, non di rado, basati sulla difesa dei beni comuni come l’acqua e il territorio. Nei Comuni più grandi invece, le sfide sono ancora soggette alle logiche di schieramento. Parliamo di Arco, Riva del Garda e in particolare di Rovereto. La recente batosta elettorale maturata in tutto il Paese, non ha favorito l’intesa tra i partiti del centro sinistra che guidano tuttora la Provincia: in poche realtà lo schieramento è riuscito a compattarsi dietro un unico candidato. La spaccatura più pesante è stata ad Arco, dove i democratici e la lista verde “Arco ambiente ecologia e società” appoggeranno il sindaco Paolo Mattei, mentre Patt, partito autonomista trentino e tirolese, e l’Upt, unione per il Trentino (praticamente la vecchia Margherita), sosterranno il candidato dell’Udc Mario Morandini. A Rovereto, sia pure all’ultimo minuto e non senza gli inevitabili tiramolla, democratici, margherita e autonomisti del Patt hanno scaricato il sindaco uscente Guglielmo Valduga (che comunque si ricandiderà alla testa di un civica) per spingere Andrea Miorandi, l’imprenditore noto per aver convinto i produttori del Grande Fratello a mettere i contenitori differenziati nella casa. Dall’altra parte dello schieramento, lega e pdl propongono Barbare Lorenzi, mentre i verdi si presentano, come già in altri Comuni come Arco, Riva del Garda, Mori e Lavis, con il simbolo del Sole che ride e la scritta “Verdi, società e ambiente”, per sostenere un candidato “fuori del coro”: quel Mauro Previdi recentemente silurato dalla carica di presidente della commissione comunale politiche sociali dopo un lavoro di indagine sulla Casa di Soggiorno per Anziani di Rovereto. Previdi aveva accusato pesantemente la maggioranza di cui faceva parte di “pensare più alla gestione del potere che alla difesa dei più deboli" e era saltato nella barricata ambientalista. Il che gli è costato la poltrona di presidente ma gli è valso la candidatura a sindaco dei verdi. Qui a Rovereto, la partita per il ballottaggio è quanto mai incerta perché i candidati sindaci sono in tutto otto. Oltre ai quattro già citati, ricordiamo i candidati messi in campo da Rifondazione, dall’Italia dei valori, dalla Fiamma tricolore e da un’altra civica. Centrosinistra compatto invece a Riva del Garda. Nella bella cittadina situata sulle sponde più a nord dell’omonimo lago, i verdi “ecologia e società” appoggeranno il sindaco uscente, Adalberto Mosaner, sostenuto da tutto lo schieramento unitario. Un caso, come abbiamo visto, più unico che raro in tutto il trentino.
Addirittura, in quel di Cis, piccolo (poco più di trecento anime) ma incantevole paesino situato proprio nel cuore della val di Non, non ne è stata presentata nessuna, di lista! Il sindaco uscente, per raggiunti limiti di mandato, non ha più potuto ricandidarsi. E così il paese è stato commissariato, in attesa che qualcuno non si decida a sedersi sulla poltrona di sindaco. La lontananza dai riflettori della politica che conta, e che di solito è più spettacolo che politica, ha comunque avuto il pregio di riportare i temi ambientali al centro del dibattito e di tenere alla larga, per quanto possibile, l’invadenza dei partiti. Ciò si è verificato in particolare nei Comuni più piccoli, dove gli equilibri di coalizione, tanto di destra che di sinistra, hanno lasciato il posto a coalizioni civiche con solidi programmi, non di rado, basati sulla difesa dei beni comuni come l’acqua e il territorio. Nei Comuni più grandi invece, le sfide sono ancora soggette alle logiche di schieramento. Parliamo di Arco, Riva del Garda e in particolare di Rovereto. La recente batosta elettorale maturata in tutto il Paese, non ha favorito l’intesa tra i partiti del centro sinistra che guidano tuttora la Provincia: in poche realtà lo schieramento è riuscito a compattarsi dietro un unico candidato. La spaccatura più pesante è stata ad Arco, dove i democratici e la lista verde “Arco ambiente ecologia e società” appoggeranno il sindaco Paolo Mattei, mentre Patt, partito autonomista trentino e tirolese, e l’Upt, unione per il Trentino (praticamente la vecchia Margherita), sosterranno il candidato dell’Udc Mario Morandini. A Rovereto, sia pure all’ultimo minuto e non senza gli inevitabili tiramolla, democratici, margherita e autonomisti del Patt hanno scaricato il sindaco uscente Guglielmo Valduga (che comunque si ricandiderà alla testa di un civica) per spingere Andrea Miorandi, l’imprenditore noto per aver convinto i produttori del Grande Fratello a mettere i contenitori differenziati nella casa. Dall’altra parte dello schieramento, lega e pdl propongono Barbare Lorenzi, mentre i verdi si presentano, come già in altri Comuni come Arco, Riva del Garda, Mori e Lavis, con il simbolo del Sole che ride e la scritta “Verdi, società e ambiente”, per sostenere un candidato “fuori del coro”: quel Mauro Previdi recentemente silurato dalla carica di presidente della commissione comunale politiche sociali dopo un lavoro di indagine sulla Casa di Soggiorno per Anziani di Rovereto. Previdi aveva accusato pesantemente la maggioranza di cui faceva parte di “pensare più alla gestione del potere che alla difesa dei più deboli" e era saltato nella barricata ambientalista. Il che gli è costato la poltrona di presidente ma gli è valso la candidatura a sindaco dei verdi. Qui a Rovereto, la partita per il ballottaggio è quanto mai incerta perché i candidati sindaci sono in tutto otto. Oltre ai quattro già citati, ricordiamo i candidati messi in campo da Rifondazione, dall’Italia dei valori, dalla Fiamma tricolore e da un’altra civica. Centrosinistra compatto invece a Riva del Garda. Nella bella cittadina situata sulle sponde più a nord dell’omonimo lago, i verdi “ecologia e società” appoggeranno il sindaco uscente, Adalberto Mosaner, sostenuto da tutto lo schieramento unitario. Un caso, come abbiamo visto, più unico che raro in tutto il trentino.
Vietato riposare in pace (se sei islamico)
27/04/2010TerraAd Udine, la Lega sta raccogliendo firme. Raccoglie firme per chiedere che venga immediatamente riesumato il corpo di una bambina islamica seppellita da pochi giorni e che venga proibito a tutti mussulmani inumare i propri defunti con la testa rivolta verso la Mecca. Il tutto, per dirla con le parole del capogruppo del carroccio in consiglio comunale, Luca Dordolo, perché ciò sarebbe “irrispettoso dei sentimenti più intimi della maggioranza della popolazione”.
La vicenda comincia il 28 settembre dello scorso anno, quando il Comune di Udine concesse una parte del cimitero di Paderno alla comunità islamica per seppellire i loro defunti secondo riti e tradizioni mussulmani. Il Pdl e la Lega in particolare, urlarono immediatamente all’onta e alla profanazione dei valori cristiani, senza considerare che lo stesso arcivescovo di Udine, in più occasioni, si è sempre detto favorevole all’istituzione di un cimitero dedicato ai credenti islamici. “I loro defunti possono riposare accanto ai nostri? Noi diciamo no!” si leggeva in un manifesto con il quale il Carroccio friulano aveva tappezzato i muri del capoluogo. Il tutto non per una questione di razzismo. Anzi. E’ tutta una questione di favorire l’integrazione. “Sono loro a non voler essere messi in mezzo a noi! A voler essere seppelliti da un’altra parte. Sono loro i razzisti – spiega Dordolo -. Noi invece non siamo tutti razzisti, noi siamo per l’integrazione. Dei regolari, sia chiaro”. La polemica si era assopita ma solo per risvegliarsi alla prima inumazione. Una neonata di pochi mesi, figlia di una coppia di lavoratori (regolari, Dordolo si tranquillizzi) è deceduta nell’ospedale di Pordenone e genitori hanno deciso di seppellirla a Paderno, seguendo il rito islamico. Il fatto che la defunta sia solo una bambina non ha fatto desistere i due partiti di destra dal riprendere la battaglia annunciata contro la pretesa “invasione islamica”. E lo hanno fatto ciascuno a modo suo: la lega con banchetti, raccolta firme e volantinaggi in piazza per chiedere che i cimiteri rionali siano riservati ai residenti, il Pdl con la carta bollata: “Faremo verificare se nella sepoltura siano state commesse delle irregolarità, come il lavaggio in un luogo improprio di alcune parti della salma – ha spiegato il capogruppo in consiglio comunale del popolo delle libertà in Comune, Loris Michelini -. Ma certamente, dal punto di vista cristiano, ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione”.
Totalmente assenti dal dibattito i democratici che in una nota si limitano a ricordare che il Comune non ha speso un soldo per il cimitero islamico e si è limitato ad assegnare un’area. Invece “rimandare un defunto al suo Paese costa quasi 8 mila euro, e a pagare sono i cittadini udinesi”. E certi temi poi, in casa democratica, meno si affrontano e meglio è per tutti. Questioni di marketing.
A farci caso, le motivazioni di chi è contro il cimitero islamico non sono poi così diverse da coloro che lo difendono. Sia in campo leghista che in quello della sinistra che ha organizzato alcuni iniziative a sostegno del cimitero, si parla di “integrazione” e di “apertura nei confronti delle altra culture”, si accusano gli avversari di “razzismo” e di “approfittare di un luttuoso evento come la morte di una bambina per farsi propaganda politica”. Perlomeno questo è quanto si sostiene davanti ai taccuini dei giornalisti. Chi sono i veri razzisti, allora? Per schiarirci le idee, basta fare un giro nei vari blog della Lega o nelle pagine dei social network. Ne trovate a bizzeffe. Basta battere nel motore di ricerca “cimitero islamico Udine”. Riportiamo per una questione di spazio e di stomaco, solo le prime due condivisioni trovate in testa alla pagina Facebook dedicata al tema del cimitero friulano. FS: ”Stanno entrando con un’arroganza assurda... hanno iniziato col crocefisso e tra poco dovremmo seppellire i nostri morti in giardino perché non ci sarà più posto per noi... ma loro l'idea di un inceneritore non va, eh...? tipo biomassa...?” GB: “Per impedire ciò basta che qualcuno porti un maiale su quel pezzo di terra e per loro diverrà impuro e di inadatto a qualsiasi rito religioso. Combattete i musulmani a colpi di maiale!” Son frasi riportate col copia e incolla. Mi sono solo permesso di sistemare la grammatica perché “qualch'uno” degli scriventi non è stato troppo attento ai tempi della scuola. E ci domandiamo ancora chi sono i razzisti? Eppure i leghisti sostengono di non esserlo. E lo dimostrerebbe il forte consenso elettorale ottenuto anche nelle ultime elezioni. Bastasse questo…
La vicenda comincia il 28 settembre dello scorso anno, quando il Comune di Udine concesse una parte del cimitero di Paderno alla comunità islamica per seppellire i loro defunti secondo riti e tradizioni mussulmani. Il Pdl e la Lega in particolare, urlarono immediatamente all’onta e alla profanazione dei valori cristiani, senza considerare che lo stesso arcivescovo di Udine, in più occasioni, si è sempre detto favorevole all’istituzione di un cimitero dedicato ai credenti islamici. “I loro defunti possono riposare accanto ai nostri? Noi diciamo no!” si leggeva in un manifesto con il quale il Carroccio friulano aveva tappezzato i muri del capoluogo. Il tutto non per una questione di razzismo. Anzi. E’ tutta una questione di favorire l’integrazione. “Sono loro a non voler essere messi in mezzo a noi! A voler essere seppelliti da un’altra parte. Sono loro i razzisti – spiega Dordolo -. Noi invece non siamo tutti razzisti, noi siamo per l’integrazione. Dei regolari, sia chiaro”. La polemica si era assopita ma solo per risvegliarsi alla prima inumazione. Una neonata di pochi mesi, figlia di una coppia di lavoratori (regolari, Dordolo si tranquillizzi) è deceduta nell’ospedale di Pordenone e genitori hanno deciso di seppellirla a Paderno, seguendo il rito islamico. Il fatto che la defunta sia solo una bambina non ha fatto desistere i due partiti di destra dal riprendere la battaglia annunciata contro la pretesa “invasione islamica”. E lo hanno fatto ciascuno a modo suo: la lega con banchetti, raccolta firme e volantinaggi in piazza per chiedere che i cimiteri rionali siano riservati ai residenti, il Pdl con la carta bollata: “Faremo verificare se nella sepoltura siano state commesse delle irregolarità, come il lavaggio in un luogo improprio di alcune parti della salma – ha spiegato il capogruppo in consiglio comunale del popolo delle libertà in Comune, Loris Michelini -. Ma certamente, dal punto di vista cristiano, ci sconvolge questo modo di iniziare un’epoca all’insegna dell’integrazione”.
Totalmente assenti dal dibattito i democratici che in una nota si limitano a ricordare che il Comune non ha speso un soldo per il cimitero islamico e si è limitato ad assegnare un’area. Invece “rimandare un defunto al suo Paese costa quasi 8 mila euro, e a pagare sono i cittadini udinesi”. E certi temi poi, in casa democratica, meno si affrontano e meglio è per tutti. Questioni di marketing.
A farci caso, le motivazioni di chi è contro il cimitero islamico non sono poi così diverse da coloro che lo difendono. Sia in campo leghista che in quello della sinistra che ha organizzato alcuni iniziative a sostegno del cimitero, si parla di “integrazione” e di “apertura nei confronti delle altra culture”, si accusano gli avversari di “razzismo” e di “approfittare di un luttuoso evento come la morte di una bambina per farsi propaganda politica”. Perlomeno questo è quanto si sostiene davanti ai taccuini dei giornalisti. Chi sono i veri razzisti, allora? Per schiarirci le idee, basta fare un giro nei vari blog della Lega o nelle pagine dei social network. Ne trovate a bizzeffe. Basta battere nel motore di ricerca “cimitero islamico Udine”. Riportiamo per una questione di spazio e di stomaco, solo le prime due condivisioni trovate in testa alla pagina Facebook dedicata al tema del cimitero friulano. FS: ”Stanno entrando con un’arroganza assurda... hanno iniziato col crocefisso e tra poco dovremmo seppellire i nostri morti in giardino perché non ci sarà più posto per noi... ma loro l'idea di un inceneritore non va, eh...? tipo biomassa...?” GB: “Per impedire ciò basta che qualcuno porti un maiale su quel pezzo di terra e per loro diverrà impuro e di inadatto a qualsiasi rito religioso. Combattete i musulmani a colpi di maiale!” Son frasi riportate col copia e incolla. Mi sono solo permesso di sistemare la grammatica perché “qualch'uno” degli scriventi non è stato troppo attento ai tempi della scuola. E ci domandiamo ancora chi sono i razzisti? Eppure i leghisti sostengono di non esserlo. E lo dimostrerebbe il forte consenso elettorale ottenuto anche nelle ultime elezioni. Bastasse questo…
Padova, asili vietati ai figli degli irregolari
27/04/2010TerraAsili vietati ai figli degli irregolari. Il che significa che i bambini di Padova non hanno tutti gli stessi diritti. Chi ha il papà con le carte bollate in regola può frequentare l’asilo comunale. Chi ha il papà povero, migrante, senza lavoro o magari sfruttato in nero dal papà di quell’altro bambino (quello che può andare in asilo) se ne deve rimanere a casa. Questo accade in una città padana amministrata da un centro sinistra convinto che per vincere bisogna seguire la stessa politica della Lega. Padova, la città del Santo e dello “sceriffo rosso” Flavio Zanonato.
Uno che si è fatto tutta la scuola politica del partito comunista: da segretario della Fgci, l’allora federazione giovanile comunisti italiani, a leader regionale del partito democratico. Zanonato che si è già distinto in soluzioni “di forza” su questioni come la prostituzione e la tossicodipendenza, ha cercato di dare un giro di vite anche negli asili. “Il Comune verificherà la presenza e la validità dei documenti di soggiorno degli stranieri non comunitari (art. 6 comma 2 del D.Lgs. 286/98, modificato dalla legge 94 del 15 luglio 2009)” si legge, e in carattere neretto, nella pagina web del Comune patavino dedicata alle iscrizioni agli asili nido comunali per il 2010. Non volontà di escludere qualcuno, ha precisato l’amministrazione della città patavina, ma per una mera disposizione di legge varata col cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Una giustificazione bocciata da Nicola Grigion, responsabile del progetto Melting Pot Europa: “Il regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione sancisce senza ombra di dubbio che l’iscrizione dei minori stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”. La garanzia anche per gli irregolari di iscrivere i propri figli agli asili, spiega Grigion, è inoltre rafforzata da tutte le convenzioni internazionali e da alcune sentenze della Corte Costituzionale. Proprio in forza di queste sentenze, altre amministrazioni comunali, come quella di Torino, hanno ribadito che i loro asili sono aperti a tutti i bambini, permesso di soggiorno o no, rifiutandosi nei fatti di seguire pedissequamente la linea politica di Bossi e Maroni, volta a penalizzare i settori più disagiati della società. Melting Pot ha quindi chiesto ufficialmente al Comune di non trincerarsi dietro la banale scusa di una “disposizione di legge” ma ad assumere responsabilmente una forte posizione contro qualsiasi discriminazione negli asili. “La risposta di Zanonato è stata per certi versi positiva – conclude Grigion -. Il sindaco ha preso atto delle sentenze in cui si ribadisce che al momento dell’iscrizione dei propri figli all’asilo non deve essere mostrato nessun documento di soggiorno, ma ha voluto precisare che, sino ad oggi, nessun irregolare ha chiesto l’iscrizione dei suoi bambini in un asilo comunale. E comunque per dei ‘motivi tecnici’ che non riusciamo a giustificare, nel sito del Comune continua a comparire in neretto l’obbligo del permesso di soggiorno. Ci viene il sospetto che qualcuno giochi intenzionalmente con la strategia della paura, così com’è già accaduto con gli ospedali dove i medici non hanno mai denunciato nessuno ma i migranti hanno comunque paura ad andarci”.
Uno che si è fatto tutta la scuola politica del partito comunista: da segretario della Fgci, l’allora federazione giovanile comunisti italiani, a leader regionale del partito democratico. Zanonato che si è già distinto in soluzioni “di forza” su questioni come la prostituzione e la tossicodipendenza, ha cercato di dare un giro di vite anche negli asili. “Il Comune verificherà la presenza e la validità dei documenti di soggiorno degli stranieri non comunitari (art. 6 comma 2 del D.Lgs. 286/98, modificato dalla legge 94 del 15 luglio 2009)” si legge, e in carattere neretto, nella pagina web del Comune patavino dedicata alle iscrizioni agli asili nido comunali per il 2010. Non volontà di escludere qualcuno, ha precisato l’amministrazione della città patavina, ma per una mera disposizione di legge varata col cosiddetto “pacchetto sicurezza”. Una giustificazione bocciata da Nicola Grigion, responsabile del progetto Melting Pot Europa: “Il regolamento di attuazione del Testo Unico sull’immigrazione sancisce senza ombra di dubbio che l’iscrizione dei minori stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani”. La garanzia anche per gli irregolari di iscrivere i propri figli agli asili, spiega Grigion, è inoltre rafforzata da tutte le convenzioni internazionali e da alcune sentenze della Corte Costituzionale. Proprio in forza di queste sentenze, altre amministrazioni comunali, come quella di Torino, hanno ribadito che i loro asili sono aperti a tutti i bambini, permesso di soggiorno o no, rifiutandosi nei fatti di seguire pedissequamente la linea politica di Bossi e Maroni, volta a penalizzare i settori più disagiati della società. Melting Pot ha quindi chiesto ufficialmente al Comune di non trincerarsi dietro la banale scusa di una “disposizione di legge” ma ad assumere responsabilmente una forte posizione contro qualsiasi discriminazione negli asili. “La risposta di Zanonato è stata per certi versi positiva – conclude Grigion -. Il sindaco ha preso atto delle sentenze in cui si ribadisce che al momento dell’iscrizione dei propri figli all’asilo non deve essere mostrato nessun documento di soggiorno, ma ha voluto precisare che, sino ad oggi, nessun irregolare ha chiesto l’iscrizione dei suoi bambini in un asilo comunale. E comunque per dei ‘motivi tecnici’ che non riusciamo a giustificare, nel sito del Comune continua a comparire in neretto l’obbligo del permesso di soggiorno. Ci viene il sospetto che qualcuno giochi intenzionalmente con la strategia della paura, così com’è già accaduto con gli ospedali dove i medici non hanno mai denunciato nessuno ma i migranti hanno comunque paura ad andarci”.
Ripartiamo dal Congo
27/04/2010TerraDura la vita per i bambini della “Padania”! Intendiamo quelli poveri: i figli dei migranti, dei senza lavoro “padani” o no, o di chi il lavoro ce l’ha ma solo per portare a casa quattro soldi che andare al sindacato si ottiene solo di restare a casa e finire per perdere pure il permesso di soggiorno. Un tempo si parlava di sfruttamento e si gridava all’ingiustizia sociale. Ma un tempo si diceva anche che i bambini sono tutti uguali, che tutti hanno diritto all’istruzione e alla salute.
E ora eccoci qua, in un nordest dove sindaci eletti da maggioranze bulgare pretendono che non si canti Bella Ciao ma la canzone del Piave per festeggiare il 25 aprile. Eccoci qua a scrivere di bambini che non possono iscriversi all’asilo perché se il padre è clandestino son clandestini pure loro o di cadaveri di neonati che devono essere riesumati perché i oro genitori li hanno seppelliti con la testa rivolta verso la Mecca, offendendo l’anima cattolica di qualcuno. E sono solo alcuni casi. Potremmo anche parlare dei 16 scolari elementari di Verona, la città di Romeo, Giulietta e Tosi, fatti scendere dal bus scolastico da un integerrimo assessore perché i loro genitori non avevano “schei” per pagare gli abbonamenti. Di bimbi rimasti a digiuno in terra padana, nella leghistissima Adro (Brescia), ne abbiamo già parlato nello scorso numero del nostro supplemento Nordest. E neanche quello era un caso isolato: lo stesso è accaduto a Padova dove il Comune – che, per quel che vale, sarebbe anche amministrato da una sorta di centrosinistra - ha rifiutato la proposta di rateizzazione del debito di una mamma e ha chiuso la refezione dell’asilo al figlioletto rispedendolo a casa con un foglietto in mano in cui si chiedeva alla donna di provvedere immediatamente a saldare il dovuto. E gli è andata anche meglio del suo coetaneo di Montecchio messo direttamente a pane e acqua dal sindaco del Carroccio. E potremmo anche raccontare del capogruppo leghista della Lombardia che ha invitato i tifosi a fischiare i venti bambini rom che il presidente dell’Inter Massimo Moratti ha fatto sfilare allo stadio prima della partita come segnale contro la violenza. Ecco. Tutte queste situazioni in terra padana non indignano più. Ma per fortuna non è così in tutto il mondo. Veniamo a leggere che a Bunyatenge, nel Congo, i bambini della scuola locale hanno raccolto 600 euro per aiutare i loro coetanei di Adro rimasti a stomaco vuoto. E allora grazie, bambini di Bunyatenge. Grazie perché ci avete ricordato che c’è ancora gente che certe cose gli fanno schifo.
E ora eccoci qua, in un nordest dove sindaci eletti da maggioranze bulgare pretendono che non si canti Bella Ciao ma la canzone del Piave per festeggiare il 25 aprile. Eccoci qua a scrivere di bambini che non possono iscriversi all’asilo perché se il padre è clandestino son clandestini pure loro o di cadaveri di neonati che devono essere riesumati perché i oro genitori li hanno seppelliti con la testa rivolta verso la Mecca, offendendo l’anima cattolica di qualcuno. E sono solo alcuni casi. Potremmo anche parlare dei 16 scolari elementari di Verona, la città di Romeo, Giulietta e Tosi, fatti scendere dal bus scolastico da un integerrimo assessore perché i loro genitori non avevano “schei” per pagare gli abbonamenti. Di bimbi rimasti a digiuno in terra padana, nella leghistissima Adro (Brescia), ne abbiamo già parlato nello scorso numero del nostro supplemento Nordest. E neanche quello era un caso isolato: lo stesso è accaduto a Padova dove il Comune – che, per quel che vale, sarebbe anche amministrato da una sorta di centrosinistra - ha rifiutato la proposta di rateizzazione del debito di una mamma e ha chiuso la refezione dell’asilo al figlioletto rispedendolo a casa con un foglietto in mano in cui si chiedeva alla donna di provvedere immediatamente a saldare il dovuto. E gli è andata anche meglio del suo coetaneo di Montecchio messo direttamente a pane e acqua dal sindaco del Carroccio. E potremmo anche raccontare del capogruppo leghista della Lombardia che ha invitato i tifosi a fischiare i venti bambini rom che il presidente dell’Inter Massimo Moratti ha fatto sfilare allo stadio prima della partita come segnale contro la violenza. Ecco. Tutte queste situazioni in terra padana non indignano più. Ma per fortuna non è così in tutto il mondo. Veniamo a leggere che a Bunyatenge, nel Congo, i bambini della scuola locale hanno raccolto 600 euro per aiutare i loro coetanei di Adro rimasti a stomaco vuoto. E allora grazie, bambini di Bunyatenge. Grazie perché ci avete ricordato che c’è ancora gente che certe cose gli fanno schifo.
Tre firme per l'acqua
27/04/2010TerraPrivatizzare l’acqua significa mercificare un diritto. Ma i diritti non si mercificano, si tutelano. Perché i diritti non possono essere né venduti né comprati. Questo è quanto ha ribadito il centinaio di persone che giovedì pomeriggio, 22 aprile, si sono dati appuntamento al teatro adiacente la storica chiesa dei Frari di Venezia, per discutere e coordinare la campagna referendaria nella provincia di Venezia.
Tre quesiti per un unico scopo: respingere il tentativo del governo di privatizzare un bene comune come l’acqua e aprire la strada ad una sue gestione più consapevole e partecipata. “Nella sola Venezia – ha spiegato Francesco Penzo, uno dei coordinatori della raccolta firme – contiamo di raccogliere perlomeno 10 mila firme. Già moltissime organizzazioni sociali e sindacali, associazioni ambientaliste e politiche, ci hanno dato ampia disponibilità ad organizzare banchetti e a raccogliere adesioni. Ma la cosa più bella è stata vedere studenti, giovani e anche persone meno giovani che prima di oggi non avevano mai partecipato ad una campagna come attivisti, farsi avanti e chiederci come potevano essere utili”. Grazie alla disponibilità del neo assessore comunale all’ambiente Gianfranco Bettin, che non ha caso ha ottenuto dal sindaco Giorgio Orsoni la delega ai Beni Comuni, il centro pace coordinato da Luigi Barbieri si è messo a disposizione del coordinamento come centro logistico. Un problema, considerato la grande partecipazione all’assemblea preparatoria, è stata la scarsa disponibilità di moduli per la raccolta firme a disposizione. In attesa dei “rinforzi”, sarà indispensabile usufruire al meglio del materiale disponibile riempiendo ogni singola casella di ogni singolo modulo. “Questa battaglia referendaria è una occasione storica per riscoprire e rilanciare uno spazio di iniziative dal basso non soltanto per riportare al centro del dibattito politico la tutela dei beni comuni – ha commentato il verde Beppe Caccia - ma anche per aprire una discussione su come questi beni devono essere gestiti per garantire tanto l’accessibilità da parte di tutti quanto un utilizzo ottimale”. Non dimentichiamo che il Comune di Venezia è stato tra i primi ad introdurre nel suo statuto grazie ad una delibera portata in consiglio da verdi e Rifondazione il 18 gennaio 2010, il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico la cui gestione “è un servizio pubblico di locale privo di rilevanza economica” e pertanto “non soggetto alla disciplina della concorrenza”. “L’acqua – si legge nella premessa alla delibera – è un bene essenziale ed insostituibile per la vita. Pertanto la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell’uomo, un diritto universale, indivisibile che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’articolo 2 della Costituzione”.
Tre quesiti per un unico scopo: respingere il tentativo del governo di privatizzare un bene comune come l’acqua e aprire la strada ad una sue gestione più consapevole e partecipata. “Nella sola Venezia – ha spiegato Francesco Penzo, uno dei coordinatori della raccolta firme – contiamo di raccogliere perlomeno 10 mila firme. Già moltissime organizzazioni sociali e sindacali, associazioni ambientaliste e politiche, ci hanno dato ampia disponibilità ad organizzare banchetti e a raccogliere adesioni. Ma la cosa più bella è stata vedere studenti, giovani e anche persone meno giovani che prima di oggi non avevano mai partecipato ad una campagna come attivisti, farsi avanti e chiederci come potevano essere utili”. Grazie alla disponibilità del neo assessore comunale all’ambiente Gianfranco Bettin, che non ha caso ha ottenuto dal sindaco Giorgio Orsoni la delega ai Beni Comuni, il centro pace coordinato da Luigi Barbieri si è messo a disposizione del coordinamento come centro logistico. Un problema, considerato la grande partecipazione all’assemblea preparatoria, è stata la scarsa disponibilità di moduli per la raccolta firme a disposizione. In attesa dei “rinforzi”, sarà indispensabile usufruire al meglio del materiale disponibile riempiendo ogni singola casella di ogni singolo modulo. “Questa battaglia referendaria è una occasione storica per riscoprire e rilanciare uno spazio di iniziative dal basso non soltanto per riportare al centro del dibattito politico la tutela dei beni comuni – ha commentato il verde Beppe Caccia - ma anche per aprire una discussione su come questi beni devono essere gestiti per garantire tanto l’accessibilità da parte di tutti quanto un utilizzo ottimale”. Non dimentichiamo che il Comune di Venezia è stato tra i primi ad introdurre nel suo statuto grazie ad una delibera portata in consiglio da verdi e Rifondazione il 18 gennaio 2010, il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico la cui gestione “è un servizio pubblico di locale privo di rilevanza economica” e pertanto “non soggetto alla disciplina della concorrenza”. “L’acqua – si legge nella premessa alla delibera – è un bene essenziale ed insostituibile per la vita. Pertanto la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell’uomo, un diritto universale, indivisibile che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’articolo 2 della Costituzione”.
Venezia, giunta e polemiche
20/04/2010TerraC’è da dire che il primo nemico del Pd è sempre il Pd stesso. Se ne deve essere reso conto anche il neo eletto sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che per varare la giunta comunale ha dovuto improvvisare uno slalom da sciatore olimpico tra i tanti, troppi, correntoni democratici, finendo per non accontentarne nessuna ma, in compenso, per scontentare tutta la base che ora chiede le dimissioni in toto della classe dirigente veneziana del partito.
E per fortuna che hanno vinto le elezioni al primo turno! Ma su chi ne abbia il merito, è tutto da discutere. Orsoni può togliersi lo sfizio di sbattere sul tavolo le migliaia di preferenze ottenute in più della somma dei voti delle liste che lo appoggiavano. Voti “suoi” o voti “contro Brunetta” che siano, il neo sindaco è riuscito a farli pesare e ad escludere dalla lista degli assessori, così come aveva promesso in campagna elettorale, tutto quel “cimitero degli elefanti democratici” che era, per lo più, la giunta Cacciari. Fuori pezzi da novanta come, per dirne uno, l’ex vice sindaco Michele Mognato, oppure l’ex presidente provinciale trombato Davide Zoggia . “Non per volontà di escludere – ha spiegato il sindaco – ma per dare un segnale di rinnovamento”. Rinnovamento non gradito né dalle correnti Pd, che da tre giorni si stanno vicendevolmente pesando le deleghe tra i vari assessorati a colpi di manuale Cencelli, né dalla base che parla esplicitamente “dell’evidente incapacità del Pd di rappresentare se stesso … in questo schifo complessivo”. Citiamo una delle tante lettere inviate ai giornali a firma di iscritti. Nel conteggio finale, il Pd si porta comunque a casa 5 assessori tra i quali un vicesindaco sufficientemente imbottito di deleghe, Sandro Simionato, l’unico nome della vecchia guardia giubilato da Orsoni. Le altre novità sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’Udc ritornata a occupare una sedia in giunta con Ugo Bergamo (sempre in sella!) che è riuscito a ritagliarsi un super assessorato che si mangia l’intero pacchetto trasporti, compreso il discutibile progetto della sublagunare. Il secondo punto è l’esclusione tutta politica della federazione della Sinistra. Il solo eletto in consiglio, ex Rifondazione, era anche il solo assessore papabile. Nel caso, avrebbe dovuto lasciare il posto al secondo tra i non eletti, proveniente dalle file del Pdci. Pesati i pro e i contro, il consigliere ha preferito rimanere fuori della Giunta in cambio di una delega forte come quella sul lavoro. La terza novità che completa il cosiddetto Laboratorio Venezia, è la lista In Comune che ottiene la nomina del verde Gianfranco Bettin ad assessore all’Ambiente e alla Città sostenibile. Per l’ambientalista che già aveva rivoluzionato il settore delle politiche sociali, nel suo precedente mandato con la prima giunta Cacciari, si prospetta una nuova sfida su temi vitali come la battaglia contro l’inceneritore di prodotti tossici Sg31 che la Regione intende realizzare a Marghera.
Dall’altra sponda del canal Grande a palazzo Balbi, il varo della giunta regionale si è rivelato molto meno traumatico. Qui c’è poco da dire. I partiti sono solo due. E tra questi, uno è quello comanda. E dentro questo, a dettar legge – da Roma - c’è un unico leader. E’ bastato il “nyet” del senatùr che il governatore Zaia si è immediatamente rimangiato la delega all’Agricoltura che aveva assegnato a Massimo Giorgetti del Pdl, destituito prima ancora di essere nominato. Bisogna capirli. In questi anni di governo padano dell’agricoltura veneta, la Lega si era ritagliata i suoi bei carrozzoni clientelari, vere e proprie macchine da guerra per gestire fondi, posti da dirigente e serbatoi di voti. Galan ministro ci avrebbe messo volentieri le mani sopra, se non altro per pareggiare i conti con i lumbard che lo hanno sfrattato da palazzo Balbi. Ma perché favorirlo con la nomina di un assessore compiacente? Che diamine! Se vogliono le banche, i lumbar, vorranno anche qualcosa da metterci dentro.
E per fortuna che hanno vinto le elezioni al primo turno! Ma su chi ne abbia il merito, è tutto da discutere. Orsoni può togliersi lo sfizio di sbattere sul tavolo le migliaia di preferenze ottenute in più della somma dei voti delle liste che lo appoggiavano. Voti “suoi” o voti “contro Brunetta” che siano, il neo sindaco è riuscito a farli pesare e ad escludere dalla lista degli assessori, così come aveva promesso in campagna elettorale, tutto quel “cimitero degli elefanti democratici” che era, per lo più, la giunta Cacciari. Fuori pezzi da novanta come, per dirne uno, l’ex vice sindaco Michele Mognato, oppure l’ex presidente provinciale trombato Davide Zoggia . “Non per volontà di escludere – ha spiegato il sindaco – ma per dare un segnale di rinnovamento”. Rinnovamento non gradito né dalle correnti Pd, che da tre giorni si stanno vicendevolmente pesando le deleghe tra i vari assessorati a colpi di manuale Cencelli, né dalla base che parla esplicitamente “dell’evidente incapacità del Pd di rappresentare se stesso … in questo schifo complessivo”. Citiamo una delle tante lettere inviate ai giornali a firma di iscritti. Nel conteggio finale, il Pd si porta comunque a casa 5 assessori tra i quali un vicesindaco sufficientemente imbottito di deleghe, Sandro Simionato, l’unico nome della vecchia guardia giubilato da Orsoni. Le altre novità sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’Udc ritornata a occupare una sedia in giunta con Ugo Bergamo (sempre in sella!) che è riuscito a ritagliarsi un super assessorato che si mangia l’intero pacchetto trasporti, compreso il discutibile progetto della sublagunare. Il secondo punto è l’esclusione tutta politica della federazione della Sinistra. Il solo eletto in consiglio, ex Rifondazione, era anche il solo assessore papabile. Nel caso, avrebbe dovuto lasciare il posto al secondo tra i non eletti, proveniente dalle file del Pdci. Pesati i pro e i contro, il consigliere ha preferito rimanere fuori della Giunta in cambio di una delega forte come quella sul lavoro. La terza novità che completa il cosiddetto Laboratorio Venezia, è la lista In Comune che ottiene la nomina del verde Gianfranco Bettin ad assessore all’Ambiente e alla Città sostenibile. Per l’ambientalista che già aveva rivoluzionato il settore delle politiche sociali, nel suo precedente mandato con la prima giunta Cacciari, si prospetta una nuova sfida su temi vitali come la battaglia contro l’inceneritore di prodotti tossici Sg31 che la Regione intende realizzare a Marghera.
Dall’altra sponda del canal Grande a palazzo Balbi, il varo della giunta regionale si è rivelato molto meno traumatico. Qui c’è poco da dire. I partiti sono solo due. E tra questi, uno è quello comanda. E dentro questo, a dettar legge – da Roma - c’è un unico leader. E’ bastato il “nyet” del senatùr che il governatore Zaia si è immediatamente rimangiato la delega all’Agricoltura che aveva assegnato a Massimo Giorgetti del Pdl, destituito prima ancora di essere nominato. Bisogna capirli. In questi anni di governo padano dell’agricoltura veneta, la Lega si era ritagliata i suoi bei carrozzoni clientelari, vere e proprie macchine da guerra per gestire fondi, posti da dirigente e serbatoi di voti. Galan ministro ci avrebbe messo volentieri le mani sopra, se non altro per pareggiare i conti con i lumbard che lo hanno sfrattato da palazzo Balbi. Ma perché favorirlo con la nomina di un assessore compiacente? Che diamine! Se vogliono le banche, i lumbar, vorranno anche qualcosa da metterci dentro.
I profughi truffati di Padova
20/04/2010TerraSono scappati dalla guerra. Hanno affrontato un viaggio durissimo. Hanno sofferto fame, privazioni e umiliazioni. Sono approdati in Italia come un naufrago si aggrappa all’ultima scialuppa. E qui sono stati truffati e derubati di quel poco che ancora possedevano da un furbacchione tutto nostrano.
La storia dei 17 ragazzi somali di Padova è emblematica di come (non) funziona l’accoglienza in questa nostra Italia.
Sono tutti giovani sui vent’anni, a parte due di loro che hanno passato di poco i trenta. Sono fuggiti da un paese in cui la guerra è combattuta da bande armate più che da eserciti regolari. E qui vale solo la pena di ricordare che la politica estera dei cosiddetti paesi “sviluppati” non è affatto innocente per quanto riguarda la situazione in cui versa la Somalia. Sono scappati semplicemente per restare vivi e per far restare vivi i loro famigliari che contano sul denaro inviato dai migranti per tirare a campare. Un viaggio di inferno, lungo circa tre mesi, che ha gli ha prosciugato risorse, salute e dignità: dal Sudan alla Libia, dove si sono fermati per il tempo necessario a guadagnare i circa mille euro che servono per comperare un passaggio dagli scafisti. E poi il viaggio notturno in gommone sino a Lampedusa e una lunga permanenza nel centro assistenza rifugiati dell’isola dove, a differenza di tanti altri profughi come loro ma meno fortunati di loro, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di rifugiati politici previsto dalle normative internazionali e comunitarie. Con un permesso di soggiorno in mano, i giovani somali si sono spinti a nord, sino alla Svezia, in cerca di lavoro ma le autorità locali li hanno rimandati in Italia sostenendo che spetta al Paese che ha concesso l’asilo provvedere ai rifugiati. Un po’ per caso e un po’ per necessità si sono ritrovati a Padova. Era la settimana pasquale e il freddo si faceva ancora sentire. Ma le strutture della Caritas in cui alloggiavano avevano già chiuso i battenti. Come tutti i disperati, si sono rifugiati alla stazione dei treni. E qui li ha avvicinati un distinto signore che ha proposto di affittare loro, per la modica cifra di 100 euro al mese, la grande abitazione nel quartiere Mortise che aveva “appena ereditato dallo zio”. I ragazzi hanno accettato subito, pagando in contanti un mese anticipato, felici di avere perlomeno risolto a costo contenuto, considerato le cifre che gli avevano sparato gli altri proprietari, il problema della casa. Ma era solo la solita truffa alla Totò. Con la sola differenza che mentre Totò vendeva fontane di Trevi ai miliardari americani, i truffatori di oggi vendono posti letto di case non loro a poveri cristi. Il che ci potrebbe indurre a riflettere su come sia cambiato il mondo in questi ultimi cinquant’anni. Ma torniamo alla nostra storia. Immediatamente “sfrattati” dal vero proprietario tornato dalle ferie, i 17 ragazzi somali si sono ritrovati sulla strada. E vai a pescare il tipo che gli ha fregato gli ultimi euro! “Non avevamo cuore di rimanere con le mani in mano e far finta che queste persone non esistano – spiega Bertolino – così li abbiamo ospitati nei locali della nostra sede, al Portello. Certo, non è una sistemazione ideale: lo spazio è poco, non ci sono letti, non c’è cucina. Ma che altro potevamo fare? Lasciarli ancora per la strada?” Razzismo Stop ha organizzato una assemblea pubblica, svoltasi mercoledì 14, gratificata dalla presenza di tanti studenti, cittadini, attivisti di altre associazioni di volontariato. Un gruppo di studenti universitari ha già organizzato un corso di italiano, per aiutare i giovani somali ad esprimersi nella nostra lingua. Altri si sono dati da fare per trovare coperte, brandine e materassi. “E’ chiaro però – spiega Luca Bertolino – che deve essere la pubblica amministrazione a dare una risposta che vada oltre la prima accoglienza perché il diritto di asilo a questi rifugiati sia un atto concreto e non solo formale. Abbiamo preparato un appello al sindaco Flavio Zanonato e chiediamo a tutti, associazioni, partiti, cittadini di firmarlo e di aiutarci a creare una rete di solidarietà attorno a questi ragazzi”.
La storia dei 17 ragazzi somali di Padova è emblematica di come (non) funziona l’accoglienza in questa nostra Italia.
Sono tutti giovani sui vent’anni, a parte due di loro che hanno passato di poco i trenta. Sono fuggiti da un paese in cui la guerra è combattuta da bande armate più che da eserciti regolari. E qui vale solo la pena di ricordare che la politica estera dei cosiddetti paesi “sviluppati” non è affatto innocente per quanto riguarda la situazione in cui versa la Somalia. Sono scappati semplicemente per restare vivi e per far restare vivi i loro famigliari che contano sul denaro inviato dai migranti per tirare a campare. Un viaggio di inferno, lungo circa tre mesi, che ha gli ha prosciugato risorse, salute e dignità: dal Sudan alla Libia, dove si sono fermati per il tempo necessario a guadagnare i circa mille euro che servono per comperare un passaggio dagli scafisti. E poi il viaggio notturno in gommone sino a Lampedusa e una lunga permanenza nel centro assistenza rifugiati dell’isola dove, a differenza di tanti altri profughi come loro ma meno fortunati di loro, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di rifugiati politici previsto dalle normative internazionali e comunitarie. Con un permesso di soggiorno in mano, i giovani somali si sono spinti a nord, sino alla Svezia, in cerca di lavoro ma le autorità locali li hanno rimandati in Italia sostenendo che spetta al Paese che ha concesso l’asilo provvedere ai rifugiati. Un po’ per caso e un po’ per necessità si sono ritrovati a Padova. Era la settimana pasquale e il freddo si faceva ancora sentire. Ma le strutture della Caritas in cui alloggiavano avevano già chiuso i battenti. Come tutti i disperati, si sono rifugiati alla stazione dei treni. E qui li ha avvicinati un distinto signore che ha proposto di affittare loro, per la modica cifra di 100 euro al mese, la grande abitazione nel quartiere Mortise che aveva “appena ereditato dallo zio”. I ragazzi hanno accettato subito, pagando in contanti un mese anticipato, felici di avere perlomeno risolto a costo contenuto, considerato le cifre che gli avevano sparato gli altri proprietari, il problema della casa. Ma era solo la solita truffa alla Totò. Con la sola differenza che mentre Totò vendeva fontane di Trevi ai miliardari americani, i truffatori di oggi vendono posti letto di case non loro a poveri cristi. Il che ci potrebbe indurre a riflettere su come sia cambiato il mondo in questi ultimi cinquant’anni. Ma torniamo alla nostra storia. Immediatamente “sfrattati” dal vero proprietario tornato dalle ferie, i 17 ragazzi somali si sono ritrovati sulla strada. E vai a pescare il tipo che gli ha fregato gli ultimi euro! “Non avevamo cuore di rimanere con le mani in mano e far finta che queste persone non esistano – spiega Bertolino – così li abbiamo ospitati nei locali della nostra sede, al Portello. Certo, non è una sistemazione ideale: lo spazio è poco, non ci sono letti, non c’è cucina. Ma che altro potevamo fare? Lasciarli ancora per la strada?” Razzismo Stop ha organizzato una assemblea pubblica, svoltasi mercoledì 14, gratificata dalla presenza di tanti studenti, cittadini, attivisti di altre associazioni di volontariato. Un gruppo di studenti universitari ha già organizzato un corso di italiano, per aiutare i giovani somali ad esprimersi nella nostra lingua. Altri si sono dati da fare per trovare coperte, brandine e materassi. “E’ chiaro però – spiega Luca Bertolino – che deve essere la pubblica amministrazione a dare una risposta che vada oltre la prima accoglienza perché il diritto di asilo a questi rifugiati sia un atto concreto e non solo formale. Abbiamo preparato un appello al sindaco Flavio Zanonato e chiediamo a tutti, associazioni, partiti, cittadini di firmarlo e di aiutarci a creare una rete di solidarietà attorno a questi ragazzi”.
Il battello dei sogni perduti
20/04/2010Terra
Poi il vecchio vapore era stato pensionato e, dopo qualche vicissitudine, abbandonato a marcire sui fanghi di una barena. Anna e Mike l’hanno trovato così. Ristrutturarlo da cima a fondo sino a farne un’accogliente abitazione con una stanza per i due bambini – Buster e Amedeo - che nel frattempo erano venuti al mondo, dove un tempo c’era la sala motori, è stata una avventura lunga 5 anni. Il vaporetto, con tanto di tendine sui finestrini e vasi di fiori sui bottazzi, è ormeggiato da oltre quindici anni, all’isola della Giudecca, lungo il rio della Palada, circondato dalle barche dei pescatori. La coppia danese, diventata oramai e a pieno titolo veneziana d’adozione, si è integrata perfettamente nella vita dell’isola e la loro casa - battello oggi è una delle mille “curiosità veneziane” che rendono questa nostra città diversa da tutte le altre. Ma il battello è anche, per chi ci vive, una casa come tutte le altre. E così i Kiersgaard hanno chiesto e ottenuto, l’allacciamento alla rete elettrica e ad altri servizi come l’acqua e il gas. Inoltre pagano regolarmente l’affitto dello spazio acqueo al Comune di Venezia come tutte le altre imbarcazioni ormeggiate. Per regolarizzare a tutti gli effetti la loro posizione, la famiglia danese ha chiesto anche un numero civico: 500/A. Un indirizzo che alla Giudecca è diventato proverbiale. Questo è successo circa 15 anni fa. Il resto è cronaca recente. Le case galleggianti sono riconosciute e tutelate da specifiche normative in tutta Europa tranne… l’Italia. Qualche zelante burocrate,un paio di settimane fa, si è accorto che all’anagrafico 500/A non corrispondeva la concessione di nessuna opera edilizia. Fare due più due e tirare le conclusioni, per il nostro tecnico del catasto che di sicuro non ha mai vissuto alla Giudecca, è stato inevitabile: un civico privo di concessione edilizia è per forza di cose un abuso edilizio. Da qui la lettera formale con la richiesta d’immediata “demolizione e ripristino dello stato precedente del luogo”. E vai a spiegare tu che si tratta di un vaporetto! La legge non contempla le case galleggianti e un vuoto legislativo è un vuoto legislativo che la burocrazia aborrisce e inconcepisce come per Aristotele la natura fa col vuoto fisico. Ma a difendere quello che hanno poeticamente chiamato “la casa del battello dei sogni” è scesa in campo l’intera Giudecca. Gli amici del vaporetto di rio della Palada hanno fatto girare per la rete un toccate appello cui ha significativamente aderito anche il neo sindaco Giorgio Orsoni in cui si invitano il sindaco – per l’appunto – i tecnici del comune e gli avvocati civici, “a sedersi in una di queste giornate primaverili alle sei di sera lungo la fondamenta della Palada, e ad osservare il reale rapporto di quest'opera d'arte viva e vissuta con l'ambiente che la circonda e si completa con la sua presenza. E convincersi che ogni soluzione che preveda la rimozione del battello è avvilente”. Perché “il battello di Anna, Mike, Buster e Amedeo è ormai parte imprescindibile del paesaggio della Giudecca e come tale va tutelato. Un richiamo vivente al reale rapporto della città con le sue acque, lontano anni luce dalle finzioni plastiche che addormentano il nostro immaginario”.
Cytotec, per disperazione
13/04/2010TerraSi chiama Cytotec. E se il nome vi suona nuovo significa che nella vita siete state fortunate. Le enciclopedie mediche spiegano che è un farmaco usato per curare gastriti e prevenire ulcere gastriche. Ma di notte, in quella specie di mercato nero in cui si trasformano le nostre stazioni ferroviarie, lo potete acquistare senza ricetta medica a circa il doppio del prezzo stampato sulla scatola. Perché? Perché l’assunzione in forti dosi di questo medicinale provoca forti contrazioni dell’utero e conseguentemente pericolose e violente emorragie sino all’espulsione del feto. Il Cytotec è l’aborto delle disgraziate.
E’ la soluzione chimica – rischiosa ma comunque una soluzione – che permette l’interruzione della gravidanza ad una donna che non può rivolgersi ai consultori. Non può perché i medici dell’Usl sono tutti obiettori e la lista d’attesa infinita. Non può perché è clandestina e ha paura. Oppure non è clandestina ma ha comunque paura di perdere il lavoro. “Volete un esempio? Prendiamo una delle tanti badanti che lavorano in Italia. Se resta incinta è matematico che perde il lavoro. Se perde il lavoro, perde il permesso di soggiorno. E se perde il permesso di soggiorno sarà costretta a rientrare in patria, povera come era partita e con un figlio in più da provvedere. In un altro paese europeo, questa donna potrebbe essere aiutata con la Ru486. In Italia è costretta a ricorrere al Cytotec”, ci spiega Jeny Villa. Jeny è colombiana di origine e lavora come mediatrice culturale per l’associazione Migramentes convenzionata col Comune di Venezia. “Quando sento le dichiarazioni di Zaia sulla Ru486 mi vengono i brividi. Mi chiedo se sappia di cosa sta parlando. E mi chiedo anche come facciamo le donne italiane ad accettare che un uomo parli di cose che solo una donna può capire. Ma non si rende conto che se una donna arriva al punto di voler abortire il problema della legalità non la sfiora nemmeno? Se una donna decide di interrompere una gravidanza, il suo problema è soltanto sui metodi. Che la cosa sia legale o meno, non ha nessuna importanza per lei. Quello che lo Stato può fare è solo decidere se starle vicino e aiutarla o complicarle ulteriormente la vita. Tutto qua. Il resto sono solo discorsi di uomini che non vogliono neppure provare a considerare il problema da un punto di vista femminile”. L’uso improprio del Cytotec è oramai ampiamente dimostrato dall’aumento esponenziale di casi di “aborto spontaneo” dovuto ad emorragie che si registrano nei ricoveri d’urgenza al pronto soccorso. Il farmaco è praticamente libero: oltre che nelle stazioni, può essere acquistato per internet, fatto arrivare dall’estero o direttamente prescritto da un medico di casa compiacente. Per tacita ipocrisia, il Cytotec non attira tutti gli strali e gli anatemi con i quali cercano di colpire la Ru486, anche se dubitiamo che qualcuno in Italia lo abbia mai utilizzato per curarsi la gastrite. E’ un farmaco che provoca forti dolori, richiede l’ospedalizzazione – pure se spesso si fa “tutto in casa”, specie se la paziente è irregolare - e mette a rischio la vita stessa della donna. Si chiede Jeny: “Non basterebbe guardare questa realtà per mettere subito in circolazione la Ru486?”
E’ la soluzione chimica – rischiosa ma comunque una soluzione – che permette l’interruzione della gravidanza ad una donna che non può rivolgersi ai consultori. Non può perché i medici dell’Usl sono tutti obiettori e la lista d’attesa infinita. Non può perché è clandestina e ha paura. Oppure non è clandestina ma ha comunque paura di perdere il lavoro. “Volete un esempio? Prendiamo una delle tanti badanti che lavorano in Italia. Se resta incinta è matematico che perde il lavoro. Se perde il lavoro, perde il permesso di soggiorno. E se perde il permesso di soggiorno sarà costretta a rientrare in patria, povera come era partita e con un figlio in più da provvedere. In un altro paese europeo, questa donna potrebbe essere aiutata con la Ru486. In Italia è costretta a ricorrere al Cytotec”, ci spiega Jeny Villa. Jeny è colombiana di origine e lavora come mediatrice culturale per l’associazione Migramentes convenzionata col Comune di Venezia. “Quando sento le dichiarazioni di Zaia sulla Ru486 mi vengono i brividi. Mi chiedo se sappia di cosa sta parlando. E mi chiedo anche come facciamo le donne italiane ad accettare che un uomo parli di cose che solo una donna può capire. Ma non si rende conto che se una donna arriva al punto di voler abortire il problema della legalità non la sfiora nemmeno? Se una donna decide di interrompere una gravidanza, il suo problema è soltanto sui metodi. Che la cosa sia legale o meno, non ha nessuna importanza per lei. Quello che lo Stato può fare è solo decidere se starle vicino e aiutarla o complicarle ulteriormente la vita. Tutto qua. Il resto sono solo discorsi di uomini che non vogliono neppure provare a considerare il problema da un punto di vista femminile”. L’uso improprio del Cytotec è oramai ampiamente dimostrato dall’aumento esponenziale di casi di “aborto spontaneo” dovuto ad emorragie che si registrano nei ricoveri d’urgenza al pronto soccorso. Il farmaco è praticamente libero: oltre che nelle stazioni, può essere acquistato per internet, fatto arrivare dall’estero o direttamente prescritto da un medico di casa compiacente. Per tacita ipocrisia, il Cytotec non attira tutti gli strali e gli anatemi con i quali cercano di colpire la Ru486, anche se dubitiamo che qualcuno in Italia lo abbia mai utilizzato per curarsi la gastrite. E’ un farmaco che provoca forti dolori, richiede l’ospedalizzazione – pure se spesso si fa “tutto in casa”, specie se la paziente è irregolare - e mette a rischio la vita stessa della donna. Si chiede Jeny: “Non basterebbe guardare questa realtà per mettere subito in circolazione la Ru486?”